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E Renzi ha fatto plof

La notizia è che Matteo Renzi ha perso e perso male. Però ha dalla sua il merito di avere suscitato l’interesse alla politica di una buona fetta dei giovani che di tutto si interessano fuorché di politica. Speriamo solo che non restino talmente delusi da questa sconfitta da ripiombare nel loro ghetto giovanile avulso da partiti, elezioni, politica, istituzioni, parlamento, ecc. Sarebbe un danno grave, molto grave. Che si aggiunge a danni già notevoli che i giovani subiscono con il degrado della scuola, dell’Università, dell’educazione civica e personale provocata da decenni di blablablà e scosciamenti televisivi oltre che di iperboli modaiole, e infine  dalla grande difficoltà a trovare un lavoro degno di questo nome e di una vita tutta da vivere.

In tv, e non solo nel confronto con Pierluigi Bersani, Renzi è parso un po’ troppo enfatico, troppo verboso, pronto più alla battuta a effetto che all’esposizione di programmi e strategie per risolvere i problemi dell’Italia. In politica estera la sua tirata contro l’Iran, che pareva quasi l’anticamera di una dichiarazione di guerra se fosse diventato premier, è apparsa di una rozzezza sorprendente come pure il molto riduttivo accenno a Gaza. In  vista del ballottaggio Renzi è diventato anche un po’ troppo polemico, lamentoso, in affanno, con quel suo  innescare il vicolo cieco del sospetto su trucchi vari per impedire ai suoi supposti fans il voto al ballottaggio: il tipico comportamento di chi sente sul collo il fiato della sconfitta e comincia perciò a straparlare di complotti. Non ho capito perché al ballottaggio non poteva partecipare chi non aveva votato al primo turno, e non l’ho capito anche perché nei Paesi dove vige il ballottaggio – Italia compresa per sindaci, presidenti di provincie,  senato e corte costituzionale – vota chiunque voglia di votare anche se non lo ha fatto al primo turno. Continua a leggere

Per una filosofia della storia (IV)

Il ruolo dell’Inghilterra

L’ultimo aspetto che andrebbe chiarito è il motivo per cui la rivoluzione industriale è avvenuta nei paesi anglosassoni e non in quelli latini. Il motivo può essere questo: la chiesa romana, pur essendo disposta al compromesso sui princìpi, non è disposta a perdere il potere politico. I compromessi li fa solo a condizione di conservare più o meno integralmente i propri privilegi. Ecco perché la rivoluzione industriale è potuta avvenire dove il potere politico della chiesa romana era più debole. L’”anello debole” della chiesa romana era l’Inghilterra.

Ma perché questa rivoluzione non è avvenuta in Germania, che pur era stata la prima a staccarsi dalla chiesa cattolica? Perché la Germania, allora, non era ancora una nazione e poi perché la sua mentalità tradizionale era di tipo filosofico-idealistico, simile a quella greca. Perché accadesse una rivoluzione borghese in Germania, occorreva prima di tutto una larga diffusione delle idee anticattoliche, cioè protestanti, così i tedeschi avrebbero avuto la necessaria giustificazione teorica per modificare radicalmente il loro sistema di vita. Quand’essi sono giunti alla convinzione ch’era il momento di fare la rivoluzione borghese, il mondo era già stato diviso dalle potenze coloniali di Francia e Inghilterra. Ecco perché la Germania ha avuto bisogno di sviluppare il nazismo.

L’Italia ha fatto la stessa cosa, ma dal punto di vista cattolico, non protestante. L’Italia ha dovuto cercare nell’ambito del cattolicesimo la giustificazione che le permettesse di accettare la rivoluzione borghese e industriale. Probabilmente, se la chiesa cattolica avesse contribuito alla realizzazione dell’unificazione nazionale, l’Italia avrebbe partecipato prima alla spartizione delle colonie e forse non avrebbe sperimentato la dittatura fascista.

La rivoluzione borghese e industriale poteva dunque nascere e svilupparsi solo in Inghilterra, cioè in una nazione lontana dal potere politico della chiesa cattolica, non molto influenzata dalla civiltà latina e tradizionalmente poco speculativa. Questo dimostra che non basta una Riforma protestante per creare una rivoluzione industriale (Weber qui ha torto). Come non è bastata la rivoluzione borghese, nata in Italia nell’XI secolo, a provocare la rivoluzione industriale. Perché avvenisse questa transizione occorreva che la borghesia italiana operasse una lotta ideale contro il cattolicesimo, unificando la penisola. Il che non è mai avvenuto in maniera decisa e risoluta. Ecco perché dopo il Rinascimento l’Italia è tornata al feudalesimo.

Naturalmente l’Inghilterra, essendo lontana dall’influenza della chiesa cattolica (si pensi che Duns Scoto ha elaborato delle teorie che al suo tempo non trovavano riscontri in alcuna parte dell’Europa, ad eccezione del mondo bizantino), ha potuto realizzare l’unificazione nazionale molto più facilmente (e quindi molto tempo prima) sia dell’Italia che della Germania, divise in tanti principati e signorie.

Questo spiega anche il motivo per cui Spagna e Portogallo, che pur sono state le prime nazioni cattoliche colonialistiche, sono state anche le ultime a diventare nazioni borghesi-industrializzate. In entrambe la mentalità cattolica ha avuto un peso determinante. Esse non hanno mai avuto le capacità speculative della Germania per opporsi alla tradizione cattolica (anzi, soprattutto la Spagna, ha sviluppato ancora di più il concetto di “obbedienza” e di “gerarchia”, come appare soprattutto nel movimento dei gesuiti e nell’uso massiccio dell’inquisizione).

Se al loro cinismo materialistico (si pensi alla reintroduzione dello schiavismo) Spagna e Portogallo avessero unito forti capacità speculative, in luogo di quelle burocratico-militari, la rivoluzione industriale sarebbe sicuramente nata qui. Cosa che sta avvenendo adesso, come un processo calato dall’alto.

Se la rivoluzione capitalistica avviene in presenza non del protestantesimo ma del cattolicesimo, significa che del cattolicesimo è rimasto soltanto l’involucro esterno. Non a caso la nazione che oggi meglio incarna il capitalismo, e cioè gli USA, è anche quella più lontana dalle posizioni cattoliche.

Tentativi di superamento dello schiavismo

Nell’Antico Testamento ampio spazio viene dedicato alle vicende di due grandissimi personaggi, intorno ai quali sono state costruite numerose leggende: Abramo e Mosè. Due soggetti, strettamente legati a due popoli, che ancora oggi vengono considerati patriarchi, con più o meno enfasi, di due religioni per molti versi opposte: Ebraismo e Islamismo.

Ebbene, proprio le vicende di questi due personaggi possono essere considerate quanto di meglio l’umanità abbia prodotto in relazione al tentativo di superare le fondamenta del regime schiavistico, a partire dal momento in cui è stato abbandonato il comunismo primitivo (circa 6.000 anni fa), fino alla nascita di Cristo.

La fuoriuscita di Abramo dalla civiltà assiro-babilonese e quella di Mosè dalla civiltà egizia hanno prodotto, sul piano della riflessione culturale, sociale e politica delle conquiste di livello così elevato da restare ineguagliate per quattro millenni.

Al punto che ancora oggi viene da chiedersi se non sia vera l’ipotesi di chi ritiene la Palestina il centro della Terra, cioè il luogo dell’Eden originario, in cui sarebbero nate le prime esperienze di tradimento dell’ideale comunitario primitivo, poi sviluppatesi in Africa (civiltà egizia), nel Mediterraneo (civiltà fenicia, minoica ecc.) e nel Medio Oriente (civiltà sumera, ittita, assiro-babilonese, persiana).

L’esilio di Abramo e Mosè costituirebbe, se vogliamo, il tentativo, non riuscito, di recuperare nel territorio ch’era stato abbandonato secoli prima, le radici democratiche, egualitarie dell’uomo primitivo.

Le migrazioni dei popoli

Le migrazioni dei popoli indoeuropei (specie quella dei Dori) posero un freno allo sviluppo indiscriminato dello schiavismo o riorganizzarono questo sistema su basi più primitive, ma non per questo più antidemocratiche. Spesso gli storici sono soliti definire questi periodi come “oscuri o bui” semplicemente perché giudicano l’organizzazione socioculturale e politica sulla base dei parametri della civiltà precedente.

In realtà si tratta di porre ogni civiltà in rapporto all’organizzazione comunitaria primitiva, cercando di capire fino a che punto se n’era allontanata. Sotto questo aspetto, p.es., le popolazioni cosiddette “barbariche” che posero fine all’impero romano erano di molto superiori alla civiltà latina nel rispetto della dignità umana (lo dimostra, successivamente, il fatto che la condizione dello schiavo si trasformò in quella del servo della gleba).

Cristo e il Cristianesimo

L’altro grande personaggio da considerare è Gesù Cristo, il quale, col suo vangelo (non scritto) riuscì a porre le basi di un recupero del comunismo primitivo, cercando di superare le basi storico-culturali del giudaismo e successivamente, con la predicazione apostolica, prescindendo totalmente dall’appartenenza etnica al giudaismo.

Il cristianesimo fu il tentativo di sfruttare il fallimento del giudaismo estendendo ai non giudei il compito di recuperare le modalità del comunismo primitivo. Ma anch’esso, in questi ultimi duemila anni di storia, s’è rivelato del tutto fallimentare.

Nella versione cattolica e protestante, attraverso il colonialismo culturale dei paesi europei occidentali e degli Usa, il cristianesimo s’è diffuso in quasi tutto il mondo, ma nessun paese “cristiano” (né colonizzato né colonizzatore) è stato capace di liberarsi dalle catene dello schiavismo, vecchio e nuovo, se non in maniera formale non sostanziale, o relativa non assoluta.

Questo significa che le popolazioni che nel prossimo millennio saranno protagoniste della storia non potranno essere che quelle meno influenzate dalle teorie cristiane, o quelle che meglio avranno saputo superare tali condizionamenti, e che avranno saputo darsi una teoria e pratica anti-schiavistica, sufficientemente credibile al mondo intero.

