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Samarcanda: la via della multilateralità

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

I risultati del summit dei Capi di Stato dei Paesi della Shanghai Cooperation Organization (Sco), tenutasi il 16 settembre a Samarcanda, nell’Uzbekistan, meritano di essere analizzati senza paraocchi ideologici o precostituiti. Permetterebbe di evitare errori di valutazione geopolitica di cui in seguito ci si potrebbe pentire.

La Sco è stata creata nel 2001, con lo scopo di coordinare le attività dei Paesi membri nella lotta al terrorismo, per la sicurezza e soprattutto per la cooperazione economica, tecnologica e infrastrutturale. Oggi conta nove membri, fra cui la Cina, l’India e la Russia. Insieme rappresentano il 40% della popolazione e il 25% del pil mondiale.

Sbaglia chi cerca di vedere nella Sco la realizzazione di una Nato dell’Eurasia. Le differenze tra i partecipanti sono troppe e profonde. Sarebbe altrettanto sbagliato, però, sottovalutarne l’importanza. Sarebbe profondamente fuorviante ripetere per la Sco gli errori di valutazione che molti intenzionalmente fanno in rapporto al ruolo dei Brics.   

Una lettura attenta della Dichiarazione finale di Samarcanda aiuterebbe a capire meglio i processi in atto. E’ opportuno, anzitutto, rilevare che, tra i vari Capi di Stato, erano presenti il presidente cinese Xi Jinping, il primo ministro indiano Narendra Modi e il presidente russo Vladimir Putin. Ciò nonostante, va sottolineato, il totale isolamento occidentale nei confronti di Putin e le sanzioni contro la Russia.

E’ opportuno, invece, prendere atto della valutazione geopolitica e geoeconomica offerta dal summit. Rispetto alla sicurezza si afferma che “Il mondo sta attraversando cambiamenti globali. Questi processi sono accompagnati da una maggiore multipolarità. L’attuale sistema di sfide e minacce internazionali sta diventando più complesso, la situazione nel mondo è pericolosamente peggiorata, i conflitti e le crisi locali si stanno intensificando e ne stanno emergendo di nuovi.”.

Circa l’economia si dice che “Il crescente divario tecnologico e digitale, le continue turbolenze nei mercati finanziari globali, la riduzione dei flussi d’investimento, l’instabilità nelle catene di approvvigionamento, l’aumento delle misure protezionistiche e altri ostacoli al commercio internazionale si aggiungono alla volatilità e all’incertezza nell’economia globale.”

Il concetto più ripetuto è quello della “multilateralità”, ponendo così la questione agli Stati Uniti e all’Occidente. 

Alcuni aspetti sulla cooperazione economica meritano attenzione. La Dichiarazione sostiene che i membri della Sco, con l’eccezione dell’India, “ riaffermano il sostegno all’iniziativa cinese One Belt, One Road (Obor, la Via della seta) e riconoscono il lavoro in corso per attuare il progetto e gli sforzi per collegare la costruzione dell’Unione economica eurasiatica con l’Obor.”  L’idea è di istituire un partenariato eurasiatico allargato che coinvolga, oltre alla Sco, l’Ueea, i Paesi dell’Asean, altri Stati interessati e le associazioni multilaterali.

Il testo, inoltre, fa riferimento all’importanza dell’uso delle monete nazionali nei regolamenti commerciali e monetari già praticato da alcuni Stati membri. Ciò avviene tra la Russia e la Cina e anche l’India dovrebbe a breve regolare i commerci con la Russia in monete nazionali.

Quest’orientamento avvicina la Sco alle politiche dei Brics. Infatti, la Dichiarazione finale riporta l’intenzione di creare una Banca di sviluppo della Sco, un Business Council, un Fondo di sviluppo all’interno di un Accordo quadro per la cooperazione nel commercio e nei servizi, di un Programma per lo sviluppo delle infrastrutture nei trasporti e nell’energia e di un Piano d’azione per lo sviluppo del commercio tra gli Stati membri. Tutte pratiche già sperimentate dai Brics.

Non è elegante ripetersi, ma speriamo che l’Unione europea e i suoi Stati membri non si limitino a dei semplici commenti ma partecipino attivamente ai progetti di sviluppo. Altrimenti, il summit di Samarcanda sarebbe soltanto la conferma di una pericolosa spaccatura del mondo in due blocchi contrapposti.  

La divisione in blocchi, soprattutto ora che c’è una guerra tra Russia e Ucraina, può ulteriormente aggravare la situazione. Crediamo che l’interesse dei popoli dell’Ue, a partire da quello italiano, sia, invece, quello di non interrompere il filo sottile delle relazioni tra mondi diversi per giungere ad una duratura e pacifica cooperazione.

*già sottosegretario all’Economia  **economista

Con la Nuova Via della Seta la Cina è vicina, anzi è tra noi. E anziché cercare il dominio politico militare cerca l’incremento degli scambi. Non solo commerciali

Il Mediterraneo – una volta il Mare Nostrum – tornerà ad essere ciò che il suo nome significa, e cioè “In mezzo alle terre”, dove per terre si intende l’Europa, l’Africa e l’Asia? E’ possibile, se non probabile o certo. E a riempire concretamente il significato del suo nome sarà il poker d’assi porti italiani di Genova e Trieste e quelli spagnoli di Bilbao e Valencia più quello portoghese meridionale di Sines: questo infatti anche se affacciato sull’Atlantico farà da snodo verso l’Africa. Questi cinque porti saranno i terminali occidentali del gigantesco progetto cinese Belt and Road Initiative, in sigla BRI, noto anche come Nuova Via della Seta, al quale hanno già aderito 60 Paesi più oltre 40 organizzazioni internazionali e che intende stimolare  anche con rotte navali non solo l’integrazione dei commerci e delle economie dei tre continenti citati, ma diventare per loro “un percorso che porta all’amicizia, allo sviluppo condiviso, alla pace, all’armonia e ad un futuro migliore”. Lo ha dichiarato a Shangai lo scorso novembre  il presidente della Cina Xi Jinping all’International Economic and Trade Forum, al quale il 5 novembre ha partecipato, con il suo secondo viaggio in Cina, il nostro vicepremier e ministro dello Sviluppo Economico e del Lavoro Luigi Di Maio (  https://video.repubblica.it/politica/shanghai-la-gaffe-di-luigi-di-maio-il-presidente-xi-jinping-diventa–ping/318842/319471  )

Poche settimane dopo avere pronunciato quelle parole il presidente Xi è stato in visita in Spagna dal 27 al 29 dello scorso novembre per proporre l’adesione alla BRI anche alla Spagna, Paese nel quale l’anno scorso la compagnia navale cinese Cosco Shipping Holdings si è aggiudicato il 51%, cioè la maggioranza assoluta, del gruppo spagnolo Notaum Port, gestore dei servizi portuali per le navi container a Bilbao e Valencia. E se la Spagna si è riservata di decidere, il Portogallo invece lo scorso 5 dicembre ha aderito e concesso per la BRI lo sbocco nel porto di Sines, sulla costa meridionale del Portogallo e poco distante dallo Stretto di Gibilterra. Oltre a funzionare come punto di raccolta delle merci della BRI da irradiare verso l’Africa, Sines sarà di fatto per la Nuova Via della Seta anche la porta di ingresso al Mediterraneo, dove la BRI potrà contare sui quattro porti sopra citati, due francesi e due italiani. Di questo poker di porti del Mediterraneo alla Cina interessa in particolare quello di Trieste  perché è l’unico porto europeo che gode di extraterritorialità doganale ed è collegato via treno all’Europa centrale e orientale.

Diciamo subito per completezza d’informazione che ci sono anche voci molto contrarie alla Nuova Via della Seta, vista come un tentativo di allontanare l’Italia dalla Nato (ma a cosa serve una volta scomparsa l’URSS e annesso “pericolo comunista”?) e dall’Europa. Tra i contrari spicca da tempo Alessia Amighini, Co-direttrice dell’Osservatorio Asia presso l’Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI  https://www.ispionline.it  ). Amighini rileva che “Gli altri grandi esportatori europei , di cui si lamenta la maggior forza economica e commerciale in Cina, non hanno firmato MoU (NDR: sigla inglese per Lettera di Intenti), ma guidato e sostenuto cordate e missioni di imprese per firmare contratti e accordi concreti”. E conclude: “Il MoU tra Italia e Cina è destinato indubbiamente a sigillare il ruolo strategico dell’Italia come ponte strategico della Cina in Europa, e non invece come ponte tra Ue e Cina. Sperare che almeno intensifichi il commercio e gli investimenti non basta a compensare le remore di un documento le cui conseguenze politiche non riusciamo ora nemmeno a immaginare”.

