La domanda è ormai d’obbligo: ma il chiavalier Berlusconi è un uomo di Stato o un cialtrone? La risposta l’ha data lui stesso: con la figura di merda del sussurrare all’orecchio dell'”abbronzato” la clamorosa balla e calunnia dell’Italia soggetta alla “dittatura dei giudici di sinistra”

La figura di merda, e da omuncolo, fatta da Berlusconi sussurrando a Obama l’incredibile fregnaccia, e calunnia, che in Italia c’è, più o meno, la “dittatura dei giudici di sinistra”, è incredibile, ma è il logico sviluppo del modo di fare del Chiavaliere. Partiamo da una domanda. Un capo di governo che in campagna elettorale si precipita a far visita molto strombazzata a una donna che s’è fatta ricoverare in ospedale per un paio di lividi, accampando una aggressione per mano degli “avversari politici” peraltro inesistente , ma non è MAI andato a far visita ai feriti e mutilati sul lavoro, non è MAI andato a un funerale di un morto sul lavoro – cioè di una vittima delle cosiddette “morti bianche”, in realtà nere anch’esse per il lutto e il dolore – e non è MAI andato a rendere omaggio ai familiari della vittima, un tale capo di governo somiglia di più a un uomo di Stato o a un cialtrone? Deve vergognarsi o essere fiero del suo comportamento? Per saperlo, avevo in mente di telefonare direttamente a Silvio Berlusconi per porgli le domande, ma dopo la “spiata” all’orecchio di Obama, telefonargli è superfluo. Non ce n’è più bisogno, le risposte sono chiare, chiarisime, e coram populo. Ma le domande gliele avrei fatte anche in considerazione del fatto che in tema di “morti bianche” l’Italia ha il triste primato europeo, si viaggia al ritmo dalle 3 alle 4 morti al giorno. Per non parlare delle migliaia di feriti, spesso mutilati, dovuti agli oltre 700 mila infortuni l’anno, feriti e mutilati che non hanno certo solo un paio di lividini come la signora visitata a Milano con non disinteressato clamore dal cavalier Chiavaliere. Continua a leggere

Intervista a Marco Mancassola, in attesa di un’immensa immensità

E’ di Carla Bruni, Janis Joplin, Nirvana la colonna sonora dell’ultimo libro di Marco Mancassola, “Non saremo confusi per sempre”, edito da Einaudi per i suoi Coralli. La musica nei romanzi di Marco non manca mai, diventa persino uno dei protagonisti in “Last love parade – storia della cultura dance, della musica elettronica e dei miei anni”, e nei tour di presentazione dei suoi lavori nelle librerie ama accostare il reading ai dj-set o al live. Per questa raccolta di racconti si fa accompagnare da Cristian e Patrick Altieri o da Sergio Bertin. In “Non saremo confusi per sempre”  racconta, a modo suo ma fedele alla cronaca, cinque storie di morte: quella di Dirk ucciso dal fucile di Vittorio Emanuele di Savoia, di Alfredino inghiottito da un pozzo, di Eluana strappata alla non-vita da un padre amorevole, di Federico pestato dalla polizia e di Giuseppe sciolto nell’acido per vendetta. Ogni storia di sangue e morte si intreccia nel libro con una storia di vita, popolata da personaggi di fantasia: una troupe teatrale, una sedicenne incinta, una compagna di scuola innamorata, un gruppo di fantasmi o i protagonisti inventati da Verne per il suo “Viaggio al centro della terra”. E’ nato così un libro struggente, crudo e delicato, com’è nel suo stile, pur andando dritto al centro delle cose,  non brutalmente ma con pietas.
Sul perché hai scelto queste cinque storie vere lo dici nel libro- “a lungo mi hanno suggestionato” – pur essendo molto diverse tra loro. C’è un qualcosa di particolare che le accomuna?

Tutte hanno una vittima giovane, una sorta quasi di vittima sacrificale. Ma nel libro provo anche a dare a questa storie un’altra versione. A incrociarle con vicende di segno diverso.

Sono storie che tutti conosciamo, eppure nel riscriverle tu le rianimi, le rendi avvincenti, e commoventi, incredibili, come se fosse la prima volta che ne sentiamo parlare….le hai rivissute anche tu mentre ce le raccontavi?

Un paio, ad esempio la vicenda dell’Isola di Cavallo, inizialmente le conoscevo solo in modo vago, nei loro contorni. Le altre le conoscevo benissimo, certo, come le conosceranno anche i lettori. Eppure a ripercorrerle erano sconvolgenti, nuove. Strano incantesimo eterno del raccontare storie. Sappiamo tutti come finirà, eppure la storia non smette di vibrare.

Non hai mai temuto di ferire, ovviamente senza volerlo, le persone più vicine alle vittime, che forse speravano di non avere più l’attenzione dei mass media puntata addosso?

