Articoli

Amo Giovanni. Il vangelo ritrovato

Amo Giovanni precisa meglio la tesi del Cristo ateo e sovversivo affrontando estesamente il quarto vangelo, il più manipolato di tutti, proprio perché, originariamente, il più lontano dalla impostazione mistica del protovangelo marciano, che ha determinato la configurazione principale degli altri due sinottici. Il misticismo stava nel fatto che di fronte alla tomba vuota Pietro elaborò l’interpretazione della “resurrezione”, quando al massimo si sarebbe dovuto parlare di “strana scomparsa di un cadavere”, visto che l’unica cosa che avevano in mano era la sindone (che io considero autentica, in quanto le analisi scientifiche compiute sono troppo precise per ritenerla un falso medievale).

Il vangelo originario di Giovanni si può solo intravedere nell’attuale vangelo canonico, ma gli indizi sono sufficienti per capire che il Cristo non solo non aveva nulla di “religioso”, ma doveva anche essere un personaggio politicamente pericoloso per i poteri costituiti, in particolare per quello romano (che gli comminò non solo l’esecuzione capitale ma anche una pesantissima flagellazione, unitamente a varie torture) e per quello sadduceo, che gestiva il Tempio di Gerusalemme e che non poteva certo tollerare un intellettuale estraneo ai dogmi della fede.

Se l’impostazione cronologica di Giovanni è esatta, e noi pensiamo che lo sia, i tentativi insurrezionali del Cristo furono due: uno contro il Tempio, all’inizio della sua carriera politica, quando cercava l’appoggio degli esseni o dei seguaci del Battista, senza disdegnare quello dei farisei; l’altro nel corso dell’ingresso messianico, quando il tentativo insurrezionale era principalmente rivolto contro i romani e indirettamente contro i sadducei.

In entrambi i casi non si riuscì a realizzare nulla, per mancanza di coraggio decisionale nel momento cruciale della rivolta. Il Battista non ebbe il coraggio di occupare il Tempio pur tuonando contro i sacerdoti corrotti; il fariseo Nicodemo apprezzò il tentativo del Cristo, ma temeva la perdita dell’identità nazionale, che per i farisei era legata a tradizioni religiose consolidate; Giuda lo tradì probabilmente perché riteneva prematura la rivoluzione senza l’appoggio dei farisei.

Di particolare in Amo Giovanni è la convinzione che il Cristo non fosse affatto uno zelota, altrimenti avrebbe cercato di fare la rivoluzione quando i cinquemila galilei gliela chiesero sul monte Tabor. L’insurrezione doveva essere “nazionale”, basata su un’intesa tra giudei, galilei e samaritani, e non doveva avere riferimenti specifici alla religiosità, come si evince dal dialogo di Gesù con la samaritana, in cui per la prima volta si parla di “libertà di coscienza”. Cioè la rivoluzione popolare doveva andare al di là delle differenze di atteggiamento nei confronti delle idee religiose. Quindi viene esclusa a priori l’idea ch’egli volesse realizzare una sorta di “regno di dio”, di cui egli dovesse far la parte del monarca assoluto. Quando lo definivano il “messia”, chiedeva di non avvalorare questa convinzione, poiché nell’immaginario popolare voleva dire ritornare al passato “regno davidico”, tanto glorioso quanto dittatoriale.

Il suo obiettivo era quello di liberare la Palestina dall’occupante romano, che in quel periodo si trovava in gravi difficoltà, essendo appena avvenuto il passaggio dalla repubblica all’impero, e di liberarla dalla corruzione dei sacerdoti che gestivano il Tempio, il cui discredito era cosa nota, tant’è che il sommo sacerdote era una carica decisa da Roma.

L’idea era quella di tornare a una sorta di “comunismo primitivo”, in cui vigesse la democrazia e l’uguaglianza sociale. Oggi parleremmo di “democrazia diretta”, ma dovremmo escludere il parlamentarismo nazionale, in quanto una democrazia autentica può essere soltanto gestita da piccole comunità autonome, che cooperano tra loro liberamente, senza dover dipendere da alcuna entità esterna.

In formato cartaceo e digitale http://www.bibliotheka.it/Amo_Giovanni__Il_Vangelo_ritrovato_IT

Premessa al testo esegetico “Amo Giovanni”

C’è qualcosa di vero nelle fiabe per bambini? A volte sì, ma non sappiamo cosa, o almeno non lo sappiamo esattamente. La verità storica s’è persa col tempo, anche perché i poteri dominanti non avrebbero permesso di dare, alle loro vicende, delle versioni o interpretazioni diverse dalle proprie. Ecco perché è rimasta soltanto una verità morale, la quale, proprio perché destoricizzata, non è detto che abbia un riferimento preciso alla morale dei fatti realmente accaduti.

Prendiamo p.es. la fiaba di Biancaneve e i sette nani. Oggi è assodato ch’essa fa riferimento a una certa Maria Sofia von Erthal, nata a Lohr nella Bassa Franconia, in Baviera, nel 1725. Era figlia del principe Philipp Christoph von Erthal, rappresentante locale del principe elettore ecclesiastico di Magonza, uno dei sette preposti a scegliere l’imperatore del Sacro Romano-Germanico Impero. La madre, baronessa von Bettendorff, era morta nel 1738 e Philipp si era risposato nel 1743, quando Maria Sofia aveva 18 anni.

La seconda moglie, Claudia Elisabeth Maria von Venningen, contessa di Reichenstein, iniziò a usare la sua nuova posizione sociale per favorire i figli avuti dal precedente matrimonio, a scapito appunto di Maria Sofia, la quale, esasperata dalle vessazioni, decise di andarsene dal palazzo, diventando una specie di vagabonda in mezzo alla foresta limitrofa. Fu assistita da alcuni minatori, ch’erano bassi di statura, in quanto nella regione erano presenti molte miniere con dei cunicoli di non facile accesso. Tuttavia dopo pochi anni la ragazza morì di vaiolo, suscitando una certa avversione, da parte della popolazione locale, nei confronti della matrigna.

Il cosiddetto “specchio parlante” non era che un giocattolo acustico che il padre della ragazza aveva regalato alla seconda moglie: esso era in grado di registrare e riprodurre le frasi pronunciate da chi vi si specchiava. Esiste ancora oggi nel museo di Spessart nel castello di Lohr.

Quanto al veleno della mela, nella regione cresceva in abbondanza una pianta chiamata “solanum”, il cui veleno veniva usato nelle farmacie.

Invece la bara di cristallo, in cui nel racconto viene deposta Biancaneve, fa riferimento a famose vetrerie e cristallerie della regione.

Il fatto che nella fiaba venga detto che la matrigna aveva un carattere orribile o interessi egoistici di per sé non è certo sufficiente a spiegare che, nell’ambito della classe sociale cui essa apparteneva, tali atteggiamenti non erano certo inconsueti, soprattutto quando si doveva decidere il destino dei figli legittimi o naturali, dei primogeniti o dei cadetti, dei figli di primo o di secondo letto, dei figli maschi o delle femmine, e così via.

Nelle fiabe la critica sociale è ridotta a una critica morale, proprio perché non si poteva fare diversamente, se si voleva che un determinato testo potesse essere divulgato. Nei vangeli la cosa non è molto diversa. Qui è Gesù che viene fatto risorgere dal Padre, là è Biancaneve che viene risvegliata con un bacio dal principe azzurro.

Tutto ciò per dire che i vangeli sono falsi per necessità. Sono scritti da ebrei (o simpatizzanti dell’ebraismo, come Luca) che avevano alti ideali politici e che sono stati sconfitti su tutti i fronti, o comunque hanno ereditato, come acquisita definitivamente, l’idea che la Palestina non avrebbe potuto liberarsi dal dominio romano.

Non a caso sono stati scritti in greco, cioè gli autori hanno accettato di considerare come loro principali lettori i pagani convertiti al cristianesimo. Sono libri ad uso interno, per chi ha già la fede cristiana: di storico non hanno quasi nulla, sia perché hanno il compito di presentare le cose in maniera mistificata, sia perché i loro lettori (i quali, in quanto di origine pagana, non sono interessati al mondo ebraico vero e proprio, anzi tendenzialmente sono antisemiti) non vogliono dei testi politicamente eversivi, ma soltanto eticamente edificanti, possibilmente conditi con particolari fantasiosi, come appunto accade nelle fiabe.

Infatti gli aspetti fantastici aiutano a far sognare, a evadere da una serie di contraddizioni sociali tipiche del sistema schiavistico. I vangeli sono favole paragonabili ai racconti omerici, con la differenza che Omero doveva mettere in cattiva luce l’epoca pre-schiavistica, mentre i redattori cristiani dovevano spoliticizzare al massimo un leader anti-schiavista come Gesù.

Ecco perché si può tranquillamente sostenere che tutto il Nuovo Testamento è venuto incontro a un’esigenza di sincretismo culturale tra ebraismo e paganesimo in cui il ruolo di quest’ultimo risultava prevalente, anche se, col passare dei secoli, esso dovrà accettare di trasformarsi in cristianesimo.

In formato ebook https://www.mondadoristore.it/Amo-Giovanni-Mikos-Tarsis/eai978886934398/

In formato cartaceo http://www.bibliotheka.it/Amo_Giovanni__Il_Vangelo_ritrovato_IT

I limiti della Terza ricerca su Gesù

A

Dai tempi “illuministici” del linguista tedesco Reimarus, che ha inaugurato la moderna esegesi critica del Nuovo Testamento, ad oggi tutti gli esegeti sono stati inseriti in tre grandi raggruppamenti: quelli della Prima, della Seconda e della Terza ricerca. Quest’ultima, iniziata nel 1985, è tuttora presente e ben rappresentata. Viene detta anche “giudaica post-moderna”, in quanto si stanno recuperando le origini semitiche di Gesù, ovvero il significato dell’ambiente in cui viveva, con tutte le sue tradizioni, i suoi valori ecc.: cosa che si era scarsamente fatta nelle precedenti Ricerche.