Il pioniere dei rapporti economici con la Cina è stato indubbiamente il socialista Gianni De Michelis quando era il nostro ministro degli Esteri, e non solo perché essendo veneziano aveva letto Il Milione di Marco Polo. De Michelis fondò a Padova una associazione per incrementare la reciproca conoscenza e gli scambi tra Italia e Cina a partire dal Veneto. Anche Romano Prodi quando era il nostro premier ha intrapreso iniziative a favore dei contatti e degli scambi Italia-Cina. Silvio Berlusconi invece quando era premier ha rinviato e infine annullato per ben tre volte il suo viaggio di Stato in Cina, preferendo invece altri impegni. Dopo queste premesse nostrane l’Italia sarà il primo Paese europeo ad aderire anche con sue infrastrutture al grande progetto cinese della Nuova Via della Seta? E’ molto probabile, se non certo. Si intitolava “La Cina è vicina” il film, alquanto noioso, di Marco Bellocchio del ’67, in piena epoca di comunismo avanzante in piazza e alle votazioni e anticamera del famoso ’68. Ma in realtà la Cina era lontana. Lontanissima. Oggi, morto il comunismo, la realtà è che la Cina non solo è vicinissima, ma è ormai tra noi. La Lunga Marcia (  https://it.wikipedia.org/wiki/Lunga_marcia ) intrapresa da Mao Tzedong (all’epoca si scriveva Mao Tze Tung ) è infatti proseguita, ha mutato volto e prosegue tuttora alla grande, anche se con sviluppi decisamente imprevisti e tra pochi giorni farà tappa in Italia. Ma andiamo per ordine. 

Fino al crollo dell’Unione Sovietica e del comunismo l’Italia era la portaerei USA e Nato posta tra il mondo capitalista a ovest  e il mondo comunista a est. Il Portogallo, a partire dalle isole Azzorre, e l’intera penisola iberica erano considerate dal Pentagono e dalla Nato la parte iniziale di un imbuto che andava man mano allargandosi all’intera Europa con la disseminazione di basi militari. In Spagna è successo perfino, il 17 gennaio ’66, che quattro bombe atomiche a stelle e strisce precipitassero da un bombardiere, una in mare, una su un terreno privato, una vicino alla foce di un fiume e una in montagna,  per fortuna tutte senza scoppiare nonostante l’esplosione dell’innesco (  https://it.wikipedia.org/wiki/Incidente_di_Palomares  ). Oggi vediamo la Cina in procinto di firmare accordi che fanno dell’Italia il porto navale cerniera tra Occidente e Oriente dopo avere stipulato accordi ( https://www.blitzquotidiano.it/opinioni/nicotri-opinioni/portogallo-cinesi-trump-via-seta-2966291/  ) che fanno della penisola iberica, e in particolare del Portogallo comprese le Azzorre, la base e il trampolino di lancio  per linee di navigazione commerciale che si irradiano ad imbuto non solo verso l’ Europa, ma anche verso l’Africa e lo stesso continente americano. Il tutto mentre gli investimenti cinesi in questi tre continenti vanno al galoppo, al punto da avere provocato all’Italia il 7 marzo un duro ammonimento stop USA ( https://notizie.tiscali.it/economia/articoli/Stop-degli-Stati-Uniti-a-Di-Maio-ingresso-Italia-Via-della-Seta/ ) e ammonimenti dell’Europa ( https://www.italiaoggi.it/news/i-maggiori-acquisti-della-cina-in-europa-sono-stati-fatti-in-germania-e-in-gran-bretagna-perche-l-allarme-2342518 ) perché vengano messi un freno e un argine alla campagna acquisti lanciata da anni da Pechino e supportata massicciamente dal grandioso progetto della Nuova Via della Seta/Belt and Road Initiative. Un progetto destinato a cambiare oltre alla realtà economica europea la realtà geopolitica del pianeta, specie se viene realizzata completamente anche l’iniziativa russa Razvitie ( https://www.blitzquotidiano.it/opinioni/nicotri-opinioni/russia-corridoio-razvitie-la-transiberiana-dello-sviluppo-1904773/    ), per certi versi geograficamente parallela alla cinese BRI.

L’occasione per la nuova tirata d’orecchie è la visita di Stato in Italia del presidente cinese Xi Jinping, prevista dal 21 al 24 marzo, nove anni dopo la visita del suo predecessore Hu Jintao, che su invito dell’allora premier Silvio Berlusconi partecipò anche alla riunione del G8 a L’Aquila. All’incontro col presidente Sergio Mattarella, il quale è già andato a Pechino nel febbraio 2017, seguirà quello più operativo col premier Giuseppe Conte e con varie aziende per la firma di una serie di accordi che vanno dalla cancellazione della doppia fiscalità fino alla probabile adesione italiana alla Nuova Via della Seta, con la concessione anche di terminali marittimi nei porti di Genova e Trieste, cioè su entrami i lati dello Stivale, e ad accordi con varie aziende. A Pechino fa gola Trieste perché è l’unico porto europeo che gode di extraterritorialità doganale ed è collegato via treno all’Europa centrale e orientale.
Per quanto riguarda Genova è da ricordare che Vasco da Gama il 22 novembre 1497 doppiando il Capo di Buona Speranza (nome dato dal suo connazionale Bartolomeu Dias quando era riuscito a raggiungerlo dieci anni prima senza però proseguire la navigazione verso Oriente) è riuscito in ciò che due secoli prima, nel 1291, era stato tentato con due navi da marinai genovesi: i loro nomi sono Tedisio Doria, Ugolino e Vadino Vivaldi. L’annalista della Repubblica di Genova Jacopo Doria, zio di Tedisio, di loro scrive: “Armarono ottimamente due galee, le diressero nel mese di maggio verso lo Stretto di Setta [oggi Gibilterra] acciò che andassero attraverso il mare oceano alle parti dell’India e di là portassero utili mercanzie”. Delle due navi genovesi e annessi equipaggi non s’è però più saputo nulla: scomparsi in mare. Vasco da Gama durante la risalita della costa orientale africana scoprirà con meraviglia che in Mozambico le navi locali utilizzavano bussole fabbricate a Genova.

Riguardo gli accordi aziendali, stando a indiscrezioni riguarderebbero strade, ferrovie, ponti, aviazione civile, porti, energia e telecomunicazioni, e sono già stati messi nero su bianco dai tecnici del ministero dello Sviluppo Economico, il cui titolare, Luigi Di Maio, è già stato in Cina due volte, l’ultima lo scorso novembre in occasione dell’International Economic and Trade Forum a Shangai. Di Maio a Shangai pur sbagliando il nome del presidente cinese, chiamato erroneamente Ping, ha tenuto un discorso di vari minuti molto impegnativo e molto proiettato a favore degli accordi con la Cina per stimolare le esportazioni del made in Italy. A favorirle molto sarà il polo logistico integrato di Mortara, nel Pavese. Nel giugno del 2017 sono stati firmati infatti accordi (  http://www.terminalmortara.it/ita/sala_stampa/comunicati/articolo5giu2017.pdf  ) per collegare Mortara via treno alla città di Chengdu lungo la prima rotta Cina-Italia. Il partner cinese in questa operazione è Changjiu Group (oltre 20 miliardi di fatturato). I treni merci arriveranno in circa 18 giorni e torneranno indietro carichi di prodotti made in Italy. Sono previsti fino a tre viaggi a settimana e il collegamento con Shanghai e Pechino. Il primo treno è partito il 28 novembre 2017. 

Con la firma degli accordi con Xi a Roma l’Italia diventerebbe il primo Paese dell’Unione Europea a sostenere la BRI, che ha già raccolto più di cento adesioni di Paesi e grandi organizzazioni internazionali.