Ho avuto questo timore. È ovvio che questo libro nasce da un grande atto di presunzione, la presunzione che, mentre la cronaca urlata dai telegiornali finisce puntualmente per avvelenare, la letteratura possa essere invece, ancora, un balsamo benigno. La presunzione insomma che la letteratura sia qualcosa che faccia bene: una dimensione di amore per i personaggi di cui tratta. Grande presunzione, lo so. Ma è quella che mi fa scrivere.

Le tue storie/movimenti cercano di dare un senso a morti così insensate?

Cercano di offrire un piccola apertura, una possibilità in più a quelle vicende che sembrano chiuse per sempre, invece, nel recinto stretto della cronaca. La cronaca è claustrofobia, la letteratura è apertura. Ad esempio, accanto alla nota vicenda di una donna in coma che aspetta di potersene andare ho raccontato la storia, intrecciata, di una ragazzina memorabile, una giovanissima cantante folk, vitale, ironica, che è incinta e aspetta di partorire. Si è trattato di immaginare, insomma, che la storia di cronaca tristemente famosa non sia qualcosa di cristallizzato, di finito, ma piuttosto qualcosa di infinito, di fluido, che si lega ad altre storie, anche storie di vita, di nascita, di stagioni che continuano.

Nonostante temi così impegnativi, il libro mantiene una sua leggerezza.

Volevo mantenere qualche tocco di humour, e una luminosità che fosse in grado di riverberare in ogni pagina. Non mi interessa più fare libri cupi. Ne ho scritti un paio in passato, abbastanza.

E’ casuale che tu abbia voluto raccontare due storie di brutale violenza per mano di chi sta dalla parte del bene (polizia) e del male (mafia?)

Non intendevo creare questa corrispondenza: mafiosi assassini, poliziotti assassini. I mafiosi assassini sono la norma, i poliziotti assassini sono eccezioni. Anche se è evidente che in Italia c’è un problema di cultura dei diritti umani tra le forze dell’ordine: chi ha tenuto gli occhi aperti sulla cronaca conosce il numero di pestaggi, morti sospette in carcere, abusi di potere degli ultimi anni. Gli abusi delle forze dell’ordine sono diventati ormai un genere di cronaca a sé, sempre più presente nelle rassegne stampa. E d’altro canto, in un paese dove l’emergenza democratica è a tutti i livelli, sarebbe ingenuo aspettarsi che le forze dell’ordine facciano eccezione.

Credi nell’ineluttabilità del destino? Che ognuno di noi abbia già scritta la data della sua morte?

No, credo che il destino sia qualcosa di più complesso e al tempo stesso più semplice. Ma non saprei come spiegarlo.

In due storie le vittime continuano a rimanere tra i vivi: fino a quando trovano “pace”? Mi viene in mente il ,film “Amabili resti”..

“Amabili resti” è stato uno dei riferimenti a cui pensavo scrivendo questo libro. La ricerca di “pace” accomuna i vivi e i non più vivi e significa sostanzialmente trovare un nuovo passaggio, una nuova porta, un varco, un modo per andare avanti, altrove, in una realtà sempre più stretta e ossessiva.

I morti non sono tali finché restano nei ricordi dei vivi?

I morti non sono tali, nel senso che non riescono ad andarsene altrove, qualunque sia il loro altrove, perché ormai l’incertezza di tutto e di tutti è un dato così pervasivo, così strutturale intorno a noi, da estendersi persino al piano metafisico. Ecco l’umanità precaria e disorientata del ventunesimo secolo: è come se qualcuno ci avesse bendati e fatti girare su noi stessi così tante, così tante, così tante volte che non abbiamo più idea della direzione, del sopra e del sotto e del prima e del dopo. Dove andiamo adesso? E perché illuderci che, anche dopo morti, sapremmo dove andare? Ma poi, ogni tanto, all’improvviso, come un lampo nel buio, qualcuno ancora ci sorride e ci promette che non saremo confusi per sempre. Prima o dopo capiremo dove andare. Succede nel mio libro, succede nella vita.

Un caso come quello di Eluana ha riacceso il dibattito sul testamento biologico: tu che ne pensi?

Penso che vorrei fare il mio testamento biologico e che sia rispettato. Ma più ancora penso che, nel momento in cui non fossi in grado di decidere o di manifestare la mia decisione, vorrei che chi mi ama abbastanza da prendere decisioni sulla mia vita abbia il diritto di farlo. Comprese le decisioni più estreme. Un diritto terribile ma pur sempre d’amore.

Quand’eri ragazzo è morta una persona a te molto cara: quanto ti ha segnato, nella vita e nella scrittura?
Mi ha costretto a sentirmi più nudo davanti alla vita, un po’ in anticipo rispetto alla media delle persone.

La cronaca ci regala sempre nuovi morti di cui (s)parlare, vedi Sarah o Yara: credi che ci sia una soglia di pudore, di rispetto oltre il quale giornali e tivù non devono andare?

