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I patiti delle esecuzioni capitali. Non sono solo gli Usa a non dimenticare…

Le polemiche sulle foto di Bin Laden morto da mostrare o no stanno assumendo toni surreali. Strano che nessuno ricordi che nel ’79 quando l’allora direttore de L’Europeo Giovanni Valentini pubblicò le foto del cavadere di Aldo Moro sottopposto ad autopsia venne sanzionato dall’Ordine dei giornalisti. Le foto erano state ritenute infatti non solo raccapriccianti, ma anche una profonda mancanza di rispetto, se non vilipendio, sia del morto che della sua famiglia.  L’attuale polemica sulle foto del cadavere di Bin Laden è particolarmente surreale in Italia, Paese nel quale – nonostante le promesse e le minacce di qualche ministro di pubblicarle per far diminuire il nostro record europeo di morti sull’asfalto – il governo le foto dei cadaveri degli incidenti d’auto, specie di quelli con incendio delle vetture, NON le pubblica da nessuna parte, né su giornali né in televisione. L’Italia è anche il Paese nel quale il sindaco di Milano “capitale morale” (?) d’Italia, signora Letizia Moratti, riesce a far sparire i cartelloni pubblicitari con la foto shockante di una ragazza anoressica nuda, foto scattata la Oliviero Toscani per una campagna contro l’anoressia che pure miete vittime. Tant’è che di recente è morta, per anoressia spinta alle estreme conseguenze, proprio la modella di quella foto.
Pubblicare le foto per convincere il pubblico che Osama è davvero morto serve a poco: negli Usa c’è gente convinta che Elvis Presley non sia affatto morto. Gente che non c’è prova provata che la possa convincere. Fiato sprecato. Foto pure. Continua a leggere

Libia sì, Barhain e Arabia Saudita no. Fallito in Libia il collaudo di tipo afgano da riutilizzare poi in Iran. Che resta però candidato a vittima del terremoto giapponese

1) – Cosa è successo in Libia pare ormai chiaro. Una rivolta circoscritta è stata spacciata per rivoluzione dai mass media dell’Arabia clerical petrolifero monarchica seguiti a razzo dai nostri. Lo scopo era di poter mandare istruttori militari occidentali per organizzare i rivoltosi e armarli a dovere. Insomma, il bis della creazione dei talebani fatta a suo tempo dagli Usa in Afganistan contro l’Unione Sovietica. Questa volta al posto dei talebani gente comunque utile a buttar giù Gheddafi per sotituirlo con un Kharzai libico, manovrabile a piacere da Washington e Londra. Questo spiega la assoluta mancanza di foto e prove vere dei “massacri e bombardamenti di interi quartieri civili” di cui si è cianciato assieme ai falsi delle “fosse comuni” e del “genocidio”, oltre alla assoluta mancanza di foto e  video di masse di rivoltosi, abbondanti invece durante le manifestazioni del Cairo e Tunisi. Spiega anche perché ancora oggi si vedono solo foto e  video di rivoltosi con armi pesanti, come le molte camionette con mitragliatrici di grosso calibro, antiaeree o antiblindati. Fosse andata bene, l’intervento clandestino in Libia sarebbe probabilmente diventato il collaudo dell’intervento da bissare in Iran. Continua a leggere

La sfrontatezza bugiarda di Berlusconi, che crede siano tutti coglioni. E lo strano eroismo di Saviano, che dai bimbi di Gaza si tiene ben lontano…

Il Chiavalier Silvio Berlusconi deve essere convinto che gli italiani siano tutti coglioni, per usare il termine che a suo tempo lui ha usato per indicare chi vota per la sinistra, convinzione che evidentemente gli viene dalla constatazione che nonostante tutto c’è molta gente che lo ha votato e c’è ancora chi lo voterebbe. Solo un coglione può infatti credere che le notizie rivelate da Wikileaks  siano solo balle e gossip dopo che il suo ministrello degli Esteri Franco Frattini  le ha messe nel mazzo delle cause dell”11 settembre mondiale”. Dobbiamo ricordare che con la data dell’11 settembre si indica una tragedia, l’abbattimento terroristico delle Twin Tower con annessi più o meno 4.000 morti e non una delle barzellette care al Chiavaliere. I gossip NON possono produrre tragedie, tanto meno enormi come quella che sarebbe un “11 settembre mondiale”. E’ quindi evidente che il Cainano di Arcore mente, ancora una volta, sapendo di mentire. Così come è evidente, ancora una volta, che Frattini è un ministro più della Mancanza di Dignità che degli Esteri, perché se avesse un minimo di dignità si dimetterebbe dopo essere stato smentito così clamorosamente, cioè sputtanato, dal capo del governo. Continua a leggere

