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Naturalezza e finzione

Qualunque ripresa televisiva o cinematografica o anche solo amatoriale, con una propria videocamera, rende automaticamente innaturale qualunque scena, a prescindere dal fatto che uno sappia o no di stare recitando una parte. Chi sa d’essere ripreso non può fingere di non saperlo e chi viene ripreso senza saperlo rende innaturale la visione da parte dello spettatore, che assomiglia a una sorta di “guardone”.

Quindi quanto più l’attore si sforza di apparire naturale, tanto più mente. Sforzarsi d’apparire naturali è indubbiamente una contraddizione in termini, eppure è la prima cosa che chiedono i registi. Per essere convincenti, non bisogna far vedere che si sta recitando.

Ancora oggi apprezziamo la naturalezza di una recitazione, anche se preferiamo che sia almeno sufficientemente realistica la storia rappresentata. Non storciamo più il naso quando vediamo che gli attori vengono presi dagli ambienti o dalle situazioni che il regista vuole rappresentare: siamo disposti a chiudere un occhio quando manca una particolare professionalità, a condizione però che la vicenda sia credibile. In tal caso gli attori saranno bravi nella misura in cui sapranno recitare se stessi.

Certo è che, essendo abituato alla finzione scenica, il pubblico stenta a credere nella naturalezza di ciò che vede. L’unica naturalezza possibile sembra essere diventata solo quella che si osserva de visu, cioè in prima persona, senza artifici meccanici, digitali, scenici o recitativi. Il fatto è però che non esiste alcun criterio probante in grado di garantire tale naturalezza. Chiunque può recitare senza essere un attore e oggi sembra che lo sappiano fare tutti.

La verità non è mai un’evidenza che possa essere facilmente constatata. Non può esserlo proprio perché l’essere umano è libero di natura. Cioè deve essere lasciato libero di credere o di non credere in ciò che vede, in ciò che vive.

Bisognerebbe quindi evitare che uno facesse l’attore, per il suo stesso bene, oltre che per quello del pubblico. Infatti, quando uno si abitua a mentire, non può sperare d’essere creduto se dice la verità.

Nell’antichità mettevano una maschera sul volto degli attori. In questo modo si dava più risalto a ciò che dicevano che non al modo. E poi ciò che dicevano, nella sostanza, lo si conosceva già. Si raccontavano storie che facevano parte del background culturale del pubblico e degli stessi attori e autori. La tragedia o la commedia si poneva solo come variazione di un tema già noto. La recitazione era certamente importante, ma non più della storia o del mito da raccontare. Dietro una maschera vi poteva essere chiunque. Nel mondo greco persino le parti femminili erano recitate dagli uomini.

Oggi invece è il volto stesso che deve diventare una maschera. Per essere credibili ci si deve spersonalizzare dentro, nell’animo. Si deve essere totalmente indifferenti ai sentimenti, alle passioni, alla verità. Tutto va recitato con la massima disinvoltura, che, in tal caso, coincide con la massima finzione. Bisogna essere buoni o cattivi, sinceri o ipocriti con la medesima naturalezza.

All’attore si chiede d’essere alienato come un folle. Il problema è che alla fine lo diventa davvero. A forza di recitare col proprio volto, con la propria persona una qualunque parte, uno non sa più chi è. Ciò che un regista considera talentuoso o pregevole, diventa quanto di più innaturale vi sia.

Una volta si chiedeva all’attore, per poter sembrare naturale, di non guardare mai la telecamera. Oggi invece i politici pretendono d’essere naturali proprio mentre la guardano fissi, e la telecamera può essere anche una sola, posta davanti a loro. E la naturalezza sta nel fatto che parlano come se fossero in casa di chi li ascolta, come se avessero di fronte a loro un pubblico in carne e ossa.

Il politico diventa regista e attore di se stesso. Può anche avvalersi di uno staff di psicologi della comunicazione e fare della propria vita politica un film. Negli Usa si è così abituati alla finzione, che appare del tutto normale che un attore possa diventare governatore di uno Stato o addirittura presidente della nazione. Ed è del tutto naturale che un presidente parli come un attore.

Che reazione può avere un pubblico quando per molto tempo viene abituato a credere che non esiste differenza tra verità e finzione? I nazisti dicevano che quante più volte si ripete una menzogna, tante più possibilità vi sono che il pubblico vi creda.