Qui però bisogna intendersi: come il cristianesimo ha potuto sostituire il primato del giudaismo provenendo dallo stesso giudaismo, così anche il socialismo democratico potrà sostituire il primato del cristianesimo provenendo dallo stesso cristianesimo.

Questo significa che la storia del prossimo millennio apparterrà a quelle popolazioni che saranno riuscite a vivere l’esperienza del socialismo democratico come conseguenza del fallimento dell’ideologia cristiana. Quindi, queste genti o popolazioni dovranno essere in grado di emanciparsi dalla tradizione cristiana o provenendo da questa stessa tradizione oppure ereditando di questa tradizione l’esigenza del suo superamento.

Per una filosofia della storia (III)

Protestantesimo e capitalismo

Il protestantesimo emerge dalla constatazione che il principio cattolico dell’obbedienza non era più in grado di reggere o di sopportare la contraddizione dei rapporti feudali. Tale contraddizione -come noto- diventava tanto più acuta e insostenibile quanto più crescevano le forze della borghesia. Rifiutando la logica autoritaria, centralistica della chiesa cattolica, unitamente alla profonda corruzione del suo idealismo politico, il protestantesimo ha affermato il principio della libertà interiore del singolo individuo, cioè il primato della coscienza individuale, permettendo così al cristianesimo di recuperare una parte del modello originario del Cristo (modello che la Riforma non ha dedotto dall’esperienza ortodossa perché qui era connesso al rispetto scrupoloso della tradizione, motivo per cui l’ortodossia non aveva più alcuna influenza in Europa occidentale da almeno mezzo millennio prima che nascesse la Riforma).

Tuttavia, il protestantesimo, non riuscendo a modificare i rapporti sociali esistenti, basati sullo sfruttamento, non ha fatto altro che accelerare la trasformazione del servaggio in dipendenza salariata (quella per cui l’uomo è giuridicamente libero e socialmente schiavo), lasciandosi coinvolgere, anima e corpo, nel gretto mondo dell’economia borghese.

Sotto tale aspetto, i protestanti hanno operato un tradimento peggiore di quello dei cattolici, perché più sofisticato e più pericoloso. Da un lato infatti essi hanno permesso che lo Stato usasse del proprio potere nella maniera più arbitraria possibile; dall’altro hanno fatto dell’esperienza sociale della religione una pura e semplice “intellettualizzazione della fede”. In verità, anche la Scolastica medievale non era meno astratta e speculativa; tuttavia la teologia protestante, essendo più “libera” (perché non vincolata a concetti come “tradizione”, “autorità”, ecc.), è arrivata a giustificare quasi ogni cosa.

Il protestantesimo non ha mai avuto un interesse specifico di potere ecclesiastico da difendere, eppure, per salvaguardarsi come confessione, si è servito del potere degli Stati come nessun’altra confessione aveva fatto prima. Resta tuttavia interessante nel protestantesimo la tendenza all’agnosticismo se non all’ateismo, che è il frutto appunto di uno studio razionalistico delle Scritture, fatto con l’apporto di buona parte della cultura laico-umanistica. Questo aspetto lo avvicina al marxismo, lo allontana di molto dal cattolicesimo e di moltissimo dall’ortodossia, per la quale unica vera preoccupazione è quella di salvaguardare la tradizione e gli aspetti rituali-sacramentali, mentre il livello della riflessione speculativa -dopo le grandi dispute sulla natura del Cristo e sulle eresie del mondo cattolico- è rimasto poco consistente.

Il ruolo del socialismo scientifico

Nel mondo medievale era chiaro che il servo della gleba non poteva essere libero, anche se aveva più diritti dello schiavo. Nel mondo moderno invece l’uomo è formalmente libero ed è in questa libertà fittizia ch’egli accetta “spontaneamente” -come vuole la borghesia- di diventare operaio salariato. E’ stato il marxismo a togliere il velo all’ipocrisia della società capitalistica, e quindi all’ipocrisia della religione protestante, della filosofia idealistica, dell’economia politica classica e dell’ideologia politica borghese: il marxismo ha dimostrato che una libertà affermata davanti alla legge o allo Stato, nel pensiero o nella coscienza, senza una corrispettiva libertà dal bisogno, è una libertà falsa.

Non bisognerebbe mai dimenticare che i princìpi fondamentali del marxismo sono due: la socializzazione dei mezzi produttivi e il materialismo storico-dialettico (che include l’ateismo-scientifico). E’ sulla base di questi due princìpi ch’esso è stato in grado di ereditare le migliori conquiste della filosofia tedesca, della politica francese e dell’economia inglese.

A loro volta, queste tre correnti di pensiero rappresentano l’eredità e lo sviluppo, in veste laicizzata, di quanto di meglio potevano esprimere le due religioni principali dell’Europa occidentale: cattolicesimo e protestantesimo (quest’ultimo nella forma luterana in Germania e nella forma calvinista in Inghilterra). Il leninismo, dal canto suo, rappresenta una nuova sintesi, poiché è riuscito a ereditare non solo tutto il marxismo (e quindi tutta la cultura occidentale), ma anche tutta l’ortodossia (attraverso il populismo), rappresentando così, nell’epoca contemporanea (che è imperialistica), una via sicura per la realizzazione dei due suddetti princìpi fondamentali del marxismo.

Vista da questa angolazione, l’attuale perestrojka non andrebbe considerata come un superamento del leninismo, ma come una sua progressiva democratizzazione sul piano sociale e umano. Il leninismo infatti, quale ideologia politica, potrà essere superato solo dalla sua stessa democratica realizzazione: cosa che in URSS e negli altri paesi socialisti, lo stalinismo prima e la stagnazione dopo avevano reso del tutto impossibile. Il leninismo è stato il tentativo di affrontare il problema di una democrazia socialista a partire da una prospettiva prevalentemente politica; l’attuale perestrojka va vista come un tentativo di aggiungere a tale prospettiva anche quella eminentemente sociale e umanistica (quella cioè in cui il popolo si sente protagonista attivo del suo destino).

La perestrojka, se bene attuata, comporterà un modo diverso non solo di concepire le relazioni sociali e umane, ma anche la stessa attività politica, la quale non potrà più essere delegata dalle masse alle istituzioni statali e partitiche come fino ad oggi è accaduto.

Lo sviluppo del socialismo, sul piano culturale o ideologico, è una conseguenza indiretta della precedente cultura (non diretta, poiché nella storia non solo non c’è nulla di assolutamente arbitrario ma neppure nulla di assolutamente automatico). Ora, siccome la cultura pre-socialista era prevalentemente caratterizzata dalla religione, ciò significa che sul piano culturale il socialismo ha un debito nei confronti della religione. Infatti, grazie anche alla religione, cioè nonostante il suo “tradimento” dell’ideale originario, noi possiamo risalire (almeno sul piano dell’interpretazione storica) a questa positività primitiva, mettendola a confronto con gli ideali più significativi del moderno socialismo.

In altre parole: se per vivere una società a misura d’uomo oggi possiamo farlo senza alcun riferimento alla religione (in quanto il socialismo è un’esperienza di umanesimo integrale), per vivere questa stessa società con una coscienza storica, cioè con una coscienza dell’intera evoluzione del genere umano, una coscienza che ci aiuti a non dimenticare nulla del passato ma anzi a valorizzare quanto di meglio esso abbia prodotto, la religione può ridiventare utile, in quanto riflesso opaco di una positività tradita.

Se noi ad es. riuscissimo a dimostrare che la moderna emancipazione dalla religione e soprattutto dallo sfruttamento del capitale è, in fondo, un ritorno, in nuce, alle idee originali del Cristo -che predicò comunione dei beni e primato dell’uomo- noi non avremmo fatto un “servizio” alle chiese di questo mondo, ma al socialismo, poiché la storia ha dimostrato che lo sviluppo della religione costituisce sempre un tradimento degli ideali originari, benché nonostante questo tradimento (o in virtù di esso) possano verificarsi dei progressi, condotti in ambito religioso, per “purificare” l’idea di religiosità, e dei progressi, condotti in ambito laico, utili al superamento della stessa religione e utili persino alla recupero dell’ideale tradito. Naturalmente con questo non si ha alcuna intenzione di sostenere che gli ideali umanistici del socialismo possono di per sé garantire dagli eventuali abusi che si compiono sul piano pratico. Il fallimento del “socialismo reale” rappresenta anche la fine di questa illusione.

Cultura Mentalità e Metodo storico (II)

L’antropologia storica deve sviluppare le acquisizioni di quella storiografia scientifica che ha voluto dare concretezza alla storiografia politica, aggiungendovi gli aspetti socioeconomici. Deve svilupparle in direzione dei processi culturali, psicologici, psico-sociali, insomma umani.

La fusione della storia con la sociologia e l’economia politica ha comportato una sorta di spersonalizzazione dei processi storici. Il primato concesso all’oggettività delle forze produttive ha racchiuso i rapporti produttivi entro una cornice prevalentemente economica, trascurando gli aspetti sovrastrutturali.

La tesi secondo cui l’essere materiale determina sic et simpliciter la coscienza umana ha avuto per effetto che la coscienza degli uomini è quasi totalmente scomparsa dalle indagini degli storici.

Anzitutto sarebbe meglio sostenere che è l’essere sociale a determinare la coscienza individuale, intendendo per “sociale” qualcosa che include anche l’economico ma non solo questo aspetto produttivo.

In secondo luogo sarebbe meglio precisare che il condizionamento è sempre relativo, in quanto la coscienza umana può anche prendere decisioni difformi dall’essere sociale che la condiziona, altrimenti non vi sarebbe dialettica nella storia, ma solo ripetizione obbligatoria di regole precostituite.

Michel Vovelle ha sempre rifiutato di considerare gli aspetti socioeconomici come esclusivi dello storico marxista e si dichiarava molto interessato anche ai processi relativi alla formazione e allo sviluppo della “mentalità”.