Il monito Usa appare alquanto strumentale, visto che il presidente Trump, dopo avere minacciato contro la Cina la guerra dei dazi ora pare che punti a un vasto accordo proprio con Pechino (    https://www.milanofinanza.it/news/trump-accelera-sugli-accordi-con-la-cina-201901311503594427   ), motivo per cui il 27 marzo incontrerà a Mar-a-Lago lo stesso Xi. E suona francamente grottesco e alquanto offensivo l’allarme USA per la possibilità che la Cina acquisti il debito sovrano italiano ( https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2019/03/15/news/cina_gli_stati_uniti_preoccupati_dei_colloqui_fra_xi_e_di_maio_sull_acquisto_del_debito_italiano-221681482/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P4-S1.4-T1 ): il debito USA come è ben noto è stato acquistato a man bassa proprio da Pechino. Non ha quindi tutti i torti la Cina quando il 7 marzo ha sferzato l’Europa con un invito quanto mai esplicito: “Basta sudditanza con gli USA”  ( https://www.repubblica.it/esteri/2019/03/07/news/via_della_seta_pechino_sferza_l_europa_basta_sudditanza_con_gli_usa_-220912573/ ). Semmai dobbiamo preoccuparci del punto debole dei grandi piani cinesi: l’enorme debito pubblico interno ed estero di Pechino, che all’inizio dell’anno pari in totale  al  317% del PIL ( https://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2019-01-13/pechino-e-spirale-fuori-controllo-debito-112455.shtml?uuid=AEweFFEH&refresh_ce=1   ) 

Uno dei motivi per cui Trump minaccia di intervenire nella recente crisi politica del Venezuela è che tale Paese, ricco di petrolio, ha stretto accordi con la Cina per la sua lavorazione ed esportazione. Il problema è che il mega progetto cinese fa un po’ concorrenza ai due grandi progetti di libero scambio patrocinati dagli Usa: vale a dire al Transpacific partnership (TTP) (  https://it.wikipedia.org/wiki/Partenariato_Trans-Pacifico  ), che lega agli Usa gli Stati con i quali gli Stati Uniti hanno avuto a che fare con la seconda guerra mondiale e con quella del Vietnam, e al Transatlantic trade and investment partnership (TTIP) ( https://it.wikipedia.org/wiki/Trattato_transatlantico_sul_commercio_e_gli_investimenti ),  progetto di libero scambio tra Europa, Stati Uniti e Canada.

Il monito  di Bruxelles suona piuttosto ipocrita visto che negli ultimi 10 anni c’è stata la gara tra i Paesi della UE ad accogliere gli investimenti cinesi: che hanno fatto 227 accordi economici con l’Inghilterra, 225 con la Germania, 89 con la Francia, contro gli 85 con l’Italia. In totale, negli ultimi 10 anni, Pechini ha investito in 30 Paesi europei 225 miliardi di dollari per stipulare 678 accordi societari, 360 dei quali si sono conclusi con il passaggio del controllo azionario in mani cinesi. Accordi, si badi bene, autorizzati e spesso patrocinati dai rispettivi governi, con la cancelliera Angela Merkel, la collega britannica Theresa May e il francese Emmanuel Macron volati a bella posta a Pechino.

Tutto questo attivismo è avvenuto e avviene nonostante la lettera (  http://www.finanzaonline.com/notizie/shopping-cinese-europa-spaventa-italia-germania-francia-scrivono-allue  ) che Italia, Germania e Francia il 22 agosto 2017 hanno scritto all’Unione Europea proprio perché allarmate dalla grande campagna acquisti targata Pechino. Ma la cosa strana nostrana – mi si scusi il bisticcio di parole – è che mentre Di Maio e il suo M5S  – più il premier Giuseppe Conte, anche se come al solito sottotono – sono molto favorevoli agli accordi con  Pechino, a tirare il freno è Matteo Salvini nonostante che il principale sponsor della visita di Xi in Italia è stato proprio un leghista, Michele Geraci, sottosegretario allo Sviluppo Economico, oltre che di suo banchiere e docente in Cina per dieci anni, tanto da parlare fluentemente il cinese. A conti fatti, pare di assistere alla stessa baruffa per la TAV, ma a parti invertite: questa volta a essere contraria invece del M5S è la Lega. E dire che mentre sull’utilità della TAV può anche essere legittimo avere dubbi, sull’utilità della BRI dubbi non ce ne possono essere. Difficile che la Lega vada oltre le enunciazioni di principio e la retorica “patriottica”, visti gli interessi in ballo in piena “Padania” come dimostrano gli accordi e il ruolo di Mortara. I maligni insinuano che mentre Di Maio “guarda a Pechino”, e ne è appoggiato concretamente, Salvini invece “guarda a Mosca”, in particolare al suo presidente Putin, e ne è appoggiato altrettanto concretamente. Come che sia, è evidente che tanto per cambiare c’è un po’ di confusione, al punto che l’economista Renato Brunetta, parlamentare ed ex ministro di Forza Italia, accusa il governo di gestire male questa “grande occasione”, per la quale reclama per l’Italia un ruolo da protagonista.

In soldoni i cinesi anziché mostrare i muscoli e imitare gli USA piazzando  basi militari in tutto il mondo imitano semmai i fenici e i portoghesi, che preferivano l’egemonia in terre altrui puntando alla diffusione degli interscambi commerciali tramite una rete di scali portuali. In realtà però c’è da dire che la Cina non imita nessuno perché in passato anziché sviluppare il colonialismo di stampo europeo o la conquista imperiale di territori altrui per dominarli oppure in tempi recenti promuovere la “rivoluzione comunista mondiale” di stampo moscovita, con gli Stati e i territori altrui esterni ai propri confini ha quasi sempre preferito in tutta la sua storia stipulare alleanze tramite accordi commerciali, tributari e magari anche di protezione (unica eccezione l’invasione del Tibet, ma basta un’occhiata alla carta geografica per capire che, per quanto molto deprecabile, s’è trattato di assicurarsi confini in grado di evitare nuove invasioni della stessa Cina). In definitiva la BRI non è che la prosecuzione di tale politica a base di approcci e interscambi commerciali. Per chi non la vede molto di buon occhio la Cina oggi sta riuscendo a fare pacificamente e col denaro quello che i giapponesi provarono a fare con la conquista militare dell’Asia fra gli anni ’30 e i ’40 e poi con la conquista commerciale del dopoguerra.

Sta di fatto che mentre la Cina investe mille miliardi di dollari (  https://www.corriere.it/digital-edition/CORRIEREFC_NAZIONALE_WEB/2018/09/10/15/mille-miliardi-sulla-via-della-seta_U30201076652748OLH.shtml ) nella BRI per collegare il mondo, gli Usa invece ne investono anche di più nella sola produzione di ordigni nucleari (  https://www.ilmessaggero.it/primopiano/esteri/pentagono_nucleare_nuove_testate_deterrente_russia_cina-3525097.html  ) più moderni ed efficienti (cioè più distruttivi….), concepiti apposta per tenere sotto pressione proprio la Cina, oltre alla solita Russia costretta così a riprendere la costosissima corsa al riarmo. Trump infatti porta a 1.200 miliardi di dollari i 1.000 stanziati per queste armi da Obama (  http://www.ilgiornale.it/news/mondo/obama-e-i-mille-miliardi-dollari-nuovo-arsenale-nucleare-1214785.html  ). 

La lunga marcia della Cina verso il predominio commerciale e produttivo in molti settori è iniziata da tempo. Oggi i temi di conflitto per la supremazia tra Usa e Cina sono molti: mercati on-line; hardware; supercomputer; computazione quantistica; navigazione satellitare; intelligenza artificiale; armamenti avanzati; sicurezza nelle telecomunicazioni; potere di imporre gli standard internazionali.

Uno studio accurato della Commissione Europea riguardante il 2016 dimostra che la Cina in quell’anno ha prodotto:

– il 28% delle automobili del mondo (poco meno di un veicolo su tre);

– il 90% di tutti i cellulari;

– l’80% di tutti i computer, e cioè quattro su cinque;

– l’80% di tutti i condizionatori del pianeta;

– il 60% di tutti i televisori assemblati sul nostro pianeta, ovvero più della metà totale;

– il 50% dei  frigoriferi fabbricati su scala globale;

– più del 40% delle navi costruite nel mondo intero.

Senza contare l’enorme quantità di merci del settore abbigliamento,  sport e  casalinghi che la Cina riversa a prezzi popolari nella miriade di negozi e supermercati che ormai costellano ogni città europea.  

E’ bene riflettere sul fatto che l’antica Via della Seta e la complementare antica Via delle Spezie non sono state solo millenarie vie commerciali. Hanno infatti  alimentato l’Occidente, fin dai tempi dei romani, dei più ambiti beni di consumo, dalla seta alle spezie appunto, ma anche con innovazioni scientifiche e tecnologiche. Basti pensare che Cristoforo Colombo non sarebbe mai potuto arrivare in America senza il timone assiale di coda delle navi e senza la bussola, cose arrivate dalla Cina assieme alla carta, alla cartamoneta, alla polvere da sparo e a molto altro. La stessa America è stata “scoperta” perché i navigatori europei cercavano un modo di arrivare in India, Cina e dintorni per poter continuare gli enormi commerci di spezie e d’altro senza dover passare per i territori ormai in mano agli arabi islamici, che imponevano man mano dazi che moltiplicavano il costo iniziale delle merci anche per più delle dieci volte già lamentate da Plinio il Vecchio per l’enorme esborso annuale di Roma in oro e argento. La matematica occidentale e i computer non potrebbero esistere senza l’apporto dei numeri arabi, in realtà indiani, dell’algebra e dell’invenzione del numero zero, apporto arrivato dall’Oriente tramite quelle antiche vie.