Ora, cerchiamo di partire da una tesi di fondo che potrebbe valere come presupposto ermeneutico per interpretare proprio questa “Terza ricerca” sui vangeli: Se si sottolinea troppo l’ebraicità del Cristo, si finisce col non comprendere il motivo per cui l’hanno condannato a morte.

Gesù era un ebreo al 100 per cento? Sì, ma in che senso? Di sicuro non lo era come gli esseni, poiché non si accontentò della pratica battesimale del Battista, e ancor meno scelse un luogo semidesertico ove predicare (in quei luoghi remoti lo vediamo rifugiarsi solo per evitare linciaggi e mandati di cattura). Non era ebreo neppure come i sadducei, poiché non sopportava la loro gestione corrotta del Tempio e il loro collaborazionismo con l’occupante romano. Non lo era neppure come gli zeloti, poiché non accettava i metodi terroristici, le concezioni integralistiche della fede, il gretto nazionalismo e l’avventurismo politico-conflittuale (rifiutò l’invito dei cinquemila Galilei che volevano farlo entrare con la forza di un sovrano assoluto a Gerusalemme e, per di più, senza il consenso dei Giudei). Non lo era neppure come i farisei, dei quali non condivideva il rispetto maniacale delle regole di purità legale e l’idolatria del sabato, e tanto meno la convinzione di potersi opporre efficacemente al dominio romano limitandosi a restare tenacemente attaccati alle tradizioni del passato. Cercò a più riprese alleanze con loro per scardinare il potere dei sadducei e cacciare i Romani dalla Palestina, ma siccome i farisei anteponevano l’ideologia alla politica, non riuscì mai a trovarle.

Dunque, in che senso Gesù può essere considerato un ebreo? Bastava forse essere circoncisi per dimostrare d’essere ebrei? Bastava forse parlare bene l’aramaico, senza avere la pronuncia rozza dei Galilei? Non è forse vero che dalle sinagoghe veniva regolarmente espulso, tanto che, ad un certo punto, non vi poté più entrare? Non lo si vede mai pregare (le sue preghiere sono tutte post-pasquali) né compiere sacrifici al Tempio, dove al massimo si recava per predicare temi eversivi alle folle. Quando partecipava alle feste di precetto, lo faceva per discutere di politica, non per amministrare un determinato culto o una funzione religiosa. Neppure lo si vede interessato a svolgere un mestiere cattedratico come quello degli scribi o dei rabbini, tant’è che non fa nulla per ottenere un seggio al Sinedrio, pur avendone i titoli (per Matteo e Luca è figlio di Davide) e le competenze (parlava come una persona autorevole, dice Mc 1,27).

Noi siamo anche disposti a considerarlo più giudeo che galileo, quindi ancora più “ortodosso” degli ebrei non giudaici o della diaspora. Ma tutto ciò significa soltanto una cosa, che dobbiamo limitarci a considerarlo ebreo più sul piano formale che sostanziale. Diciamo che era un ebreo che voleva la liberazione di tutta la Palestina (e non solo della Giudea) dai Romani e dalla casta sacerdotale corrotta. Anche gli esseni e gli zeloti volevano la stessa cosa e combattevano per averla; anche i farisei, in teoria, l’avrebbero voluta. Qual era dunque la differenza tra il suo ebraismo e quello degli altri ebrei che politicamente volevano le sue stesse cose?

La differenza stava unicamente nel modo di essere ebreo per realizzare l’obiettivo dell’insurrezione nazionale. Era, quello, un obiettivo di grande portata, per il quale sarebbe stata necessaria l’alleanza del maggior numero di partiti, correnti, associazioni, movimenti, comunità di vario tipo. Per realizzare un obiettivo del genere non era possibile soffermarsi troppo sulle differenze che opponevano i vari gruppi sociali, culturali e politici. Non aveva alcun senso anteporre all’obiettivo politico-nazionale, di natura generale, le questioni particolari di carattere ideologico (p.es. quelle relative agli alimenti da mangiare, alle abluzioni da rispettare e così via). Gesù cercò di ridurle al minimo, di non farle pesare sulla sua strategia rivoluzionaria, ovvero di demandarne l’affronto a liberazione compiuta.

Nella sua attività politica sono sufficientemente chiare due modalità con cui egli si approccia ai vari gruppi politico-religiosi della Palestina: la democraticità nella gestione della strategia rivoluzionaria, e l’umanizzazione nell’affronto dei bisogni comuni. Democraticità vuol dire non imporre con la forza un proprio progetto politico, ma cercare di farlo condividere ad ampie masse popolari; umanizzazione vuol dire molte cose: anzitutto non compiere discriminazioni di alcun tipo (p.es. tra gli apostoli vi erano soggetti provenienti da vari gruppi politici, vi erano anche pubblicani e peccatori pentiti, vi erano uomini e donne, Giudei e Galilei, ecc.); valorizzare, degli oppressi, le istanze di emancipazione dal peso di tradizioni soffocanti, le esigenze di giustizia e di riscatto sociale, di liberazione nazionale dai nemici interni ed esterni; non anteporre mai le idee ai fatti, e quindi cercare sempre di avere un senso realistico delle cose, mirando a vincere i pregiudizi, le illusioni, le false rappresentazioni della realtà. In una parola: voleva fare della libertà di coscienza, della condivisione dei bisogni, del rispetto dei valori umani fondamentali i criteri elementari del vivere civile.

Gesù, in tal senso, era un vero ebreo? Sì, lo era, ma, alla luce di quanto detto, quanti ebrei, politicamente o socialmente o culturalmente più importanti di lui, non lo erano? Sottolineare troppo l’ebraicità di Gesù non aiuta a comprendere le grandi differenze che opponevano lui a molti altri ebrei nel vivere la sostanza dell’ebraismo. Se era così tanto ebreo, perché nei vangeli le autorità religiose gli sono irriducibilmente nemiche, salvo eccezioni? Perché i farisei, quando lo contattano, lo fanno sempre con molta circospezione? Perché i rabbini lo giudicano subito come un eretico? Perché molti intellettuali giudei arrivano più volte sul punto di linciarlo mentre sta parlando? E soprattutto perché lo consegnano ai Romani, il peggior nemico d’Israele? E che bisogno avevano i Romani, se egli fosse stato un semplice ebreo ortodosso, ancorché “non allineato”, di punirlo con la peggiore sentenza di morte? Non potevano considerarlo un loro alleato? Il cristianesimo primitivo, a partire dalla predicazione di Pietro e Paolo, ha mai cercato con l’impero romano uno scontro politico diretto?

Insomma molti esegeti della cosiddetta “Terza ricerca” rischiano di apparire ideologici non meno di quelli che negavano al Cristo un’esistenza storica o non meno di quelli che, condizionati da un’appartenenza ecclesiastica, non vedono alcuna differenza tra il Gesù storico e il Cristo teologico.

B

Peraltro, accentuando il tema dell’ebraicità di Gesù si finisce col porre in risalto una sua inesistente religiosità. Tutte le odierne chiese cristiane non possono che essere soddisfatte di questa tendenza clericale presente nella “Terza ricerca”, la quale, anche se nega gli aspetti più mistici dei racconti evangelici (dimostrando, in ciò, d’essere più vicina alle tradizioni ermeneutiche di matrice protestantica), non è certamente paragonabile all’anticlericalismo della “Prima ricerca” o al distaccato intellettualismo della “Seconda”, che esaminava il caso-Gesù senza nessuna particolare empatia.

Noi, personalmente, ci sentiamo lontani da tutte e tre le Ricerche, o meglio vorremmo cercare di radicalizzare la Prima, perché, così com’è, pecca di antistoricismo. Vorremmo farlo sulla base di presupposti che consideriamo irrinunciabili: 1) Gesù Cristo era ateo, cioè credeva che l’unico dio presente nell’universo fosse l’uomo; 2) se di questo uomo lui si considerava il “prototipo”, ciò non poteva comunicarlo ai suoi discepoli; 3) qualunque cosa egli potesse compiere oltre le capacità degli uomini del suo tempo, avrebbe violato la loro libertà di coscienza, per cui va escluso qualunque suo intervento prodigioso o miracoloso; 4) se si vuole accettare l’idea che sia nato in una maniera non esattamente naturale, nessuno può saperne la modalità, neppure sua madre, per cui non è un argomento che possa interessare l’esegesi laica; 5) si può anche dare per scontato l’evento della tomba vuota, ma non lo si può interpretare con la categoria della “resurrezione”, poiché questa implica, di necessità, che il corpo scomparso venga rivisto vivo, il che non poteva accadere senza violare – di nuovo – la libertà di coscienza; 6) si può anche dare per acquisito che l’immagine impressa nella Sindone sia quella di Gesù Cristo, ma essa non è in grado di “dimostrare” alcuna “resurrezione”, semmai “mostra” che qualcosa di strano è avvenuto in quel sepolcro, su cui però gli esegeti non possono dire nulla; 7) l’immagine presente nella Sindone indica l’esecuzione capitale di un uomo che venne ritenuto un pericoloso sovversivo da parte del potere romano, quindi si può dare per scontato che Gesù volesse compiere una insurrezione nazionale; 8) poiché, secondo i vangeli, è stato tradito da un proprio discepolo e consegnato ai Romani dalle autorità giudaiche, si deve dare per scontato ch’egli si ponesse anche contro la casta sacerdotale che gestiva il Tempio. Ciò vuol dire che di tentativi insurrezionali egli ne fece due: il primo, contro il Tempio, all’inizio della sua carriera politica, come risulta nel quarto vangelo; il secondo, contro la Fortezza Antonia, ove era acquartierata la coorte romana, nell’ultimo ingresso trionfale a Gerusalemme; 9) tutti gli argomenti etici, sociali, culturali, religiosi o politici, affrontati dal Cristo nel corso della sua vita, vennero svolti avendo come obiettivo finale la liberazione della Palestina dagli occupanti Romani e dai collaborazionisti ebrei; 10) i contenuti delle argomentazioni sostenute dal Cristo riguardavano i valori umani fondamentali, la democrazia politica, la necessità di recuperare i princìpi del comunismo primitivo, il rispetto della libertà di coscienza, il rispetto della differenza di genere, l’uguaglianza sociale, la testimonianza della verità… In nessun caso tali contenuti dovevano portare l’interlocutore a credere in qualcosa di sovrannaturale o di mistico-teologico.