In effetti è divenuto ormai un dato acquisito della storiografia più avanzata l’idea che per comprendere il comportamento umano è necessario conoscere non soltanto le condizioni materiali ad esso esterne, ma anche le forme immateriali della coscienza, della mentalità, della cultura.

In particolare è molto utile stabilire una differenza tra i prerequisiti o premesse “potenziali” del comportamento sociale degli uomini (intendendo con ciò anche gli stimoli provenienti dal mondo esterno) e le cause “fattive” degli eventi, cioè le condizioni oggettive che ad un certo punto determinano gli stili di vita, le scelte esistenziali, in quanto gli stimoli, le opportunità sono divenute fatti concreti della coscienza umana, avendo attraversato i filtri e i meccanismi psichici di trasformazione.

Tuttavia, è anche vero che spesso per motivi di forza maggiore, indipendentemente dalla propria volontà, ci si trova a vivere in una determinata maniera piuttosto che in un’altra. Spesso addirittura gli scopi che gli uomini si prefiggono possono essere falsi oppure i risultati che si ottengono, perseguendoli, possono essere opposti a quelli preventivati. Il concetto di “ironia della storia” è ben noto a tutti gli storiografi.

E’ bene comunque che lo storico faccia di tutto per individuare il carattere alternativo delle vie dello sviluppo storico, al fine di ridurre al minimo la legge della necessità storica.

La necessità è la conseguenza di una realtà scelta. La scelta può essere diretta (personale) o indiretta (impersonale, cioè voluta da altri).

Le leggi della storia non possono essere feticizzate; se la realtà storica viene eccessivamente semplificata, la si falsifica. Occorre una tendenza integrazionista, olistica, delle varie discipline specialistiche: anche perché gli storici dell’economia o della letteratura o delle arti studiano in fondo gli stessi soggetti.

La storia deve essere “totale”, dove la pietra angolare per la comprensione di ogni singolo aspetto è data dalla coscienza umana. Il materiale e l’immateriale devono acquisire pari dignità.

Una “scienza dell’uomo e per l’uomo” non può essere “scientifica” come una scienza esatta. Nella storia interagiscono dialetticamente libertà e necessità. I processi non possono essere rappresentati come sub specie necessitatis.

Alla pigrizia mentale del ricercatore può far comodo agire secondo la categoria della necessità (che spesso, erroneamente, viene fatta coincidere con quella fatalistica della “inevitabilità”). La necessità è un condizionamento oggettivo di cui bisogna tener conto, prima di poter prendere una decisione.

L’inevitabilità è una sorta di condanna, un peso superiore alle proprie forze, che schiaccia inesorabilmente la propria libertà di scelta. L’inevitabilità non offre alternative. La necessità invece è solo un condizionamento, anche forte, di cui bisogna tener conto, di cui sarebbe irresponsabile non prendere atto. Essa non esclude di per sé la possibilità di vie alternative allo sviluppo storico.

Anzi è un preciso compito dello storico abituare il lettore a capire che i processi non sono unilaterali, univoci, ma sempre frutto di libertà di scelta, in cui pesano determinati condizionamenti, i quali possono portare a scelte sbagliate o a conseguenze impreviste, pur in presenza di scelte giuste, semplicemente perché si era sottovalutato il peso, l’influenza di quei condizionamenti.

Questo poi senza considerare che in genere i processi storici, quando non si è in presenza di rivoluzioni traumatiche, avvengono in maniera graduale, quasi impercettibile, semplicemente per progressive determinazioni quantitative, informali, anche se ad un certo punto appare la necessità di dover prendere delle decisioni, in quanto quelle successive determinazioni quantitative, di forma, tendono a mutarsi in qualcosa di qualitativamente diverso, di sostanzialmente nuovo, inedito.

A quel punto occorre agire subito, sperando che la scelta sia la meno dolorosa possibile, anche perché più si agisce in ritardo e più la scelta sarà dolorosa. Una decisione deve comunque essere presa. Se il Dictatus papae di Gregorio VII fosse stato respinto dalla maggioranza dei vescovi o da una rimostranza popolare, non sarebbe nata con lui la teocrazia papale.

Nella storia solo alcune possibilità si realizzano, altre vengono negate, ma se quelle che si realizzano non hanno caratteristiche autenticamente umane o conformi a natura, quelle negate si ripresentano, ovviamente in forme nuove, relative al mutare dei tempi.

Tutta la critica al cattolicesimo-romano, a partire dai movimenti ereticali pauperistici, che la chiesa represse duramente, è stata ereditata, mutandone ovviamente forme e contenuti, dalla nascita del pensiero laico, agnostico e ateistico, del mondo moderno.

Occorre che gli storici si concentrino soprattutto sulle fasi di transizione da una civiltà o da una formazione sociale a un’altra, e che individuino di queste fasi gli sviluppi culturali della mentalità che, insieme alle condizioni materiali dell’economia, hanno promosso tali fasi.

Le tradizioni infatti possono essere violate sia in senso negativo che in senso positivo. La chiesa romana p.es. violò negativamente la tradizione ortodossa espressa nei primi mille anni di storia del cristianesimo. Ma il socialismo violò positivamente la tradizione millenaria che la chiesa romana espresse dopo il 1054.

Non si possono prendere le cose come un “fatto compiuto”. Dietro questi fatti vi sono tensioni e contrasti che possono trascinarsi anche per secoli. Dal Filioque allo scisma del 1054 passarono tre secoli.

Poi non bisogna dimenticare che in tali fasi di transizione, alcuni personaggi storici incarnano meglio di altri l’essenza dei contrasti fondamentali. Pertanto le loro opere devono essere oggetto di un esame particolare, approfondito. Per comprendere la nascita dell’epoca moderna non basta leggersi il Capitale di Marx, occorrono anche le opere di Lutero e di Calvino.

Se Marx fosse stato supportato da un’équipe di studiosi, queste cose sarebbero venute fuori da sé, cioè non sarebbero rimaste a livello di semplici intuizioni o di affermazioni estemporanee.

Tuttavia il fatto che esistano personaggi storici in grado di rappresentare, da soli, l’essenza dei problemi cruciali di un determinato periodo non deve farci dimenticare che le idee, di per sé, non sono nulla se non entrano nella coscienza delle masse, e se queste non decidono di metterle in pratica o non accettano che vengano praticate.

In ultima istanza infatti sono le masse che fanno la storia, non tanto gli individui singoli. Le idee personali diventano una forza tanto più materiale quanto più sono condivise. E’ sempre necessaria quindi una loro semplificazione, una forma didattica, pedagogica della loro trasmissione al popolo, nell’uso di tutti i mezzi disponibili.

Questo per dire che spesso nella storia hanno più peso le opinioni inespresse delle masse che non quelle espresse dagli intellettuali. Le produzioni culturali destinate a rimanere nel tempo, anche se sul piano stilistico-formale non sono le migliori, sono sempre quelle collettive, cioè quelle verificate dagli stessi fruitori, che con la loro creatività, inventiva, critica, hanno contribuito a precisarne i contenuti. I vangeli ne sono un chiaro esempio. Nonostante le loro falsificazioni, restano un documento di grande valore letterario. Ma anche oggi il software “open source” è considerato migliore di quello coi sorgenti criptati.

Questo peraltro significa anche che lo storico deve necessariamente attribuire una certa “dignità” anche alla produzione culturale che ufficialmente viene considerata “minore”. P. es. la letteratura del Risorgimento italiano è quasi inesistente nei manuali scolastici di storia della letteratura.

Chiediamoci: fra mille anni uno storico riuscirà a interpretare più facilmente il nostro periodo attraverso le news dei telegiornali o attraverso i verbali dei processi civili e penali? Noi sappiamo che quanto più una notizia è ufficiale, di dominio pubblico, espressione dei poteri dominanti, tanto meno è attendibile, veridica, verificabile.

Bisogna che gli storici siano molto più sospettosi nei confronti delle dichiarazioni dirette, esplicite, degli uomini di potere, e si affidino maggiormente alle testimonianze indirette, alle opinioni espresse involontariamente, o anche ai racconti cosiddetti “controcorrente”. Sarebbe p.es. ingenuo cercare di capire l’evoluzione dei dogmi della chiesa romana prendendo in esame i dogmi stessi.

Bisogna sempre fare una precisa distinzione tra istituzioni e masse popolari, tra poteri dominanti e senso comune. Ciò è ancor più necessario quando si esaminano ideologie che favoriscono il dualismo di teoria e pratica, come appunto quelle cattolico-romana e protestante, ma anche quelle stalinista e maoista. E nella affermazione e diffusione del dualismo gli intellettuali sono sicuramente, rispetto alla gente comune, maestri insuperabili.

I compiti della storiografia

Oggi solo una persona molto sprovveduta o politicamente molto conservatrice potrebbe sostenere che la laicità ha avuto origine quando si è cominciato a separare il diritto e la politica dalla morale.

E’ vero che il diritto e la politica han voluto separarsi da una morale religiosa che aveva fatto il suo tempo, ma sostenere che quel diritto e quella politica sono la quintessenza della laicità e della democrazia, senza specificare che si tratta pur sempre di laicità e democrazia “borghesi”, non ha senso.

Una politica o un diritto separati dalla morale e dalla società che nel suo complesso esprime quella morale, non possono che essere frutto di un arbitrio, ovvero l’espressione della volontà di dominio di una particolare ideologia, che vuole imporsi sulla collettività. Nessun uso scriteriato della morale può mai giustificare la sua totale rimozione dagli ambienti del potere istituzionale.

La classe sociale che ha voluto rimuovere la morale, la borghesia, l’ha fatto per avere mano libera nella sua affermazione sociale e per poter dominare indisturbata. Un diritto separato dalla morale, sotto il pretesto che questa è corrotta, è una forma di arbitrio peggiore del male (in questo caso la corruzione) che vuole combattere. Solo a un ceto sociale già separato dalla società poteva venire in mente di operare una separazione del genere. In questo la borghesia non ha fatto che emulare un altro ceto sociale, anch’esso separato dalla società: il clero.