Stando così le cose, cioè la realtà storica, la Nuova Via della Seta può contribuire oltre che a ridare centralità al Mediterraneo come ponte tra Europa, Oriente e Africa anche a correggere il concetto e l’idea di Europa in voga da tempo e il conseguente eurocentrismo (e suprematismo): quello convinto che tutto il sapere moderno – se non tutto il sapere in assoluto – sia nato in Europa. Dimenticando così che l’Europa è nata per volere e interesse della Chiesa, che – anche falsificando come è ben noto il testamento di Costantino –  ha voluto separarla dal più vasto insieme di terre dell’impero romano con capitale Costantinopoli. E dimenticando che Costantino aveva voluto trasferire la capitale dell’impero da Roma alla nuova città da lui fondata, e che da lui prende il nome,  proprio per avvicinare il centro e il governo dell’impero a quell’Asia che tramite la Via della Seta e quella delle spezie  formava di fatto se non un tutt’uno almeno un tessuto comune non solo di commerci con l’impero romano. Spostare la capitale a Costantinopoli significava anche eliminare vari dazi intermedi per le merci, spezie soprattutto, importate in abbondanza dall’Oriente. 

Guarda caso, il gas e il petrolio (e alcuni metalli essenziali per i telefonini e computer) senza i quali non possiamo più vivere vengono in gran parte proprio dall’Asia Centrale e dalla Cina: gli oleodotti e i gasdotti corrono più o meno in parallelo o attraversano i territori dell’antica via della seta (in realtà, era un insieme di vie). L’ex Segretario di Stato Zbniev Brzezinsky sosteneva che “Chi controllerà l’Asia Centrale controllerà il mondo”. E infatti gli Usa con la motivazione della guerra al terrorismo islamista cercano mettere anche lì le loro basi militari…. 

Nel XV secolo la Cina dell’imperatore Yongle aveva iniziato a esplorare il mondo con i 30 anni di navigazioni oceaniche di flotte immense – fino a 30 mila uomini imbarcati e navi fino a 160 metri di lunghezza – al comando dell’ammiraglio Zheng He. Poi però nel 1434 il nuovo imperatore Hung Hsi, figlio di Yongle, decise di eliminare le flotte, proibire la costruzione di nuove navi e distruggere tutti i manuali e le carte nautiche preferendo chiudere la Cina nello splendido isolamento. Circondata da catene montuose, mari e deserti, dai quali ogni tanto emergevano popoli invasori, la Cina si convinse di essere LA civiltà per antonomasia, se non l’unica al mondo, e che questo fosse abitato da barbari. Nell’800, con le invasioni arrivate dall’Occidente, c’è stato lo stupefatto e doloroso risveglio e la constatazione che esistevano civiltà più progredite e aggressive. L’enorme progetto planetario della Nuova Via della Seta è anche la conseguenza di tale amaro risveglio.

Dobbiamo essere grati alla Cina se i ferocissimi mongoli di Gengis Khan, conquistata tra un massacro e l’altro la Russia, arrivati in Ungheria e comparsi brevemente a Vienna e Venezia per un sopralluogo, non sono dilagati anche in Europa, Italia compresa, secoli fa al comando di Batu Khan e Kadan Khan, nipoti di Gengis Khan. Mentre loro erano impegnatissimi ad avanzare anche in Europa lo zio è improvvisamente morto, motivo per cui tornarono indietro per partecipare a Karakorum all’elezione del successore (   https://www.blitzquotidiano.it/opinioni/nicotri-opinioni/salvini-il-capo-col-quid-natura-e-storia-piene-di-esempi-e-puo-finire-male-3005629/   ). Poi per nostra fortuna anziché tornare in Europa per arrivare fino al Grande Mare, cioè fino all’Atlantico, come avevano intenzione di fare,  i mongoli preferirono invadere la Cina, all’epoca ben più ricca del Vecchio Continente.  Da notare, en passant, che le mogli dei vari feroci khan mongoli erano quasi tutte cristiane, sia pure del ramo nestoriano. 

L’ex Celeste Impero sta ponendo fine all’egemonia occidentale sul pianeta, egemonia del resto erosa anche da altri Paesi orientali, come l’India e il Giappone, e da altri in rapido sviluppo come il Brasile, la Turchia e l’Iran. Come fare quindi a dialogare con la Cina in modo da evitare se possibile scontri rovinosi? È una domanda che si pongono anche in Vaticano, specie da quando negli Usa e nelle cancellerie europee ci si è resi conto che è molto flebile la speranza di spaccare la Cina nelle sue quattro parti storiche, esistenti prima della millenaria unificazione, puntando magari su minoranze etniche o religiose, come la minoranza musulmana, quella cattolica o i seguaci della religione Falun Gong (  https://it.wikipedia.org/wiki/Falun_Gong   ). La Cina non è né l’Iraq né la Libia né la Siria né l’Ucraina, dove ancora oggi l’Occidente punta al classico “divide et impera”. E non è neppure la Polonia da sottoporre alle spallate antigovernative di Papa Wojtyla. E a tale domanda ha dato una prima risposta l’attuale papa Francesco con la firma il 28 settembre dell’anno scorso di un accordo – per ora provvisorio – in base al quale la nomina dei vescovi della minoranza cattolica cinese, che non riconosce la supremazia del Vaticano,  venga vidimata dal papa (   https://www.repubblica.it/vaticano/2018/09/22/news/vaticano_cina_accordo-207083750/   ). La scelta dei vescovi partirà comunque sempre dal basso, cioè dall’Associazione Patriottica dei Cattolici Cinesi (APCC) e dall’Amministrazione Statale degli Affari Religiosi, ma alla fine ci vorrà l’assenso e la firma del Vaticano.

Una delle nostre responsabilità di europei è di ignorare totalmente (anche) la storia dei rapporti tra la Cina e la Chiesa cattolica. Vale quindi la pena farne un veloce ripasso (  https://www.blitzquotidiano.it/opinioni/nicotri-opinioni/agenda-del-nuovo-papa-cina-meno-rigido-1477868/   ). E’ abbastanza noto che il gesuita Matteo Ricci, geografo, astronomo e matematico, riuscì ad arrivare in Cina e a guadagnarsi la stima anche della corte imperiale perché padroneggiava la lingua cinese, ne aveva assorbito la cultura tanto da vivere come un mandarino. Ricci nel primo decennio del 1.600 per compiacere l’imperatore e la sua corte decise di pubblicare una versione modificata e dell’atlante “Mappa completa delle miriadi di Paesi della Terra”. Realizzata con Li Zizhao e pubblicata in migliaia di copie, la Mappa aveva infastidito i cinesi convinti che la Cina – non a caso da loro chiamata Zhongguo, cioè Regno di Mezzo – fosse il centro del mondo e non la periferia dell’ Europa. La nuova versione della Mappa era decisamente più cinocentrica.

Il gesuita Martino Martini, arrivato in Cina nel 1643 sulla scia del dilagare dei portoghesi in Oriente, aiutò l’imperatore Longwu della dinastia Ming, che lo nominò mandarino, a fronteggiare militarmente gli avversari mancesi della dinastia Quing. Esperto di balistica, preparazione della polvere da sparo e della fusione dei cannoni, Martini venne soprannominato Mandarino Polvere di Cannone. Martini riuscì a convincere papa Alessandro VII ad accettare sia pure con riserva che i cinesi convertiti al cristianesimo potessero continuare i loro riti per i morti e per Confucio senza essere scomunicati.

Il gesuita belga Ferdinand Verbiest venne nominato nel 1669 dall’imperatore Kangxi presidente dell’Ufficio delle Matematiche e portò a termine la riforma del calendario cinese iniziata con il gesuita tedesco Adam Schall von Bell. E l’imperatore Kangxi emanò un decreto di libera predicazione del cristianesimo che ricorda molto da vicino l’analogo editto di Milano con il quale Costantino nel 313 aveva sdoganato il cristianesimo dichiarandolo “religio licita”. La penetrazione del cattolicesimo era favorita dalla crisi di rigetto anche da parte delle elite cinesi nei confronti del buddismo, nel cui clero abbondava la corruzione e una eccessiva rilassatezza dei costumi.