Quindi, parafrasando un’espressione di Wittgenstein, si potrebbe concludere dicendo: Di ciò di cui non si può parlare, in quanto va oltre una semplice umana comprensione, è meglio tacere; ma di ciò di cui si può parlare, è bene farlo con chi è disposto ad ascoltare, non avendo motivazioni oggettive che glielo impediscano, come in genere hanno coloro che appartengono alla categoria del “clero”.

È attendibile Jossa come esegeta del N.T.?

Si prenda di Giorgio Jossa un libro qualunque, tanto le sue tesi di fondo son sempre le stesse e certamente non sgradite agli ambienti di area cattolica, che lui stesso peraltro frequenta ben volentieri: p.es. Il cristianesimo ha tradito Gesù? (ed. Carocci, Roma 2009). Siccome ha sempre svolto il mestiere di “storico del cristianesimo”, anche in questo libro deve necessariamente partire dalla questione delle fonti.

Ora, per dimostrare che quelle canoniche sono (purtroppo, bisognerebbe precisare) assolutamente prevalenti su tutte le altre, cita, per farlo capire indirettamente, le frasi che Giuseppe Flavio scrive a favore di Gesù Cristo: “Ci fu verso questo tempo Gesù, uomo saggio, se pure bisogna chiamarlo uomo: era infatti autore di opere straordinarie, maestro di uomini che accolgono con piacere la verità e attirò a sé molti Giudei e anche molti dei Greci. Questi era il Cristo. E quando Pilato per denuncia degli uomini notabili fra noi lo punì di croce, non cessarono coloro che da principio lo avevano amato. Egli infatti apparve loro al terzo giorno nuovamente vivo, avendo già annunciato i divini profeti queste e migliaia di altre meraviglie riguardo a lui. Ancora oggi non è venuta meno la tribù di quelli che da costui sono chiamati cristiani”.

Chiunque sa (anche un profano in materia) che il Testimonium Flavianum è un falso patentato almeno per tre ragioni: 1. lascia credere che Gesù avesse una natura sovrumana e compisse miracoli; 2. sostiene ch’egli attirò a sé anche “molti Greci”, come se fosse stato un seguace della teologia paolina; 3. attribuisce, insensatamente, allo stesso Flavio, e non ai cristiani, la convinzione che Gesù era il messia, ch’era risorto e riapparso ai suoi seguaci, adempiendo le profezie divine.

Queste affermazioni sono così inverosimili che non appaiono neppure nella versione araba del X sec. dello stesso testo. Neppure una sola parola un ebreo avrebbe mai potuto dire, né una parola che non sia stata desunta dai vangeli canonici. Non solo quindi è una falsificazione in piena regola ma è anche di basso livello.

Cosa fa invece Giorgio Jossa di fronte a un testo del genere? Afferma che: 1. è “fortemente sospetto d’essere almeno parzialmente interpolato da mano cristiana” (p. 23); 2. “esso conferma indubbiamente l’esistenza di Gesù e le modalità della sua morte” (p. 24). Detto altrimenti l’esegeta sostiene che l’interpolazione non è totale ma solo “parziale”, e che, pur essendoci una falsificazione, il testo può essere usato come “prova” di ciò che viene detto nelle fonti canoniche! Ci chiediamo: può un testo chiaramente falsificato confermare il valore di un altro? Come può uno storico del suo livello non sapere che si può rispondere affermativamente a tale domanda se anche l’altro testo è falsificato? E che tale conferma permane almeno fino a quando non si scoprono gli “altarini” di entrambi i testi?

Perle di questo genere ve ne sono tante nei suoi libri, le cui idee di fondo assomigliano, molto da vicino, a quelle di Mauro Pesce (un altro esegeta confessionale travestito da laico). La seguente, tanto per fare un altro esempio a caso, è ancora più incredibile: “io credo che siano state realmente le apparizioni di Gesù, e la conseguente fede nella sua resurrezione, a infondere coraggio ai discepoli impauriti e a dare l’avvio alla tradizione di Gesù” (pp. 30-31).

Ora, se c’è una cosa su cui non si dovrebbe neppure discutere è che i racconti di apparizione di Gesù risorto sono tutti inventati: il vangelo originario di Marco neppure li prevedeva. Se vi sono esegeti che ancora vi credono, sono in malafede. Come può uno studioso, che si qualifica come “laico”, non sapere che una qualunque “riapparizione” di una persona chiaramente morta violerebbe la libertà di coscienza di una persona viva, inducendola a credere in qualcosa con la forza dell’evidenza? La stessa parabola lucana del ricco epulone e del povero Lazzaro (16,19-31) dice espressamente che tra i vivi e i morti viventi “è stabilito un grande abisso”, sicché non vi è alcuna possibilità di contatto. Paradossalmente basterebbe questo racconto “evangelico” per far saltare la credibilità dei racconti di apparizione del Cristo.

In parte anche Jossa si rende conto di queste cose, là dove scrive: “lo storico naturalmente non può dire in che cosa esattamente [tali apparizioni] siano consistite” (p. 33). Tuttavia, siccome qui non si può parlare né di riapparizioni fisiche, né di miraggi o di allucinazioni (singole o collettive), uno storico davvero laico avrebbe dovuto trarre la conseguenza che tutti quei racconti sono soltanto delle invenzioni di tipo redazionale (poetiche quanto si vuole, ci mancherebbe!).

D’altra parte la prima di queste assurdità non appartiene neppure ai vangeli, ma è stata rivendicata da Paolo di Tarso, che nelle sue lettere ribadiva con forza di aver avuto una “rivelazione diretta” (una visione mistica) da parte di Gesù Cristo. Ora, è evidente che se il fondatore del cristianesimo ha potuto far passare un’idea del genere, chiunque avrebbe potuto sentirsi in diritto di imitarlo. In questo sta anche la differenza tra petrinismo e paolinismo, in quanto per Pietro era sufficiente credere nella “resurrezione” per poter sperare nell’imminenza della parusia trionfale del Cristo. Viceversa, per Paolo la “resurrezione” rimandava al “giudizio universale” della fine dei tempi. Se l’uno pensa al “Cristo risorto” secondo una finalità ancora politica, l’altro invece ha già smaterializzato e spoliticizzato tutto.

In ogni caso non è affatto vero che la fede nella resurrezione è stata una “conseguenza” delle apparizioni di Gesù. Semmai, redazionalmente, è avvenuto il contrario: i racconti di riapparizione sono stati inventati proprio perché la “fede nella resurrezione” non la si riteneva sufficiente come criterio per diventare cristiani. Anche perché se davvero le riapparizioni avessero preceduto la “fede” nella resurrezione, non si sarebbe creduta in questa per “fede”, ma secondo “ragione”. Nel ragionamento di Jossa vi è quindi un’incongruenza lapalissiana.

Un altro evidente errore ermeneutico appare subito dopo, là dove l’autore sostiene che i discepoli di Gesù hanno cominciato a credere nella sua “messianicità” solo dopo aver constatato la sua “resurrezione”, in quanto prima, mentre era vivo, si erano limitati ad accettarlo come “profeta e maestro” (p. 31).

Come può uno storico di chiara fama cadere in sviste del genere? Sin dall’inizio del suo ministero pubblico Gesù si era posto come “politico” e non semplicemente come “profeta e maestro”: proprio in questa differenza sta la sua rottura col movimento del Battista. Poiché aveva in mente di liberare la Palestina dai Romani e dalla casta sacerdotale del Tempio, facilmente veniva considerato dagli ebrei un “messia”. Semmai il problema stava nel cercare di chiarirsi sul significato della messianicità. Ciò in quanto il modello ideale degli ebrei era quello davidico, mentre il Cristo voleva contrapporre l’idea di democrazia a quella di monarchia, ovvero l’idea di volontà popolare a quella del sovrano autocrate, seppur confermato (unto) dal pontefice.

Se si sostiene che la messianicità del Cristo fu una conseguenza della sua resurrezione (p. 35), si deve per forza togliere al Cristo qualunque caratterizzazione politica; e se anche questa la si volesse accettare, pensando a una sua parusia trionfale imminente (come fece appunto Pietro), le si negherebbe inevitabilmente il suo presupposto democratico, in quanto la messianicità del Cristo non aveva affatto lo scopo di negare l’autodeterminazione al popolo ebraico. Cosa che invece verrebbe negata da una qualunque parusia, tanto più se questa fosse “trionfale”. Le due assurdità del petrinismo – resurrezione e parusia – si giustificavano a vicenda, e hanno continuato a farlo nel paolinismo, benché la fede stringente nell’imminenza sia stata trasformata in una vaga fede degli “ultimi tempi”.

Se la messianicità è un requisito della resurrezione, è evidente che il Gesù storico non aveva nulla di politico. Sostenere – come fa Jossa – che il cosiddetto “segreto messianico” è stata una scelta dello stesso Gesù e non un’invenzione del vangelo marciano, significa non capire la differenza tra Gesù storico e Cristo teologico. Senza poi considerare che un atteggiamento del genere rischia di portare su posizioni antisemitiche, in quanto si finisce col credere che gli ebrei non erano in grado di capire la messianicità di Gesù finché lui restava in vita.

Non si può pensare neanche per un momento che Gesù aveva imposto il silenzio sulla sua natura messianica perché non voleva esser capito sino in fondo. L’unica cosa che legittimamente si può sostenere è che egli aveva una concezione democratica della messianicità, mentre molti ebrei l’avevano di tipo monarchico, oppure che lui l’aveva di tipo laico (come fa capire alla samaritana), mentre gli ebrei non riuscivano a dissociare la religione dalla politica. Se non avesse avuto alcuna concezione di messianicità, non avrebbe organizzato l’ingresso trionfale a Gerusalemme; e tanto meno, per far capire la differenza tra le due concezioni politiche, avrebbe usato un asino (simbolo di mitezza) al posto del cavallo, quello che usavano i generali, con al seguito un esercito bene armato, intenzionati a occupare le città con la forza.