Oggi invece il potere costituito preferisce che il pubblico non creda ad alcunché in particolare. Infatti, se tutto è relativo, nessuno può pretendere di avere la verità, quindi il potere diventa inattaccabile.

Chi dispone dei mezzi comunicativi può davvero fare quello che vuole: può facilmente mettere nella condizione di non essere credibile anche chi contesta il sistema con tutte le ragioni più giuste di questo mondo. Se si è abituati a non credere più in nulla, al potere restano comunque in mano i mass-media, con cui può sempre scegliere il momento in cui dire che, per una determinata ragione, è ora di cominciare a credere in qualcosa.

Ecco perché i mezzi di comunicazione vanno tenuti spenti. Ecco perché gli uomini devono tornare a frequentarsi di persona, ricostruendo una reciproca fiducia.

Sonno, sogno e risveglio

Se il sonno è una raffigurazione simbolica della morte, il risveglio lo è della rinascita. In mezzo vi è il sogno, che esprime l’esigenza di una riconciliazione tra morte e rinascita. Nel sogno si rivivono desideri repressi, frustrazioni, paure, angosce, sensi di colpa, ritorni al passato, incontri con persone morte, pianti, pentimenti…: nel sogno c’è tutta la vita, a cui bisogna dare un significato complessivo, che racchiuda tutto e permetta di risvegliarsi con soddisfazione. Anche adesso, appena ci si sveglia, si ha voglia d’iniziare una nuova giornata, sempre che la vita abbia per noi un senso e che non sia vissuta in uno stress insopportabile.

Quindi dopo la morte dobbiamo aspettarci un seguito, qualcosa da fare. Ma in che senso? Ripercorrere il passato, per poter andare avanti, fino a che punto è giusto? Il passato può essere ricompreso, memorizzato adeguatamente, ma non ha senso riviverlo: si deve proseguire il cammino nelle nuove condizioni di vita che ci verranno date e che sicuramente avranno forme diverse da quelle attuali.

Non è inutile o superfluo il tempo vissuto sulla terra, poiché sarà proprio dalla fine del nostro tempo che dovremo ripartire. Non ha senso ripetere le cose: sarebbe come burlarsi della nostra intelligenza.  Se abbiamo sbagliato, verremo messi in grado di capirne il motivo e, a tale scopo, ci basterà l’intelligenza o la sensibilità.

Faremo ammenda delle nostre colpe e ripartiremo, questa volta col piede giusto. Il problema, semmai, sarà per chi ha compiuto crimini orrendi, per i quali ha bisogno d’essere perdonato da chi li ha subiti. Le vittime devono mettere i carnefici in grado di perdonare se stessi. E finché non lo fanno, sarà difficile poter andare avanti: lo sarà sia per i carnefici che per le stesse vittime. Quest’ultime, infatti, devono sapere che il perdono concesso ai carnefici farà star bene anche loro. Il perdono serve a chi lo riceve e a chi lo dà. I sentimenti di odio e di vendetta o di risentimento non fanno fare neppure un passo in direzione dell’umanizzazione della personalità.

Di questa condizione di precarietà spirituale o d’impotenza morale dovremmo già essere edotti su questa terra. Tutti dovrebbero temerla, soprattutto i carnefici (assassini, violentatori, criminali…), i quali invece pensano di non dover rendere conto delle loro azioni alle vittime in persona. Cioè, al massimo, quando vengono smascherati o catturati, pensano di cavarsela di fronte alla giustizia. E la giustizia contribuisce a tale illusione, assegnando loro sentenze capitali o ergastoli o inducendoli al suicidio.

Tutti invece dovremmo essere consapevoli del fatto che la morte non esiste: esiste solo trasformazione, per cui bisogna rendere conto di sé proprio alle vittime, singolarmente prese. È bene sapere da subito che siamo destinati a vivere, in quanto l’essenza umana è eterna. E se non ci si riconcilia con queste vittime, ci si preclude la possibilità di migliorare se stessi. Si resta paralizzati nelle proprie colpe.

Il perdono, per quanta fatica possa costare, è solo una condizione minima, non è l’obiettivo finale. È certamente la condizione che ci permette di andare avanti, ma, una volta che la si è posta, il più resta ancora da fare. L’essere umano è fatto per realizzarsi facendo: non può stare fermo.