I media trasformano le vittime in icone pop. Nuovi capitoli nell’inesausta economia dello spettacolo. L’informazione è un bene comune, si preoccupa di condividere i fatti, lo spettacolo segue logiche più oblique, più perverse, più private: serve a fare audience, che non significa condividere i fatti ma creare intorno a essi il valore aggiunto più facile e immediato possibile. Voglio dire che in un’epoca in cui tutto diventa privato, al servizio di qualcuno o di qualcosa, è inevitabile che l’informazione diventi spettacolo. Il pudore è la prima vittima di questo processo.

La morte fa parte della vita? perchè invece oggi è un tabù che terrorizza? gli stessi cattolici, che credono sia solo un passaggio verso miglior vita, non riescono ad affrontarla (vedi Eluana)… eppure tu sai trasformarla persino in una dolcissima fiaba (laica)

Una fiaba dolcissima, sì, credo sia quello che ho cercato di fare. Crudele e dolcissima. La morte è una sfida che richiede maturità all’individuo adulto e maturità alla comunità che si trova a rielaborare la morte di un individuo giovane… Peccato che oggi non sappiamo più bene cos’è un adulto e nemmeno cos’è una comunità. La morte non si può esorcizzare da soli. Forse per questo ha ancora senso che la letteratura se ne occupi.

Per te, dopo la morte c’è un’immensità che non conosciamo o il nulla?

Non ho dubbi, un’immensa immensità! Anche se quella frase, “davanti a me un’immensità che ancora non conoscevo”, nel libro è pronunciata da un personaggio vivo e vegeto, un’altra ragazza, che a causa del terrificante caso mafioso  che coinvolge un suo compagno di classe, vive un’adolescenza a sua volta durissima. Ma poi in un certo modo rinasce. Nel suo caso, l’immensità è quella di una vita ancora tutta da sperimentare, tutta sconosciuta.

A Milano ormai siamo al “dalli all’untore!”. L’indecenza e la disonestà dei berluscones è lampante: colpevolisti a razzo quando si tratta degli “altri” e servi innocentisti quando si tratta del Chiavaliere

Vabbé che siamo nella manzoniana città di Milano, ma questa gara al “dalli all’untore!” scatenata dal trio Bossi/Moratti/Berlusconi più che promessi sposi sa di pagliacci. Ma andiamo per ordine. So bene che ci sono altri argomenti importanti, da Netanyahu che cerca di far sfrattare Obama dalla Casa Bianca alla allucinante vicenda di Strauss Kahn, ma visto che a Milano forse riusciamo da dare un calcio nel “culo flaccido” di Berlusconi parliamo ancora un po’ delle elezioni meneghine.

Ah, il maledetto vizio dell’ipocrisia basata sui due pesi e due misure! Un vizio che dimostra in modo lampante la disonestà di chi ne è afflitto. E infatti: il lato comico, o se si preferisce tragico, delle accuse di violenza lanciate dai vari Berlusconi, Moratti e compagnia cantante contro Pisapia per le asserite “aggressioni” a due o tre sciùre meneghine da parte dei “brigatisti pisapiani” è che a trasformare immediatamente in certezze, equivalenti a sentenze definitive, quelli che tuttalpiù sono indizi è la stessa bella gente che si copre gli occhi di fronte alle testimonianze e alle prove che inchiodano Berlusconi su una serie di reati sfociati in tre processi. In italiano questo modo di fare, il trasformare degli indizi in prove certe pur di metterla a quel posto agli avversari, si chiama anche  barare. Ma non è questo il grave. Il grave è il disonestissimo e lampante doppiopesismo: qualunque prova e accusa contro Berlusconi viene ridicolizzata, diventa occasione per sfoggiare il negazionismo, il riduzionismo e il relativismo, mentre qualunque blablablà utile alla bisogna viene spacciato ipso facto per verità assodata per poterla impugnare a mo’ di manico di coltello per colpire alle spalle gli avversari politici da parte di chi, ignorando l’italiano e non temendo il ridicolo, si dice Partito dell’Amore. Continua a leggere