Sostenere inoltre che la prima predicazione missionaria dei discepoli di Gesù, compiuta oralmente, abbia riguardato la sua attività di “taumaturgo che guariva malati e cacciava demoni, di profeta che annunciava la venuta del regno di Dio e narrava parabole immaginose, di maestro che insegnava a commentare la legge di Mosè” (p. 32) – tutto ciò è assolutamente irreale.

Se davvero i primi discepoli si sono comportati così, la loro predicazione orale non ha affatto “preceduto” la stesura dei vangeli, ma semmai è avvenuto il contrario. Essi hanno potuto raccontare delle cose ch’erano già state messe per iscritto dai dei redattori mistificatori o comunque già decise in qualche consesso di natura privata: infatti son tutte cose che nulla hanno a che vedere col Gesù storico, sia perché egli non ha mai compiuto “miracoli” che non fossero alla portata dell’uomo, sia perché era un ateo e non avrebbe potuto predicare un “regno divino”, sia perché non era un rabbino che commentava la legge mosaica e le sue successive interpretazioni.

I vangeli non sono stati scritti per “ricordare” Gesù, ma per farlo dimenticare nella sua autentica storicità, tant’è che lo presentano con caratteristiche sovrumane, del tutto immaginifiche. Essi avevano lo scopo di divulgare l’interpretazione petrina della tomba vuota come “resurrezione” e l’interpretazione paolina del Cristo risorto come “unigenito figlio di Dio”, morto per salvare l’umanità dagli effetti devastanti del peccato originale e quindi per riconciliarla col Creatore, che voleva sterminarla come ai tempi di Noè.

Anche le antiche tradizioni “ellenistiche” rappresentate da Stefano, e quelle dichiaratamente giudaico-cristiane rappresentate da Giacomo il Giusto (parente stretto di Gesù) possono essere tranquillamente considerate come una forma di “tradimento” dell’originario messaggio gesuano. La prima perché focalizzava la strategia eversiva del Messia nell’unica direzione dell’opposizione contro il Tempio, dimenticando completamente quella contro la presenza romana. La seconda perché fingeva di non sapere che Gesù aveva già considerato irrilevante il culto presso il Tempio nel suo dialogo coi Samaritani. Al Cristo non interessava alcun tipo di culto religioso. Lo stesso quarto vangelo, benché profondamente teologico, in nessun luogo lascia capire che Gesù fosse una persona intenzionata a istituire dei “sacramenti” o dei riti mistici che andavano periodicamente ripetuti. I sacramenti del battesimo e dell’eucaristia sono stati presi dal mondo essenico quando i cristiani si riconciliarono coi battisti.

In ogni caso non si può assolutamente sostenere che “la predicazione apostolica ha certamente il suo fondamento nella storia di Gesù” (p. 33). Di tutti gli apostoli di Gesù soltanto Pietro appare attivamente negli Atti di Luca, e dopo di lui il protagonista è Paolo. Non c’è alcuna “predicazione apostolica” su temi comuni. Ciò che predica Pietro è già una forma di “tradimento” del messaggio originario del Cristo; e il fatto che gli altri apostoli non appaiano negli Atti, lascia pensare che la sua predicazione non sia stata affatto condivisa.

Quando i vangeli vengono messi per iscritto, non facevano che riflettere un’unica teologia, quella petro-paolina, di cui anche il quarto vangelo, debitamente manipolato, dovette tener conto. Se è stato scritto qualcosa in controtendenza, è andato distrutto. Già al momento della stesura definitiva del protovangelo marciano, non esisteva più la generazione ch’era stata “testimone oculare” del Cristo: un po’ perché già eliminata o costretta alla fuga dal giudaismo, un po’ perché scomparirà nel corso della guerra giudaica scoppiata nel 66.

D’altra parte Jossa è convinto che, siccome le fonti apocrife non hanno nulla di storico, le uniche che possono aiutarci a delineare una figura realistica di Gesù sono soltanto quelle canoniche. Dicendo ciò non si rende conto che tra le due tipologie di fonti la differenza sta solo nella diversa entità e configurazione del mito. Queste cose si sanno dai tempi di Reimarus e della Sinistra hegeliana (D. Strauss e B. Bauer).

Insomma Giorgio Jossa non è molto diverso, nella sua esegesi moderata, dalla coppia Pesce-Destro. In base ai principi della cosiddetta “Terza ricerca”, essi accettano di qualificare Gesù come un autentico ebreo, nel senso che la sua predicazione era “radicata nella tradizione giudaica” e la sua religiosità era debitrice “della spiritualità giudaica del suo tempo (nell’importanza attribuita alla preghiera, nel riferimento costante alla Scrittura, nell’osservanza alle prescrizioni della legge, nel rispetto delle regole del culto)” (p. 86).

Col che si confonde completamente la posizione di Gesù con quella di Giacomo il Giusto, che sostituì ben presto Pietro nella direzione della comunità giudaico-cristiana di Gerusalemme. In realtà Gesù non può aver elaborato alcuna preghiera, in quanto la preghiera in sé è uno strumento di automortificazione della volontà umana a vantaggio della onnipotenza divina.

Lo stesso riferimento alle Scritture non è mai stato “costante” nella sua predicazione, e, in ogni caso, quando lo ha usato, non aveva certo una funzione apologetica della propria messianicità, proprio perché questa andava dimostrata sul campo, col proprio impegno politico, non in una maniera del tutto intellettualistica, servendosi – come faranno gli evangelisti molto tempo dopo – di profezie interpretate nella maniera più fantasiosa. Tanto meno, ovviamente, si servì delle Scritture per dimostrare la propria divinità.

Quanto all’osservanza della legge, non pare proprio che Gesù rispettasse il sabato o le abluzioni o le minuziose prescrizioni alimentari, come si vantavano di fare i farisei, coi quali sembra interfacciarsi di continuo nei vangeli. Non parliamo poi delle regole del culto, poiché non lo si vede mai fare sacrifici al Tempio.

Jossa esclude categoricamente che Gesù sia stato un politico: “che l’ingresso di Gerusalemme sia stata una manifestazione politica tale da impensierire i Romani è certamente da escludere” (p. 91). Quanto siamo lontani dalle tesi di S. Brandon o di F. Belo!

Sulla base di cosa Jossa può sostenere questa sua certezza? 1. Sul fatto che mentre egli entrò nella Città Santa, i Romani non mossero un dito. E come avrebbero potuto – ci si può chiedere – se, a fronte di alcune migliaia di seguaci del Nazareno provenienti da tutta la Palestina, Pilato disponeva soltanto di una coorte di 600 militari? 2. Sul fatto che non fu Pilato a prendere un’iniziativa in proprio a carico di Gesù; semplicemente egli reagì a una denuncia da parte delle autorità giudaiche. Ecco un bel modo d’interpretare i vangeli come gli evangelisti volevano! Non solo, ma egli aggiunge che l’ingresso in Gerusalemme e la purificazione del Tempio non avevano affatto un contenuto messianico, come invece l’ebbe la dichiarazione di Gesù davanti a Caifa durante il processo giudaico riportato nel protovangelo.

Così facendo, però, Jossa diventa più “realista” del “re Marco”, dietro cui si cela Pietro. Per quest’ultimo, infatti, Gesù avrebbe anche potuto vincere se i sadducei non si fossero opposti, benché in quel vangelo tendenzioso la guerra contro i Romani venga completamente assorbita nella battaglia contro Caifa: tant’è vero che l’epurazione del Tempio viene collocata alla fine della carriera politica del Cristo, quando invece il quarto vangelo la colloca all’inizio, in un contesto di rivalità coi battisti.

Al dire di Jossa invece Gesù entrò nella capitale semplicemente per farsi ammazzare. Questo perché il suo ingresso non fu “così chiaramente messianico (e trionfale) come lo presentano gli evangelisti successivi” (p. 99). L’esegeta napoletano non capisce che se è vero che quell’ingresso non era “trionfale” come avrebbe potuto farlo un qualunque re d’Israele o un qualunque generale romano o ellenistico, era comunque “trionfale”, poiché migliaia di persone erano entrate insieme a lui e avevano il compito di proteggerlo e di realizzare l’obiettivo dell’insurrezione nazionale. Semmai gli evangelisti han fatto di tutto per attenuare la portata eversiva di quell’evento: i Sinottici, riducendola alla purificazione moralistica del Tempio; i manipolatori del quarto vangelo facendo parlare Gesù come un teologo incomprensibile.

Jossa ritiene che Gesù abbia affermato la propria messianicità solo davanti a Caifa, mentre questi lo interrogava, quindi proprio nel momento in cui Gesù associa la parola “messia” al titolo religioso di “figlio di Dio”!

Come può uno storico non rendersi conto che quel processo religioso (non riportato nel quarto vangelo) è stato completamente inventato da Marco, che non a caso pone solo Pietro come testimone? Come può uno storico sostenere che “non si spiegherebbe la condanna come re dei Giudei da parte dei Romani se Gesù di fronte al Sinedrio non avesse avanzato la pretesa d’essere il messia, e quindi il re d’Israele…” (p. 99)?

Come fa Jossa a non capire che Gesù non aveva bisogno di “dichiarare” alcunché per dimostrare ch’era il messia, in quanto gli sarebbero bastati i fatti? Come può non rendersi conto che proprio sulla base di questi fatti evidenti, Pilato aveva intenzione di farlo fuori? Secondo Jossa Gesù sarebbe stato giustiziato semplicemente perché “dichiarò” d’essere il messia (una volta entrato nella capitale), mentre all’apparenza si comportava solo come un profeta e un maestro. Ci voleva una sua “dichiarazione personale” (quella che p.es. il Battista si rifiutò di fare), altrimenti gli avversari politici non l’avrebbero capito e non avrebbero avuto motivo per eliminarlo. Può uno storico essere così ingenuo? Sono stati forse i suoi studi universitari in Giurisprudenza a condizionarlo così pesantemente?

Peraltro, quando mai gli ebrei erano contrari all’attesa di un messia anti-romano? Persino dopo averlo crocifisso, le autorità giudaiche si preoccuparono di chiedere a Pilato di cambiare il titolo della croce: non doveva scrivere “Il re dei Giudei”, ma “Io sono il re dei Giudei”. Potevano infatti le autorità del Tempio far vedere che l’avevano fatto giustiziare perché erano contrarie all’idea di aspettare un messia liberatore? Semmai avversavano un’idea di messianicità non conforme ai loro parametri.