Bisogna dunque fare in modo che vittima e carnefice abbiano la possibilità di compiere qualcosa insieme, per il bene di entrambi e della collettività di appartenenza. Bisogna essere capaci di ammettere i propri errori, per riuscire a progettare il proprio futuro. Spesso anche la vittima deve farlo, poiché non deve illudersi che il fatto d’aver subito una gravissima offesa la esime dal compiere un esame di coscienza: si può essere colpevoli di cose di cui non si ha consapevolezza.

Chi non ha flessibilità è spacciato. Senza elasticità mentale, ci si emargina da soli. Rischiamo di diventare un’intelligenza sprecata, una risorsa inutilizzata. L’orgoglio smisurato di chi non è capace di riconoscere i propri errori, lo rende umanamente molto povero, psicologicamente fragile e anche intellettualmente schematico, fossilizzato nelle proprie idee, nelle proprie assurde posizioni di principio. Chi non comprende che nel cambiamento continuo sta il senso della vita, si condanna all’immobilismo, alla ristrettezza mentale.

Piuttosto bisognerà fare in modo che il perdono non sia di maniera, cioè puramente formale, e che avvenga nella convinzione d’aver compiuto un’azione effettivamente sbagliata. Ci vuole chiarezza per chiedere perdono e per essere perdonati. Si deve essere sicuri d’aver sbagliato. Ci vuole un senso della verità sufficientemente oggettivo, che vada cioè al di là delle convinzioni personali del carnefice e della sua vittima.

Ecco, in questo senso è giusto ricapitolare il passato, reinterpretarlo alla luce di una verità oggettiva. La quale certamente non può essere data come cosa esterna al soggetto, ipostatizzata: una verità oggettiva può scaturire solo da un confronto tra le persone. Non c’è nessun dio nell’universo, nessuno può sostituirsi a noi nella ricerca della verità.

La verità fa male a chi non sa mentire

Quando uno pone una domanda del genere: “Che cos’è la verità?”, vien da chiedersi se stia scherzando o se sia cinico. Neanche i bambini se la pongono, perché, nella loro beata innocenza, sanno istintivamente che cosa sia, relativamente al loro “piccolo mondo antico”, così tanto amato dal Pascoli “fanciullino”.

Possibile che un adulto debba essere così diverso da aver completamente dimenticato ciò che in lui era naturale? Uno che avesse coscienza di questa grave rimozione, assai peggiore di tutte quelle freudiane, dovrebbe preoccuparsene seriamente, chiedendosene quanto meno la ragione. E cercare di capire se vi sia qualche possibilità di rimedio.

La verità rende liberi, in coscienza naturalmente, avendo la vita bisogno anche della giustizia: lo sappiamo da millenni. Dunque perché viviamo come schiavi? Potremmo fare a meno di queste catene o vi siamo costretti? Possibile che la falsità sia diventata la regola e la verità l’eccezione?

Qui infatti non è neanche il caso di parlare di bugie dette a fin di bene; non è in discussione l’esigenza di non poter dire tutta la verità: cosa inevitabile quando, chi ci ascolta, non è sufficientemente maturo per reggerla. Qui non stiamo parlando di quelle mezze verità o mezze bugie che si dicono per non offendere qualcuno, per non apparire scortesi, per non creare incidenti diplomatici, per non mettere in imbarazzo o tradire un amico, per non sfigurare di fronte al proprio partner o per non farlo sentire in colpa.

Qui stiamo parlando del fatto che come apriamo bocca, mentiamo. Dire falsità ci è diventata una seconda natura, quasi un istinto insopprimibile. Siamo così bravi a farlo che anche la macchina della verità ci fa un baffo. Tant’è che nei processi americani non la considerano minimamente. In un paese dove gli attori diventano presidenti e i presidenti recitano come attori, farebbe ridere il contrario.

Insomma, ogni giorno che passa diamo sempre più per scontato che la verità non esiste, e quando qualcuno fa delle affermazioni probanti o persuasive, le consideriamo mere opinioni e siamo disposti a credervi solo se vi siamo indotti da qualcosa che è più forte di noi: p. es. un desiderio di rivalsa dopo anni e anni di frustrazioni o di promesse che altri non hanno mantenuto, in cui abbiamo creduto inutilmente. Non ci fidiamo di qualcuno perché pensiamo dica la verità o perché conduce una vita esemplare, ma perché gli altri ci disgustano.