La borghesia si è servita delle masse popolari per liberarsi dei rappresentanti della morale corrotta (nobiltà e clero), ma, una volta vinta la partita, ha fatto anche presto a liberarsi delle stesse masse popolari nella gestione del potere politico. Ecco perché una rivoluzione borghese è sempre una rivoluzione tradita.

Resta tuttavia da chiarire da dove abbiano desunto gli intellettuali borghesi che la morale poteva essere separata da tutto il resto. Se gli studi del marxismo hanno saputo svelare la mistificazione politica della democrazia borghese, mettendone bene in luce le insanabili contraddizioni socio-economiche, ancora però non sono state fatte delle analisi dettagliate sul rapporto di dipendenza culturale che lega l’ideologia borghese a quella cattolico-romana. Qui bisogna riprendere in mano i classici della Scolastica e cercare di capire dove si annidano le premesse teologiche delle aberrazioni filosofiche borghesi.

Il fatto che la borghesia si sia sempre opposta politicamente alla chiesa (seppur in forme favorevoli al compromesso, in quanto la borghesia non ha mai disdegnato di servirsi della religione come oppio per le masse), ha tratto in inganno (per così dire) molti storici, che non si sono mai concentrati sulla dipendenza culturale, ideologica, vissuta dalla borghesia, in forme ovviamente laicizzate, rispetto alla chiesa cattolica.

Gli stessi storici marxisti (ma anche Weber e gli altri storici illuminati della borghesia) han sempre preferito parlare di rapporti tra borghesia e protestantesimo, tralasciando quasi del tutto quelli tra borghesia e cattolicesimo (l’unica significativa eccezione è stata quella di Groethuysen).

E’ certamente vero che il protestantesimo rappresenta la religione della borghesia, ma è anche vero che non ci sarebbe stato protestantesimo senza cattolicesimo e dunque non ci sarebbe stata borghesia senza clero cattolico, né filosofia borghese senza Scolastica.

Feuerbach intuì perfettamente la dipendenza dell’idealismo tedesco dal protestantesimo e anche dal cattolicesimo romano, cioè intuì che la filosofia idealistica altro non era che una laicizzazione del cristianesimo, ma quella sua felice intuizione non ebbe poi un vero e proprio sviluppo storico-critico.

Questa lacuna storiografica è sostanzialmente dovuta al fatto che la concezione dominante della morale in Europa occidentale è sempre stata quella offerta dalla chiesa romana. Anche quando questa morale era profondamente corrotta, nessuno ha mai messo in dubbio che sul piano teorico, di principio, l’ideologia cattolico-romana rappresentasse il vertice della moralità possibile (o comunque si è sempre pensato che dovesse essere la chiesa romana deputata a rappresentare, almeno in sede teorica, i valori contenuti nei vangeli).

Certo, ci sono stati il protestantesimo, la filosofia borghese, il socialismo utopistico e scientifico, che hanno elaborato nuove concezioni morali dell’esistenza, ma gli storici continuano a considerare la morale cattolica come un terminus ad quem per il giudizio su qualunque altro tipo di morale.

Infatti si è sempre sostenuto che la moralità protestante è più individualista, più accomodante col capitalismo, più disposta al compromesso con la società borghese; che la morale filosofica è troppo astratta per competere con quella cattolica, che quella socialista è troppo di parte o troppo legata alla politica di classe per poter essere considerata universale, e così via.

Ci sono delle verità in questo atteggiamento. In effetti la ragione storica del protestantesimo sta in una contestazione contro la corruzione del cattolicesimo romano, ma non avendo il protestantesimo recuperato le vere origini del cristianesimo, esso alla fine ha prodotto una morale ancora più corrotta di quella cattolica.

Il socialismo dal canto suo non ha mai voluto ammettere la propria dipendenza dalla morale cattolica (nell’Europa occidentale) o da quella della chiesa ortodossa (nell’Europa orientale) e continuamente rischia di subordinare gli interessi della morale a quelli della politica.

Dunque, ciò su cui gli storici devono puntare l’attenzione è il rapporto tra chiesa ortodossa e chiesa romana, perché se riescono a capire i motivi profondi di quella rottura, riusciranno anche a capire il motivo per cui il protestantesimo poteva nascere solo in ambito cattolico e la filosofia borghese solo all’interno della Scolastica, e così via.

Il mondo ortodosso non ha mai conosciuto alcuna vera riforma protestante, né alcuna vera filosofia borghese e neppure alcuna vera rivoluzione borghese.

Oggi l’Europa protestante sta dominando quella cattolica, semplicemente perché la prassi borghese ha fatto piazza pulita di ogni forma di religione, cioè il capitalismo sta trionfando anche nei paesi cattolici semplicemente perché lo scontro non è più tra religioni contrapposte. Tuttavia le culture che quelle religioni esprimono in veste laicizzata devono essere studiate in rapporto alla religione per essere capite sino in fondo.

La rivoluzione politica ha bisogno di quella culturale, altrimenti la laicità resterà priva di contenuto.

Excursus politico (II)

2. Oltre la civiltà

Gli uomini devono poter dimostrare di essere se stessi a prescindere dai mezzi che usano. Cioè se i mezzi inducono gli uomini ad avere tra loro rapporti innaturali, in cui l’interesse privato prevale su quello collettivo, allora ci si dovrebbe chiedere se quegli stessi mezzi non siano da modificare o da sostituire con altri più adeguati all’esigenza di identità umana. Nessuno però può pretendere di soddisfare questa esigenza a danno di altri.

La moderna civiltà occidentale ha fatto della rivoluzione tecnico-scientifica la modalità principale dei rapporti interumani e dei rapporti tra uomini e natura. E ha usato questa rivoluzione per affermare su ogni cosa il primato del profitto capitalistico, della rendita finanziaria.

Da un lato quindi si è frapposto il macchinismo tra gli esseri umani e tra questi e la natura; dall’altro si è fatto del capitale l’unica vera ragione di vita. Macchinismo e capitale hanno marciato di pari passo, condizionandosi a vicenda, con la differenza che mentre uno si pone come fine, l’altro si pone come mezzo.

La civiltà basata su questo mezzo e su questo fine, di umano ha ben poco, anche se per potersi imporre in tutta la sua innaturalezza, essa ha avuto bisogno di dimostrare ch’era migliore di quella precedente. In tal senso tutte le civiltà sono frutto di progressivi inganni o di promesse non mantenute.

È come se il genere umano dovesse sperimentare tutte le forme di illusione sulla propria identità, prima di tornare a vivere quell’unica forma di esistenza in cui era se stesso, in un rapporto naturale con l’ambiente.

È sintomatico, in tal senso, che quanto più aumenta la decadenza di una civiltà, tanto più aumentano le “favole” con cui si cerca di tenerla in piedi. Il declino irreversibile, percepito come inevitabile, porta il sistema a dare di se stesso una rappresentazione mitologica, priva di riscontri reali.

La dicotomia tra istituzioni e società è netta e compito delle prime è appunto quello di imporre alle seconde le ideologie più subdole, più raffinate, al fine di celare i contrasti insanabili.

Le civiltà non vogliono morire di morte naturale, proprio perché la loro esistenza è stata, sin dall’inizio, basata sull’inganno e sulla violenza. Le civiltà hanno orrore della verità e sarebbero disposte a qualunque cosa pur di vederla negata. Ecco perché quand’esse sono in decadenza, le “favole” aumentano all’aumentare della consapevolezza della fine. Col concetto di “favola” occorre intendere qualunque cosa che svii l’attenzione delle masse dai veri motivi che stanno portando al crollo finale.

La storia ha conosciuto delle civiltà che si sono rassegnate al loro declino e, quando si sono scontrate con civiltà molto più forti di loro, non hanno opposto una resistenza convinta alle loro proprie contraddizioni. Hanno rinunciato a lottare contro il nemico esterno perché in realtà avevano rinunciato a lottare contro le contraddizioni interne, e la sconfitta è stata considerata come una sorta di “meritato castigo”. Questo atteggiamento è molto evidente p. es. nelle civiltà precolombiane, ma si tratta di poche eccezioni.

Nel mondo egizio le “favole” del potere altro non erano che il misticismo, il culto dell’oltretomba, l’edificazione monumentale dei santuari funebri, la magia, la divinazione, l’astrologia… Tutte cose che il mondo romano ha ereditato, trasformandole in senso materialistico, e aggiungendovi altri aspetti che la cultura egizia non conosceva: il culto del diritto, dello sport, dei festini, la lotta mortale tra i gladiatori, gli svaghi alle terme, sino alle feroci persecuzioni contro i cristiani, durate ben tre secoli.

Le civiltà in decadenza, cieche di fronte ai loro problemi di fondo, hanno bisogno di “favole” e quando queste non bastano, hanno bisogno di vittime sacrificali, una sorta di capro espiatorio che serve a celare il vero volto del potere e soprattutto della sua progressiva decadenza. In questi frangenti di desolazione, occorre pensare che la storia può essere a una svolta significativa e che occorre costruire da subito una transizione verso il diverso.

Ecco perché non c’è nulla che ci possa interessare del passato se non ciò che ci può servire a risolvere i problemi del presente, poiché è comunque nel presente che dobbiamo cercare la soluzione ai nostri problemi: il passato ci può servire come fonte d’ispirazione. Ormai il legame che ci univa alle generazioni passate è stato rotto per sempre dalla civiltà contemporanea, salvo sparute eccezioni che cercano di sopravvivere come possono.