Secondo Jossa invece l’idea di messia gli ebrei non potevano averla perché questa, per loro, era “una figura ideale lontana, e in un certo senso mitica…” (p. 100). Dicendo così, l’autore sposa le tesi di Mauro Pesce o quelle di Giuseppe Barbaglio, secondo i quali il regno di Dio doveva essere realizzato non dagli uomini ma da Dio stesso. Facendosi ammazzare, Gesù doveva semplicemente dimostrare che gli uomini, con le loro forze, non sono in grado di liberarsi delle loro contraddizioni.

Naturalmente Jossa si rende conto che una tesi del genere può fare acqua da tutte le parti, per cui inevitabilmente è costretto a chiedersi: “se Gesù non era un pericoloso ribelle politico, come quasi tutti gli studiosi riconoscono, che cosa avrebbe dovuto giustificare una iniziativa nei suoi confronti da parte dell’autorità romana?” (p. 102). E “se era un ebreo rigorosamente osservante e un pacifico dottore della legge, perché l’autorità giudaica avrebbe dovuto consegnarlo ai Romani?” (ib.).

Ed ecco la risposta “originale” dell’esegeta: la colpa della sua esecuzione ricade soprattutto sui sadducei, non sui farisei, per avere egli occupato il Tempio! I Romani ritenevano Gesù un “personaggio abbastanza innocuo” (p. 104), la cui predicazione in Galilea era passata “quasi inosservata”. Essi non si erano particolarmente preoccupati né dell’ingresso messianico né dell’occupazione momentanea, simbolica, del Tempio, in quanto non avevano avvertito il bisogno d’intervenire militarmente.

Pur di salvare la faccia ai farisei e fare un favore ai moderni esegeti ebraici dei vangeli, Jossa fa passare per dei mentecatti persino i Romani, obbligandoli, inspiegabilmente, a intervenire in maniera categorica non sulla base dei fatti che un imputato ha effettivamente compiuto, ma sulla base di una semplice dichiarazione sulla propria identità e sulla base di una falsa denuncia da parte delle autorità religiose (che avevano “invidia” di lui, come dice Marco); e Pilato lo manda al patibolo pur sapendo che materialmente non lo meriterebbe, non essendo colpevole di nulla, se non delle proprie “stravaganti” dichiarazioni. Anzi, addirittura lo crocifigge pur subodorando che un tipo come lui avrebbe potuto tornare comodo alla strategia imperialistica di Roma contro le obsolete tradizioni nazionalistiche d’Israele!

Le ricerche di Bultmann e l’attuale esegesi laica

Rudolf Bultmann (1884-1976) è stato un teologo evangelico che ha inventato il metodo storico-morfologico in ambito neotestamentario. Ha sempre insegnato teologia e i suoi principali allievi (come lui di fama mondiale) sono stati tutti dei credenti in qualche religione. Praticamente il meglio di sé l’ha dato dagli anni ’30 alla metà degli anni ’50.

Viene definito il “teologo della demitizzazione”, in quanto ha separato il “Gesù storico” dal “Cristo teologico” che i vangeli han voluto trasmettere. Il “Cristo teologico” sarebbe stato – secondo lui – un’invenzione di Paolo di Tarso, sotto l’influenza di una cultura ellenistica.

Bultmann non ha mai smesso di credere in Dio, non ha mai fatto professione né di ateismo né di agnosticismo, anche se dal suo “manifesto sulla demitizzazione” sorgeranno numerosi movimenti radicali, alcuni dei quali confluiranno nella teologia della “morte di Dio”.

La sua filosofia rientra in quell’esistenzialismo religioso a-confessionale che si può ritrovare anche in Heidegger, che lui, non a caso, considerava come proprio maestro. Quando la Chiesa evangelica tedesca pensò a misure disciplinari a suo carico, fu difeso da un altro grande teologo, Karl Barth.

Egli ha praticamente ridotto il cristianesimo (anche quello primitivo) a una filosofia di tipo esistenzialistico, in cui il misticismo è comunque rimasto, seppure in forma meno accentuata rispetto alle classiche teologie. Ha cercato, in sostanza, di rendere il cristianesimo più attuale, spogliandolo di tutte quelle sovrastrutture ideologiche ormai divenute incompatibili con la mentalità tecnico-scientifica del nostro tempo.

Quindi egli ha sottoposto a critica soltanto le “forme” in cui il mito cristiano si è presentato, non tanto le “intenzioni” con cui lo si era creato, proprio perché tali intenzioni – secondo lui – fanno parte dell’uomo comune, bisognoso di credere in un essere superiore che dia significato alla propria esistenza, limitata sotto ogni punto di vista. In altre parole ha voluto compiere un’opera di aggiornamento, facendo della filosofia religiosa qualcosa di più importante, perché di natura più universale, rispetto alla tradizionale teologia, che implica aspetti di divisione come dogmi, strutture ecclesiastiche, sacramenti ecc.

Bultmann era forse riuscito a capire che, nell’ambito del capitalismo, anche la cultura scientifica può essere usata in chiave mitologica? No. Era forse riuscito a capire che la dimensione religiosa in sé, a prescindere dalle forme che si dà, è oggettivamente una forma di alienazione? Meno ancora. Conseguenza di ciò? I suoi testi protestanti sono stati ampiamente tradotti anche delle case editrici cattoliche del nostro paese.

Possiamo tuttavia sostenere ch’egli è stato un grande teologo, che ha favorito un approccio di tipo “laicistico” ai vangeli? Sì, lo è stato. A distanza di oltre mezzo secolo dalle sue principali opere esegetiche, l’esegesi laica contemporanea può forse dare per acquisita la tesi della demitizzazione, con cui si rinuncia a credere a tutto ciò che nei vangeli appare di sovrumano o d’innaturale? Indubbiamente sì. È dai tempi di Reimarus che si è proceduto a demitizzare i vangeli (l’ebreo Spinoza l’aveva già fatto con l’Antico Testamento). Sarebbe assurdo rinunciare a un patrimonio culturale del genere.

Detto questo, rispondiamo ora alla seguente domanda: l’esegesi laica deve forse oggi sentirsi in dovere – come fanno taluni esegeti della cosiddetta “terza ricerca” – di approfondire l’ebraicità del Cristo, cioè di scoprire quanto il “Gesù storico” fosse sostanzialmente “giudaico”, più spiritualmente “giudaico” degli stessi farisei, che, al suo confronto, dovremmo ritenere dei “formalisti” o “legalisti”? No, non ha l’obbligo di approfondire un argomento del genere. Non c’interessa sapere se Gesù aveva una fede più “pura” di tanti altri Giudei. Meno che mai c’interessa trovare, su questa cosa, dei punti di contatto con quella recente esegesi ebraica che ha iniziato a riscoprire il lato giudaico del Cristo.

L’esegesi laica deve forse cercare di capire che lo stesso giudaismo conteneva aspetti di misticismo, tali per cui non vi era alcuna necessità di andarli a chiedere in prestito alla cultura ellenistica per poter fondare la nuova religione cristiana? No, non ha bisogno di cercare di capire questa cosa, proprio perché l’esegesi laica non ha bisogno d’interessarsi di “religione”.

La religione va considerata come una sovrastruttura mistificante qua talis. Su questo assunto non ha alcun senso mettersi a discutere. È del tutto irrilevante sapere, tanto per fare un esempio, se l’idea di “resurrezione” era stata presa dalle mitologie pagane o se l’ebraismo l’aveva elaborata in proprio. Questi sono aspetti che non ci aiutano minimamente a comprendere la natura democratica, umanamente laica e politicamente rivoluzionaria, del movimento nazareno messo in piedi del Cristo.

Se davvero si vuole attualizzare il suo messaggio, bisogna farlo in rapporto ai due contenuti fondamentali che possono aiutarci ad affrontare efficacemente il nostro presente, altrimenti è meglio lasciar perdere “il caso Gesù”. Questi due contenuti sono appunto l’umanesimo laico e il socialismo democratico. Altri non ve ne sono.

Oggi possiamo tranquillamente affermare che Bultmann, in tal senso, non è di alcun aiuto alla comprensione dell’ateismo e della strategia politicamente eversiva del Cristo. Al suo confronto, molto meglio l’opera del teologo anglicano Samuel Brandon.

Se nei testi canonici del Nuovo Testamento o in quelli apocrifi che sono stati scartati dalla Chiesa; se nei testi ebraici in generale, canonizzati nell’Antico Testamento o esclusi da esso, o sviluppati in quella straordinaria raccolta chiamata Talmud, vi sono elementi che possono aiutare a capire l’importanza fondamentale di quei suddetti contenuti, bene! Vorrà dire che la “religione” avrà ancora qualcosa da insegnare all’umanità. In caso contrario non avremo perso nulla.

Addendum sulla sua storiografia

Quando Rudolf Bultmann diceva che “allo storico non spetta né fare dell’apologia né dimostrare la verità del cristianesimo”, in quanto ciò “resta sempre questione di libera decisione personale”; quando diceva che non è compito dello storico “dare un ‘giudizio di valore’ sui fenomeni storici dopo averli descritti”, in quanto “il suo compito è di interpretare i fenomeni della storia passata alla luce delle possibilità dell’interpretazione dell’esistenza umana, in modo tale da far acquisire queste possibilità alla coscienza anche come possibilità di un’interpretazione dell’esistenza attuale”1, da un lato faceva professione di positivismo o di sociologismo weberiano; dall’altro riproduceva un modo di pensare simile a quello esistenzialistico di Heidegger.

All’apparenza – pur insegnando teologia – aveva la pretesa di fare un discorso neutrale o, come dice lui, “da storico”; di fatto però si preoccupava di come attualizzare il cristianesimo per l’uomo moderno. Era una sua caratteristica, quella di far passare dei contenuti “religiosi” non direttamente attraverso la teologia, bensì attraverso una filosofia cripto-mistica, servendosi della mediazione storiografica relativa al cristianesimo primitivo.