Armi e Mercato. Uscire dal globalismo

Le armi che abbiamo creato sfuggono al nostro controllo nella stessa misura in cui ci sfugge il controllo del mercato. Abbiamo creato un sistema totalmente in mano ai poteri forti, autoritari, che non solo non sono controllati da nessuno, ma non sono neppure in grado di controllare se stessi.
Chiunque presume di non dover essere controllato, è potenzialmente un nemico pericoloso per la società, anzi, considerando l’attuale consistenza del globalismo economico e militare, per l’intera umanità.
La stessa tipologia di armi di cui questi potentati sono in grado di disporre si presta all’impossibilità di un controllo effettivo del loro impiego, come già dimostrato sin dalla prima guerra mondiale con l’uso dei gas, benché si parli oggi di “obiettivi chirurgici”. Il valore personale dei militari è diventato inversamente proporzionale alla potenza delle loro armi.
La reazione che questi poteri possono avere a quel che ritengono una minaccia per la loro sicurezza o per la loro autorità, reale o presunta che la minaccia sia, può anche esprimersi secondo criteri estranei a qualunque ragionevolezza umana. Infatti l’abitudine reiterata a gestire un potere assoluto, può indurre a compiere azioni il cui effetto può diventare inconsulto, imprevedibile, del tutto sproporzionato rispetto al rischio effettivo che si crede di subire o a qualunque intenzione o volontà di difesa si voglia manifestare. Tant’è che lo scoppio delle due ultime guerre mondiali è avvenuto cogliendo di sorpresa il mondo intero.
L’esercizio del potere assoluto deforma la percezione della realtà, esaspera i problemi, ingigantisce i pericoli, sottovaluta le conseguenze delle proprie azioni, rende incapaci di mediazioni. La tragedia del mondo contemporaneo è che la mancanza di esercizio della vera democrazia si verifica proprio nel momento in cui si crede di usarla (come quando p.es. si va a votare). L’occidente considera addirittura la propria esperienza di democrazia un prodotto di esportazione, da far valere anche con l’uso delle armi, legittimato da risoluzioni di organismi internazionali, in cui solo le cinque nazioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu dispongono di effettivi poteri.
Oggi la dittatura più pericolosa non è quella del terrorismo internazionale, ma quella che porta a compiere dei crimini contro l’umanità proprio in nome di un’idea distorta di democrazia: un’idea che l’economia borghese divulga attraverso la democrazia delegata e questa la trasmette alla società attraverso il monopolio dell’informazione.
L’economia di mercato ha fatto perdere il controllo sulla produzione, la quale produzione implica anche quella delle armi di distruzione di massa, che, nonostante la fine della guerra fredda, non sono state smantellate, ma, anzi, tendono sempre più a diffondersi. E tutto ciò è avvenuto proprio in nome della formale democrazia borghese, che non è sociale ma semplicemente parlamentare, e si vanta di rappresentare la volontà popolare anche quando i governi in carica sono votati da una minoranza, rispetto a tutti gli elettori aventi diritto di voto (come succede p.es. negli Usa, definiti la più grande democrazia del mondo, dove solo la metà dell’elettorato si reca alle urne).
Se non recuperiamo il concetto di autoproduzione, se non ci liberiamo dal dominio del mercato, dagli indici quantitativi del prodotto interno lordo, da uno sviluppo meramente economico e non sociale, se la democrazia non smette d’essere delegata e non diventa diretta, non solo non saremo mai in grado di controllare le azioni dei poteri forti, economici e militari, ma rischieremo anche di dover ripetere i meccanismi della stessa formale democrazia borghese persino dopo aver subito catastrofi mondiali, belliche o ambientali che siano.
Se non comprendiamo la necessità vitale dell’autogestione delle risorse produttive, rischiamo soltanto di perfezionare gli strumenti e gli inganni per una successiva catastrofe mondiale. Dobbiamo uscire da questo tragico destino e perverso circolo vizioso, riducendo al minimo la forza del mercato, puntando decisamente sulla decrescita e tornando progressivamente all’autoconsumo.
E in questo ritorno dovremmo paradossalmente difenderci con le armi da chi vorrà impedircelo: armi proporzionate a un uso meramente difensivo. Nell’ambito del mercato non c’è alcuna possibilità di sopravvivenza per chi non dispone di potere d’acquisto, meno che mai in maniera dignitosa, proprio perché chi è abituato al potere assoluto, non vuole perderlo, non vuole vederlo diminuire, anzi, lavora ogni giorno per aumentarlo, costruendo monopoli sempre più vasti e complessi, in grado di dominare la scena internazionale.
L’unico modo per poter controllare la gestione delle armi è quello di usarle per difendere il proprio territorio, in cui i cittadini decidono liberamente di praticare la gestione collettiva dei mezzi produttivi. Non abbiamo bisogno di un mercato mondiale per sentirci parte di uno stesso pianeta. Non ha alcun senso democratico uniformare i consumi per far sentire l’umanità una cosa sola.
Nel capitalismo non c’è alcuna possibilità che la politica controlli l’economia. E là dove si è tentato di farlo, usando gli stessi strumenti che la borghesia, sin dal suo nascere, si è data (lo Stato, la burocrazia, il parlamento, il partito politico ecc.), come nel cosiddetto “socialismo reale”, il fallimento è stato totale. Qualunque idea di socialismo che non preveda l’autoconsumo, è destinata a trasformarsi in una dittatura. Qualunque idea di socialismo che non preveda l’uso della democrazia diretta a livello locale, è destinata a svolgersi in maniera opposta ai propri fini, e quindi a porsi contro gli interessi di esistenza del genere umano.
Le comunità locali potranno sentirsi parte di un unico pianeta soltanto quando non ci sarà nessuno che farà loro perdere l’autonomia.

