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Sembriamo un malato terminale impazzito

Sembra che siano gli USA il fattore principale dei cambiamenti che stanno avvenendo nel mondo. Sembra che la Russia si senta obbligata a scendere a patti con loro per porre fine alla guerra in Ucraina. Sembra che la UE si senta in dovere di reagire a quello che percepisce come un tradimento da parte degli USA, il cui presidente si mette a negoziare con Putin, cioè con quello statista che fino a qualche mese fa veniva considerato un autentico mostro.
Sembra che molti statisti cosiddetti “volenterosi” della NATO vogliano comportarsi nei confronti dell’Ucraina in maniera più giusta di quanto dimostri Trump. Nel senso che sarebbero disposti a inviare le loro truppe, direttamente, intenzionalmente, sul territorio ucraino, per difendere la “democrazia”. Vogliono dare un esempio a Trump di come lui dovrebbe comportarsi, anche se lui ha già detto che non invierà mai le proprie truppe in Ucraina. Lui ha fatto chiaramente capire di voler essere più concreto, più realista: vuole affrontare la questione della pace come un affarista, proponendo alla Russia accordi commerciali vantaggiosi.
Sembra che Trump e il suo staff detestino gli europei: infatti vogliono imporre dazi su molte delle loro merci, inducendoli a trasferire le loro imprese negli USA; vogliono obbligarli a spendere di più per le basi della NATO, minacciandoli che, se non lo faranno, loro se ne andranno, lasciandoli soli a combattere l’orso russo; e non li vogliono tra i piedi quando patteggiano coi delegati di Putin. Questo perché Trump si è reso conto che al mondo esistono poche vere potenze e che non ha alcun senso che queste potenze si ammazzino tra loro. E gli USA sanno che la UE sul piano militare conta assai poco.
Sembra anche che gli statisti europei non si rendano conto che il loro vero nemico non sono i russi ma gli americani. Anzi sono convinti che gli USA, pur volendo fare i loro esclusivi interessi, siano comunque da preferire alla Russia, vista sempre come un nemico che vuole arrivare a Lisbona.
Mi chiedo in quale mondo di matti si stia vivendo. Cosa vuol dire essere “occidentali”? Che senso ha autodistruggersi o semplicemente illudersi in questa maniera? Come può pensare Trump di arrivare alla pace sulla base di accordi puramente commerciali? E come possono pensare gli europei di vincere una guerra contro una potenza che potrebbe schiacciarli in pochi giorni, forse in poche ore?
Possibile che una guerra, che apparentemente per noi europei sembrava essere “regionale”, cioè qualcosa tra “slavi”, abbia avuto in sé un potenziale così altamente esplosivo, così enormemente destabilizzante da modificare in un triennio l’intera geopolitica mondiale? Che sta succedendo? Se scoppia un altro caso come questo, per es. a Taiwan o nell’Artico o nel Mar Baltico, chi riuscirà a salvarsi? Quante micce ci vogliono per far scoppiare un conflitto mondiale? Sembriamo un malato terminale che, dopo aver vissuto da egoista tutta la vita, piuttosto che cedere l’eredità ai figli, la sperpera al casinò.

Mi piace come scrive Gerry Nolan

Ciò che si sta svolgendo in Serbia non è una rivolta spontanea, è un’operazione di cambio di regime da manuale, eseguita dalle stesse reti di intelligence anglo-americane che hanno trasformato in un’arma la “democrazia” dall’Ucraina alla Georgia.
Secondo il vice premier serbo Aleksandar Vulin, le proteste di massa in corso guidate dagli studenti sono l’ultima puntata di una “rivoluzione colorata” sostenuta dallo stato profondo degli Stati Uniti e dai servizi segreti europei. Il loro obiettivo è quello di frantumare la sovranità della Serbia, rovesciare il suo governo e installare un regime fantoccio euro-atlantico compiacente che rispetterà la linea delle sanzioni anti-russe e dell’integrazione nella NATO. Anche senza impronte digitali palesi dell’USAID, i soldi del bilancio nero trovano sempre la loro strada.
La Serbia deve diventare un altro nodo obbediente dell’ordine neoliberista. L’accetterà la Russia? Dipende se gli statisti serbi vorranno realizzare un accordo strategico anche sul piano militare.
Intanto, mentre Trump lavora per negoziare la fine della guerra in Ucraina, gli stessi elementi del Deep State, che temono la pace, stanno accendendo incendi altrove per mantenere instabile l’Eurasia e circondare la Russia.
Se non verrà formato un nuovo governo entro i prossimi 30 giorni, seguiranno elezioni anticipate. E si può scommettere che tutto il peso dell’ingerenza occidentale sarà riversato su qualsiasi candidato prometta di recidere i legami storici della Serbia con la Russia e di sottomettersi completamente a Bruxelles e Washington.
Ciò a cui stiamo assistendo è un’operazione di guerra ibrida in pieno giorno, una fusione di lamentele organiche, guerra psicologica, agitazione della quinta colonna e coordinamento dell’intelligence transnazionale. Da Maidan a Kiev alle piazze di Belgrado, la sceneggiatura non è cambiata, solo il cast.
Tuttavia non siamo nel 1999. La gente si sta svegliando e l’era dell’impunità imperiale è finita.
A ciò possiamo aggiungere:
Ricordiamo tutti quando la decisione di bombardare l’allora Jugoslavia fu presa per la prima volta nella storia senza l’approvazione del Consiglio di sicurezza dell’ONU. L’ordine fu dato dal Segretario generale della NATO e dai criminali di guerra Javier Solan e Wesley Clark.
Ben 19 Paesi parteciparono a 2.300 attacchi aerei. Si utilizzarono missili da crociera, bombe a grappolo e munizioni vietate con uranio impoverito.
L’aggressione distrusse o danneggiò 25.000 edifici residenziali, 470 km di strade e 595 km di ferrovie, 14 aeroporti, 19 ospedali, 20 centri sanitari, 18 asili, 69 scuole, 176 monumenti culturali, 82 ponti, 1/3 della capacità elettrica del Paese, due raffinerie a Pančevo e Novi Sad. Tra feriti e morti, civili e militari, si superarono le 14.000 persone.