Oggi un tale modo d’impostare la storiografia (generalmente intesa, ma ancora più se in riferimento a quella cristologica) dovremmo considerarlo del tutto superato per almeno due ragioni: anzitutto perché lo storico non può scindere in se stesso il ruolo del ricercatore dalla sua condizione umana, che inevitabilmente si basa su determinati valori etici e politici; in secondo luogo perché quando si esamina un evento caratterizzato politicamente come quello gesuano, sarebbe molto riduttivo pensare di farlo soltanto come “storico”.

Se non ci si vuole pronunciare anche politicamente, poiché si pensa che l’evento-Cristo avesse solo una connotazione etico-religiosa, automaticamente si finisce col fare proprio quell’apologia che si voleva evitare, cioè ci si pone dalla parte di quella rappresentazione di Gesù che è stata data dalla teologia petro-paolina. Sicché, in men che non si dica, tutta la propria pretesa equidistanza storica viene a cadere come un castello di carte. Anche contro la propria volontà, si arriva a fare gli interessi di una religione che, per quanto depurata dalle proprie incrostazioni dogmatiche ed ecclesiastiche che col tempo si sono sedimentate, resta pur sempre una “religione”.

Rifare il maquillage della fede, rendendola più idonea all’homo technologicus dei tempi moderni, è un’operazione legittima da parte di quello storico che premette di dichiararsi ideologicamente situato. Viceversa, nell’esegesi bultmanniana – che pretende d’essere “scientifica” -, diventa un’operazione subdola, indegna di un ricercatore impegnato a trovare la verità delle cose. A meno che Bultmann non vada considerato come uno di quei tanti ricercatori confessionali che, pur essendo giunto col tempo su posizioni “laicistiche”, non ha avuto il coraggio di “rompere” in maniera definitiva con le scelte compiute in gioventù e, con fare opportunistico, ha cercato di far convivere, come meglio poteva, le garanzie offerte dalla docenza universitaria con una visione delle cose che, in teoria, sarebbe dovuta apparire eretica all’ufficialità protestantica.

1 Il cristianesimo primitivo, ed. Garzanti, Milano 1964, p. 6.

È possibile una biografia attendibile del Cristo?

La domanda se fosse possibile una ricostruzione sufficientemente attendibile della vita di Gesù, visto che i vangeli sono per così dire viziati da una visione teologica degli eventi, e visto che, a tutt’oggi, non vi sono fonti alternative che li possano smentire in maniera evidente, non poteva emergere che in ambienti non strettamente confessionali.

I ritrovamenti dei manoscritti di Qumran, sotto questo aspetto, sono stati abbastanza deludenti, anche se ci hanno aiutato a capire i rapporti tra esseni e battisti, tra esseni e il IV vangelo, tra esseni e la teologia sacramentaria del cristianesimo primitivo e, infine, tra essenismo e zelotismo poco prima della catastrofe del 70 d.C. Anche i codici di Nag Hammâdi (Egitto), trovati nel 1945, non hanno affatto costituito una svolta epocale. Molto più interessante invece è stata l’analisi scientifica della Sindone, che solo per un pregiudizio pseudo-ateistico o anti-clericale viene considerata un falso.

È senza dubbio vero che di nessun grande personaggio storico si può essere sicuri che le biografie tramandateci possano essere considerate attendibili. I grandi biografi del passato facevano gli interessi delle classi dominanti o erano addirittura sul libro-paga degli stessi sovrani di cui dovevano raccontare le gesta gloriose. Era quasi impossibile scrivere qualcosa in controtendenza, soprattutto se il sovrano era ancora vivo.

Inoltre, non esistendo la stampa, erano pochi i manoscritti che circolavano, per cui era relativamente facile toglierli di mezzo o manipolarli, se risultavano scomodi per qualche ragione. L’intellighenzia cristiana riuscì persino a modificare impunemente i testi di Flavio Giuseppe, che pur erano stati prodotti in un ambito prettamente giudaico. Anzi, non è da escludere che i suoi testi siano sopravvissuti proprio perché accusavano i Giudei d’essere stati la rovina di loro stessi.

Forse il primo esegeta neotestamentario che ha avuto il coraggio di tentare un’interpretazione della vita di Gesù radicalmente opposta a quella canonica dei vangeli, è stato Hermann Samuel Reimarus (1694-1768), filosofo illuminista tedesco, di religione protestante, il quale poté avvalersi delle sue forti competenze in campo linguistico.

La sua tesi di fondo era che la vicenda di Gesù aveva connotati chiaramente politico-eversivi, che gli evangelisti avevano censurato, in quanto la loro preoccupazione era quella di presentare un Cristo teologico dalla natura sovrumana, capace di compiere miracoli e di risorgere dopo morto, quando in realtà il suo corpo fu trafugato dagli stessi apostoli per trovare un’alternativa alla sconfitta politica.

Oggi è difficile incontrare un esegeta autenticamente laico che possa prescindere in toto da una tesi del genere, per quanto essa presenti una contraddizione di non poco conto. Infatti, se davvero il Cristo è stato un politico rivoluzionario (contro Roma e i collaborazionisti sadducei, che gestivano il Tempio), è difficile pensare che ai suoi più importanti seguaci, gli apostoli, che sicuramente erano sediziosi come lui, sarebbe venuto in mente di far credere, al mondo ebraico cui appartenevano, che Gesù era stranamente scomparso dal sepolcro se non lo fosse stato per davvero.

Cioè quello che non regge nell’analisi di Reimarus è l’idea di attribuire a degli ebrei fortemente politicizzati un atteggiamento che risente di influenze ellenistiche, quelle che il cristianesimo subirà successivamente ad opera della teologia paolina (benché lo stesso fariseismo tendesse a credere nell’idea di resurrezione dei corpi, in polemica col materialismo sadduceo). E questo senza considerare che anche nel mondo di cultura non ebraica, quando si parlava di morte e resurrezione, si dava per scontato che si trattasse di una finzione letteraria, di una elaborazione mitologica, in cui appunto “si fingeva” di credere.

Nel mondo pagano si credeva nella “resurrezione” di figure che potevano essere paragonate agli dèi o erano esse stesse delle divinità, ma assai difficilmente si sarebbe presa questa cosa come storicamente attendibile. Nessuno si sarebbe messo a fare delle ricerche per dimostrarne la fondatezza. Paolo, all’Areopago, venne canzonato quando cercò di sostenere che Gesù Cristo era davvero risorto.

Dunque la tesi di Reimarus, relativa al trafugamento del corpo di Gesù, è un controsenso, proprio perché non tiene conto che nessun seguace del movimento nazareno si sarebbe fatto martirizzare per una cosa che avrebbe potuto tranquillamente essere considerata mitologica. Nessuno s’è mai fatto uccidere sulla base dell’idea che i racconti di Omero rispecchiavano assolutamente la realtà.

Attribuire – come fa Reimarus – a un intero movimento come quello nazareno (caratterizzato in maniera politicamente eversiva) la convinzione che Gesù era risorto, senza che nessuno sollevasse alcuna perplessità, alcuna obiezione, comporta inevitabilmente il rischio d’apparire antisemiti. Pur essendo l’Antico Testamento infarcito di racconti assolutamente leggendari, erano piuttosto gli ebrei ad accusare i pagani di credere nelle favole, la prima delle quali, al tempo di Gesù, era la divinizzazione degli imperatori.

Con ciò ovviamente non si vuole affatto sostenere che i racconti di riapparizione del Cristo scomparso siano veri; anzi, essi sono stati un tentativo poetico, molto ingenuo, di opporsi alla inevitabile contestazione dei nemici del protocristianesimo (che pur aveva molti elementi risalenti al giudaismo), secondo i quali erano stati gli stessi apostoli a nascondere il suo corpo per farlo credere ancora vivo (o intenzionato a ritornare in modo, questa volta, “glorioso”). Già l’evangelista Matteo aveva affrontato una questione del genere (27,62 ss.), pensando di risolverla mettendo delle guardie giudaiche davanti alla porta del sepolcro.

Una qualunque “ricomparsa” di un Cristo redivivo avrebbe violato, ipso facto, la libertà di coscienza degli appartenenti al movimento nazareno, in quanto, imponendo d’imperio la verità delle cose, avrebbe negato il diritto a non credere.

L’unica “prova” che gli apostoli avevano della misteriosa scomparsa di Gesù dalla tomba, era la sindone, che però non poteva “dimostrare” alcunché: ecco perché quando Pietro inventò la tesi del ridestamento miracoloso, decise di non avvalersi di quel reperto.

L’idea di “resurrezione” venne in mente a un apostolo proveniente dalla Galilea, ch’era una regione palestinese più influenzata dall’ellenismo di quanto non lo fosse la Giudea. Ad essa probabilmente si opposero tutti gli altri membri del Collegio apostolico, che infatti negli Atti degli apostoli scomparvero molto presto (tant’è che Luca avrebbe fatto meglio a intitolarli “Atti di Pietro e Paolo”). Poi l’idea di Pietro venne portata alle sue estreme conseguenze ellenistiche da Paolo di Tarso, il vero fondatore del cristianesimo.

Ora, premesso questo, che cosa è necessario fare, almeno in via preliminare, per avvicinarsi il più possibile alla verità sulle caratteristiche del Cristo?

La prima cosa da fare è quella di avere un atteggiamento sospettoso, guardingo, soprattutto nei confronti di tutto ciò che induce a credere in qualcosa di mistico o di sovrannaturale o di sovrumano. Certo, un esegeta può arrivare a dire che se dai vangeli si tolgono queste cose, resta ben poco. Tuttavia è proprio qui che s’impone la seconda cosa: saper andare al di là dell’apparenza, nella consapevolezza che raramente ciò che appare coincide con la verità delle cose, pur essendo l’esegeta in presenza di cose realmente accadute.

Delle due, infatti, l’una: o si rinuncia del tutto a interpretare delle fonti tendenziose e ci si limita a svolgere il ruolo di “storico del cristianesimo” o della chiesa (come p.es. fece Ambrogio Donini), oppure ci si sforza di supporre o d’immaginare qualcosa di “umano”, soggetto a censura o falsificazione o mistificazione, a motivo di una certa interpretazione “teologica”, ovvero “mitologica” di fatti accaduti realmente.

