La nascita della scrittura fu un fenomeno così importante che gli storici la fanno coincidere con la nascita delle civiltà, anzi con la storia in quanto tale, poiché là dove non esiste “scrittura” esiste solo “preistoria”.
Quando Marx scrisse, nel Manifesto, che “la storia di ogni società è stata finora la storia di lotte di classe”, .Engels, nell’edizione inglese del 1888 di quella famosissima opera, dovette specificare, in nota, che per “storia” si doveva intendere soltanto quella che ci era stata tramandata da fonti scritte.
Come si può notare fu una svista di non poco conto, anche perché proprio nel periodo in cui venne scritto il Manifesto esistevano ancora nell’America del Nord decine di migliaia di nativi americani la cui civiltà non aveva mai conosciuto né la scrittura né i conflitti di classe. La stessa Africa, prima del colonialismo europeo ed escludendo l’area egizia, era messa nelle stesse condizioni, e così tantissime aree del pianeta, che si trovarono poi sconvolte dai viaggi di conquista delle principali nazioni europee, delle quali la più ridicola, in tal senso, fu la Spagna, che già al tempo di Colombo, pretendeva d’impossessarsi di terre altrui leggendo le motivazioni del proprio atteggiamento in una lingua, la castigliana, che nessun residente era in grado di capire.
Ma qui val la pena rileggere la suddetta nota di Engels, poiché è indicativa del fatto che gli europei erano soliti prendere coscienza delle cose solo quando loro stessi, autonomamente, lo facevano, cioè quando cominciarono a leggere studi specifici sull’argomento, non quando sarebbe bastato guardare oltre i propri confini.
“Nel 1847 la preistoria della società – l’organizzazione sociale esistente prima della storia tramandata per iscritto – era poco meno che sconosciuta. Da allora, Haxthausen scoprì la proprietà comune della terra in Russia, Maurer dimostrò che essa era la base sociale da cui presero avvio tutte le razze teutoniche nella storia, e presto ci si rese conto che le comunità paesane erano, o erano state, dappertutto la forma primitiva della società, dall’India all’Irlanda. L’organizzazione interna di tali società comunistiche primitive venne svelata, nella sua forma tipica, dalla grande scoperta di Morgan della vera natura della gens e della sua relazione con la tribù. Con il dissolvimento di queste comunità primordiali la società iniziò a differenziarsi in classi separate e, successivamente, antagoniste. Ho cercato di ripercorrere questo processo di dissolvimento in L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Stuttgart 1886, seconda edizione.”
Il che, in sostanza, voleva dire che in Europa eravamo così abituati ad accettare i conflitti di classe e la scrittura che neppure riuscivamo ad immaginare un periodo, che poi si rivelerà lunghissimo, in cui le due cose non erano mai esistite.
La scrittura, in realtà, non ha più di seimila anni, esattamente come le civiltà, per cui entrambe rappresentano solo un piccolo anello di quella lunga catena della specie umana. Noi europei, a partire dalla tradizione fenicia, con cui s’inventò l’alfabeto in uso ancora oggi, abbiamo sempre considerato importante la scrittura, poiché con essa, tra le altre cose, si potevano fissare delle regole valide per tutti, ivi inclusi spesso, non sempre, gli stessi uomini di governo. O almeno ci siamo illusi che questo fosse possibile.
In particolare abbiamo saputo apprezzare che un piccolo popolo come quello ebraico si fosse dato delle leggi che, nelle intenzioni del legislatore, dovevano essere uguali per tutti, incluso lui stesso. Cosa che, p.es., non si trova tra i Sumeri (i veri fondatori della scrittura in generale, che coi loro codici – il più famoso dei quali è quello di Hammurabi – facevano chiaramente capire che l’applicazione delle leggi dipendeva da chi le violava e da chi ne subiva le conseguenze), e neppure tra gli Egizi, che consideravano i faraoni ben al di sopra di qualunque legge.
Anche gli antichi Romani avevano elaborato le leggi delle XII Tavole, ma, confrontate con quelle mosaiche, appaiono molto meno democratiche, non foss’altro che per un motivo: si permetteva abbastanza facilmente di schiavizzare un proprio concittadino giudicato insolvente.
In astratto quindi è possibile affermare che il bisogno di darsi delle regole era dettato dall’esigenza d’impedire l’arbitrio da parte di qualcuno: nel senso che la forza o l’astuzia dovevano sottostare alla ragione. Di fatto però le leggi spesso non servivano che a giustificare un abuso già praticato, dandogli una parvenza di legittimazione.
Per millenni le classi oppresse si sono illuse che bastassero delle regole scritte, condivise dai sottoscrittori, per far funzionare democraticamente una società. Mosè fu uno dei primi a rendersi conto che le leggi in sé non servono a nulla se non c’è la volontà politica di farle rispettare. E quando vide il tradimento di Aronne e di una parte del suo popolo, pensò che per applicare le sue leggi non bastava la democrazia tribale, ci voleva anche una volontà autoritaria, che punisse senza pietà i trasgressori. E fu così che sterminò una parte del proprio popolo, servendosi dell’altra metà. Aveva capito che più importante della legge era l’obbligo a farla rispettare.