I missionari gesuiti erano convinti che per favorire la penetrazione del cristianesimo in Cina si dovesse essere tolleranti e rispettosi di culture antiche e radicate come quella cinese e più in generale asiatiche, ed erano anche convinti che le pratiche invise a Roma fossero solo riti civili, non religiosi. Di parere diametralmente opposto i missionari francescani e domenicani. Fu così che nel 1713 Papa Clemente XI pubblicò la bolla “Ex illa die”, con la quale condannava i riti cinesi ed esigeva a tutti i missionari residenti in Cina il giuramento di rispettare la condanna romana.

La bolla “Ex quo singulari” di Benedetto XIV, pubblicata l’11 luglio 1742, proibì addirittura ogni discussione sui riti cinesi e annessa condanna di Clemente XI, costringendo così gli imperatori Yongzheng e Qianlong a porre un freno alla libertà di predicazione del cristianesimo. E la soppressione della Compagnia di Gesù decisa il 21 luglio 1773 da Papa Clemente XIV non fece altro che convincere i cinesi che i gesuiti avessero mire politiche e fossero quindi davvero pericolosi per l’unità della Cina.

A togliere l’obbligo del giuramento e a consentire ai cattolici cinesi la partecipazione ai riti tradizionali è stato Pio XII nel 1939, anno di inizio della seconda guerra mondiale. Ma con la politica delle scomuniche ai comunisti in blocco e ai vescovi cinesi non disposti a obbedire senza fiatare al Vaticano si è ottenuto solo il rigetto dell’autorità del Papa e la nascita nel 1957 della Chiesa Patriottica Cinese. In pratica, papa Francesco ha per certi versi anticipato intanto sul tema della nomina dei vescovi l’arrivo in Italia e in Europa della Nuova Via della Seta. Contribuendo di fatto anche lui almeno in parte al calo delle tensioni e al recupero del ruolo intercontinentale del Mediterraneo.  

La Nuova Via della Seta è il futuro: a base di cooperazione anziché guerre e invasioni

Le opportunità delle Vie della Seta per l’Italia e l’Europa

Mario Lettieri*  Paolo Raimondi**

In Italia ogni cosa, a prescindere da chi la propone, diventa sempre un guazzabuglio litigioso e gridato per un consumo tutto interno, anche elettorale. Questo è il paese, purtroppo. Mancano una visione strategica e la percezione di un interesse europeo e italiano.

A giorni arriva in Italia Xi Jinping, il presidente cinese, per sottoscrivere degli accordi commerciali e un memorandum of understandigcon l’Italia. La Cina ha una chiara strategia: sviluppare una collaborazione con tutti i paesi lungo la Via della seta per dare sbocco ai propri prodotti. Facendo così, ovviamente, crea nuove amicizie e nuove alleanze, con inevitabili ripercussioni geopolitiche.

Del resto, anche gli Stati Uniti, che fino ad oggi hanno permesso alle proprie corporation di produrre merci a basso costo sul territorio cinese per poi importarle, hanno cambiato completamente strategia: giocare la carta geopolitica per contenere la Cina in tutti i settori. Non dopo aver piazzato una buona parte del loro debito pubblico in mani cinesi.

L’Europa, e anche l’Italia, mancando di un’identità storica precisa, non hanno alcuna visione strategica e indipendente del proprio futuro e rischiano di essere sballottate da una parte all’altra e di essere schiacciate nello scontro tra i due colossi mondiali.

Non sappiamo esattamente cosa contiene il memorandum of undertandingsulla “Belt and Road Initiative” (BRI), ma è lecito pensare che con la Cina l’interesse dell’Italia sia quello di creare un rapporto di cooperazione. Escludiamo che sia in gioco una “scelta di campo”. Probabilmente è l’occasione per incrementare lo sviluppo del nostro paese, a partire dal Mezzogiorno.

Le nostre imprese dovrebbero poter partecipare ai grandi investimenti in tutti i paesi lungo il corridoio eurasiatico, almeno tanto quanto già fanno la Germania, la Francia e la Gran Bretagna. L’Italia, inoltre, potrebbe diventare il motore del coinvolgimento dell’intera Ue nel progetto, per far valere l’interesse comune e la visione europea.

Detto per inciso, si dovrebbe sapere che un MoU non è un trattato, non è una legge, né un contratto. Si tratta soltanto di un documento  con il quale ci si impegna, senza alcun obbligo, a valorizzare tutte le possibili collaborazioni.

E’ vero. L’Italia potrebbe essere il primo paese del G7 e il primo membro fondatore dell’Europa a firmare un memorandum d’intesa con la Cina sull’adesione alla citata BRI. Ciò potrebbe irritare chi vuole lo scontro con la Cina. Noi invece pensiamo possa essere solo il primo passo per un accordo complessivo tra l’Unione europea e la Cina, senza rinnegare gli impegni atlantici né l’appartenenza al mondo occidentale.

 La BRI è stata “lanciata” nel 2013. Dopo cinque anni si deve usare il plurale per le “Nuove Vie della Seta” in quanto sono ipotizzati due corridoi: uno terrestre, che, attraversando numerosi paesi dell’Asia, arriva a Mosca e poi fino a Duisburg, in Germania, e uno marittimo che dai porti della Cina arriva fino a quelli del Mediterraneo, e oltre. In questi anni la Cina ha già firmato 38 accordi bilaterali e regionali con 34 paesi lungo il corridoio marittimo.  

La Via della seta marittima ha nel Mediterraneo il suo sbocco più importante. La Cina ha fatto grandi investimenti nelle infrastrutture, porti, interporti e snodi logistici in paesi come la Grecia, la Turchia, la Spagna, in Israele, oltre che in Italia. Ma il nostro paese ha maggiori potenzialità per diventare l’hub logistico per l’intera Europa.

In Italia ci sono quattro porti profondi adeguati ad accogliere le mega navi container con un pescaggio di 16-18 metri: Trieste, Genova, Taranto e Gioia Tauro. Genova e Trieste dovrebbero esseri i porti con i quali i cinesi starebbero per sottoscrivere degli accordi.

Si ricordi che i cargo cinesi coprono già il 30% dei traffici di Genova e Savona. Adesso si andrebbe ad aggiungere il porto di Vado Ligure, dove Pechino ha già fatto dei grandi investimenti. Alla fine di gennaio il porto di Trieste ha ospitato per la prima volta un traghetto merci lungo 237 metri. Trieste, come noto, fa parte del Corridoio 5, quello che coinvolge il tratto  TAV/AC Lione – Torino che, anche per questo, sarebbe opportuno realizzare.  

Inoltre, in questo quadro diventano decisive le infrastrutture di scarico delle merci, di magazzinaggio e di trasporto veloce. Perciò è importante l’automazione e quindi la digitalizzazione dei sistemi intermodali. Di conseguenza si parla anche del famoso 5G e della Huawei, sui quali vi è una sorta di veto americano. 

I cinesi, comunque, sembra considerino l’Italia, più che una rete porti di transito, una vera piattaforma per la logistica e la trasformazione delle merci. Il che è una grande opportunità  soprattutto per i porti del nostro Mezzogiorno, dove sono  state create delle zone economiche speciali per attrarre investimenti. La Sicilia, in particolare, potrebbe diventare la piattaforma logistica e di sviluppo per gli investimenti e i progetti da attuare in Africa. 

Come noto la Cina ha già sottoscritto protocolli d’intesa con alcuni atenei e da tempo manifesta un grande interesse per la cooperazione turistica e per il nostro agroalimentare. Noi, a questo proposito, riteniamo che sarebbe opportuno prevedere nel memorandum che i primi accordi riguardino il Sud.

Intanto si ricordi che l’Italia non è il primo paese europeo a cooperare con la Cina. L’OCSE afferma che compagnie cinesi hanno già acquisito partecipazioni importanti in numerosi porti europei: Marsiglia, Nantes, Le Havre e Dunkirk in Francia, Bilbao e Valencia in Spagna, Anversa e Bruges in Belgio, Rotterdam, in Olanda, Amburgo in Germania.

Inoltre, il Pireo, in Grecia, dove i cinesi avrebbero già investito circa 5 miliardi di dollari, diventerebbe il primo porto per container del Mediterraneo e l’hub principale per le esportazioni cinesi in Europa.

Significativo anche il controllo della Cina del 35% del terminal  Euromax di Rotterdam, il primo porto europeo. Così dicasi del controllo del 100% del porto di Bruges, che è il primo al mondo nel traffico commerciale dei veicoli.