Le false accuse di Letizia Moratti contro Giuliano Pisapia non sono state una caduta di stile, ma l’espressione dello stile padronale. Poi blaterano di Partito dell’Amore…

Quella di Letizia Moratti contro Giuliano Pisapia NON è stata una caduta di stile. E’ stata una espressione dello stile reale della Moratti, chiacchiere e sorrisi da sciùra meneghina bene a parte. Lo dimostra la volgare e maniacale insistenza di Berlusconi e del suo sodale Umberto Bossi nel lanciare accuse campate per aria contro il concorrente della Moratti sindaco . La mascalzonaggine dell’accusare Pisapia di voler fare di Milano una “zingaropoli musulmana” è duplice, anzi triplice. Intanto non è affatto vero che Pisapia vuole “una moschea in ogni quartiere”, e anche se fosse non si vede dov’è lo scandalo. Pisapia ha solo messo in chiaro che anche i musulmani hanno diritto ad un loro luogo di culto, pagato peraltro di tasca propria. Il che NON significa affatto voler musulmanizzare milano. La volgare e bugiarda accusa del tandem BeBo, Berlusconi Bossi, alias l’accoppiata sessuomane mister Bunga Bunga e il senatùr padano La Lega Ce L’Ha Duro, mostra un robusto razzismo e “dalli all’untore” contro i musulmani. Che spesso sono molto più civili e decenti di Bossi e anche di Berlusconi, per non dire delle accolite che li contornano. Infine il razzismo contro i rom. Poiché i rom hanno subito dai nazisti un Olocausto (termine peraltro fuorviante perché nella bibbia indica un rito di sacrificio a Dio) sul piano numerico meno grave di quello subito dagli ebrei, ma percentualmente più grave, ne consegue una gigantesca dimostrazione di ipocrisia di chi ancora oggi sbraita contro i rom e giustifica sempre Israele in quanto “Stato di tutti gli ebrei del mondo” e in quanto gli ebrei hanno subito il pesante di sterminio per mano nazista. Altro che negazionismo, riduzionismo e relativismo! Ci si riempie la bocca e i giornali quasi ogni giorno di Shoà e Memoria a senso unico, ma nessuno sa che la Shoà dei rom ha un suo nome, anzi due (Samudaripen e Porrajmos). Ah, i guasti della Memoria priva di memoria…. Continua a leggere

Nuovo spaventoso e ingiustificabile massacro di manifestanti palestinesi, con il chiaro intento di far saltare il recente accordo ANP-Hamas. Senza che il nostro presidente della Repubblica abbia sentito l’elementare opportunità, mentre i militari israeliani uccidevano, di almeno rinviare se non rifiutare il premio assegnatogli da Israele

Dunque non sono i lanci dei piccoli e inefficaci razzi Qassam o il terrorismo palestinese le vere cause della violenza militare israeliana contro gli abitanti dei Territori occupati e di Gaza. L’impensabile e ingiustificabile cifra di ben 20 pacifici manifestanti uccisi dall’esercito israeliano al confine con Gaza, con il Libano e la Siria ne sono la scandalosa prova. Il ragionevole sospetto è che in realtà il governo israeliano voglia forzare Hamas a interrompere la tregua che si è impegnata a rispettare con i recenti accordi con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), presieduta da Abu Mazen, firmati di recente in Egitto. Una ripresa del terrorismo da parte di Hamas fornirebbe infatti a Israele un buon alibi per fare pressione sul presidente Usa Obama e avere disco verde per una nuova escalation militare, in modo da far saltare anche il fresco ma non ferreo accordo Hamas-ANP. E’ stata la giornalista israeliana Tania Reinhart a documentare, con il suo libro “Distruggere la Palestina”, che soprattutto il governo di Sharon ha sempre puntato a colpire i palestinesi proprio quando soprattutto Hamas non agiva sul piano terroristico, in modo da costringerla a rispondere e poter così continuare nella spirale della morsa distruttiva degli assi portanti della società palestinese, donde il titolo del libro. Reinhart ha dimostrato come gli “omicidi mirati”, arrivati ormai a quota quasi 300, contro dirigenti e militanti veri o presunti di Hamas e di altri gruppi armati, senza contare i morti civili “collaterali”, siano serviti soprattutto a tener viva l’iniziativa “militare” di Hamas in modo da poter avere gli alibi per continuare a reprimere e poter costruire sempre nuove colonie e il famigerato Muro senza trovare troppe proteste nel mondo occidentale ed europeo in particolare. Non bisogna dimenticare che del resto la stessa Hamas è nata per reazione al massacro nella moschea di Abramo perpetrato dal colono israeliano Baruch Goldstein il 25 febbraio 1993: 29 musulmani uccisi mentre pregavano e nessun colpevole appurato da parte israeliana, che diede la colpa del massacro al solo colono assolvendo la polizia e i militari che lo avevano lasciato entare in moschea armato di mitra. Continua a leggere

Il convoglio di volontari italiani da Gaza per continuare la testimonianza di Vittorio Arrigoni

Ricevo e volentieri pubblico quanto inviatomi da una volontaria che si firma Dani Girlinrome.