Con gli ebrei non nasce solo l’ideologia della scrittura, ma anche la cultura giuridica a scopo politico. La legge diventa una sorta di divinità, un totem da adorare e tutta la cultura ruota attorno all’interpretazione che si può dare dei suoi tanti precetti. Ecco perché quello ebraico è stato e ancora oggi è un popolo di intellettuali.
Noi occidentali, in virtù della mediazione cristiana, facciamo risalire queste cose agli ebrei, ma in realtà i Sumeri conobbero la scrittura ancora prima che nascesse il “popolo ebraico”. Gli ebrei presero il meglio dei Sumeri (Abramo uscì dalla terra di Ur) e il meglio degli Egizi (Mosè uscì dalla terra dei faraoni) e lo fusero in una legislazione che ancora oggi è a fondamento di tutte le legislazioni del mondo. Non uccidere, non rubare, non dire falsa testimonianza, non desiderare la donna altrui… non sono forse precetti su cui si basano tutte le Costituzioni del mondo? Persino le dittature sono costrette a riconoscerli; anzi, esse sostengono che solo in maniera autoritaria è possibile far rispettare quei precetti.
La dittatura è necessaria perché in presenza della democrazia quei precetti non vengono osservati. Dunque per quale motivo “leggi scritte” e “democrazia” non riescono a stare insieme? Perché ad un certo punto, immancabilmente, la democrazia si trasforma in una sorta di anarchia e le leggi scritte, nonostante il loro indiscutibile valore teorico, non servono a nulla di positivo?
Il motivo è molto semplice. L’esigenza di darsi delle regole scritte non fa parte di una civiltà autenticamente democratica, ma solo di una che al massimo vorrebbe diventarlo e che però non vi riesce. Una civiltà, o anche solo una società democratica, non ha bisogno di alcuna legge scritta, proprio perché la democrazia o esiste effettivamente nella realtà o non esiste affatto. Non può esistere solo sulla carta e quando esiste davvero, non ha bisogno della carta per essere confermata.
Il divieto di mangiare il frutto della conoscenza del bene e del male venne posto quando ormai lo si stava per fare. Si pone un divieto per impedire che dilaghi un determinato arbitrio, ma è evidente che senza autoconsapevolezza il divieto non servirà a nulla, posticiperà soltanto un evento inevitabile.
Quando gli ebrei si diedero i comandamenti, lo fecero allo scopo di darsi un sistema di vita migliore di quello egizio, dove la volontà schiavista dei faraoni, dei sacerdoti e dei nobili poteva imporsi a dispetto di qualunque legge, salvo che i ceti subalterni non si ribellassero. Ma poi, invece di diminuire il valore della legge, lo si aumentò a dismisura, aggiungendo precetti a precetti, in un crescendo continuo, in modo che alla fine la società era divisa tra coloro che conoscevano le leggi per potersene servire a loro piacimento, e coloro che le subivano in tutte le maniere. I vangeli cristiani sono pieni di denunce contro l’ipocrisia di chi “diceva” e non “faceva”, di chi “faceva” secondo la legge e “disfaceva” i rapporti umani (la contraddizione più evidente era quella del sabato). Di fronte all’inefficacia di un precetto i capi giudei provvedevano a formularne un altro ancora più restrittivo, imponendo la necessità di una dittatura per farli rispettare.
In questi ultimi seimila anni la scrittura non è servita a nulla, né a far crescere la democrazia politica né a migliorare il senso di umanità. Forse avevano ragione i Sumeri quando dicevano che l’applicazione delle leggi non può essere assoluta ma relativa, a seconda di chi fa i torti e di chi li subisce: peccato che il legislatore si mettesse sempre dalla parte del più forte. Anche Marx diceva che non ha senso affermare l’uguaglianza di fronte alla legge quando nella vita si è tutti diversi.
E allora cosa fare in attesa che nasca una società o una civiltà totalmente priva di scrittura e, nel contempo, a misura d’uomo? Occorre che nella fase di passaggio si elaborino delle leggi a favore di chi ha meno, per indurre chi ha di più a rispettarle. Il segno che la democrazia sarà aumentata verrà dato dal fatto che le leggi diminuiranno.
Ma chi potrà assicurare che questa diminuzione sarà frutto di una aumentata democrazia e non invece di una trasformazione di questa in una dittatura? Per eliminare progressivamente la scrittura, e quindi le leggi, che ne sono la quintessenza, occorre che la democrazia sia rivoluzionaria e che gli artefici di questa rivoluzione vigilino anzitutto su loro stessi.