Su sei miliardi di abitanti è forse possibile ipotizzare che circa 200 milioni di abitanti vivano ancora in forme primitive, in forme cioè non solo pre-borghesi e pre-feudali, ma anche pre-schiavistiche. Gli ebrei avrebbero detto di se stessi, nei loro momenti più tragici, ch’era rimasto “l’ultimo resto di Israele”.
Queste popolazioni tribali praticano delle religioni che gli occidentali hanno definito di tipo animistico-totemico, mentre sul piano più propriamente socioeconomico si avvicinano a uno stile di vita che in qualche maniera ricorda quello del cosiddetto “comunismo primordiale”.
Molte tradizioni di queste popolazioni si possono riscontrare anche là dove esse hanno accettato il cristianesimo conosciuto attraverso i colonizzatori europei. Nella sola Africa p.es. esistono almeno seimila chiese che, pur richiamandosi al cristianesimo, si considerano “separatiste”, in quanto contestatrici del cristianesimo ufficiale, sia esso cattolico o protestante. Tra queste chiese le più significative sono quelle raggruppate entro le denominazioni di “messianiche” (Africa centrale e orientale), di “etiopiche” e “sionistiche” (Africa australe) e di “oranti” (Africa occidentale).
Una parte di questi culti africani si ritrova, grazie alla stessa colonizzazione, anche in Sudamerica (p.es. ad Haiti il vudu, o in Brasile il candomblé e l’umbanda, dove il cristianesimo è sopportato soltanto come una facciata priva di vero significato). Ma le forme di contestazione nei confronti della cultura occidentale si ritrovano anche in altre religioni primitive non influenzate dall’africanismo, come p.es. nel peyotismo del Nordamerica, erede della “ghost-dance”, con cui s’invoca il ritorno dei morti per difendere gli ultimi indiani rimasti, oppure nei culti cosiddetti “cargo-cults” dell’Oceania (Nuova Guinea, Polinesia, Malesia).
Molti studiosi han cercato dei punti di contatto con queste popolazioni e con le loro religioni, ma con scarsi risultati scientifici, anche perché le prime teorie etno-antropologiche cominciarono a essere elaborate e sviluppate quando il colonialismo prima e l’imperialismo dopo avevano ridotto ai minimi termini le stesse popolazioni che i ricercatori andavano a studiare.
L’opera che fa da capostipite a queste indagini fu quella di E. B. Tylor, uno dei più importanti antropologi della scuola evoluzionista britannica: Primitive Culture, del 1871. In essa si cercò di applicare una teoria presa dalla psicologia associazionista alle credenze dell’uomo primitivo. La tesi in sostanza era questa: supposto che la natura umana sia uniforme, cioè abbia un meccanismo mentale universale, che prescinda dal tempo e dallo spazio, qual è quella esperienza appartenente a ogni essere umano, che gli offre la percezione di essere diverso da quel che è? Ecco, partendo da questa domanda piuttosto ingenua, la cui ovvia risposta era il sogno, Tylor era convinto di poter dimostrare che i primitivi, credendo nell’esistenza di un “doppio di sé”, cioè in sostanza di un’anima che si stacca dal corpo nel momento del sogno, ma anche in uno svenimento, in un delirio febbrile e persino nella morte, avrebbero in un certo senso creato la religione.
Successivamente questo alter ego con la morte si sarebbe ipostatizzato e, pur restando senza corpo, avrebbe svolto il ruolo di “spirito protettore”. La gerarchizzazione di questi sosia invisibili sarebbe avvenuta quando la comunità decise di sceglierne uno in particolare, considerandolo un dio supremo, superiore a tutti.
Il fatto di aver bisogno di “spiriti protettori” per affrontare le difficoltà della vita, comportò inevitabilmente la fede nell’esistenza di spiriti negativi, avversari. Il fatto invece che nessuno di questi spiriti potesse essere visto coi propri occhi, portò a credere che la loro presenza fosse ovunque e che la natura servisse loro proprio per manifestarsi.
Questa religione fu chiamata “animistica”, proprio perché i primitivi accettavano l’idea che tutto l’universo fosse mosso da una forza vitale, avente un rapporto privilegiato con gli esseri umani.
* * *
Ora qui non si vuole ripercorrere tutta la storia dell’etno-antropologia mostrando in quali modi queste idee vennero confermate o confutate. Ci si vuole piuttosto chiedere se quella parte di umanità che oggi non professa alcuna religione (in quanto si dichiara indifferente o agnostica o atea) possa avere dei punti di contatto con quest’altra parte di umanità, la cui religione (che noi consideriamo “primitiva”) ha il vantaggio di non aver nulla in comune con quelle che si sono imposte nella storia delle civiltà antagonistiche.