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Voci che resistono

13 maggio 2011

Cominciamo a conoscere Gaza. Zona nord-est della città: i racconti dei ragazzi palestinesi ci portano indietro di qualche anno, a quei giorni di dicembre del 2008 quando l’esercito israeliano diede inizio all’operazione piombo fuso. Dinnanzi ai nostri occhi i segni di tutto quello che ha portato: edifici distrutti, case abbattute, i campi dove i contadini coltivavano la terra completamente inariditi e contaminati dalle bombe al fosforo bianco. Il confine con i territori occupati da Israele dista solo qualche km, tra questo e lo spazio abitato c’è la così detta “buffer zone”: pezzi di terra coltivabili a cui però i palestinesi non possono accedere; quando lo fanno rischiano sempre un attacco israeliano che parte puntuale dalle torrette disposte lungo la linea di confine. In alcune di queste torrette spara un cecchino, in altre mitragliatrici automatiche. Spesso durante il periodo dei raccolti i militari israeliani irrompono con i carri armati sparando sui contadini all’interno della “buffer zone” per devastare i campi, così com’è avvenuto stamattina. In alto nel cielo, ci fa notare uno dei ragazzi, si erge un dirigibile: attraverso questo mezzo Israele controlla tutta la città di Gaza, al suo interno è posta una potente telecamera satellitare, una sorta di panopticon ultra moderno. L’unica differenza è che il controllore è sempre ben riconoscibile. Conosciamo anche gli abitanti di questa parte di città, i primi a venirci incontro sono i bambini, sui quali i segni della guerra non hanno intaccato il sorriso. Continua a leggere

Letizia Moratti: signora ma non Signora. Molto prona al Vaticano, al quale ha regalato la nomina degli insegnanti di religione nelle scuole italiane, ignora che il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi. E che “errare è umano, ma insistere è diabolico”. Lei infatti insiste

Che a rinfacciare a Giuliano Pisapia una amnistia per un furto d’auto di 30 anni fa sia una persona che, come Letizia Moratti, è entrata in politica, ha fatto il ministro ed è diventata sindaco di Milano solo ed esclusivamente grazie a un pluri indagato, pluri rinviato a giudizio e pluri miracolato da leggi fatte fare su misura come Silvio Berlusconi, e dove non poco comanda gente condannata per “aiutini” alla mafia come Marcello Dell’Utri, è il colmo. Il colmo dei colmi. Il colmo della miseria. Politica, morale e umana. E’ raggelante che il sindaco di Milano abbia tirato fuori questa storia solo alla fine del dibattito su SkyTv, sapendo bene che le regole dello stesso dibattito avrebbero impedito a Pisapia di replicare per dimostrare che si tratta di un falso. Non solo è raggelante, ma si tratta di una furbata che una persona per bene, e in particolare una signora, dovrebbe guardarsi bene dal compiere. Bene ha fatto perciò Pisapia a non accettare la stretta di mano della Moratti a fine dibattito. Vogliamo credere che la sua antagonista sia stata male informata. Ma se questo la scusa come persona privata, come sindaco di Milano aumenta la sua responsabilità del passo falso: un sindaco ha infatti il dovere di essere e apparire informato in modo pieno ed esatto, anziché sballato o approssimativo. Continua a leggere

I patiti delle esecuzioni capitali. Non sono solo gli Usa a non dimenticare…

Le polemiche sulle foto di Bin Laden morto da mostrare o no stanno assumendo toni surreali. Strano che nessuno ricordi che nel ’79 quando l’allora direttore de L’Europeo Giovanni Valentini pubblicò le foto del cavadere di Aldo Moro sottopposto ad autopsia venne sanzionato dall’Ordine dei giornalisti. Le foto erano state ritenute infatti non solo raccapriccianti, ma anche una profonda mancanza di rispetto, se non vilipendio, sia del morto che della sua famiglia.  L’attuale polemica sulle foto del cadavere di Bin Laden è particolarmente surreale in Italia, Paese nel quale – nonostante le promesse e le minacce di qualche ministro di pubblicarle per far diminuire il nostro record europeo di morti sull’asfalto – il governo le foto dei cadaveri degli incidenti d’auto, specie di quelli con incendio delle vetture, NON le pubblica da nessuna parte, né su giornali né in televisione. L’Italia è anche il Paese nel quale il sindaco di Milano “capitale morale” (?) d’Italia, signora Letizia Moratti, riesce a far sparire i cartelloni pubblicitari con la foto shockante di una ragazza anoressica nuda, foto scattata la Oliviero Toscani per una campagna contro l’anoressia che pure miete vittime. Tant’è che di recente è morta, per anoressia spinta alle estreme conseguenze, proprio la modella di quella foto.
Pubblicare le foto per convincere il pubblico che Osama è davvero morto serve a poco: negli Usa c’è gente convinta che Elvis Presley non sia affatto morto. Gente che non c’è prova provata che la possa convincere. Fiato sprecato. Foto pure. Continua a leggere