Il capitalismo dal feudalesimo ad oggi

Intorno al Mille il capitalismo non nacque solo come reazione al feudalesimo in generale, altrimenti dovremmo chiederci il motivo per cui non sia nato anche in Europa orientale, dove il servaggio era pur sempre presente.

Il capitalismo è stato anche la conseguenza, più o meno inevitabile, di un certo tipo di feudalesimo: quello appunto dell’Europa occidentale, sviluppatosi sotto l’influenza del cattolicesimo latino. E’ stato, in un certo senso, una risposta sociale individualistica a un’affermazione politica individualistica.

Se vogliamo il capitalismo, ai suoi albori, cioè nella fase meramente mercantile e manifatturiera, non è neppure stato un’esplicita reazione al feudalesimo corrotto dei Franchi, dei Sassoni e soprattutto della chiesa romana.

Sarebbe meglio dire che, almeno nella sua fase iniziale, il capitalismo ha potuto convivere in maniera relativamente tranquilla col feudalesimo occidentale, proprio perché qui il livello di eticità dei poteri forti era piuttosto basso.

Essendo i vertici governativi (sovrani laici ed ecclesiastici) molto corrotti (i Franchi, che permisero al papato di diventare una potenza politica, avevano preso il potere con vari colpi di stato e cattolicizzarono con la forza i Sassoni), inevitabilmente col tempo lo era diventata anche la società (specie quella delle realtà urbane), e quanto più questa si corrompeva, tanto meno i vertici erano in grado di controllarla, salvo usare, di tanto in tanto, durissime contromisure (inquisizioni, scomuniche, crociate ecc.), le quali però incontravano resistenze ancora più forti, e non necessariamente in positivo, ma anche solo in negativo, come quando, p.es., dopo tutte le inaudite repressioni a carico dei movimenti ereticali medievali, scoppiò improvvisamente la riforma luterana, che certo non faceva della povertà evangelica uno stile di vita.

Il capitalismo euroccidentale ha incontrato un’opposizione esplicita da parte del feudalesimo soltanto quando ha preteso una rilevanza politica. Infatti, finché si è mantenuto entro i limiti dell’opposizione economica, è stato relativamente tollerato, nel senso che ci sono stati periodi di maggiore e minore acquiescenza, a seconda delle particolari situazioni.

Il primo vero scontro politico tra feudalesimo e capitalismo è avvenuto con la riforma protestante; il secondo con la rivoluzione francese (anticipata da quella americana, che però più che uno scontro tra feudalesimo e capitalismo, fu uno scontro nell’ambito del capitalismo, tra madrepatria e colonia, in quanto in quest’ultima il feudalesimo era praticamente inesistente. Gli inglesi giunti nel Nordamerica, ma anche i francesi, gli olandesi ecc., avevano sin dall’inizio l’intenzione di comportarsi come capitalisti, e hanno potuto farlo molto agevolmente proprio perché non incontrarono opposizioni di sorta, salvo quella indigena, che però non ebbe mai una direzione centralizzata per opporsi efficacemente: l’unica fu quella di Sitting Bull).

Si può in sostanza dire che il feudalesimo ha avuto il suo picco trionfale col Congresso di Vienna del 1815, cui subito dopo fecero seguito vari moti popolari che portarono alle rivoluzioni del 1848-49, sino alle ultime del 1860-61 e 1870-71.

La borghesia riuscì finalmente a rovesciare dal trono l’aristocrazia politica e a gestire il potere in proprio, senza peraltro riconoscere alcun vero diritto agli operai e soprattutto ai contadini che l’avevano aiutata in questa impresa. Ecco perché si parla, in riferimento all’Ottocento, di rivoluzioni tradite.