Forse il mondo laico, specie quello interessato a sviluppare una società di tipo socialista, potrebbe iniziare a chiedersi se, nel cercare di dare corpo alle proprie istanze emancipative e di liberazione, possa avvalersi dell’insegnamento delle ultime tribù ancestrali, le cui origini e tradizioni si perdono nella notte dei tempi.
Sino alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso queste tribù primordiali venivano etichettate con epiteti denigratori come “senza cultura”, “senza scrittura”, “senza dio”, “senza tecnica”, e quindi pagane, selvagge, primitive, agli inizi dell’evoluzione umana. Poi s’è cercato di rimediare con espressioni più sfumate, tipo “popoli primari”, “popolo tradizionali, “popoli allo stato di natura”. In realtà noi non abbiamo neanche le parole per definire i nostri più antichi antenati, proprio perché da loro ci separa un abisso, un vuoto incolmabile.
L’Africa resta ancora il grande continente di questi popoli ancestrali, soprattutto in quella zona che va dalla fascia subsahariana all’Africa australe, e non a caso è questo il continente che più soffre della logica economicistica del globalismo.
Un altro grande territorio caratterizzato dalla presenza di queste tribù è il Sud del Pacifico, con a capo l’Australia, la Nuova Guinea, le Isole Salomone, la Melanesia e la Polinesia. Poco invece resta tra gli indiani delle praterie d’America, dello Yucatan, del Messico e dei Caraibi. Anche altre tribù del Sud America e dell’India sono state in qualche maniera influenzate dallo stile di vita occidentale e dalle sue religioni.
Che sappiamo di queste popolazioni prive di testi scritti, di archivi, di documenti, su cui noi siamo soliti basarci per fare la “storiografia”? Com’è possibile capire la cultura orale di popoli che usano racconti in veste di favole, proverbi, miti in cui viene detto di credere in un dio, pur senza fare alcuna professione di fede? pur senza neppure interrogarsi sulla sua natura? pur dichiarandosi insofferenti a qualunque colonizzazione di tipo religioso? La maggior parte delle lingue usate dai popoli primitivi non dispone neppure di una parola equivalente a “religione”.
In Africa, se si esclude la civiltà egizia, non s’è mai trovata alcuna forma materiale che rappresenti la divinità; tra queste popolazioni ancestrali non esistono templi o caverne in cui dio possa abitare (la sua dimora è il cielo). Non possono quindi esistere sacerdoti che si rivolgono a lui espressamente: indovini, maghi, sciamani, stregoni… compiono il loro culto agli antenati, agli spiriti buoni o cattivi, ma non all’essere supremo.
Qui non solo non ci sono simboli per esprimere la natura di dio, ma neppure delle preghiere simili al “Padre nostro”, in quanto per loro non ha alcun senso rivolgersi a chi sa già cosa ha bisogno l’uomo per sopravvivere. Frasi come queste: “Se dio c’è, perché permette il male?”, “Se dio non c’è, allora tutto è possibile”, “Occorre vivere come se dio non esistesse”, “Dio è un’ipotesi che non ho considerato”, sono frasi senza alcun senso, esattamente come le prove ontologiche dell’esistenza di dio, sia perché di fronte a qualcosa di assoluto non ci può essere alcun “se dubitativo”, sia perché qualunque forma di male proviene sempre dagli esseri umani, sia perché le cose, per essere accettate, non hanno bisogno di essere spiegate, facendo esse parte di una tradizione infinitamente più grande delle capacità di comprensione di qualunque essere umano.
L’unico vero intermediario tra dio e l’uomo è la natura, che non a caso, per queste popolazioni, è tutta animata, tutta ordinata e regolata nei suoi ritmi e nei suoi cicli. Compito dell’uomo è appunto quello di adeguarvisi liberamente in virtù della propria coscienza, che permette di distinguere il bene dal male.
I miti della creazione, sebbene spesso privi di logica, esprimono la consapevolezza dell’uomo di fronte alla presenza del mistero, lo richiamano al dovere del bene, gli ricordano il giusto posto nell’universo, il significato della sua storia.