Il tempo scaduto dell’occidente

Perché s’imposero le moderne monarchie nazionali sull’impero e sui potentati feudali? Semplicemente perché l’idea di “impero cristiano” era stata profondamente corrotta dalla pretesa teocratica dei pontefici.
In Italia, pur di affermare questa pretesa contro gli imperatori, il papato finì con l’appoggiare le rivendicazioni borghesi dei grandi Comuni settentrionali, nella convinzione che, una volta ridimensionato il potere imperiale (germanico), la chiesa non avrebbe avuto problemi a circoscrivere quello degli stessi Comuni. Cosa che se in Italia riuscì effettivamente a fare, con l’aiuto della Spagna controriformistica, sino al momento dell’unificazione nazionale, non poté però fare nel resto dell’Europa, dove le grandi città avevano creato le monarchie assolutistiche appoggiate dalla borghesia.
In realtà quindi la crisi dell’impero cristiano-feudale d’occidente coinvolse non solo gli imperatori tedeschi ma anche i pontefici: i primi a tutto vantaggio dei grandi feudatari, che disponevano di enormi territori da trasmettere ai propri discendenti (anche se poi questa nobiltà nulla potrà fare contro l’avanzata della borghesia); i secondi a vantaggio delle chiese nazionali, che sempre più legavano i loro interessi a quelli delle monarchie dei loro paesi, fino al punto in cui la fine dell’impero feudale, accelerando il processo di laicizzazione della fede, aprirà le porte al successo della riforma protestante.
Da quando era salito al trono Carlo Magno, le istituzioni ragionavano solo in termini politico-militari, dove gli aspetti etico-religiosi svolgevano un ruolo del tutto subordinato, di mera facciata, funzionale alla conservazione e anzi all’ampliamento di un potere politico ed economico sempre più autoritario, sempre meno legittimato.
Gli ideali venivano usati in maniera strumentale, al fine di ripartire questo potere in mani diverse: p.es. dagli imperatori ai feudatari, dai feudatari alla borghesia. Ovvero gli ideali affermati in sede giuridica, politica, filosofica, etica e religiosa, venivano sistematicamente smentiti da una pratica politica, sociale ed economica tutt’altro che umana e democratica.
Persino quando, col socialismo, si pensò di fare gli interessi del proletariato, emersero delle situazioni non molto diverse da quelle delle peggiori dittature borghesi. Questo perché non si volle ripensare sino in fondo tutta la struttura della società borghese.
Nonostante le immani catastrofi belliche, di cui l’Europa occidentale è stata oggetto e soggetto, coinvolgendo il più delle volte dei territori extraeuropei, dall’inizio del Sacro Romano Impero sino alla seconda guerra mondiale, non si è ancora stati capaci di trovare una coerenza significativa tra ideali teorici e pratica politica ed economica.
Questo potrebbe anche portare a pensare che l’Europa occidentale, come d’altra parte gli Stati Uniti, che dell’Europa moderna sono l’erede più significativo, non hanno più titoli per guidare le sorti dell’umanità o per proporsi come modello da imitare.
Per poter dimostrare la loro coerenza, il tempo che gli europei e gli statunitensi hanno avuto, è finito. E’ giunto il momento di ripensare le relazioni internazionali. E per poterlo fare è necessario riprendere in esame, a titolo esemplificativo, i rapporti tra feudatari locali-regionali e monarchie nazionali.
Dunque per quale motivo in Europa occidentale vinse la borghesia, che appoggiava i re nazionali? Semplicemente perché i feudatari non vollero abolire il servaggio e usavano la religione come strumento di potere. Quando i feudatari si opponevano alla borghesia, non incontravano il favore dei contadini. E questi, a guerra finita, si trovarono a vivere, sotto la monarchia nazionale borghese, una situazione peggiore di quella che avevano vissuto sotto il giogo feudale. Una situazione che invece a molti sembrò migliore solo perché in realtà le contraddizioni insanabili del capitalismo vennero fatte pagare, col colonialismo, ai paesi più deboli sul piano militare (africani, asiatici e sudamericani).
Mezzo millennio fa si lottò per affermare il livello nazionale contro quello locale-regionale. Poi ci fu lo scontro tra le nazioni, durante le ultime due guerre mondiali, da cui emerse lo strapotere degli Usa, che, per dominare, si servono di organismi internazionali (Onu, Fmi, Banca Mondiale, Nato, Wto, Ocse ecc.).
Oggi abbiamo il problema inverso: come uscire da questo mondialismo globalizzato, riaffermando il valore del livello locale-regionale, da gestirsi però non in maniera feudale, ma secondo i principi del socialismo democratico e dell’umanesimo laico.
Dobbiamo spezzare il cerchio dell’incoerenza tra teoria e pratica, riprendendoci i beni che ci permettono di vivere dignitosamente. Dobbiamo eliminare la dipendenza nei confronti di chi decide arbitrariamente i nostri destini.