Si potrà dunque parlare di “evoluzione” solo quando usciremo da questa fase involutiva che ci attanaglia da circa seimila anni. Questo significa che dobbiamo metterci a studiare lo stile di vita delle ultime popolazioni primitive rimaste sul nostro pianeta, perché esse sono le sole che ci possono indicare la strada (pacifica) per lo sviluppo futuro dell’umanità. Dobbiamo studiarle non come un reperto archeologico o socioantropologico, ma proprio come uno stile di vita in grado di assicurare una sopravvivenza al genere umano. Questo significa che dobbiamo recuperare le tradizioni tribali delle più antiche popolazioni africane, sudamericane e asiatiche.

Le cosiddette “civiltà” non sono ancora riuscite a dimostrare che il loro stile di vita è compatibile con le esigenze riproduttive della natura e con la necessità di una coesistenza pacifica tra i popoli. Noi dobbiamo tutelare tutto ciò che è anteriore a qualunque forma di civiltà.

È da almeno seimila anni che la storia è diventata un gigantesco mattatoio per la maggior parte della popolazione mondiale. Chi non è vittima, chi ha il privilegio di una morte non violenta, è perché svolge il ruolo del carnefice di turno, ne sia o no consapevole. La storia è storia di queste infinite violenze dell’essere umano su altri esseri umani.

Ecco perché dobbiamo “uscire dalla storia”, dobbiamo recuperare quella parte di storia in cui la violenza non esisteva, e questa parte non può essere che la preistoria, cioè l’infanzia dell’umanità. Si deve lottare per ripristinare le condizioni di vita preistoriche. Sarà un processo lunghissimo, poiché oggi tutto il pianeta soffre della violenza dell’uomo, ma è l’unico modo per poter sopravvivere.

Dovremmo anzitutto chiederci su quali aspetti della storia, che poi sono gli stessi della politica, dovremmo concentrare i nostri studi e le nostre attività, allo scopo di porre le condizioni di una transizione alla “post-storia”.

  1. I mezzi di produzione che ci assicurano il sostentamento, la riproduzione biologica, non possono essere di proprietà privata, ma devono essere socializzati e sottoposti a controllo pubblico, collettivo.
  2. La gestione politica del bene comune deve sottostare alle regole della democrazia diretta, quella per cui il popolo si autogoverna. Qualunque forma di rappresentanza delegata deve basarsi sul principio della revocabilità immediata in caso di inadempienza.
  3. Nel rapporto con l’ambiente deve valere il principio secondo cui l’uomo è parte della natura, sicché non saranno ammesse forme di sviluppo tecnico-scientifico incompatibili con le esigenze riproduttive della natura. Una generazione non può far pagare a quella successiva i costi del proprio benessere.
  4. L’uguaglianza dei diritti va abolita, perché chi ha più bisogno deve avere più diritti.
  5. I mezzi di comunicazione devono appartenere al popolo, cioè a chi ha qualcosa da comunicare e non tanto a chi ha i mezzi per farlo.
  6. La conoscenza deve servire, da subito, ad assicurare le condizioni di vita abituali ed eventualmente a migliorarle, nel rispetto degli standard consolidati e comunque a condizione che tutti possano equamente beneficiarne.
  7. Va abolito qualunque confine di tipo territoriale.
  8. Vanno valorizzate le abilità e le specificità locali.

Excursus politico (I)

Queste due brevi riflessioni: “A cosa serve la storia?” e “Oltre la civiltà” hanno lo scopo di mettere in discussione uno dei pilastri fondamentali dell’istituzione scolastica in generale, quello secondo cui un docente, in classe, non può fare politica. In tal senso la loro lettura, ai fini della comprensione di una metodologia della ricerca storica, in riferimento a una ridefinizione del concetto di “competenze storiche” in ambito scolastico, resta del tutto facoltativa.

Si badi però: qui non si vuole affatto desacralizzare il principio secondo cui un docente non può in alcun modo utilizzare la propria classe per fare propaganda di questo o quel partito, e nemmeno di questa o quella corrente di pensiero o ideologia politica, benché l’insegnante sia tenuto a rispettare scrupolosamente il dettato costituzionale, facendo quindi, in qualche modo, “politica”.

Tuttavia, poiché noi non siamo degli automi privi di anima e poiché ci viene chiesto d’essere fautori della democrazia e del pluralismo, si vuole qui tentare di delineare un modello di impegno politico in ambito scolastico, che sia coerente col modello culturale proposto nello studio della storia come disciplina.

Nella nostra esposizione abbiamo più volte detto che ha ben poco senso parlare del passato senza alcun riferimento al presente. Ebbene, in che modo un insegnante di storia può parlare del proprio presente, lasciando i propri allievi liberi di credere nelle sue parole? In che modo un docente può fare politica in classe senza rischiare d’essere accusato di plagiare le menti?

La Raccomandazione n. 1283, del 1996, dell’assemblea parlamentare europea, relativa all’apprendimento della storia nel nostro continente, afferma testualmente: “La storia ha anche un ruolo politico nell’Europa odierna. Senza di essa l’individuo è più vulnerabile, soggetto alla manipolazione politica o altro. Quasi tutti i sistemi politici hanno utilizzato la storia per servire i propri interessi e hanno imposto la loro versione dei fatti storici, come anche la definizione di buoni e cattivi nella storia. È importante che la storia proceda di pari passo col presente”.

1. A cosa serve la storia?

La storia non serve a niente se non ci indica un sistema di vita per il presente. È pura erudizione e, come tale, va bene per i cattedratici, non per la gente comune, che ha bisogno di proposte concrete, che non sono un di meno rispetto alle speculazioni teoriche, ma semmai un di più, proprio perché hanno l’onere della verifica pratica, e non restano astratte dall’inizio alla fine, come appunto le teorie.

Si badi tuttavia: la concretezza di per sé non rende più importante la storia contemporanea rispetto a tutte le altre storie. Non è detto infatti che nella storia contemporanea si abbiano più probabilità di trovare un sistema di vita a misura d’uomo e conforme a leggi di natura.

Anzi guardando le cose dappresso, parrebbe proprio il contrario, e cioè che il mondo contemporaneo, dominato dal capitalismo americano, nipponico ed euroccidentale (cui oggi si sta aggiungendo quello cinese, indiano e del sud-est asiatico), sia lontanissimo dall’aiutarci a trovare un’adeguata soluzione ai nostri problemi di sopravvivenza.

Sotto questo aspetto tutta la storia può essere utile, anche quella degli uomini primitivi, anzi questa forse più di ogni altra. Noi non possiamo recuperare nulla di tutto quanto s’è formato e sviluppato prima della nascita delle cosiddette “civiltà”, utilizzando gli stessi strumenti che l’odierna civiltà ci offre. Per poterlo fare noi dobbiamo uscire non solo dal “concetto” di civiltà, ma anche dalla sua stessa modalità di vita, dalla sua “prassi”.

Uscire dalla “prassi” della civiltà implica già un rifiuto della separazione consolidata tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Non si può uscire dalla civiltà in maniera “intellettuale”, limitandosi a criticarla. Se ne può uscire solo ponendo delle alternative concrete, praticabili, al suo modo di essere. Queste alternative devono essere razionali, conformi a leggi di natura, universalmente valide, cioè alla portata di tutti.

La prima regola fondamentale per uscire dalla civiltà è quella di ridurre al minimo la dipendenza da fattori artificiali che condizionano la nostra riproducibilità. L’uomo e la donna sono esseri di natura: la loro esistenza dovrebbe essere unicamente legata ai processi di sviluppo della natura. Se la natura viene ostacolata nei suoi processi riproduttivi da quanto di artificiale gli uomini pongono fra loro e la stessa natura, non si supererà mai il concetto e la prassi di civiltà.

Lo sviluppo della tecnologia, in tal senso, deve essere compatibile coi processi riproduttivi della natura. Purtroppo oggi l’influenza del concetto di civiltà sull’intero pianeta è così grande che pare impossibile ritagliarsi uno spazio in cui poter sperimentare in maniera autonoma un’alternativa sociale e naturale.

Tutte le civiltà della storia hanno posto le proprie fondamenta su aspetti antisociali e innaturali, la cui essenza artificiale risulta assolutamente preponderante nel sistema di vita, nelle relazioni sociali e nei rapporti tra uomo e natura. Non dobbiamo infatti pensare che il concetto di “macchinismo” sia applicabile solo alla rivoluzione industriale del sistema capitalistico. “Macchinismo” in senso traslato o figurato è un concetto che si applica là dove esiste un rapporto di sfruttamento unilaterale dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura.

Persino là dove s’impone il semplice concetto di “forza fisica” (come p.es. nei rapporti tra uomo e donna), lì si può costatare la presenza di qualcosa di artificiale, di non naturale.

È vero, le prime civiltà non hanno conosciuto l’industrializzazione, come la conosciamo oggi, però hanno sperimentato molte rivoluzioni nell’uso dei metalli e nell’uso della pietra per costruzioni imponenti, attraverso le quali far valere un rapporto di subordinazione tra gli uomini e tra questi e la natura.

Gli effetti devastanti di queste civiltà sono visibili nelle progressive desertificazioni del pianeta. Quanto più si sviluppano le civiltà, tanto più viene devastata la natura e quindi tanto più le stesse civiltà si autodistruggono, poiché il rapporto con la natura è imprescindibile all’essere umano.

Come difendersi dalle civiltà che, vivendo rapporti antagonistici al proprio interno, inevitabilmente sono costrette a scaricare il peso delle loro contraddizioni all’esterno, saccheggiando risorse umane e naturali ovunque esse siano? Qui è evidente che non basta pensare di potersi ritagliare uno spazio vitale in cui esercitare le proprie esperienze alternative. Occorre anche elaborare dei meccanismi concreti di autodifesa, che impediscano alle civiltà di prevaricare impunemente.

Il vero peccato originale dell’umanità è stata la pretesa di poter decidere il proprio destino indipendentemente dalle esigenze e dalle leggi della natura. Forse è per questo motivo che tutti i tentativi a favore dei principi di umanità, che nella storia sono stati compiuti, una volta affermati sono stati negati subito dopo. È come se la storia si fosse incaricata di dimostrare che dopo la fine del comunismo primitivo non è più possibile un’altra esperienza di libertà.