La borghesia non volle spartire il potere con nessuno, anzi, una volta acquisito definitivamente quello di tipo politico-nazionale, scatenò una fase colonialistica su scala mondiale (imperialismo), riducendo a un nulla il primato storico degli imperi coloniali di quelle nazioni che non erano mai diventate capitalistiche in senso industriale (Spagna e Portogallo) e che pensavano di poter campare di rendita in eterno.

Olanda, Francia e Inghilterra dominarono il mondo, proprio perché la borghesia, una volta andata al potere, non ebbe ripensamenti di sorta, voleva arricchirsi a tutti i costi, usando qualunque mezzo.

Al loro posto avrebbero dovuto esserci l’Italia e la Germania, che con l’Umanesimo, la prima, e la riforma protestante, la seconda, erano riuscite ad anticipare tutti. Ma la borghesia di questi due paesi fu pavida e, per timore di non farcela, cercò i compromessi coi poteri forti del feudalesimo: la chiesa in Italia, i latifondisti in Germania.

Ecco perché furono proprio questi due paesi a scatenare le due guerre mondiali o comunque a mettere gli altri paesi in condizioni di doverlo fare. Avevano bisogno di recuperare il tempo perduto, di rimettere in discussione la spartizione della torta coloniale. Avevano soprattutto bisogno di eliminare gli ultimi residui europei di imperi feudali: russo, turco e austro-ungarico. Cosa che se riuscirono a fare con gli ultimi due, nulla poterono col primo, dove l’inaspettata rivoluzione bolscevica, con un colpo solo, aveva posto fine tanto all’autocrazia zarista quanto al neonato capitalismo.

Gli operai e i contadini al potere preoccuparono così tanto le nazioni borghesi che, ad un certo punto, alle loro rivalità interimperialistiche prevalsero le intese anticomuniste. Si volle sì condannare il nazifascismo, ma solo rispetto alla democrazia parlamentare borghese.

Oggi la dialettica storica ci porta a questa situazione paradossale: proprio mentre il capitalismo occidentale è riuscito a imporsi a livello mondiale, riuscendo persino a dimostrare che il socialismo di stato non era in grado di reggere il confronto, le leve del potere economico sembrano trasferirsi alle potenze asiatiche (Cina e India), le quali, nel prossimo futuro, inevitabilmente, si sentiranno impegnate a togliere all’area occidentale (statunitense, europea e nipponica) anche le leve del potere politico.

La Russia sta cercando di recuperare i ritardi del proprio sviluppo capitalistico, sfruttando le enormi riserve della Siberia, ma non ha i numeri demografici sufficienti per farlo e non ha neppure (se non nelle grandi città, ma questo, al momento, vale anche per Cina e India) la mentalità giusta per compiere un’autentica rivoluzione borghese. Perché la mentalità cambi occorre acquisire l’ideologia dei diritti umani teorici, delle libertà giuridiche formali: è proprio questa ideologia che permette di mascherare le forme economiche dello sfruttamento.

Due incognite, al momento, restano il Sudamerica e l’Africa, che non riescono a liberarsi del neocolonialismo economico che le lega agli interessi del polo occidentale (anzi, in questo momento, stanno subendo anche la penetrazione delle merci e dei capitali cinesi). In ognuno di questi due centri del Terzo Mondo le nazioni, prese singolarmente, sono troppo deboli per potersi opporre con successo all’imperialismo del capitale.

Iran: Berlusconi semina, Ahmadinejad raccoglie. Caro Ratzinger, ma lei l’ordine che ha inviato nel 2001 a tutti i vescovi del mondo di tacere alle autorità civili qualunque caso di pedofilia del clero lo ha ritirato sì o no? A giudicare dal nuovo scandalo e annesso silenzio della curia di Bologna, si direbbe proprio di no. Dalla Milano da bere alla Lombardia, e non solo, da spolpare: il nostro capo del governo spiega che i peggiori sono per lui “i migliori”