Sapere che qualcuno dice la verità c’interessa fino a un certo punto. Quel che più ci preme, infatti, è sapere se da ciò che si è ascoltato, possiamo ricavarci qualcosa. Crediamo in certe affermazioni non perché le riteniamo vere, ma perché possono servirci: la verità sta nell’interesse o nell’utilità. Non esiste la verità in sé o, se esiste, non possiamo dirla, anzi, neppure vi riusciamo. Dobbiamo vivere come se non ci fosse. E non è sufficiente togliere l’interesse o l’utilità per farla emergere, perché in una società, anzi, in una civiltà individualistica e materialistica come la nostra, è impossibile farlo.

Quando si è reciprocamente nemici, bisogna anzitutto difendersi, e il primo modo di farlo è quello di mentire. La prima regola fondamentale per sopravvivere è quella di non dire mai quello che si pensa, anzi, possibilmente è meglio dire il contrario, e di farlo ripetutamente, affinché chi ci ascolta non abbia l’impressione che qualche volta mentiamo e qualche volta no. Dobbiamo essere coerenti nel male che facciamo, proprio per essere più credibili.

Dobbiamo far credere di dire la verità mentendo: questa è un’arte che si acquisisce solo con un certo addestramento. E se qualcuno ci scopre incoerenti, subito dobbiamo accusare qualcun altro o di averci frainteso o di averci impedito con la forza di realizzare i nostri sogni. Un capro espiatorio cui far scontare il peso delle nostre menzogne, si può sempre trovare.

A questo punto ci si può chiedere: si può continuare ad andare avanti così? Non stiamo forse rischiando di arrivare a un punto in cui qualunque cosa si dica, a prescindere dal ruolo che si ricopre, non verrà mai creduta? Pensiamo davvero che per credere nella verità sia sufficiente che qualcuno giuri sulla testa dei propri figli o, se ci crede, sulla Bibbia? È difficile pensare che uno, da sempre abituato a mentire, si possa spaventare davanti al giudizio di dio o a quello dei propri figli. Troverà sicuramente delle buone motivazioni per giustificarsi, e allora dovranno essere i figli o lo stesso padreterno ad ammettere di non averlo capito. Nessuna pena può impensierire il bugiardo incallito, a meno che noi, invece d’imitarlo, smettessimo di credergli.

In Italia, peraltro, quando mai qualcuno viene scoperto a mentire o si pente per le menzogne che ha detto? Nel migliore dei casi si patteggia, ma a porte chiuse, quelle del tribunale o della propria coscienza. Nei tribunali non esiste la verità, ma solo una posizione di comodo, in linea col rispetto puramente formale delle regole. Agli avvocati non interessa neppure “sapere la verità”, quanto di vincere la causa e intascare la parcella: il cliente viene tanto più difeso quanto più paga.

Ai processi dovrebbero chiedere agli imputati di pronunciare una formula di rito molto semplice: “Provi in coscienza a dire la verità e la Corte s’impegna a tenerne conto il più possibile”.

Verità e linguaggio

Il bambino comprende la madre e poi il padre perché li vede quotidianamente, ed è in grado di associare progressivamente le parole ai loro significati, che non sono solo significati concreti (oggettuali) ma anche astratti (emotivi).

Se il bambino li sentisse parlare senza poterli vedere, perché magari cieco, probabilmente ci metterebbe molto più tempo a capire gli aspetti astratti del linguaggio, ovvero la differenza tra semplici riferimenti oggettuali e complessi riferimenti emotivi. Un bambino cieco, per poter comprendere meglio il linguaggio astratto degli adulti, avrebbe continuamente bisogno d’essere toccato. In tal caso il contatto servirebbe come forma di rassicurazione.

Sotto questo aspetto tutte le religioni che presumono d’avere aspetti dogmatici nelle loro teorie non fanno altro che usare una intangibilità astratta per supplire alla mancanza di un contatto fisico con la divinità, che sanno bene di non poter avere (e che s’illudono d’avere nelle estasi mistiche). I credenti son come dei bambini ciechi con un corpo da adulto. E non si rendono conto che se la verità (in tal caso espressa attraverso il linguaggio) fosse una determinazione proveniente da una realtà totalmente esterna, come appunto una divinità, l’essere umano non riuscirebbe neppure a comprenderla.