Ripensamenti semantici

Inutile dire che un qualunque lavoro di ricerca storica implica un preliminare lavoro di ricomprensione semantica delle parole che usiamo. Bisogna chiarirsi sul significato di ciò che diciamo, anche se spesso ciò avviene soltanto alla fine di un determinato percorso didattico-culturale. Anche qui possiamo proporre sette piccoli esempi.

  1. Rivoluzione culturale. Si dice che la nascita delle civiltà abbia comportato una “rivoluzione culturale”. Tuttavia, se intendiamo il concetto di “cultura” nella sua accezione più generica, quale espressione di un’esperienza di popolo, si dovrebbe parlare, per quanto riguarda le civiltà basate sulle differenze di classe, di “involuzione culturale”.
    Oggi sarebbe più opportuno affermare che le popolazioni più “civili” sono in realtà quelle che hanno conservato un rapporto equilibrato con la natura; quelle che hanno conservato un rapporto democratico ed egualitario al loro interno e con le popolazioni limitrofe; quelle, in sostanza, che hanno rifiutato di compiere una rottura storica con se stesse non per insufficienza di mezzi o di ingegno, ma proprio per una volontà democratica di restare fedeli al proprio passato.
  2. Progresso storico. Si dice che lo sviluppo delle civiltà sia stato una forma di “progresso storico”. In realtà il nostro concetto di “progresso” risulta fortemente influenzato da un determinato stile di vista che si basa prevalentemente su indici quantitativi di produzione e di consumo di beni materiali. Si pensa che gli indici di qualità della vita debbano discendere, come conseguenza automatica, da quelli quantitativi, dei quali il più importante è il prodotto interno lordo.
    È sbagliato considerare “primitive” quelle popolazioni che non hanno conosciuto alti livelli di tecnologia, forti divisioni del lavoro e via dicendo.
    Peraltro è ampiamente documentato che in occasioni di cataclismi naturali o di disintegrazioni politico-economiche (ad Harappa in India, nel 1700 a.C., scomparvero persino le forme della scrittura), sono non i sistemi organizzati delle civiltà antagonistiche a riprendersi più in fretta, ma proprio le comunità piccole, relativamente autosufficienti.
  3. Interpretazione storica. Noi interpretiamo il passato sulla base del presente e si dice che questa operazione sia inevitabile. Tuttavia, un’interpretazione adeguata della qualità di vita delle civiltà pre-schiavistiche è per noi oggi praticamente impossibile, in quanto i modelli di confronto sono stati quasi ovunque distrutti dalla nostra civiltà planetaria. È in tal senso sintomatico che una civiltà “superiore” come la nostra non riesca a tollerare alcun altro modello di civiltà che pretenda una propria autonomia di sviluppo.
  4. Civiltà e Barbarie. Per gli storici occidentali se una civiltà viene distrutta da una seconda civiltà che non riesce a conservare e sviluppare ulteriormente le migliori conquiste della precedente, la seconda viene considerata inevitabilmente come “barbara” (p.es. tutta la transizione dall’impero romano ai regni barbarici viene interpretata in questo senso). Cioè il criterio per definire “civile” una “civiltà” non è tanto il tasso di umanità ch’essa è riuscita a esprimere, quanto il livello tecnologico, scientifico, di organizzazione statale, di sviluppo commerciale, di divisione del lavoro ecc. che è riuscita a realizzare.
  5. Civiltà e schiavismo. Lo sfruttamento del lavoro altrui, la situazione schiavile o servile della maggioranza della popolazione di una civiltà antagonistica non possono essere considerati come elementi sociali marginali, secondari, paralleli a tutto il resto, come se fossero soltanto un limite di quei tempi, oggi impensabile. Cioè non è possibile soprassedere a queste forme di mancanza di libertà in nome di un’idea di progresso tecnologico o di resa produttiva o di altri indici quantitativi (p.es. l’estensione di un territorio o dei traffici commerciali), che di per sé non aiutano minimamente a capire il livello di qualità della vita in generale di una determinata regione o località.
    È illusorio pensare che le grandezze monumentali di una civiltà siano un indice sicuro del benessere sociale delle popolazioni che le hanno edificate. Ancora oggi ci meravigliamo che in virtù di utensili molto primitivi, almeno rispetto ai nostri, le antiche civiltà abbiano potuto costruire dei monumenti che non stentiamo a paragonare ai nostri grattacieli. E non ci rendiamo conto che al centro del lavoro non vi erano solo gli ingegneri e gli architetti, ma anche gli artigiani, gli operai, gli stessi agricoltori, che sicuramente vivevano in condizioni di grande precarietà.
  6. La necessità storica. Il marxismo, ragionando con la categoria hegeliana della “necessità storica” si è trovato ad essere molto limitato nell’interpretazione della transizione dal comunismo primitivo alle civiltà antagonistiche. Infatti, se il passaggio era “necessario”, a prescindere dai prezzi che si sono storicamente pagati, il discorso è già chiuso, e quando si dice che il futuro socialismo democratico sarà un ritorno al comunismo primitivo in altre forme – quelle della rivoluzione industriale – si dice una cosa su cui sarebbe bene avere molti dubbi. Come d’altronde bisognerebbe avere molti dubbi sulla inevitabilità del passaggio dal capitalismo al socialismo.
    In nome della categoria della “necessità storica” noi rischiamo: 1. di non avere alcun passaggio, in quanto le distruzioni causate dal capitalismo non ce ne daranno il tempo; 2. di non avere il passaggio desiderato, poiché il socialismo rischierà di ereditare anche gli aspetti negativi del capitalismo, proprio come fino a ieri è stato fatto nelle esperienze del cosiddetto “socialismo reale” e come oggi si sta facendo in Cina.
  7. L’idea di surplus. In virtù della categoria della “necessità storica” il marxismo s’era preoccupato di cercare delle alternative, più che sulle forme di realizzo dell’eccedenza produttiva (la cosiddetta sovrapproduzione che permette lo sviluppo di una civiltà), sulle forme di redistribuzione sociale di questa eccedenza, al fine di evitare che la sovrapproduzione si ritorcesse contro gli interessi della collettività. A questa corrente di pensiero, che era anche una storiografia, interessava non tanto negare la necessità di proseguire lo sviluppo industriale e tecnologico, quanto di assicurare la giustizia sociale.
    Questa impostazione del problema oggi non regge più, proprio perché va messa in discussione l’idea stessa di surplus. Indicativamente si può dire ch’esso non dovrebbe mai appartenere a una singola famiglia, o classe, o tribù o clan ma a tutta la collettività, e le quantità di questo surplus, nonché la sua distribuzione, secondo esigenze obiettive e conformi a quelle riproduttive della natura, andrebbero decise in maniera democratica dalla stessa collettività che ne fruisce. Questo implica un’importanza decrescente degli organi statali.

Le leggi della storia

Le leggi che gli uomini hanno creduto di poter individuare nei processi storici sono così tante che solo per esse ci vorrebbe una trattazione a parte. Basti pensare a quanti dibattiti suscitò quella marxista relativa all’adeguamento dei rapporti produttivi alle forze produttive, o a quella hegeliana relativa all’ironia della storia, che poi riprendeva, in chiave laica, quella cristiana sul ruolo storico della provvidenza divina. Qui si può soltanto accennarne qualcuna, nella consapevolezza dell’assoluta provvisorietà dell’argomentazione.

1. Sociale, culturale e politico

Una qualunque storia degli avvenimenti di una determinata popolazione deve suddividersi in tre campi d’indagine: sociale, culturale e politico.

Il campo sociale include tutto quanto riguarda la vita collettiva che non riflette su se stessa o non avverte il bisogno di farlo, in quanto agisce spontaneamente, in maniera naturale, seguendo le tradizioni e i valori consueti, dominanti. In questo campo va inclusa l’economia, l’ecologia ecc.

Il campo culturale invece è la riflessione che si fa sul sociale (specie quando questo tende a modificarsi, a evolversi): una riflessione che per molti secoli è stata di tipo religioso. È il luogo del ripensamento degli stili di vita, del significato dei valori, del confronto delle idee, ecc.

Il campo politico è quello delle decisioni collettive. Generalmente la politica è il luogo delle discussioni che devono approdare a una decisione comune, vincolante per tutti, che generalmente viene presa dopo che sui mutamenti sociali gli intellettuali hanno riflettuto criticamente. Nelle civiltà antagonistiche la politica necessariamente riflette la natura dei conflitti di ceto o di classe, per i quali si cerca una qualche mediazione.

Questi tre campi non possono mai essere tenuti disgiunti dallo storico, poiché l’uno presuppone l’altro ed essi si influenzano reciprocamente.

Quando ci si basa solo sul sociale si finisce col vivere la vita in maniera istintiva, ripetitiva, vicina al mondo degli animali. Qui la storia è cieca.

Quando si fa troppa cultura si rischia di cadere nell’astrazione, di confondere i desideri con la realtà, di vendere fumo. Qui la storia diventa illusoria.

Quando si vive solo di politica si ragiona in termini esclusivamente di potere, di schieramento, di rapporti di forza e si finisce col realizzare forme inumane d’esistenza. Qui la storia diventa violenta.

2. Dolore e sofferenza nella storia

In una considerazione storica non ha alcun senso affermare che il dolore e la sofferenza siano una cosa “inevitabile” per determinate categorie sociali o addirittura per intere popolazioni. Uno storico non può credere che un qualche destino assegni, per un periodo di tempo che non si può sapere in anticipo, il compito di “soffrire” ad alcune popolazioni o classi sociali, per il “bene” del genere umano, globalmente considerato. Questo significa fare del cinismo.

Dolore e sofferenza sono un “obbligo” fintantoché vengono subìti passivamente, cioè fino a quando non ci si sa riscattare da un’oppressione che avvilisce. Nella storia bisogna saper cercare il filo che unisce le varie forme dell’autoemancipazione umana dalla sofferenza ingiusta.