Nel caso di Gesù bisogna partire da due presupposti fondamentali e, sulla base di questi, rileggersi le fonti tendenziose del N.T.

Il primo è quello che anche certa esegesi confessionale (soprattutto protestantica o cattolico-sudamericana) ha intravisto: la predicazione gesuana non aveva solo contenuti eversivi contro le autorità giudaiche connesse alla gestione del Tempio, e colluse con Roma, ma doveva avere anche dei contenuti politici contro l’occupazione romana, per cui la crocifissione non può essere considerata un errore giudiziario o il frutto di una debolezza politica di Pilato o di un raggiro ben orchestrato del pontefice Caifa, bensì una scelta consapevole del potere romano in carica, eventualmente di concerto con la volontà giustizialista della casta sacerdotale.

Il secondo presupposto è non meno radicale, almeno sul piano ermeneutico: Gesù Cristo era ateo, per cui, se anche voleva compiere un’insurrezione nazionale, dai nemici interni ed esterni, non aveva in mente di realizzare alcun “regno di dio”.

Naturalmente un qualunque esegeta può sostenere che una tale rappresentazione della figura di Gesù non è che una proiezione della stessa concezione di vita della persona che l’ha formulata. Ma da una tale critica non ci si può far mettere in crisi, poiché l’elemento soggettivo, nell’elaborazione di determinate tesi interpretative, va dato per scontato. Qualunque “comprensione” parte sempre da una “pre-comprensione”. Si legga Gadamer per convincersene.

Gli stessi vangeli vengono definiti “tendenziosi” proprio perché i redattori avevano come obiettivo principale quello di sostenere la “divinità” del Cristo (che è la cosa meno dimostrabile di questo mondo), spoliticizzandolo al massimo.

L’obiettività di un’argomentazione dipende dall’argomentazione stessa, non da qualche autorità dogmatica. Solo il tempo potrà dire quale tesi interpretativa risulta più obiettiva di altre.

Per un’esegesi critica dei vangeli

Al giorno d’oggi non ha più senso scrivere un testo su Gesù Cristo usando i “forse”, i “può darsi”, le frasi dubitative o interrogative, come se non fosse possibile fare altro. Non è più ammissibile lasciare alle confessioni cristiane il diritto d’interpretare un personaggio storico come questo, peraltro così indebitamente strumentalizzato, sotto il pretesto che le fonti sono quello che sono e altre non ne abbiamo.

L’esegesi confessionale non ha mai usato i “se” e i “forse”, e continua a non farlo. Sono circa due secoli che invece lo fa quella laica, per cercare di smontare l’avversaria, svelando le tante incongruenze delle fonti e le loro interne contraddizioni. Tuttavia è ora di superare questa fase di critica negativa.

Non possiamo aspettare di scoprire una fonte decisiva, che smonti in maniera incontrovertibile le consuete interpretazioni dei classici vangeli. Tutte le nuove fonti che dal 1945 ad oggi sono state ritrovate (dai codici di Nag Hammâdi ai rotoli di Qumran) non ci hanno chiarito, in maniera definitiva, i dubbi e le perplessità che suscitano, a una lettura non superficiale, le cosiddette “fonti canoniche”.

Forse l’unica vera fonte che ci ha lasciato senza parole è stata, nell’ultimo secolo, la Sindone. Per noi infatti si può tranquillamente escludere che la complessità di quell’immagine sia da attribuire a un falsario.

Noi diamo per scontato che qualunque azione sovrumana abbia potuto compiere Gesù, in vita, costituisca una falsificazione o mistificazione operata dagli evangelisti o comunque dalle loro comunità di appartenenza. Stesso giudizio diamo per le frasi o i gesti di tipo mistico o religioso in cui egli si esprime. Siamo però disposti ad accettare l’idea che in quel lenzuolo funebre l’immagine si sia impressa in una maniera che sfugge alla nostra comprensione razionale. Tuttavia siamo lontanissimi dall’intenzione di costruirci sopra una nuova religione o di usare quel reperto per cercare delle conferme a favore del cristianesimo.

Questo per dire che oggi possiamo fare un passo avanti, rispetto alla tradizionale esegesi demitizzante (nata in ambito protestantico), e rischiare una lettura non dubitativa ma affermativa dei fatti riportati nei vangeli. Una lettura che sia la più possibile coerente, la cui credibilità stia proprio nella sua intrinseca organicità e non tanto nell’erudizione intellettualistica con cui si va al disquisire sul significato originario di questo o quel termine o singolo versetto.

Non possiamo soffermarci troppo sui significati reconditi delle parole. Non è possibile pensare che la semantica di un detto di Gesù, di una pericope o di un evento o dell’intera sua vicenda possa dipendere proprio da un qualche enigma o cripticità appositamente voluta dal redattore di un vangelo.

Dobbiamo abituarci ad avere uno sguardo d’insieme, senza soffermarci troppo sui particolari, anche se non è da escludere che proprio alcuni particolari possono aiutarci in maniera decisiva ad avere una visione olistica delle cose. Dobbiamo trovare il filo conduttore che tiene uniti gli eventi, nella consapevolezza che la ricostruzione sarà comunque limitata, benché non tendenziosa come quella confessionale.

Certamente siamo consapevoli che non tutti sono liberi di parlare, di dire quello che pensano: gli stessi evangelisti furono enormemente condizionati dall’egemonia di quella teologia che può essere definita col termine “petro-paolina”.

Tuttavia qualunque redattore deve essere consapevole che se col suo testo vuole trasmettere un messaggio a qualcuno, non può pretendere che solo una mente sopraffina possa capirlo. Non ci piace pensare che il senso ultimo delle cose debba essere diffuso in virtù di un certo aristocraticismo intellettuale. Anche perché tale modo di esprimersi sarebbe del tutto contraddittorio a quello scelto da Gesù, che addirittura si rifiutò di lasciare qualcosa di scritto, sapendo evidentemente che la scrittura non offre maggiori garanzie di autenticità rispetto alla trasmissione orale delle conoscenze.

Se nei vangeli appaiono cose che apparentemente non hanno alcun senso (come p.es. maledire un fico che non dava frutti, essendo fuori stagione), ciò va attribuito esclusivamente agli autori dei vangeli, non a Gesù Cristo. E noi non possiamo perdere tempo nel cercare d’individuare l’esatto significato delle loro parole, anche perché, avendo a che fare con autori “sospetti”, si continuerebbe a restare entro il perimetro del loro misticismo.

Tornando alle questioni delle fonti, si può qui aggiungere che si è capito da un pezzo che su nessuna cosa (idea o fenomeno che sia) si possono avere delle prove schiaccianti, assolutamente inconfutabili. Il che però non vuol dire che dobbiamo essere dei relativisti assoluti, poiché anche una posizione del genere sarebbe dogmatica. Vogliamo semplicemente dire che alla verità oggettiva delle cose ci si può avvicinare soltanto in maniera graduale, nella certezza che una qualche oggettività necessariamente esiste.

Spesso la stessa scienza non è altro che un atto di fede, soprattutto quando si pensa che determinate scoperte o invenzioni non avranno conseguenze negative sull’ambiente e sulla vita umana. Oggi la laicità non si qualifica semplicemente perché dice di “pensare” o di “ragionare” e non di “credere”. Tutti crediamo in qualcosa, che lo si voglia o no. Al 100% non siamo sicuri di nulla. Ci giochiamo la nostra libertà di scelta all’interno di un certo margine d’incertezza. Siamo umani e non ce ne vergogniamo.

Un esegeta quindi non deve fare sfoggio di particolare erudizione, meno che mai se vuole rivolgersi a un pubblico di media cultura. Può ammettere tranquillamente, sin dall’inizio, di non sapere che poche cose essenziali, di non aver letto le oltre centomila biografie che negli ultimi tempi sono state scritte su Gesù Cristo. Se un esegeta dovesse prendere in esame tutte le versioni discordanti, presenti nelle fonti del cristianesimo primitivo, che si riferiscono a questo o a quel versetto o pericope, mostrando i pro e i contro, finirebbe con lo scrivere dei mattoni per pochi specialisti. La forza dei suoi ragionamenti deve invece stare nella capacità di argomentare determinate tesi. Il resto deve lasciarlo decidere alla storia.

Le uniche cose che un esegeta laico non può permettere è che, in nome di una fede religiosa, tutti siano costretti a credere o comunque ad accettare una Chiesa di stato o uno Stato della chiesa o uno Stato confessionale. La libertà di coscienza è un valore che va difeso dalla coscienza della libertà.

Oltre a ciò è evidente che un esegeta laico non può interpretare i vangeli, neanche per un momento, così come i redattori volevano essere interpretati. Questo perché deve dare per scontato che le loro posizioni ideologiche sono fortemente tendenziose, non solo per il forte contenuto antisemitico, ma anche per la continua preoccupazione che hanno a trasformare, da un lato, l’ateismo del Cristo in una palese teologizzazione della sua vita personale e della vita umana in generale; e, dall’altro, a spoliticizzare al massimo la sua strategia insurrezionale contro l’occupazione romana e il collaborazionismo ebraico che la supportava. In entrambi i casi l’intenzione era e ancora oggi è quella di ridurre quanti credono in lui in persone scettiche e rassegnate, disposte a sostituire la parola “liberazione” con la parola “redenzione”.

Nelle intenzioni degli evangelisti il Cristo è “politicizzato” solo quel tanto che serve per opporsi alla casta sacerdotale, per la quale la religione era, peraltro, un tutt’uno con la politica. Il Cristo dei vangeli viene obbligato dai redattori a porre le premesse ideologiche per la nascita di una istituzione religiosa, la Chiesa, che non crede possibile la liberazione umana su questa Terra e che, nel contempo, non permette all’istituzione civile di agire in assoluta autonomia. Sarà infatti la Chiesa a spiegare ai sovrani ciò che è bene e ciò che è male sul piano teologico e persino etico (quante volte si è sentito dire dalle autorità ecclesiastiche che senza religione l’etica non può essere umana?).