A Teheran stanno facendo il gioco di Silvio Berlusconi e dei suoi manovratori. Così è più facile ricominciare il tiro al piccione contro l’Iran, con l'”informazione” giornalistica che ci dà fulmineamente conto non solo di ciò che accade, ma anche di ciò che si vorrebbe accadesse ma non è ancora accaduto. Una domanda: come mai invece della Palestina non si ha MAI una altrettanto fulminea informazione? Per l’Iran diamo retta anche a twitter e affini, senza uno straccio di verifica, in Palestina invece diamo retta solo al portavoce del governo israeliano. Vi accadono soprusi a volte degni dell’Iran, ma NON se ne parla. Ahmadinejad gioca chiaramente la carta dell’esasperazione della tensione politica internazionale, in modo da poter dare meglio un giro di vite interno, e arriva a dichiarazioni provocatorie anche demenziali, però ha dichiarato chiaro e tondo in piazza che l’arricchimento dell’uranio per la famosa bomba atomica non interessa l’Iran. Concetti del resto già detti più volte, ma in quei casi ha fatto cilecca non solo twitter…

La rinuncia alle atomiche da parte di Ahmadinejad  sa di volpe che non arriva all’uva e dice che è acerba, visto che a parte le chiacchiere soprattutto made in Usa e Israele – remake delle balle sulla “bomba” irachena – l’Iran non ha nessuna possibilità di arrivare a costruirla. Però il gioco al massacro, per ora a parole in attesa di poterlo trasformare in carne e sangue dei vinti, continuiamo a giocarlo. Il capo del governo o il capo dello Stato iraniano gridano che in Israele “collasserà” il sionismo – solo il sionismo, si badi bene, non Israele – ma i giornali traducono che ha gridato “Israele sarà “schiacciato”. Israele, non il sionismo. Che è chiaramente cosa diversa da Israele, così come un qualunque regime politico di uno Stato è cosa diversa dallo Stato con quel regime. Gli Usa e Israele e l’Europa vogliono far crollare il regime teocratico dell’Iran, ma questo NON significa che vogliano schiacciare l’Iran. O no? Di ritorno dal mio viaggio in Iran scrissi che il regime teocratico era condannato a crollare, perché la società civile è molto più avanti del regime, e nessuno s’è sognato di accusarmi di volere che l’Iran venisse “schiacciato”. O no? Sono molti i Paesi che sperano che in Italia crolli il “regime berlusconiano”, cosa sperata da un buon terzo degli stessi italiani, ma a nessun furfante verrebbe in mente di dire che tutti costoro vogliono che a crollare o ad essere “schiacciata” sia l’Italia. O no? Continua a leggere

Berlusconi e Travaglio uniti: contro i palestinesi. Papino il Breve seppellisce Obama del Cairo e medita di comprarsi l’Eni spendendo però il meno possibile. Ecco perché gli serve danneggiarla con il demenziale ordine di abbandonare l’Iran, il nostro maggiore fornitore di petrolio: per far calare il prezzo dell’oro nero in Borsa. E se in Italia ci scappasse l’attentato sarebbe l’occasione buona per passare dalle leggi ad personam alle leggi speciali. E’ il Partito dell’Amore, bellezza!