Il rifugio di Bin Laden segnalato automaticamente da Google Earth? L’incredibile razzismo anche di Obama riguardo “Geronimo”. E che ne pensano Geronimo La Russa e suo padre Ignazio, nostro ministro della Difesa, di una tale vergognosa scelta del nome in codice per Osama?

1) – La realtà a volte supera la fantasia. Se su Google Earth si cerca Abbottabad e se ne ingrandisce l’immagine il puntatore si ferma automaticamente a pochi metri da quello che in un primo momento è stato indicato – per esempio da Dagospia –  come il rifugio di Bin Laden da sei anni. Ciò significa che chiunque in questi anni avesse cercato via Internet di questo paese di 31 mila persone e notevole centro commerciale, dotato di molte cliniche, ospedali, stadi, compreso quello per il cricket, e perfino di una chiesa cristiana, di S. Luca, sarebbe stato trasportato velocissimamente da Google Earth a vedere dall’alto anche la casa del Ricercato Mondiale Numero Uno. Le foto usate da Google sono state scattate dal satellite il 12 maggio 2010, vale a dire quando Bin Laden abitava lì già da cinque anni, perciò è possibile che le auto e le persone visibili nei cortili della palazzina siano del suo entourage e che magari sia stato fotografato anche lui. La palazzina indicata in un primo momento come la tana del padre padrone di Al Qaeda si trova tra Hospital Road e College Road – due vie trafficate perché, come dicono i loro nomi, una porta a un grande ospedale e l’altra a una grande scuola composta da varie palazzine – ed è quasi affacciata sull’arteria del Karakoram Highway che taglia in due il paesone, a pochi metri dalla fermata d’autobus Adda Stop. Sull’altro lato della Haighway c’è il Burn Hall College, vale a dire il complesso militare della scuola dell’esercito pachistano, della quale c’è anche la parte frequentata da donne. Il College ha una sua pagina in Facebook (  http://www.facebook.com/ArmyBurnHall )e in queste ore ospita una serie di commenti su Bin Laden e la sua fine. E’ notevole ciò che vi ha scritto ieri – 3 maggio – il giornalista Hamid Mir che ha intervistato più volte il capo di Al Qaeda scrivendone anche una biografia: http://www.thenews.com.pk/TodaysPrintDetail.aspx?ID=5713&Cat=13&dt=5%2F3%2F2011 Continua a leggere

Il matrimonio “del secolo”, la beatificazione di Wojtyla e l’uccisione di Bin Laden. Tre goal a conferma della supremazia dell’Occidente o della drammaticità dei suoi problemi? Obama non ha dubbi: “La Cina è vicina” non è solo un vecchio film

L’uccisione di Bin Laden è la ciliegina sulla torta dei due eventi che hanno tenuto banco per vari giorni in quasi tutto il mondo, sicuramente in tutto il mondo occidentale: il matrimonio “del secolo” del principe ereditario inglese e la beatificazione di papa Wojtyla. L’accoppiata di questi ultimi due eventi è apparsa – o è stata fatta apparire – come la conferma che l’Occidente e il suo cuore, l’Europa, sono in buona salute, anzi ottima. Quasi tutti gli addetti ai lavori l’hanno magnificata come il fulgore di una nuova alba o di un sole ancora ben alto, smentendo così che il Vecchio Continente sia sul viale del tramonto. E il “botto” dell’uccisione di Bin Laden ha fatto da moltiplicatore a tanto ottimismo, confermando come baricentro del vasto mondo la superpotenza Usa, nume protettore dell’Europa e del mondo civile – il famoso “mondo libero” – in generale.
Tanto entusiasmo forse è fuori luogo. I matrimoni “del secolo” ormai non si contano più, da quelli di Montecarlo a quelli di Londra, Madrid, ecc., e il parlare e straparlare di principesse “del popolo” non ha mai cambiato e non cambia la sostanza dei fatti: il popolo resta al suo posto, anche se una ricca privilegiata priva di titoli nobiliari si trasferisce a corte e forse un giorno diventerà moglie del re. Molti vedono in ciò una cosa meravigliosa, “le favole si avverano” gridava il cartello di una anziana signora davanti all’abbazia di Westminster, ci vedono una democratizzazione delle monarchie quando forse si tratta invece di prolungamenti della  monarchizzazione delle democrazie. Insomma, il bicchiere può essere mezzo pieno o mezzo vuoto. Dipende dai punti di vista. O dal pessimismo e dall’ottimismo, si usa dire. In realtà dipende solo da un’altra cosa, e conviene capirlo: dipende solo da quanto vino c’è ancora, e se c’è, nella botte o nella bottiglia… Continua a leggere