Ovviamente ci rendiamo conto che, in teoria, tutte le fonti scritte rischiano di apparire come tendenziose, proprio perché esistono delle civiltà antagonistiche da almeno seimila anni. In genere gli intellettuali si pongono al servizio dei potenti, e quando non lo fanno, vengono facilmente travisati, manipolati o censurati. Nell’antichità, prima della nascita della stampa, era sufficiente modificare i pochi manoscritti esistenti, riscrivendoli in maniera appunto tendenziosa o capziosa, ed eliminando l’originale.

Oggi invece è sufficiente fare in modo che i mezzi di comunicazione non… comunichino nulla di autentico, nulla di originale. Uno può dire o scrivere ciò che vuole contro il sistema, ma difficilmente riuscirà a divulgare in modo significativo le proprie informazioni o interpretazioni.

Al tempo dei Greci e dei Romani erano i cosiddetti “barbari” ad essere ostracizzati, nonché tutti quelli che non parlavano greco o latino. Nel Medioevo l’ostilità ideologica era nei confronti della Chiesa ortodossa e dell’Impero bizantino, avvertiti nell’Europa occidentale come concorrenti molto più temibili degli Arabi o dei Turchi. In epoca moderna l’odio viscerale si è manifestato, in tutto il mondo, nei confronti delle idee social-comuniste.

Rebus sic stantibus: ha senso “citare le fonti”? Quali fonti possono pretendere maggiore attendibilità di altre? Esiste forse qualcuno che possa garantirlo? Il discorso qui sarebbe lungo, ma, se vogliamo essere concreti, è meglio sostenere che uno studio su Gesù Cristo può avere un qualche valore se ciò che si pensa di affermare può essere utilizzato come premessa per affrontare il nostro presente, impegnandosi per risolvere le contraddizioni che c’impediscono d’essere liberi.

Ovviamente non ha alcun senso fare di questa “premessa” il significato “integrale” della propria vita. Occorre uno svolgimento pratico della teoria, che porti a riformulare quest’ultima in chiave moderna e a trovare nuove soluzioni operative per il presente. Ciò d’altra parte sarebbe conforme allo stesso oggetto esaminato, cioè i vangeli, che sono appunto un invito a cambiare vita. E dobbiamo farlo in relazione all’epoca in cui viviamo, lontanissima da quella del movimento nazareno e del cristianesimo primitivo.

Chi pensa sia sufficiente un esame meramente “teorico” del “caso Gesù”, si è già posto fuori strada. Sarebbe come esaminare i grandi rivoluzionari della storia (Marx, Lenin, Trockij, Mao Zedong, Che Guevara, Ho Chi Minh…) senza chiedersi se quanto hanno detto e fatto abbia ancora un valore effettivo per il presente. Chi non attualizza le grandi idee e conquiste del passato, non è in grado di comprendere nulla in maniera adeguata.

La mistica della morte

Quando nel quarto vangelo viene fatto dire a Gesù, già entrato a Gerusalemme per compiere l’insurrezione nazionale anti-romana, che “il figlio dell’uomo deve essere glorificato” (12,23), con questo verbo, usato al passivo, come se la cosa non dipendesse completamente da lui ma da un’entità superiore (che ai vv. 27-8 viene identificata esplicitamente col “Padre”, il dio dei cieli), gli autori intendono non il fatto ch’egli sarebbe dovuto diventare un leader politico, riconosciuto a livello nazionale, per la liberazione dell’intero paese, bensì l’idea, del tutto mistica e quindi tendenziosa e falsificante, ch’egli avrebbe dovuto immolarsi, cioè sacrificare la propria vita per indurre gli uomini alla salvezza.

“Ora la mia anima è turbata” (di fronte alla propria auto-immolazione non può non esserlo, poiché deve per forza chiedersi se il gesto che sta per compiere servirà davvero a qualcosa); “e che dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma se è proprio per questo che ho atteso quest’ora!” (v. 27). Cioè non ha senso avere dei dubbi nel momento stesso in cui si ha la possibilità di dimostrare finalmente quel che si vale al mondo intero. La “determinazione in carattere” va considerata assolutamente decisiva, per usare una terminologia kierkegaardiana; anche se qui ovviamente non si può escludere che, in una concezione così irrazionalistica della vita, il martire non possa avvalersi di strumenti idonei per indurre il potere a eliminarlo. In fondo sta anche nella sua destrezza far passare il proprio suicidio religioso per un omicidio di stato. E, nel caso in oggetto, si potrebbe facilmente pensare che l’ingresso nella capitale, proprio in occasione della Pasqua, sarebbe stata un’occasione ottima per provocare le autorità costituite, occupanti e colluse.

Il “granello di frumento” – di cui si parla al v. 24 – deve “morire” per poter produrre “molto frutto”. Questa mistica della morte è stata elaborata per falsificare un progetto di liberazione politica (ovviamente anche sociale e culturale), di cui i discepoli più stretti (in primis Pietro) non hanno voluto ammettere il fallimento a causa della loro incapacità o inettitudine, non essendo stati sufficientemente risoluti per impedire che avvenisse o per proseguire quel progetto anche dopo l’esecuzione capitale del loro leader, che i Romani riservavano appunto ai sediziosi o rivoltosi.

La morte in croce di un capo politico è stata trasformata in una suggestione psicologica e morale per una salvezza esclusivamente religiosa. Qui infatti si è in presenza di una sorta di paradossale provocazione di tipo metafisico, non scevra da effetti scenico-teatrali, che ricordano le tragedie greche.

La morte accettata consapevolmente, da parte di chi avrebbe potuto evitarla, viene qui considerata come la prova suprema della verità di sé e dell’operato dei propri discepoli, di fronte alla quale il popolo non potrà rimanere indifferente. Il Cristo è “testimone di verità” proprio in quanto martire. Un’equivalenza, questa, la cui forzatura venne sottolineata dal primate danese Martensen al suddetto filosofo Kierkegaard, intento a cercare motivazioni per contestare la chiesa di stato. Un’equivalenza che ancora oggi troviamo in tante religioni fondamentalistiche.

La salvezza sta quindi nel fatto che ci si deve convertire solo interiormente, opponendo una forma di resistenza etico-religiosa ai poteri costituiti. La vittoria starà soltanto in una progressiva espansione pacifica della virtù, nei cui confronti il potere dovrà ad un certo punto cedere. Infatti, se i credenti seguiranno l’esempio del loro maestro, tutte le persecuzioni non faranno che allargare il consenso. Il seme dà frutto proprio quando muore, cioè quando, penetrando nella terra (nei cuori degli uomini), esplode e fa crescere la pianta, che dà molti frutti.

“Chi ama la sua vita”, cioè chi non è disposto ad accettare il martirio, “la perde”, cioè non si salva, non può diventare un seguace significativo dell’esempio che dovrebbe imitare, e non semplicemente ammirarlo sul piano etico o apprezzarlo su quello intellettuale; “e chi odia la sua vita in questo mondo”, ritenendola un nulla al cospetto del bene supremo, della verità che deve affermare, che vuole vedere affermarsi, “la conserverà in vita eterna”, cioè avrà un premio nell’aldilà (“il Padre l’onorerà”, v. 26).

Mistica della morte vuole appunto dire questo, che si deve accettare il martirio non tanto per realizzare la giustizia su questa Terra, quanto piuttosto per poter fruire di una salvezza personale nel regno dei cieli. Su questa Terra, infatti, se il modello originario non è riuscito a realizzare il bene assoluto, è impossibile che vi riesca la sua copia sbiadita, per usare un linguaggio platonico. Il peccato originale ha reso gli uomini incapaci del vero bene. L’unico che possono realizzare è quello di accettare una persecuzione sino alla morte, mostrando che di questo mondo non amano nulla, nemmeno se stessi. L’unica cosa che amano è la salvezza della loro anima, che non vuole contaminarsi spiritualmente con alcunché.

Il cristianesimo – direbbe Nietzsche – è la religione degli sconfitti, quelli che vogliono trasformare il fallimento del progetto politico di liberazione in una occasione di redenzione meramente spirituale, una liberazione dalle tentazioni del mondo, da tutte le sue forme di corruzione. “La nostra battaglia – dirà Paolo, il vero fondatore del cristianesimo – non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (Ef. 6,11).

È quindi impossibile che gli autori di questo vangelo non appartengano a una comunità di tipo monastico: la scelta stessa dell’esempio del chicco di frumento lo dimostra. Un monaco agricoltore si accorge facilmente quando il seme non riesce a dar frutto, o perché beccato dagli uccelli o perché seccato dal sole o perché soffocato dalle erbacce.

Per essere coerenti con se stessi, il più possibile, dovevano necessariamente isolarsi dai contesti urbani, cercando di vivere esclusivamente di autoconsumo, di cui il pane era l’alimento principale. Essi finirono col riprodurre una forma di esistenza sociale simile a quella degli Esseni di Qûmran, con la differenza che mentre questi aspettavano un messia liberatore della Palestina, i redattori monaci del vangelo attribuito a Giovanni davano invece per scontato che tale messia era già arrivato e che non sarebbe più tornato sino alla fine dei tempi.

La scelta monastica quindi non sarebbe stata provvisoria, ma definitiva. Dalla comunità monastica non sarebbe più uscito un nuovo predicatore, come p.es. Giovanni Battista, il quale si era reso conto che occorreva rivolgersi più direttamente al proprio popolo, senza aspettare che fosse quello ad accorgersi del valore della comunità. La comunità cristiana monastica avrebbe dovuto soltanto attendere passivamente, con assoluta rassegnazione, la fine della storia, il ritorno glorioso del Cristo giudice, confidando nel fatto che la scomparsa misteriosa del suo cadavere dalla tomba concessa da Giuseppe d’Arimatea fosse un chiaro segno della sua “divina resurrezione”.

L’unica fatica da fare era quella di resistere alle tentazioni della vita mondana: le comodità, il benessere, i piaceri della carne, la ricerca di un potere personale. Il monaco cristiano doveva continuamente mortificare il proprio corpo, e persino il proprio spirito, se questo gli avesse impedito di vivere in armonia coi compagni di fede.