Invece di dire che, se esiste un dio, non può in alcun modo essere più grande dell’uomo, almeno non negli aspetti di sostanza che qualificano l’essenza umana, i credenti preferiscono rimpicciolirsi al massimo, facendo della divinità un qualcosa di assolutamente sproporzionato, che, in ultima istanza, suscita sentimenti inquietanti, non avendo alcuna caratteristica umana.

Essi infatti s’immaginano un dio onnipotente e onnisciente, in grado di leggere i pensieri, di compiere qualunque cosa, di prevedere il futuro, di esprimere giudizi infallibili… Un dio del genere non potrebbe esistere neppure se ogni essere umano fosse destinato a diventare come lui. Infatti una condizione del genere è la negazione dell’elemento fondamentale che costituisce l’essenza umana, e cioè la libertà, soprattutto la libertà di coscienza.

E’ stato sicuramente per questo motivo che il politeismo non ha mai conosciuto il dogmatismo. Pur essendo la religione dello schiavismo e pur avendo quindi ogni motivo per elaborare dei dogmi con cui confermare la discriminazione sociale, il politeismo era ancora troppo vicino alla cultura pre-schiavistica per poterla offuscare del tutto. I miti greci, dove gli dèi hanno sempre la meglio su degli umani negativizzati, come p.es. Prometeo, quando non addirittura ridicolizzati, come nel caso di Polifemo, lo dimostrano eloquentemente: eppure quegli umani, nella realtà, cercavano disperatamente di non perdere la loro autonomia di pensiero e di azione.

La loro infatti era una cultura della libertà, che s’era dovuta piegare all’uso di quella forza che aveva prodotto la schiavitù, e che gli aristocratici latifondisti e guerrieri, insieme ai loro sacerdoti pagani, avevano fatto credere di poter conservare, illudendo schiavi e nullatenenti che sarebbe stato sufficiente coltivare infiniti culti a infinite divinità. A quel tempo era impossibile sostenere la pratica dello schiavismo giustificandolo con una religione monoteistica, caratterizzata dall’elaborazione di dogmi indiscutibili.

Il monoteismo è nato quando i rapporti con le culture primordiali erano stati del tutto dimenticati. A quel punto s’imponeva una duplice esigenza: quella di superare sia lo schiavismo che il politeismo. Purtroppo la storia ha voluto che il superamento dello schiavismo avvenisse non in direzione del recupero del comunismo primitivo, insieme all’ateismo naturalistico, ma in direzione di una transizione al servaggio, che ha appunto favorito l’evoluzione dal politeismo al monoteismo.

Il monoteismo appariva certamente come una forma più autoritaria di credenza, ma allo stesso tempo era anche più vicino alla condizione di un essere umano che, almeno formalmente, si sentiva più libero dello schiavo.

L’ulteriore passaggio dalla servitù al lavoro salariato del capitalismo ha comportato la trasformazione del monoteismo assoluto in un monoteismo privo di dogmi, liberamente interpretabile, cioè a una sorta di cripto-ateismo o di pratico agnosticismo, in cui s’impone una certa indifferenza alle verità dogmatiche. Questo spiega il motivo per cui il passaggio dal lavoro salariato a quello autogestito liberamente dovrà necessariamente comportare anche quello dall’agnosticismo religioso all’ateismo vero e proprio.

Il linguaggio quindi non può mai avere una connotazione religiosa che gli impedisca di evolversi. I dogmi sono una forma di ingenuità; e, in ogni caso, se può essere giusta l’esigenza di trovare delle definizioni più obiettive di altre, in quanto non esistono solo verità soggettive (personali), ma anche verità oggettive (collettive), non ha alcun senso perseguitare chi non le condivide. Usare i dogmi in chiave politica è un’aberrazione, di cui non s’è resa responsabile solo la chiesa romana ma anche i moderni totalitarismi.

Un collettivo può usare un dogma per espellere da sé chi non lo condivide, ma non può muovergli guerra. Peraltro chiunque dovrebbe sapere che i dogmi non si reggono in piedi da soli. Essi riflettono esperienze in atto, le quali, a loro volta, rispondono a bisogni e interessi specifici, e anche questi, col tempo, mutano enormemente.