In considerazione di questi dati, le polemiche nostrane ci sembrano eccessive. In Italia si dovrebbe imparare un po’ dalla Germania. Berlino sta realizzando il Nord Stream 2, la grande infrastruttura per portare gas dalla Russia attraverso il Mar Baltico. Lo fa nell’interesse tedesco, europeo e anche italiano. Washington vorrebbe fermarlo. E’ la strategia geopolitica degli Stati Uniti di Trump. Berlino, però, tira dritto e nessuno in Germania si permette di dire che adesso Berlino sia caduta nella morsa dell’”orso russo”. Sarebbe una sciocchezza, così come lo sarebbe se si dicesse che l’Italia abbandona i suoi tradizionali alleati per correre tra le braccia dei cinesi.

*già sottosegretario all’Economia **economista

La guerra idiota di Trump contro Putin a base di sanzioni ha effetto opposto a quello voluto

Sanzioni finanziarie: risposte inattese dalla Russia

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

A marzo si vota anche in Russia, non solo in Italia. A Mosca le cose non sembrano così incerte come a Roma: la rielezione di Vladimir Putin a presidente della Federazione Russa sembra scontata. Ma, dopo le mosse dei grandi attori mondiali a Davos sul commercio internazionale, sul protezionismo e sui futuri scenari finanziari internazionali, ciò che avviene in Russia merita una più attenta disamina che vada oltre i soliti argomenti ideologici e mediatici.   C’è l’ala cosiddetta liberale, o meglio dire liberista, guidata dall’ex ministro delle Finanze, Alexey Kudrin, che fa affidamento sulle sanzioni economiche votate dal Congresso americano lo scorso luglio per indebolire Putin. Si ricordi che il dato più rilevante delle sanzioni è quello finanziario che sarà reso operativo prima delle elezioni russe.

A seguito all’ordine presidenziale di Trump, il Tesoro americano ha stilato un “Rapporto sul Cremlino” mettendo nel “mirino” oltre 200 alti funzionari ed uomini d’affari russi. Il Ministero del Tesoro ha il potere di blocco e di sequestro dei fondi detenuti all’estero dai grandi magnati russi. Fondi che si calcolano in circa mille miliardi di dollari. Le sanzioni americane sono molto mirate su ben determinati personaggi e su certi settori economici. L’idea è di intimorirli, con la minaccia del sequestro dei beni, per spingerli ad abbandonare Putin e la Russia. Questa strategia dovrebbe mettere in presidente russo in un angolo, isolarlo dai detentori del potere economico, per poi politicamente sconfiggerlo.

Come reazione alle sanzioni economiche, invece, è nato un movimento chiamato “Ryvok – Ripartenza” che si sta muovendo per far rimpatriare in vari modi i soldi russi portati o lasciati nelle banche internazionali o nei paradisi fiscali. Sembra che questo movimento abbia il sostegno di Putin e di molti potenti manager delle grandi corporation russe pubblico-private. I leader politici di “Ripartenza” sono membri del partito “Russia Unita” (il partito di Putin), come il deputato della Duma, Denis Kravchenko. Tra gli ispiratori di questo movimento vi sono noti economisti e uomini di cultura, tra cui il prof. Yury Gromiko e il prof. Yury Krupnov, che sono stati gli ideatori del grande progetto di sviluppo infrastrutturale euroasiatico conosciuto come “Razvitie”. Si rammenti che tale progetto sarebbe il parallelo russo della “Belt and Road Initiative”, la nuova via della seta cinese relativa alle grandi infrastrutture continentali.

Le sanzioni contro la Russia, purtroppo, stanno mettendo in discussione la sicurezza economica e quindi la tolleranza verso gli evasori. Di ciò risente anche l’elite russa. Il manifesto di “Ripartenza” contiene un ultimatum: riportare i soldi offshore a casa per investimenti produttivi nell’economia oppure lasciare le posizioni di potere detenute in Russia. Il movimento popolare chiede anche il carcere per chi, illegalmente e contro gli interessi del paese, vuole continuare a mantenere o portare i soldi all’estero. Inoltre si punterebbe a correggere anche l’intero processo di privatizzazioni dell’industria di Stato fatto ai tempi di Yeltsin.

Per accelerare il rientro dei capitali, transitoriamente si permetterebbe che essi vengano depositati nelle banche svizzere con la condizione che siano trasformati in fondi di investimento e di sviluppo da destinare all’economia russa. Tali fondi dovrebbero finanziare dei project bond per investimenti nei vari settori del sistema produttivo russo, con l’esclusione del petrolio e del gas perché ritenuti da “Ripartenza” una “droga” dell’economia.   In conclusione, le sanzioni finanziarie stanno provocando all’interno della Federazione Russa non un danno ma un effetto boomerang non previsto da coloro che le hanno volute.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Le Borse sono ostaggio dei computer speculatori mentre la Cina impone nuove sfide all’Europa

LE BORSE OSTAGGIO DI COMPUTER-SPECULATORI

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Si stima che le operazioni “high frequency trading”, le transazioni ad alta frequenza, rappresentino il 70% di tutte le transazioni borsistiche negli Usa e circa il 40% di quelle effettuate in Europa. In Italia la Consob nel 2012 le quantificava intorno al 14% di tutte le contrattazioni. Tali operazioni avvengono tramite sofisticatissimi software ultra veloci, guidati da complicati algoritmi matematici, e con l’intento di lucrare su piccolissime variazioni di valore.

Gli speculatori operano sui mercati di azioni, obbligazioni, strumenti derivati e commodities generando enormi quantità di transazioni giornaliere e utilizzano la strategia HFT per trasformare anche margini minimi in forti guadagni.

Il metodo più frequente è quello di utilizzare supercomputer che operano in micro secondi piazzando i propri ordini in anticipo rispetto alle grosse transazioni con un evidente e notevole vantaggio sui grandi investitori istituzionali come i fondi comuni, i fondi pensione o le stesse banche. Ciò permette di conoscere e anticipare la direzione della domanda, dell’offerta e dei prezzi. Sarebbe una sorta di “insider trading automatico”, contrattazioni fatte sfruttando sistemi accessibili solo ad operatori privilegiati.

E’ ciò che accadeva lo scorso venerdì 2 ottobre. Alle 14.30 l’euro si cambiava a 1,115 verso il dollaro, mezz’ora dopo arrivava a 1,27. L’oro, da 1.109 dollari l’oncia, un’ora dopo saliva a 1.140. In meno di un’ora quindi i mercati erano stati colpiti da scosse improvvise e da modificazioni profonde.

Era successo che il governo americano aveva semplicemente dichiarato che l’aumento dell’occupazione nel mese di settembre era stato inferiore alle aspettative. Tale annuncio ha fatto temere che l’aumento del costo del denaro da parte della Fed, di cui si stava parlando, sarebbe potuto slittare. Teoricamente, quindi, il dollaro si sarebbe indebolito nei confronti dell’euro e la domanda di oro sarebbe cresciuta.

Qualche secondo prima dell’annuncio governativo relativo al dato occupazionale si erano messi in moto i grandi operatori finanziari, tra cui la Goldman Sachs e la Morgan Stanley, che intervengono sui mercati con le suddette operazioni HFT.

Operazioni HFT sono fatte ogni minuto, ma si mettono in azione in modo più sistematico e potenzialmente devastante ogni qualvolta si presenti una decisione o una valutazione con importanti conseguenze di politica economica.

Ci sono anche transazioni HFT molto complicate, spesso nemmeno controllate dagli stessi speculatori. Come avvenne il 6 maggio 2010 quando i programmi HFT impazzirono e i computer, in automatico, provocarono in pochi minuti il tracollo di 700 punti dell’indice Dow Jones.

Quel giorno il mondo venne a conoscenza che i mercati finanziari e monetari non erano più quelli delle contrattazioni “alle grida” visti centinaia di volte nei film di Hollywood ma erano passati sotto il controllo del “grande fratello” informatico, quello dei super computer programmati ad operare in automatico.

Ovviamente anche in questo campo mancano le regole, nonostante in molti Paesi vengano applicate sanzioni e multe e vengano fatte indagini per insider trading o per manipolazione dei prezzi.

Non mancano i fautori del nuovo corso. Essi sostengono che la stragrande maggioranza delle transazioni sono perfettamente legittime, difendono l’HFT come un fattore di efficienza dei mercati, che li rende più liquidi abbassando i costi del singolo investimento. Si afferma che gli operatori del mercato sono i primi interessati alla regolarità e all’autodisciplina. Anche Alan Greenspan, l’ex governatore della Fed, lo diceva a proposito dei banchieri fino al 2007.