In Israele il nostro capo del governo Silvio Berlusconi ha dato il meglio di sé, cioè a dire il peggio in assoluto. Sulla spinta verso il cielo dei suoi fenomenali tacchi non ha saputo resistere alla tentazione di sentirsi più vicino al Dio della bibbia aggiungendo di getto al testo del discorso scritto l’infelice e indecente frase “La reazione di Israele a Gaza è stata giusta”. Oltre che l’ONU, una bella fetta della stessa popolazione israeliana, compreso un bel gruppo di militari che a Gaza c’erano, tutti sanno che la reazione contro Gaza non è stata affatto “giusta”. Ho dimostrato in una precedente puntata del blog che massacrare in due settimane 1.400 persone su un totale di 1.400.000 abitanti equivale a massacrare l’1 per mille dell’intera popolazione. In appena due settimane! E ho dimostrato che neppure l’intera campagna angloamericana di bombardamenti incendiari sulle città tedesche è arrivata a tanto, e in un periodo 50 volte più lungo. Con la sua bella improvvisata il Chiavalier Papino il Breve ha sotterrato Obama e il suo discorso de Il Cairo, peraltro cadavere già sotterrato da Netanyahu. Diciamo che Berlusconi ne ha sigillato la tomba.
Non vorrei essere nei panni di Marco Travaglio, o del Paolo Guzzanti riciclato nè di altri maestrini “di sinistra”, antiberlusconisti a tutto volume, ma per quanto riguarda Gaza berlusconissimi e filo mattanza anche loro. Travaglio col suo solito tono professorin-ieratico ha subito messo in chiaro nel suo blog, non appena i carri armati e i bombardamenti si sono messi in moto, che quella di Israele non era una guerra offensiva, ma una giusta operazione difensiva. Capisco che oggi è ormai impossibile non dico fare carriera ma anche solo non essere soffocati se non ci si inchina verso chi ha in mano gli assi, però certi eccessi andrebbero evitati. Guzzanti nel suo blog modestamente intitolato “Rivoluzione italiana” ha addirittura augurato a Israele  “buona guerra” contro Gaza, festeggiandola o supportandola con pacifiste del calibro di Fiamma Nierenstein, la vera vincitrice di questa fase politica.
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Ma Tartaglia era armato di duomo e crocefisso, attrezzi non proprio di sinistra, e Maroni e La Russa si sono dimostrati incapaci, altro che l’ondata di balle degli untori e dei mazzieri mediatici. A Togliatti spararono, ma non ci fu la reazione indecente stile berluscones sull’orlo di una crisi di nervi. Mentre i suoi scoppiano di odio più del solito, Berlusconi saggiamente parla di amore. Sicuri quindi che sconfesserà almeno l’odio seminato da anni a piene mani per esempio da radio Padania, eccogli qualche domanda in tema di amore

Ma Massimo Tartaglia contro Silvio Berlusconi non ha scagliato una piccola riproduzione del Duomo di Milano, cioè di una chiesa? E non gli hanno trovato nella sua borsa o valigetta un crocifisso di gesso lungo 30 centimetri? E allora come cavolo fanno i mazzieri di Berlusconi e i volenterosi untori al suo servizio a voler addebitare il gesto di quel disturbato psichico a chi non vuole più Berlusconi al governo anziché ai disturbi psichici di evidente stampo anche religioso di quel poveraccio di Tartaglia? E come mai i vari leader di “sinistra” fanno finta di non capire che chi va in giro con un crocifissone e riproduzioni di chiese può essere pericoloso a causa di possibili turbe “religiose”, tra tutte le più devastanti come dimostra a iosa la Storia? Possibile che il nanismo delle personalità dei leader della sinistra arrivi a un tal punto di bassa statura e di autocensura nei confronti di tutto ciò che sa di clero? Se si vuole per forza dare la colpa a qualcuno che ha “soffiato sul fuoco” di una mente psicolabile come quella di Tartaglia si potrebbe più realisticamente puntare il dito contro certe predicazioni clericali che da sempre divorano le menti non solo dei più deboli spingendoli ai gesti più scemi e a quelli più orrendi. Continua a leggere

La nostra solidarietà a Berlusconi colpito in faccia da uno squilibrato. Ciò non toglie però che deve smetterla di mentire e che deve dimettersi. Ecco perché, e senza bisogno né di Spatuzza né dei Graviano

Come spiegavo a una nostra forumista nel mio ultimo commento della puntata precedente, gli squilibrati esistono in tutto il mondo, ma ciò non toglie che colpire per giunta in pubblico un capo di governo, spaccandogli un labbro e rompendogli un dente, come è successo a Berlusconi, è cosa grave e inammissibile. Per fortuna non ci sono state conseguenze drammatiche o tragiche, e per fortuna il gesto è frutto di uno squilibrato anziché dell’idiozia di un gruppetto “politico”, eventualità che avrebbe precipitato il Paese nel baratro: è chiaro infatti da troppi sintomi che nelle file del partito berluscon-bossiano non aspettano altro che poter “regolare i conti”. Immagino però che gli untori di professione soffieranno sul fuoco comunque sulle prime pagine dei giornali, e del resto Berlusconi paga bene i suoi mazzieri mediatici.