La storia delle civiltà umane non è altro, in realtà, che la storia delle diverse forme di “inciviltà” e della lotta contro queste forme. È una storia in cui l’incapacità di superare la forma dell’antagonismo individualistico ha fatto sì che questo si manifestasse in forme sempre più perfette ed esasperate. Una “parziale” resistenza all’individualismo permette soltanto che quest’ultimo si rafforzi ulteriormente, assumendo nuove forme.

Si potrebbe anzi dire che le contraddizioni dei sistemi basati sull’antagonismo sociale tendono progressivamente ad acuirsi, al punto che se non s’interviene in tempo, affrontandole secondo i criteri della democrazia, inevitabilmente la risposta individualistica a quelle contraddizioni proporrà soluzioni ancora più negative: le istituzioni economiche diverranno sempre più fraudolente e quelle politiche sempre più autoritarie. La corruzione si farà “sistema”.

Ciò di cui si è sicuri è che all’individualismo gli uomini non riescono a rassegnarsi, in quanto la loro natura è votata alla socializzazione. Ma non si può essere sicuri che in questa lotta trionferà il collettivismo libero, poiché l’esito della vittoria dipende dalla volontà degli uomini, dal livello di consapevolezza che hanno, dalla libertà di cui vogliono disporre.

Di certo l’esito finale della lotta potrà essere davvero vincente soltanto se costituirà un ritorno alla condizione umana pre-individualistica, un ritorno caratterizzato dalla consapevolezza dei limiti strutturali dell’antagonismo sociale.

3. L’umanità dell’uomo

È difficile pensare che nel passato sia esistito qualcosa la cui dimenticanza oggi ci impedisce di diventare veramente umani. L’umanità dell’uomo è intrinseca all’uomo stesso: la perdita della memoria che ne possiamo avere non implica automaticamente quella del suo desiderio. Il desiderio possiede una memoria inconscia, che la memoria non conosce.

L’unica difficoltà sta nel recupero di questa memoria: quanto meno forte è stata la dimenticanza, tanto meno forte dovrebbe essere il desiderio di recuperare la memoria. E viceversa: quanto più forte la dimenticanza, tanto più forte deve essere il desiderio.

Tuttavia, questi processi non sono mai automatici, poiché insieme alla memoria e al desiderio vi è anche l’interesse di chi vuol conservare la dimenticanza e alimentare falsi desideri. L’opposizione alla memoria e al desiderio fa parte del gioco della libertà, per quanto la vera libertà non stia nella possibilità di scelta – come generalmente si crede – ma nell’esperienza del valore umano. La libertà di scelta non è in realtà che libero arbitrio, cioè la premessa non la sostanza della libertà.

In occidente la libertà è così poco vissuta – come esperienza del valore (il bene) – che si è stati costretti a farla coincidere, stricto sensu, con la facoltà del libero arbitrio. L’uomo occidentale si sente libero soltanto quando sceglie, cioè solo nel momento in cui crede di poter fare una scelta tra un’opzione e l’altra (cosa p.es. che si verifica quando si va a votare), ma poi l’esperienza di libertà che si è indotti a vivere, di “umano”, di “civile”, di “democratico” spesso ha assai ben poco.

4. Cinque tappe storiche

Tutte le popolazioni esistite nella storia, che per secoli hanno vissuto determinate condizioni socio-culturali, vanno considerate come appartenenti al genere umano.

Ovviamente non nel senso che una popolazione rappresenta i “piedi” del genere umano e un’altra il “cervello” o il “cuore”. Questo sarebbe fare del razzismo. Piuttosto nel senso che ogni popolazione rappresenta un momento particolare del genere umano, ed anche, di conseguenza, un aspetto particolare in cui esso è stato e viene ancora oggi rappresentato. Il “momento” si riferisce al tempo storico, l’“aspetto” si riferisce alla modalità con cui una popolazione ha vissuto nel proprio “spazio” quel particolare momento.

Bisogna infatti che lo storico sappia cogliere, nell’evoluzione storica del genere umano, le varie tappe del suo sviluppo (i diversi momenti storici), chiaramente distinguibili le une dalle altre. Le famose cinque tappe storiche, proposte dal socialismo scientifico, che oggi si accettano solo fino a un certo punto: comunismo primitivo, schiavismo, feudalesimo, capitalismo, socialismo, non sono state vissute contemporaneamente da tutte le popolazioni umane: alcune addirittura sono passate da una all’altra tappa, saltando quella di mezzo.

Esiste nella storia una discontinuità (dovuta alla facoltà della libertà umana) da cui non si può prescindere. Se una popolazione è limitata nel suo sviluppo democratico, ciò non può esserle imputato più di quanto non possa esserlo a tutte le altre popolazioni, che non hanno saputo realizzare lo sviluppo uniforme, continuo, del genere umano verso la democrazia. I torti non stanno mai da una sola parte.

Occorre anche che lo storico sappia distinguere i vari aspetti socio-culturali che hanno caratterizzato l’organizzazione delle diverse popolazioni. Sulla base di questi aspetti è possibile verificare se la tappa evolutiva è stata vissuta in modo adeguato, conforme alle leggi dell’evoluzione storica del genere umano. Se cioè la popolazione ha saputo lottare efficacemente contro le contraddizioni della sua epoca, acquisendo una consapevolezza matura dei rapporti umani e democratici, conformi alle esigenze della natura.

A proposito delle cinque tappe storiche di cui più sopra di parlava, bisogna dire che nel nostro paese, specie in ambito scolastico, chiunque faccia storiografia si vergogna di attribuire la propria metodologia ai classici del marxismo, che pur hanno inventato la storia socio-economica e che sarebbero impensabili senza riferimenti espliciti a tutta la cultura borghese europea.

È raro infatti vedere un quadro comparativo in cui vengono messe a confronto le cinque formazioni sociali individuate dal socialismo scientifico: si teme che questa sinossi, pur agevolando un approccio olistico alla storia mondiale, si caratterizzi in maniera ideologica, spostando marcatamente il baricentro della storiografia verso “sinistra”, o comunque contaminando con opzioni di tipo politico un discorso che invece deve restare rigorosamente culturale.

Sicché si preferisce utilizzare solo astrattamente alcuni elementi interpretativi dei fenomeni storici, evitando di metterli in relazione alla necessità di considerare categorie come “occidente”, “capitalismo”, “democrazia borghese”, “Stato nazionale” ecc., destinate ad essere superate dalla storia.

In tal modo però, invece di integrare la concezione materialistica della storia con l’apporto di nuovi elementi umanistici, arricchendola nella sua valenza interpretativa, cioè invece di mettere in risalto non solo il momento economico della “necessità storica” ma anche quello culturale della “libertà umana”, si finisce con l’abbandonare quella concezione a se stessa, limitandosi a offrire un approccio metodologico troppo asettico e privo di prospettive.

P.es. quello che del marxismo andava sicuramente superato non era tanto l’analisi di come le cose sono oggettivamente andate dal feudalesimo al capitalismo, quanto piuttosto la mancanza di un’ipotesi argomentativa, quella di prevedere come le cose sarebbero potute andare senza considerare il capitalismo l’unica alternativa possibile al feudalesimo.

Spiace veder gli storici aver paura di essere troppo “storici”, anche perché, quando preferiscono riservarsi un certo margine di superficialità, se non di ambiguità, al fine di soddisfare i pregiudizi della cultura dominante e sentirsi così più liberi (illusoriamente) di procedere nelle loro ricerche, spesso rischiano, proprio a causa di questa pigrizia intellettuale, di trasformare le loro ricerche in semplici varianti di tesi ampiamente consolidate.

5. Istituzioni e masse

Una delle leggi fondamentali della storia è la seguente: quanto più le istituzioni pretendono di condizionare con la forza poliziesca o militare le masse, tanto meno vi riescono. Cioè i momenti più favorevoli alla coazione sono quelli in cui si usa il condizionamento con strumenti non esplicitamente basati sulla forza “fisica”.

Perché la repubblica romana durò più dell’impero? Perché la chiesa romana ebbe più consensi popolari nell’alto Medioevo che non nel basso? Il motivo è molto semplice: il principio della “forza” era stemperato da istanze democraticistiche (il senato a Roma, le comunità di villaggio nel Medioevo).

In altre parole, il potere che vuole diventare dispotico, in un primo momento, usa la finzione della partecipazione popolare (o comunque deve in qualche modo tener conto di questa realtà). Successivamente, quanto più aumenta l’autoritarismo (potere politico + privilegi economici), tanto meno le istituzioni si sentono indotte a ricorrere alla mistificazione del consenso popolare. Proprio questa convinzione le induce a credere di poter usare la violenza in maniera esplicita e diretta. Ma le masse non amano essere angariate senza neppur avere l’illusione di non esserlo sino in fondo. Di qui la resistenza popolare.

All’arbitrio e alla corruzione presente a livello istituzionale le masse rispondono generalmente in tre modi: con la rivoluzione politica, che impone, soprattutto nella fase iniziale, una svolta positiva nei valori e negli stili di vita (rivoluzione francese, russa ecc.); con la criminalità organizzata, che sfrutta il malcontento per la corruzione istituzionale per affermarne una di tipo territoriale, gestita da poche persone senza scrupoli (mafie di ogni genere); con una reazione di protesta alla corruzione delle autorità, apparentemente in nome di una maggiore democraticità dei rapporti umani, di fatto invece per allargare questa forma di corruzione a livello di tutta la società (l’esempio classico è quello della riforma protestante, dove alla corruzione politica del papato si rispose con quella economica dell’affarismo borghese).

Naturalmente tra i due modi di fare politica, quello delle istituzioni e quello delle masse, lo storico deve privilegiare quello di coloro che hanno cercato di promuovere rapporti sociali democratici e non può accordare troppo spazio, come invece purtroppo fa, alla storia dei poteri dominanti.