Secondo noi non si possono lasciare i mercati finanziari ancora una volta in ostaggio di speculatori e di computer con il “pilota automatico”. E’ anche comprensibile che le economie sottoposte alla spada di Damocle di una finanza senza regole non garantiscono il futuro di sicurezza e di sviluppo cui legittimamente tutti aspiriamo.

LA CINA E LE NUOVE SFIDE ECONOMICHE ER L’EUROPA

L’11 dicembre 2016 tutti i Paesi membri dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) dovrebbero ufficialmente garantire alla Cina il cosiddetto “market economy status” (MES). Dovrebbero cioè riconoscerle di essere diventata a tutti gli effetti una economia di mercato. E’ la stessa “qualifica” che hanno gli Usa e i Paesi dell’Unione Europea. In verità dovrebbe essere un riconoscimento automatico per ogni Paese aderente all’OMC.

Fino a quella data la Cina è considerata una “non market economy” . Di conseguenza i Paesi importatori di semilavorati o di prodotti industriali cinesi possono imporre dei dazi e delle tariffe protettive contro eventuali azioni di dumping. Di fatto, per abbattere i prezzi di vendita e vincere la concorrenza, la Cina ha spesso sfruttato una serie di condizioni speciali, quali il basso costo del lavoro, la mancanza di controlli stringenti sulla qualità, varie forme di sussidi di stato e altre importanti agevolazioni statali. Ciò ha determinato la chiusura di numerose aziende europee, alcune anche italiane, in quanto non più in grado di competere con i prezzi “super cheap” della Cina.

Perciò attualmente in Europa è in corso un grande dibattito sulla convenienza del riconoscimento MES alla Cina. Al riguardo vi sono anche posizioni estreme. Però nel frattempo si susseguono ricerche e analisi per valutarne le conseguenze sull’occupazione e sull’industria europea.

In uno studio preparato dall’Economic Policy Institute di Washington si fanno delle proiezioni, in verità un po’ troppo semplici e lineari, basate sulla ipotesi di un aumento di importazioni europee dalla Cina del 25% e del 50%. Se tali percentuali astratte diventassero realtà, si stima che nel giro di 3-5 anni l’Unione europea potrebbe perdere tra 1,7 e 3,5 milioni di posti di lavoro e veder diminuire la sua produzione annuale tra 114 e 228 miliardi di euro, rispettivamente pari all’1 e al 2% del Pil dell’Ue. In ordine, i Paesi più colpiti sarebbero Germania, Italia, Gran Bretagna e Francia.

Come è noto, il commercio tra l’Unione Europea e la Cina è cresciuto in modo esponenziale negli ultimi 15 anni. Le importazioni europee sono aumentate di 5 volte passando da 74,6 a 359,6 miliardi di euro. Anche le esportazioni verso la Cina sono cresciute ad un tasso molto significativo. Ciò nondimeno a fine 2015 il deficit commerciale europeo con la Cina dovrebbe essere di 182,8 miliardi di euro.

E’ interessante notare che la pressione più forte sull’Europa a non concedere il MES alla Cina venga dagli USA. Da chi, per anni, ha agevolato grandi importazioni e permesso stratosferici deficit commerciali in cambio di acquisti di grandi quote di debito pubblico americano da parte della Cina.

Il Wall Street Journal ammonisce l’Europa: rischiate di restare senza protezioni. Si rammenti che, quando si garantisce il MES ad una economia, le autorità anti dumping degli altri Paesi possono iniziare delle indagini soltanto partendo dal presupposto che i prezzi e i costi di quella economia sono determinati dal mercato e non in altro modo.

Noi crediamo che l’Europa possa e debba affrontare questa sfida senza doversi chiudere a riccio. Del resto rifiutare il MES alla Cina equivarrebbe a far ritornare indietro le lancette della storia. In verità è da tempo che occorre una grande riforma dell’OMC piuttosto che il suo blocco. Temiamo che, oltre alla guerra monetaria in corso, vi sia anche chi auspica una anacronistica guerra commerciale.

Né si può ignorare che la Cina sta entrando in una fase di grandi cambiamenti interni relativi al lavoro, ai diritti civili, alla qualità della vita, all’ambiente, al crescente ruolo del settore privato e alla trasformazione del ruolo dello Stato. Sono evoluzioni inevitabili che abbiamo vissuto anche noi in Europa nei decenni passati. Ovviamente tutto ciò porterà a dei profondi mutamenti, oltre che nella società, anche sui suoi costi economici e sugli standard produttivi.

L’Europa poi non è lasciata senza una rete di protezione. Diventare un Paese MES vuol dire anche sottoporsi progressivamente agli stessi parametri di garanzia e di sicurezza usati in Europa. Si rammenti che il mercato europeo è accessibile soltanto a chi risponde agli standard europei richiesti per legge. Standard che devono essere rispettati sia da produttori europei che da quelli stranieri.

In questa prospettiva l’Europa potrà meglio definire il proprio protagonismo nella realizzazione, insieme ai cinesi e non solo, delle grandi opere infrastrutturali nel continente euroasiatico, a partire dalla Nuova Via della Seta di cui si parla.

*già sottosegretario all’Economia

**economista

ATTENTI ALLA SPECULAZIONE FINANZIARIA CONTRO LA CINA!

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

*già sottosegretario all’Economia; **economista

In Cina il fuoco che si nasconde sotto la cenere è molto più pericoloso della fiammata che si è vista di recente nella borsa di Shanghai. I media hanno riportato il fatto eclatante del crollo delle quotazioni e dei titoli sospesi senza cercare di rispondere alle inevitabili domande: Qual è la causa? Chi lo ha provocato? E perché?

Certamente è stato un evento potenzialmente sconvolgente. Dal 12 giugno al 9 luglio il mercato azionario cinese ha perso il 30% cancellando circa 3 trilioni di dollari di capitale. E’ da evidenziare che dopo l’intervento delle autorità monetarie con l’immissione di nuova liquidità per circa 200 miliardi di dollari, la borsa è risalita del 17%. Sono anche in corso indagini per “scovare” gli speculatori che hanno giocato a breve sulla caduta della borsa.

Ovviamente il fuoco non è stato estinto in modo sicuro e definitivo. Le varie bolle finanziarie dei settori privati dell’economia sono il problema numero uno della Cina. Essa ha un debito pubblico – il 43% del Pil – contenuto se paragonato a quello dei Paesi occidentali. Ma il debito delle imprese private (corporate) è pari al 160% del Pil nazionale, che è di circa 11 trilioni di dollari.

Si stima che nei prossimi 4 anni la Cina potrebbe avere bisogno di piazzare titoli di debito, tra nuovi e vecchi da rinnovare, per oltre 20 trilioni di dollari. Anche la bolla immobiliare, come rivelano le tante città fantasma costruite e non abitate, potrebbe diventare una bomba ad orologeria.

Sono situazioni di indubbia pericolosità ma minore rispetto a quella americana.

Infatti il livello totale del debito cinese, pubblico e privato, è inferiore a quello statunitense, a quello giapponese e a quello di tante altre economie europee. Vi è una differenza sostanziale nell’andamento dell’economia real che in Cina, nonostante una riduzione rispetto ai livelli altissimi degli anni passati, fa ancora registrare una crescita intorno al 7% del Pil.

I dati del commercio estero cinese sono straordinariamente positivi. Solo nei primi sei mesi di quest’anno il surplus commerciale nel settore della produzione di beni è stato pari a 260 miliardi di dollari, un vero boom se lo si raffronta con i 100 miliardi dello stesso periodo del 2014. Mentre gli Usa, nella prima metà del 2015, registrano un deficit nella bilancia commerciale (beni e servizi) di circa 250 miliardi.

E’ sul fronte geoeconomico e geopolitico che la Cina sta operando profondissimi cambiamenti e innovazioni, soprattutto nel contesto dell’alleanza dei BRICS. Forse non è un caso che il crollo della borsa di Shanghai sia avvenuto mentre la nuova Asian Infrastructure Investment Bank apriva ufficialmente i suoi uffici e le sue attività a Pechino. Si ricordi che l’AIIB, con un capitale iniziale di 100 miliardi di dollari, diventa il principale istituto di credito per promuovere la modernizzazione e la infrastrutturazione dell’intero continente asiatico, cominciando con la realizzazione del progetto della Nuova Via della Seta.