Se proprio si volessero elaborare dei dogmi, sarebbe meglio farlo in maniera negativa, cioè apofatica, quella che viene usata non per affermare delle verità, ma per negare delle falsità, poiché tutti sanno che un’affermazione è allo stesso tempo una negazione che tende a escludere qualcosa che potrebbe col tempo rivelarsi molto importante.

Una negazione ha il pregio di lasciare aperto il campo a più possibilità. Se p.es. viene detto “non rubare”, sono infinite le possibilità in cui uno può vivere in maniera onesta. Se si dà invece una definizione astratta dell’onestà, che pretende d’essere, nella sua astrattezza, molto precisa, alla maniera filosofica o teologica, saranno infinite le obiezioni circa la sua effettiva applicabilità. Perché costringere gli uomini alle definizioni di una teoria quando sarebbe meglio lasciarli liberi nel cercare la pratica migliore?

Ecco perché bisogna sempre affermare che la verità è relativa, limitandosi, al massimo, a distinguere quella soggettiva, dell’individuo singolo, da quella oggettiva, decisa da istanze collettive, le quali devono dare per scontato che la verità assoluta è un obiettivo il cui raggiungimento non può certo essere stabilito a priori.

E’ possibile una verità storica?

La storia non può finire con l’esperienza terrena, poiché in questa dimensione la verità, nel senso pieno della parola, è impossibile. Finché esistono civiltà antagonistiche, i cui poteri dominanti decidono l’ideologia ufficiale, avendo il monopolio dei mezzi comunicativi, nessuna verità è possibile. Al massimo sono possibili delle “mezze verità” o delle critiche alle verità ufficiali del governo, delle istituzioni, ma la vera verità, quella che una volta si definiva “pura”, è fuori della nostra portata.

Possiamo soltanto avvicinarci ad essa, in maniera approssimativa, facendoci aiutare da chi ha una visione opposta a quella dei poteri dominanti, a quella di chi non tiene in alcun conto le classi marginali; ma dobbiamo farlo senza credervi ciecamente, poiché non c’è nulla che indichi la verità come un’evidenza. Infatti dobbiamo accontentarci di un’approssimazione per difetto. L’insieme sfugge alla nostra comprensione, anche se un lavoro d’équipe è certamente più significativo di quello del singolo, per quanto intelligente sia.

Il nostro giudizio è condizionato soprattutto da due fattori. Il primo è che quando gli aspetti privati confliggono con quelli pubblici, diventiamo cinici se preferiamo quelli pubblici (quanti grandi personaggi sono stati fatti fuori dalla cosiddetta “ragion di stato”? Socrate, Cristo, Tommaso Moro, sino al deputato Aldo Moro). Se invece preferiamo quelli privati diventiamo sentimentali, troppo condiscendenti.

I conflitti sociali di queste civiltà inducono a dare più importanza alla politica che alla morale, anche quando non si è politicamente impegnati; sicché la morale si guasta, subisce dei condizionamenti che le fanno perdere lo spessore umano. Chi fa politica per mera esigenza di potere fa diventare cinico anche chi non la fa, cioè anche chi preferisce dedicarsi agli affetti familiari, agli amici, ai propri hobby.

“Il potere logora chi non ce l’ha” – questa tristissima massima di uno dei principali protagonisti del delitto Moro, in fondo pesca nel vero, poiché nell’antagonismo sociale l’emarginato s’incattivisce, si disumanizza, perde la faccia di bronzo che caratterizza chi sta al potere, per il quale l’assenza di morale va vissuta con assoluta indifferenza.

Chi invece pensa che gli aspetti etici siano da coltivare molto di più di quelli politici, finisce col diventare ingenuo, col non capire fin dove si può spingere il cinismo della politica, dove la regola è quella di dire sempre il contrario di ciò che si pensa.

Il secondo fattore da considerare, che ci impedisce di avere una visione obiettiva delle cose, è il fatto che tendiamo a dare ragione a chi soffre, tendiamo a giustificarlo, anche quando sappiamo che politicamente ha torto. Gli aspetti umani ci commuovono, ci mettono in confusione e offuscano l’interpretazione obiettiva della realtà, quella che deve tener conto dei conflitti di classe, dei rapporti di proprietà. Quanti militari tedeschi sopravvissuti alla battaglia di Stalingrado hanno pianto i loro compagni perduti, senza rendersi conto del genocidio che stavano compiendo ai danni dei russi?