In questi miti il creatore non s’impone mai, preferendo lasciare all’uomo la responsabilità del suo agire; anzi, rispetta persino l’avversario (che in molti miti è presente come simbolo dell’origine del male), proprio per insegnare all’uomo che non deve sentirsi padrone della libertà altrui. Il creatore è “padre” anche quando l’uomo viola le norme di comportamento. Propriamente parlando dio non “crea” l’essere umano, ma lo “plasma”, lo “modella” a sua immagine.
L’uomo infatti, nelle concezioni cosmiche di questi popoli, è al centro di un universo la cui materia è energia vitale, che va “umanizzata”. E la caratteristica fondamentale di questa materia è la dualità, cioè tutto nell’universo è preposto a formare una coppia di elementi che si attraggono e si respingono.
La morte della materia non è che la sua trasformazione in altra materia o in altra energia. La stretta continuità tra terra e cielo fa sì che queste popolazioni diano grande importanza al culto degli antenati, che non vanno mai dimenticati. Gli avi hanno assicurato la continuità della stirpe, della tribù, la fedeltà alla tradizione, il rispetto di valori comuni e fondanti per i destini delle comunità.
Ma forse l’aspetto più significativo di queste popolazioni è la capacità di vedere le cose come un unicum inscindibile. Non vedono alcuna differenza tra “sacro” e “profano”, poiché ogni aspetto della vita è “sacro”, tutto è interconnesso, interdipendente, concatenato. L’ordine del mondo non è logico o meccanico, ma olistico, è un’armonia vivente che permette a tutti di trovare il loro giusto posto. Lo squilibrio di una sola parte di questo insieme ha ripercussioni sul tutto.
* * *
Ora si tratta di capire in che maniera il moderno umanesimo laico può convergere con questa concezione della realtà e dell’universo. In altra sede si dovrà esaminare come far convergere le idee del socialismo democratico con la pratica di vita di queste popolazioni studiate dagli etnologi.
La differenza fondamentale che separa l’uomo contemporaneo dall’uomo primitivo è la concezione della natura. L’uomo primitivo si considerava ateo in quanto naturale, oggetto di natura, dipendente dalla natura, e ha cominciato a diventare religioso quando, dopo aver perduto se stesso, ha preso a vedere la natura come qualcosa che avrebbe anche potuto minacciare la sua esistenza, ha cioè attribuito falsamente alla sua dipendenza l’origine dei suoi problemi, dopodiché, personificando questi stessi problemi, ha inventato gli dèi, dando a ognuno di essi i nomi dei suoi problemi e anche le corrispondenti risposte illusorie.
Questa situazione è andata avanti fino a quando non è stata compiuta la rivoluzione tecnico-scientifica, che è potuta avvenire solo dopo che gli uomini hanno cominciato a credere d’essere molto più importanti delle natura, talmente più importanti che, volendo, si poteva anche smettere di credere in dio.
Gli uomini tuttavia, pur cominciando a dominare la natura, si sono accorti che persistevano i loro problemi sociali, sicché nei confronti delle religioni hanno deciso di essere più tolleranti, poiché sapevano che per quanti subiscono il peso delle contraddizioni sociali, la fede in qualche divinità può costituire un certo conforto.
Oggi quindi gli uomini contemporanei si trovano nella seguente condizione: sono atei in quanto dominano la natura, ma, poiché in questo dominio permane la schiavitù sociale, lasciano chiunque libero di credere nella superstizione e nel clericalismo.
Se incontrassero un uomo primitivo che dice di essere credente in quanto dipendente dalla natura, direbbero che è superstizioso. Ma se incontrassero un primitivo che dicesse di essere ateo pur nel riconoscimento di questa dipendenza, cosa direbbero? Durante l’epoca del colonialismo si è sempre data un’unica risposta a tale domanda: gli uomini primitivi senza religione non sono umani. L’ateismo dell’uomo primitivo ha giustificato la sua sottomissione, la sua civilizzazione, la sua cristianizzazione.
Cos’è dunque che impedisce all’uomo contemporaneo d’incontrarsi davvero con l’uomo primitivo? Non è la fede e neppure la sua mancanza. Ciò che li separa in maniera abissale è proprio il rapporto che si ha con la natura, che per l’uomo contemporaneo deve essere di dominio, così come lo sono i suoi rapporti sociali.
E’ nel modo di vivere i rapporti sociali la fonte della loro abissale distanza. Quando gli uomini contemporanei impareranno a superare gli antagonismi sociali, capiranno da soli se, nel loro rapporto con la natura, è necessario essere credenti o è naturale essere atei.