Nel frattempo, mentre gli Usa, con una troppo accondiscendente Unione europea, conducono una destabilizzante campagna di sanzioni economiche contro la Russia, la Cina mantiene un atteggiamento indipendente e completamente differente. La prova più eclatante è l’accordo trentennale di acquisto di gas russo per una valore di 400 miliardi di dollari, da “regolarsi” non più in valuta americana ma nelle loro monete nazionali.

Secondo noi il cambiamento più profondo è la decisione cinese, silenziosa e non discussa dai grandi media, di rivedere progressivamente la composizione delle sue riserve monetarie e di ridurre l’ammontare dei titoli americani in suo possesso. Nel mese di giugno ha acquistato 600 tonnellate di oro mentre si stima che nel secondo trimestre 2015 le sue riserve in valuta estera siano scese di 140-160 miliardi di dollari, come dimostra il freno agli acquisti cinesi di nuovi Treasury bond USA.

Tutto ciò spiegherebbe l’intento di qualcuno di frenare il nuovo corso della Cina con un avviso a non uscire dai vecchi binari e dai vecchi accordi.

Perciò occorre capire meglio chi ha promosso e cavalcato l’onda della succitata speculazione. La Jp Morgan City e la Goldman Sachs hanno riconosciuto pubblicamente che la Cina da un po’ di tempo ha abbandonato la consueta regola di acquistare con il suo surplus commerciale i titoli di stato americano.

Le agenzie di rating, a cominciare con la Standard & Poor’s, parlano di “rapida crescita del debito, opacità del rischio, alta percentuale tra debito e Pil, azzardo morale” in Cina. Sono le classiche “parole in codice” usate anche altrove, sempre poco prima di una attacco speculativo. La Banca Mondiale ha parlato del mercato cinese come “squilibrato, represso, costoso da mantenere e potenzialmente instabile”. Un giudizio poco dopo ritirato, asserendo che la sua pubblicazione era il frutto di un errore.

Una cosa è certa: giocare allo scontro o solo alla speculazione contro la Cina potrebbe avere degli effetti devastanti sull’intero sistema finanziario mondiale, potenzialmente maggiori della crisi del 2007-8. Una ragione di più per definire in sede internazionale accordi stringenti per regolamentare il sistema finanziario, almeno i suoi aspetti deteriori, quelli fortemente speculativi che incidono non solo sulla stabilità sociale ed economica di interi Paesi ma anche sugli assetti geopolitici mondiali.

COGLIERE AL VOLO COME LA GERMANIA L’OPPORTUNITA’ DI PARTECIPARE AL GRANDE SVILUPPO INFRASTRUTTURALE DEL KAZAKHSTAN. CHE NEL 2017 OSPITERA’ L’EXPO’ SUL TEMA “ENERGIA DEL FUTURO”

Sviluppo infrastrutturale del Kazakhstan: grande opportunità per il “Sistema Italia”

Mario Lettieri* Paolo Raimondi** 

L’Italia dopo l’Expo 2015 di Milano passerà il “testimone” al Kazakhstan che nel 2017 ad Astana organizzerà l’Expo internazionale specializzato dedicato all’“Energia del futuro”. Questo fatto potrebbe diventare un’occasione privilegiata di dialogo con il governo kazako. Occorre che l’Italia, in quanto “sistema Paese”, coinvolga attivamente, secondo noi già da ora, le autorità di Astana con cui preparare insieme i progetti per il futuro.

Potrebbe essere per il nostro Paese l’occasione per allargare gli sbocchi e l’export, in particolare nei settori delle tecnologie, dell’agro-industriale e del nostro più qualificato made in Italy. Del resto, come è noto, il Kazakhstan è già un partner amico. Ora può diventare un alleato strategico.

Il Kazakhstan con una popolazione di 17 milioni di abitanti e un territorio vastissimo di circa 2 milioni e 700 mila kilometri quadrati è il cuore dell’Eurasia, ricco di materie prime, a cominciare dal petrolio e dal gas. Continua a leggere

Samarcanda. E non solo….

La prima cosa che colpisce arrivando in Uzbekistan, Paese musulmano ma repubblica laica, è che le donne non portano il velo. E hanno gli stessi diritti degli uomini. Pensandoci bene, non lo portano in nessun Paese musulmano dell’ex Unione Sovietica, mentre lo portano invece in tutti i Paesi islamici che hanno patito la colonizzazione europea. Nei Paesi musulmani dell’ex Unione Sovietica il fondamentalismo non attecchisce, tanto meno le sue  diramazioni eversivo terroristiche,, e se fa capolino viene combattuto rapidamente, senza se e senza ma, come è avvenuto proprio in Uzbekistan. Tutto ciò è l’ennesima prova che a spingere i musulmani verso un’interpretazione restrittiva, e a volte fanatica, della loro religione è solo la reazione al violento dominio subìto sotto il tallone europeo e quindi cristiano. Una reazione rinfocolata dalle troppe umiliazioni inflitte ancora oggi dall’Occidente neocolonialista, Stati Uniti in testa, che spinge scientemente quei Paesi verso il fanatismo religioso per poter meglio mobilitare le proprie opinioni pubbliche a favore del duro confronto col mondo islamico. Confronto che rischia di diventare scontro: “scontro di civiltà”, anche se a ben vedere lo vogliono le reciproche inciviltà…

La repubblica uzbeka è tanto laica da avere affittato agli Usa una grande base militare con annesso aeroporto dal quale partivano gli aerei per andare a bombardare il confinante Afganistan, musulmano anch’esso ma assai più retrivo. Poi però la repubblica uzbeka gli americani li ha sfrattati, forse percheé ha capito la reale strategia degli Usa: il solito vecchio “divide et impera” applicato all’Asia centrale. Uno sfratto che è un lusso reso possibile dal  fatto che l’Uzbekistan è talmente ricco di gas, avviato anche in Europa via Russia, da non avere bisogno di entrate straordinarie che alla lunga creano più problemi di quanti ne risolvano. Continua a leggere

Berlusconi e Travaglio uniti: contro i palestinesi. Papino il Breve seppellisce Obama del Cairo e medita di comprarsi l’Eni spendendo però il meno possibile. Ecco perché gli serve danneggiarla con il demenziale ordine di abbandonare l’Iran, il nostro maggiore fornitore di petrolio: per far calare il prezzo dell’oro nero in Borsa. E se in Italia ci scappasse l’attentato sarebbe l’occasione buona per passare dalle leggi ad personam alle leggi speciali. E’ il Partito dell’Amore, bellezza!

In Israele il nostro capo del governo Silvio Berlusconi ha dato il meglio di sé, cioè a dire il peggio in assoluto. Sulla spinta verso il cielo dei suoi fenomenali tacchi non ha saputo resistere alla tentazione di sentirsi più vicino al Dio della bibbia aggiungendo di getto al testo del discorso scritto l’infelice e indecente frase “La reazione di Israele a Gaza è stata giusta”. Oltre che l’ONU, una bella fetta della stessa popolazione israeliana, compreso un bel gruppo di militari che a Gaza c’erano, tutti sanno che la reazione contro Gaza non è stata affatto “giusta”. Ho dimostrato in una precedente puntata del blog che massacrare in due settimane 1.400 persone su un totale di 1.400.000 abitanti equivale a massacrare l’1 per mille dell’intera popolazione. In appena due settimane! E ho dimostrato che neppure l’intera campagna angloamericana di bombardamenti incendiari sulle città tedesche è arrivata a tanto, e in un periodo 50 volte più lungo. Con la sua bella improvvisata il Chiavalier Papino il Breve ha sotterrato Obama e il suo discorso de Il Cairo, peraltro cadavere già sotterrato da Netanyahu. Diciamo che Berlusconi ne ha sigillato la tomba.
Non vorrei essere nei panni di Marco Travaglio, o del Paolo Guzzanti riciclato nè di altri maestrini “di sinistra”, antiberlusconisti a tutto volume, ma per quanto riguarda Gaza berlusconissimi e filo mattanza anche loro. Travaglio col suo solito tono professorin-ieratico ha subito messo in chiaro nel suo blog, non appena i carri armati e i bombardamenti si sono messi in moto, che quella di Israele non era una guerra offensiva, ma una giusta operazione difensiva. Capisco che oggi è ormai impossibile non dico fare carriera ma anche solo non essere soffocati se non ci si inchina verso chi ha in mano gli assi, però certi eccessi andrebbero evitati. Guzzanti nel suo blog modestamente intitolato “Rivoluzione italiana” ha addirittura augurato a Israele  “buona guerra” contro Gaza, festeggiandola o supportandola con pacifiste del calibro di Fiamma Nierenstein, la vera vincitrice di questa fase politica.
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