Ecco perché non siamo capaci di vera verità. Il fatto è purtroppo che non siamo automi, in grado di accontentarci di verità evidenti, di tipo matematico. E’ un bisogno della natura umana quello di conoscere il senso delle cose, quello profondo o “ultimo”. E sappiamo bene che se non riusciamo a soddisfarlo, meno ancora vi riusciranno le generazioni future, per quanto a volte la lontananza dagli interessi in gioco possa aiutare nella ricerca nella verità.

Noi rischiamo continuamente di compiere azioni di cui non saremo noi a vergognarci, ma le generazioni future, le quali, se e quando prenderanno consapevolezza dei nostri errori, non avranno modo di rinfacciarceli. Già faranno una fatica immane a scoprire le nostre falsificazioni, in quanto noi avremo lasciato loro un’interpretazione dei fatti del tutto edulcorata. Ma anche quando vi riuscissero, con chi se la prenderanno? Non è forse un’ingiustizia che una generazione compia impunemente degli abusi e ne scarichi le conseguenze sulle generazioni successive?

Questa mancanza di senso della storia non ci permetterà mai di raggiungere la verità. Ecco perché abbiamo bisogno di un’altra dimensione per chiarirci definitivamente, e chissà fino a che punto sarà possibile farlo a mente fredda: le cose a volte s’interiorizzano così tanto che neppure a grande distanza di tempo si riesce a metabolizzarle. Quando i sopravvissuti dei lager ricordano quello che hanno passato si commuovono ancora, come se fosse successo ieri, e si commuovono persino i loro figli, quanto i genitori sono morti già da tempo.

L’importante, sin da adesso, è non acquisire la psicologia della vittima innocente, quella di chi vuole reagire a tutti questi soprusi con spirito vendicativo. Noi non possiamo rischiare di comportarci peggio delle precedenti generazioni, anche se è nostro compito smascherare chi sostiene d’essersi comportato in una certa maniera per assicurarci un’esistenza dignitosa.

La sofferenza va relativizzata: di per sé essa non rende più vera la verità; anzi, il più delle volte la falsifica, poiché uno pensa che in nome del proprio dolore tutto gli sia lecito. Quando Dante incontrò Brunetto Latini e lo sentii inveire pesantemente contro i fiorentini, lui che, in fondo, da loro aveva ottenuto un danno alquanto modesto, così gli rispose: “Son pronto ad affrontare la sorte, qualunque cosa essa mi riservi, purché la mia coscienza non mi rimproveri” (Inferno, XV, 91-93).

Apparenza e realtà tra etica e scienza

Per millenni abbiano creduto vera un’apparenza – che fosse il sole a girarci intorno -, eppure siamo vissuti lo stesso e dignitosamente.

Sostenere che il progresso sia iniziato quando abbiamo scoperto la verità, sarebbe sciocco. Di per sé la verità scientifica non dice nulla sulla verità etica o filosofica o politica di una società, tanto meno sul suo “progresso”. Questa è una verità elementare ma sconosciuta, in genere, agli autori dei manuali scolastici di storia, che vedono il presente migliore del passato.

Il Medioevo non è più falso della Modernità perché più ignorante, né la Modernità è più vera perché più sapiente. L’ignoranza non ha alcun rapporto con la falsità. L’apparenza, di per sé, non è più falsa della realtà. Esiste forse materialmente l’arcobaleno? No, eppure lo vediamo e ci costruiamo sopra persino dei miti, proprio a causa di questa sua particolarità.

Se qualcuno, di fronte al cucchiaino spezzato in un bicchier d’acqua, ci spiega il fenomeno della rifrazione, noi forse smettiamo, solo per questo, d’avere una percezione magica della realtà? E allora perché c’illudiamo di poter pagare i nostri debiti col gioco d’azzardo o le lotterie o gli imbonitori alla Vanna Marchi? Perché pensiamo di poter un giorno recuperare le nostre perdite in borsa? Perché pensiamo che un semplice cambio di governo possa migliorare, stante l’attuale sistema, la nostra situazione disastrata? Perché usiamo le medicine come un toccasana miracoloso? E così via.

Semmai la falsità subentra quando si vuol negare che l’apparenza sia solo un’apparenza, ovvero che non possa o, peggio, non debba esistere una realtà opposta, cioè che non possa essere dimostrata un’altra verità, come appunto sosteneva la chiesa ai tempi di Galileo.