E che i suoi mazzieri si metteranno alacremente all’opara è già chiaro fin dalle prime parole attribuite a Berlusconi al pronto soccorso. Leggo infatti sul sito di un quotidiano:
“Comunque Berlusconi, riferisce chi gli ha fatto visita, si è detto “amareggiato” per “questa campagna di odio nei miei confronti. Questo è il frutto – ha spiegato – di chi ha voluto seminare zizzania. Quasi me l’aspettavo…”. Berlusconi a tutti ha ripetuto di essere stato nei giorni scorsi nel mirino di una campagna di veleni. “Tutti dovrebbero capire che non è possibile oltraggiare un presidente del Consiglio, questa è la difesa delle istituzioni”. Al di là dell’amarezza, il Cavaliere ha sottolineato di non voler minimamente farsi impressionare dall’episodio. “Sono ancora qui e non mi fermeranno””.
Per parlare così ci vuole una bella dose di irresponsabilità e di faccia di bronzo. Se c’è qualcuno che conduce una campagna di odio è proprio lui, Berlusconi Silvio, che da mesi – anomalia unica nell’intero Occidente democratico –  accusa in continuazione i magistrati – fino alla Corte Costituzionale! – e ormai anche il presidente della Repubblica.
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Il fratello di Karzai è un grande produttore di oppio, al servizio della Cia. Nel nostro piccolo, Berlusconi col video di Marrazzo s’è comportato da ricettatore o da favoreggiatore? Mentre i vari “addict” della pantofola papalina, Rutelli-Binetti-Casini-& C se la intendono più che mai con lo Stato nemico della democrazia laica della Repubblica italiana

Sia in Italia che all’estero ormai capita spesso che non si riesca  distinguere se ciò che leggiamo sui giornali o vediamo in tv si riferisca alla situazione politica o a un film di gangster.
Per esempio: non solo si scopre che in Afganistan i brogli elettorali sono stati tali e tanti da costringere l’attuale presidente, Hamid Karzai, ad accettare il ballottaggio dopo essersi attribuito da un pezzo la vittoria elettorale al primo turno, ma si scopre anche che suo fratello Ahmed  è uno dei più grandi produttori locali di oppio, e quindi di eroina, droghe che rendono schiavi e uccidono decine di migliaia di giovani anche in Occidente. In altri termini, un criminale che miete vittime in tutto il pianeta. Eppure si scopre anche che è al soldo della Cia! La stessa Cia degli stessi Usa che nello stesso Afganistan si dicono impegnati a combattere anche i produttori di oppio perfino concedendo ai propri militari la licenza di ucciderli con “omicidi mirati”, come quelli degli israeliani contro i presunti terroristi palestinesi. Da notare che l’Afganistan che si rivela essere una fogna di corrotti molto peggiore di quel che già si sapeva e di quel che si intuiva è lo stesso Afganistan per il quale muoiono anche militari italiani. E nel quale in nome della democrazia di stampo occidentale vengono uccisi da militari occidentali una marea di civili afgani innocenti.

In Italia siamo al punto che i pericolosi deliri del nostro capo di governo contro qualunque organo giudiziario che faccia il proprio dovere, dalla magistratura di Milano alla Corte Costituzionale si sono incrociati perfino con una storiaccia come i ricatti a Piero Marrazzo, il governatore del Lazio fresco di dimissioni per una brutta vicenda di sesso a pagamento con transessuali per la quale ha purtroppo accettato di essere ricattato anziché denunciare subito i ricattatori. Come abbiamo appreso dalla stampa, Berlusconi e almeno un suo giornale sono venuti in possesso del filmato del ricatto, e il primo ministro ne ha anche parlato con il ricattato anziché denunciare tutto alla magistratura. Un comportamento talmente grave che anche se non integra il reato di omessa denuncia – il capo del governo non è equiparabile a un pubblico ufficiale? – emana il cattivo odore del reato di ricettazione e/o concorso in favoreggiamento e magari anche del ricatto implicito. Continua a leggere

La storiografia americana sulla politica estera (II)

Durante il periodo della guerra fredda sono esistite, per così dire, due correnti fra gli storici dello diplomazia: gli idealisti (Perkins, Bemis, Spanier) e i realisti (G. Kennan, H. Morgenthau). I primi promuovevano i valori morali e gli ideali umano-democratici nella politica estera americana; i secondi si basavano soprattutto sui concetti di “interesse nazionale” e di “equilibrio delle forze”. Entrambi i gruppi tuttavia difendevano risolutamente la politica estera di Washington. Ciò che li distingueva era semplicemente il livello del loro conformismo rispetto alle concezioni ufficiali dei governo.