6. Le occasioni perdute

Quando, di fronte ai soprusi istituzionali, le masse tentano una forma di opposizione che non sanno gestire sino in fondo, si parla di “occasioni perdute”.

Spesso, in questa debolezza organizzativa e decisionale, le maggiori responsabilità ricadono non tanto sulle masse, che si muovono il più delle volte in modo spontaneo, bensì sui loro dirigenti, che rappresentano invece l’avanguardia più consapevole.

Ebbene, qui la storia parla chiaro: quando le occasioni si ripresentano, vengono sempre meno sfruttate, proprio perché, nel frattempo, il potere istituzionale ha saputo prendere le contromisure. Ogni occasione perduta comporta che all’occasione successiva l’opposizione popolare dovrà pagare un prezzo molto più alto per riuscire ad avere la meglio.

I tempi della storia tra memoria e desiderio

Il modo che hanno gli storici di considerare il passato come qualcosa di tanto più “remoto” quanto più è “lontano” e quindi come qualcosa di concluso in sé, in maniera oggettiva e irripetibile, è un modo di presentare e interpretare le cose che riflette il nostro tempo, proiettato verso il futuro (anche se oggi, in verità, le insicurezze riducono di molto gli entusiasmi), ma non si può dire sia un modo naturale di concepire l’esistenza e il fluire del tempo. Basterebbe leggersi i testi di Rigoberta Menchù per convincersene.

Negli stessi vangeli le genealogie vennero scritte proprio per far capire, anche a costo d’inventarsi ascendenze mai esistite, che sarebbe stato molto onorevole per un messia avere come avi Davide e Salomone, pur essendo essi vissuti mille anni prima. Non sono stati forse gli ebrei che un giorno risposero al Cristo: “Non siamo schiavi di nessuno, abbiamo Abramo per padre”(Gv 8,33)? Per dimostrare la purezza delle loro origini chiamavano in causa un personaggio esistito 1800 anni prima, le cui vicende erano più che altro avvolte nel mito. Ma se andiamo tra gli indiani nordamericani o tra i cinesi confuciani, giusto per fare altri esempi, la preoccupazione di tutelare un’origine ancestrale era ed è la medesima, al punto che si avvertivano più vicini i defunti più lontani, proprio perché venivano considerati più autentici, più genuini, più prossimi alla verità delle cose.

Non solo, ma resta anche del tutto astratta, nozionistica, per non dire ideologicamente viziata, l’impostazione dei manuali di storia che, volendoci far capire che il nostro presente è la summa summarum del concetto di “civiltà”, illustrano una linea del tempo in cui il passato viene visto in uno specchio deformante.

In questo gli storici sono perfettamente in linea con quanto si è iniziato a fare a partire dall’Umanesimo e dal Rinascimento (in Italia dal Mille, salvo il ripensamento in extremis, ma tardivo, della Controriforma): quello di imporsi con forza negando valore alle tradizioni, alla memoria storica. Si è puntato tutto sul dubbio cartesiano, sulla ragione illuministica, sull’istanza di rinnovamento borghese, sulla fine degli usi e costumi del mondo contadino (in nome di una critica, peraltro giustificata, dell’autoritarismo ecclesiastico e dello strapotere nobiliare), sull’affermazione dell’idea di progresso indefinito, di sviluppo tecnologico ed economico inarrestabile… Il passato è diventato morto semplicemente perché è stato ucciso, buttando dalla finestra l’acqua sporca col bambino dentro.

Così oggi non abbiamo più memoria di quel che eravamo, camminiamo nelle nostre città superaffollate come epigoni dello smemorato di Collegno. Il passato per la prima volta, con la civiltà borghese, è diventato “remoto” e ha smesso di scorrere nelle vene del presente. Non ce lo portiamo più con noi, nel nostro bagaglio di esperienze e conoscenze acquisite, se non, al massimo, come nostalgia di un mondo irrimediabilmente perduto.

Abbiamo finito con lo stravolgere anche le caratteristiche del nostro desiderio, che sono diventate molto più individualistiche, settarie. Noi viviamo per realizzare un semplice desiderio di soddisfazione personale. Non c’è più coincidenza tra desiderio personale e desiderio collettivo, proprio perché non c’è più da salvaguardare una memoria comune.

Nel nostro cervello la memoria è scomparsa, forse si conserva in qualche angolo recondito dell’inconscio: quella che abbiamo è a breve termine, e il desiderio che le è correlato l’abbiamo ridotto alla mera necessità di sopravvivere in una società ove dominano i rapporti di forza, lo scontro tra egoismi particolari.

Ecco perché per noi è diventato impossibile tentare di comprendere qualcosa del passato dall’alto del nostro presente. Per poter essere minimamente capito, il passato andrebbe studiato come se fosse un presente, cioè andrebbe in un certo senso rivissuto, e non tanto nelle forme esteriori della vita prosaica, quanto proprio nella sostanza delle contraddizioni di fondo, che sono poi quelle che hanno portato gli uomini a compiere determinate scelte.

Occorre capire la centralità dei problemi, il modo come l’uomo si è posto di fronte ad essi, le scelte operate per risolverli e i nuovi problemi che queste scelte hanno generato, nella consapevolezza che l’evoluzione dell’uomo non procede in linea retta, ma a sbalzi, a zigzag, facendo spesso un passo avanti e due indietro.

Indicativamente si potrebbe dire che la storia è lo svolgimento di formazioni sociali differenti, in relazione a scelte che si sono dovute compiere tra due grandi esigenze più o meno contrapposte: quelle che trovano le loro ragioni nell’individualismo e nel collettivismo.

Queste due esigenze s’intrecciano continuamente in ogni formazione sociale, nel senso che non esiste una formazione sociale del tutto individualistica o del tutto collettivistica. Se ciò si verifica, allora la crisi della società è giunta ad una fase molto acuta e la sua trasformazione drammatica diventa inevitabile.

La storia, dopo quella lunga esperienza di equilibrio tra singolo e collettivo, è diventata l’altalenarsi continuo di una propensione concessa a questa o quella forma di esperienza sociale. Là dove prevale l’individuo, il collettivo è sacrificato e, in genere, viene visto come un impedimento allo sviluppo della personalità, alla creatività del singolo. Viceversa, là dove prevale il collettivo, spesso il singolo non è che un numero, un’astrazione, come nei regimi amministrati di tipo statalista.

Questo per dire che l’accettazione degli eventi storici secondo un criterio di ineluttabilità, come spesso si constata nei manuali scolastici, non fa progredire di un passo la comprensione dei meccanismi dinamici della libertà umana. Si usa la categoria della necessità come se la libertà fosse un peso gravoso da sopportare e non la fondamentale risorsa che distingue la consapevolezza dall’istinto.

Avere “senso storico” significa sostanzialmente saper esaminare le diverse opzioni culturali presenti nel momento in cui sono state prese determinate decisioni. Se la tendenza è quella di giustificare il proprio presente (e non quella di relativizzarlo o di contestualizzarlo), si finirà necessariamente col valorizzare del passato solo quelle scelte (strategiche) che hanno contribuito a generare questo stesso presente.

Conseguenza di tale visione deterministica è che, in definitiva, si considera di qualità inferiore (p.es. di matrice utopistica) tutto ciò che è risultato perdente, come fosse inesorabilmente destinato a uscire sconfitto dalla storia. La storia diventa così una sequenza sconclusionata di eventi i cui protagonisti si sono affermati solo perché erano più forti di altri; e non appare invece come una rappresentazione drammatica delle molteplici possibilità che gli uomini hanno di non essere quel che dovrebbero essere.

Ovviamente è impossibile per uno storico cercare le alternative nel passato quando come cittadino egli non vuole o non riesce a cercarle neppure nel suo presente. Eppure, compito fondamentale della scuola è quello di essere un servizio per l’oggi, per aiutarci a comprenderlo e a migliorarlo. Il passato andrebbe studiato solo nella misura in cui le esigenze lo richiedono. L’unica storia possibile (come disciplina) dovrebbe quindi essere quella che fa comprendere l’attualità e, a tal fine, sarebbe compito dell’insegnante andare a cercare nel passato conferme, smentite, varianti sul tema, da discutere in classe.

Un cittadino vive veramente il suo tempo quando considera il presente assolutamente prioritario rispetto al passato e al futuro. La memoria del passato e il desiderio del futuro non sono nulla senza l’esperienza del presente, che detta le regole interpretative del passato e che pone le condizioni dello sviluppo del futuro. Che questo avvenga in maniera giusta o sbagliata sarà la storia a deciderlo.

Gli uomini devono limitarsi ad assumere delle responsabilità soltanto in relazione al loro presente. E queste responsabilità, rivalutando il periodo preistorico, non possono andare che in queste direzioni:

  1. ripristino della proprietà sociale dei mezzi produttivi, facendo bene distinzione tra i concetti di proprietà privata, sociale e personale (con l’esclusione della proprietà privata bisogna escludere anche quella statale, in quanto il concetto di “pubblico” deve coincidere soltanto con quello di “sociale”);
  2. fine del dominio dell’uomo sulla natura, quindi revisione totale dei principi scientifici e tecnologici della cultura occidentale (occorre partire dal presupposto che l’uomo ha più bisogno della natura di quanto la natura abbia bisogno dell’uomo, quindi qualunque sviluppo tecnico-scientifico dev’essere compatibile con le esigenze riproduttive della natura);
  3. fine del dominio del più forte sul più debole (diritto funzionale al bisogno e non tanto astratta uguaglianza di fronte alla legge);
  4. ricomposizione del diviso: città e campagna, lavoro intellettuale e lavoro manuale, teoria e prassi (et-et non aut-aut);
  5. affermazione della democrazia diretta, localmente circoscritta, quindi fine della democrazia delegata e superamento di concetti come Stato, nazione, parlamento, leggi, istituzioni…;
  6. superamento della divisione dei poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario), in quanto è il popolo che decide, esegue e giudica;
  7. il popolo deve difendere se stesso, quindi no alla delega del potere militare.