Oggi diciamo che l’ignoranza della verità non è ammessa, ma lo diciamo perché siamo illuministi e positivisti, cioè ideologici. Noi in realtà ci illudiamo che la verità etica possa dipendere da quella teoretica o gnoseologica. Ma son due cose del tutto separate, com’è giusto che sia.

Uno deve poter essere giudicato anche nella sua ignoranza, non in quanto ignorante, ma in rapporto al suo modo di vivere il bene. Il bene può essere vissuto anche nell’ignoranza.

Il bene è verità? Se lo è, allora la verità può anche essere ignorante. Il fatto di non sapere non può essere usato come scusa o pretesto per “non-essere”. Non è possibile dire: “Mi sono comportato male perché non sapevo”. La percezione del bene e del male va al di là della conoscenza della verità o della falsità.

Si può però dire: “Ora so quale sia la verità, cambierò atteggiamento”, cioè “se ho sbagliato in qualcosa, per mia ignoranza, rimedierò”. Ma una disponibilità del genere – bisogna ammetterlo – lascia supporre che anche l’errore in causa non fosse molto grave. Questo perché l’etica è sempre superiore alla gnoseologia, altrimenti non avremmo fatto alcun passo avanti rispetto alla Grecia classica, quando i filosofi dicevano che la colpa sta nell’ignoranza.

Nell’ignoranza esiste la buona fede, che viene sempre moralmente (benché non giuridicamente) giustificata, tant’è che diciamo: “errare è umano”, ma non per questo diciamo che un errore gnoseologico porta automaticamente a un errore del comportamento. Il male non viene prodotto dall’ignoranza in sé, ma da un modo sbagliato di vivere il bene, cosa possibile anche nella conoscenza della verità.

Un contadino cattolico, che ha sempre obbedito alle leggi e pagato le tasse, può odiare lo straniero islamico se gli viene fatto credere che può essere un suo nemico. Una persona buona può diventare cattiva nella sua ignoranza, ma non è la sua ignoranza che la fa diventare cattiva: è piuttosto l’abitudine a obbedire ciecamente, a fidarsi dei propri superiori, come in genere avveniva nel Medioevo, e se vogliamo anche oggi, nonostante la nostra sterminata conoscenza.

Tant’è che è vero anche il contrario, e cioè che non è la certezza del carattere inoffensivo dello straniero che ci porterà a non odiarlo. L’atteggiamento nei confronti del bene è soggetto a valutazioni che esulano dalla conoscenza della verità in senso stretto.

Gli indiani del Nord America sapevano bene che i bianchi mentivano quando firmavano i loro trattati, eppure, siccome erano abituati a credere nel valore della parola data, continuavano a credere nella verità di quei trattati e nella sincerità di chi li firmava; l’uomo bianco aveva la lingua biforcuta, ma l’indiano, nella sua ingenua buona fede, si sentiva in dovere di credere nelle promesse di lui: se voleva continuare a vivere nel bene, sentiva di non avere alternative.

E così il genocidio degli indiani non è stato solo uno sterminio della buona fede ma anche della verità e del bene in generale, al punto che oggi l’uomo bianco non sa più distinguere il bene dal male, e quando parla fa fatica a credere nelle sue stesse parole. La finzione s’è sostituita alla realtà, tanto che qualunque animale, nella semplicità dei suoi istinti, è diventato più “vero” di qualunque essere umano.

Siamo diventati falsi proprio nella nostra grande conoscenza, non perché la conoscenza renda falsi, ma perché quando non si vuol vivere il bene, quando non si vuole “essere”, non c’è conoscenza che tenga: la sua funzione si riduce soltanto a mistificare meglio il “non-essere”.

Ciò detto, resta da stabilire cosa s’intenda con la parola “bene”. Ma questo è un discorso che la filosofia non può fare, neppure la filosofia della morale o l’etica in generale. Per comprendere la natura del “bene”, bisogna storicizzarlo, calarsi nelle determinazioni di spazio e tempo, fare considerazioni che riguardano i comportamenti umani in senso stretto, che concernono discipline come l’economia, la politica ecc. Parlare del “bene” in astratto, senza considerare i rapporti di proprietà o i conflitti sociali, non serve a nulla.