Sotto questo aspetto i termini usati per classificare i due orientamenti sono alquanto convenzionali. Col passare del tempo comunque quello realista divenne il gruppo dominante, anche perchè non si lasciava sfuggire l’occasione di alludere ai valori dell’altra corrente. D’altra parte gli stessi idealisti non ignoravano la realtà degli affari internazionali.

La teoria conservatrice del consensus determinò la revisione dei giudizi che gli storici progressisti del XIX e metà del XX sec. avevano dato su molti avvenimenti della politica estera americana. Ad es. vennero riformulate le spiegazioni economiche di Pratt e Hacker sulla guerra dei 1812: se ne incaricarono B. Perkins Lie (figlio di Dexter Perkins), R. Horsman, N. Risjord e R. H. Brown, i quali ribadirono le vecchie concezioni secondo cui gli Usa non avevano alcun desiderio d’impadronirsi del Canada né della Florida, ma solo quella di difendere i loro diritti marittimi e l’onore nazionale.

Stessa cosa avvenne nel campo delle relazioni storiche angloamericane. Mentre prima, grazie ai lavori di Bemis e C. C. Tansill, si metteva l’accento sul conflitto in atto, dopo la II guerra mondiale gli storici americani concentrarono i loro sforzi nel mostrare che una tradizione di cooperazione e di fratellanza era quasi sempre esistita. Le opere fondamentali, in questo senso, furono quelle di B. Perkins e C. C. Campbell.

Il mutamento di clima si fece sentire anche sull’interpretazione data alla partecipazione degli Usa alla I guerra mondiale. Negli anni ’20 e ’30 c’erano i contrari e i favorevoli. Dopo il 1945 nessun rinomato storico americano sosteneva che gli Usa non avrebbero dovuto lasciarsi coinvolgere. La sola cosa su cui valeva la pena discutere per i conservatori era di sapere se il presidente Wilson era stato mosso do considerazioni pratiche o aveva agito sulla base di fini morali.

Tutto ciò però subì un’improvvisa sterzata alla fine degli anni ’60, cioè nel momento della guerra in Vietnam. Un nuovo gruppo di storici venne alla ribalta: i radicali o la cosiddetta “nuova sinistra”. Uno dei padri fondatori di questa corrente fu W. A. Williams, che trascinò con sé un gran numero di giovani storici pieni di talento, durante i suoi corsi all’università dei Wisconsin. Un ruolo significativo nella riconsiderazione della versione ufficiale sui motivi della guerra fredda fu svolto dagli studi di D. F. Fleming.

All’inizio degli anni ’70 moltissimi storici radicali cominciarono a rifiutare la tesi secondo cui le intenzioni dell’Urss dopo la II guerra mondiale sarebbero state “aggressive” (si pensi, ad es., a G. Alperovitz, L. C. Gardner, D. Horowitz, G. Kolko, W. Lafeber, C. Lash ecc.).

Questi storici ritenevano che non esistesse alcuna “minaccia sovietica”, in quanto gli Usa detenevano il monopolio delle armi nucleari e un considerevole grado di superiorità sui mari e nell’aria. Kolko, il più coerente dei radicali, arrivò persino a dire che gli Usa avevano perseguito i loro scopi imperialisti prima, dopo e durante la II guerra mondiale.

I radicali riesaminarono in modo più o meno approfondito quasi tutti gli argomenti degli studi conservatori sulla politica estera americana. A riguardo delle radici storiche dell’espansionismo americano, essi sostennero che la violenta conquista delle terre, avvenuta soprattutto a partire dal XIX sec., non rappresentò una rottura nella storia degli Stati Uniti, ma la naturale conseguenza di un lungo processo, i cui principali protagonisti furono le forze economico-commerciali del paese.

Anche Williams era perfettamente convinto che il capitalismo americano non avrebbe potuto svilupparsi così facilmente senza la rapida espansione del suo mercato in virtù dell’imperialismo. Egli sostenne anche che l’ideologia espansionista dei leaders americani durante e dopo gli anni ’90 del secolo scorso fu la trasposizione cristallizzata in “veste industriale” di quelle concezioni espansioniste in “veste agricola” che la maggioranza degli agrari del paese aveva sviluppato fra il 1860 e il 1893.

Altri storici radicali affrontarono argomenti più settoriali: T. J. McCormick, l’interesse dell’America per il mercato cinese alla fine del XIX sec; E. P. Paolino, le concezioni espansioniste del segretario di Stato W. H. Seward; J. E. Eblen, i crudeli metodi usati dagli Usa all’inizio della loro indipendenza in occasione dell’esproprio delle terre.

Resta strano il fatto che tali storici non abbiano affrontato importanti argomenti come la rivoluzione americana, lo guerra del 1812 o la Dottrina Monroe dei 1823. Interessante comunque è l’opera di H. I. Kushner sulle relazioni russo-americane nel nord-ovest del Pacifico e sulla storia del trattato sull’Alaska del 1867, attraverso il quale i fautori dell’espansionismo pensavano di sviluppare un mercato in Asia.

Le concezioni degli storici radicali sulla storia diplomatica e sulla politica estera Usa ebbero un certo successo fino alla metà degli anni ’70. Le ultime opere più significative sono state quelle di Gardner, Lafeber e McCormick. ll capovolgimento di fronte è stato improvviso. Gli accesi dibattiti sulla “sporca guerra” in Vietnam, sulla guerra fredda, sull’uso tendenzioso delle fonti storiche, sulla leadership e l’organizzazione dell’Associazione storica americana subirono una battuta d’arresto assai preoccupante.

La new left si sfasciò. Il trend patriottico conservativo si diffuse in tutto il paese. Si cominciò a parlare, dopo la celebrazione del bicentenario della nazione nel 1976, di new consensus e di sintesi post-revisionista, in grado di combinare le concezioni ortodosse degli anni ’50 con nuove idee revisioniste, al fine soprattutto di spiegare le origini della guerra freddo e di difendere le posizioni della “Truman Administration”.

Gaddis ammise che gli Usa cercarono di usare il loro potere economico per fare pressioni sull’Urss durante i negoziati relativi al piano Marshalli e al lend-lease. In breve tempo si formò l’idea che la rinuncia alla cooperazione fra Usa e Urss doveva essere addebitata a una comune responsabilità, e che anzi fu l’Urss che subito dopo la guerra cercò di garantire la sua sicurezza con l’uso di mezzi unilaterali (vedi le tesi di V. Mastny).

Inoltre, mentre gli storici radicali avevano sostenuto che moltissime nazioni, contro lo loro volontà, vennero incluse nella sfera d’influenza americana, i nuovi testi di G. Lundstad, B. R. Kuniholm, L. S. Kaplan affermavano invece che furono i paesi europei, scandinavi e mediorientali a chiedere l’appoggio degli Usa.

Per la nuova sintesi post-revisionista l’esistenza dell’impero americano doveva essere esplicitamente ammesso e si chiedeva ch’essa fosse tutelata nel migliore dei modi. Posizioni più realistiche e moderate di quella di Gaddis, si possono trovare in questo new trend nelle opere di G. Kennan e A. Harriman, ma restano minoritarie.

Questi nuovi storici conservatori non hanno alcun interesse a esaminare l’influenza delle classi medio-basse sulla politica estera americana. Essi inoltre si limitano a considerare tale politica da un punto di vista veramente nazionale, cioè senza utilizzare materiale proveniente da altri paesi.

Il loro scopo in pratico si riduce – come ha detto Lafeber – a difendere le posizioni assunte dal Dipartimento di Stato. Nulla di strano quindi che gli studi sugli affari esteri degli Stati Uniti siano diventati – come vuole C. S. Maier – un “figlio bastardo” degli studi storici americani.