Libro bianco per la difesa europea

Il Libro bianco per la difesa europea (ReArm Europe Plan/Readiness 2030) è una follia all’ennesima potenza. Lo si vede sin dalla premessa: “L’Europa deve investire nella sicurezza e nella difesa del continente, continuando al contempo a sostenere l’Ucraina per difendersi dall’aggressione della Russia.”
A parte che UE ed Europa non coincidono, ma dove sta scritto che la Russia ha intenzione di attaccare l’Europa? Quale è il documento del Cremlino che lo dice? Quali sono le parole di Putin?
E poi tutta questa fretta che ha la von der Leyen di armare la UE, da dove viene? Forse da un sentimento di frustrazione per aver perso clamorosamente la guerra per procura in Ucraina? La UE è già molto armata con la NATO. In questo folle documento non viene detto che la NATO va chiusa o superata. Gli USA non hanno detto di voler uscire dalla NATO, né la UE ha intenzione di farlo.
È chiaro dunque che sotto ci sono altre intenzioni. Secondo Alessandro Volpi sono di tipo finanziario. La UE sta creando una bolla finanziaria attraverso lo strumento delle armi. L’Ucraina è solo un pretesto. Darle 2 milioni di proiettili di artiglieria all’anno non servirà a nulla. La guerra l’ha già persa e continuerà a perderla, con o senza NATO, con o senza Unione Europea, con o senza von der Leyen. Russia e Bielorussia sono nemici completamente inventati.
Questi scriteriati che han redatto il documento non si rendono conto che non ha alcun senso economico investire così tanto nella difesa per rilanciare l’industria. Ad un certo punto le armi andranno usate per forza. Non potranno essere vendute a nessuno se serviranno per difenderci dalla Russia.
Insomma gli statisti folli della UE hanno intenzione di dissanguarci come un vampiro, poiché le spese per la difesa andranno tolte dai bilanci pubblici.

Russia, Bielorussia e Ucraina

La Bielorussia sta diventando un partner strategico-militare della Russia sempre più importante. Lukashenko e Putin han finalizzato i piani per posizionare i missili ipersonici Oreshnik sul suolo bielorusso entro la fine dell’anno.
Mosca aveva già dimostrato la grande efficienza di questo sistema missilistico in un attacco a una fabbrica militare ucraina nello scorso novembre, aggirando completamente le difese aeree occidentali.
L’impiego di queste armi ipersoniche è una risposta diretta all’incoscienza della NATO, che ha autorizzato il governo di Kiev a compiere attacchi terroristici all’interno della Russia, dotandola di armi in grado di raggiungere Mosca e San Pietroburgo.
Ora è l’Europa a essere indifesa. Il sistema Oreshnik rende obsoleti gli scudi di difesa missilistica della NATO e può colpire in pochi minuti Berlino, Varsavia e Londra. Ormai non si tratta più solo dell’Ucraina, ma del nuovo equilibrio militare in Europa dettato da Mosca.
La stessa BBC ha ipotizzato un “endgame 2025” per l’Ucraina. A dir il vero la stessa macchina della propaganda occidentale, incapace di negare l’inevitabile, è arrivata alla fine dei giochi. Sta per crollare l’idea di una guerra per procura progettata sulle spalle degli ucraini, cui era stato detto che stavano combattendo per la democrazia, e che però stanno morendo per l’arroganza della NATO.
Ora nessuno si faccia illusioni: non sarà Trump a decidere la pace né Kiev in grado di fare pressioni su Mosca affinché faccia delle concessioni.
Persino Podolyak, consigliere di Zelensky, ha ammesso tacitamente che “non può aver luogo alcun processo di negoziazione”.
Per quanto tempo ancora il mainstream occidentale potrà impedire di credere che questa disfatta totale non sia un’umiliazione cosmica creata dallo stesso occidente? L’impero delle bugie sta crollando in tempo reale.

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Nel centro di Odessa è stato ucciso a colpi di pistola l’attivista ultranazionalista Demyan Ganul, ex membro di Settore Destro, uno degli organizzatori dell’incendio doloso della Casa dei sindacati il 2 maggio 2014, dove morirono circa 50 persone.
Zelensky ha detto che l’assassino del neonazista è stato arrestato.
Ganul aveva già pubblicamente affermato di non considerare “persone” le vittime di Odessa ed era noto per aver picchiato i residenti quando parlavano russo; aveva anche distrutto diversi monumenti sovietici e russi in città.
Sarà bene ricordare che il principale organizzatore del massacro fu Andrej Parubij, ex presidente del parlamento ucraino.
Questo per dire che se il governo ucraino non si sbriga ad arrendersi, ora che ha l’esercito in rotta, le vendette private per i torti subiti dopo il 2014, saranno all’ordine del giorno, anche perché nessun neonazista è mai stato condannato per le atrocità commesse. Nel luglio 2024 a Leopoli è già stata uccisa Irina Farion, le cui attività avevano in gran parte portato all’emergere delle basi ideologiche dell’attuale regime di Kiev.
Va poi detto che, sullo sfondo di numerose leggi discriminatorie, frontiere chiuse e rapimenti di uomini da mandare al fronte, saranno in molti, tra gli ucronazisti, a rischiare la pelle. Queste vendette private le abbiamo già viste anche in Italia, quando crollò il fascismo.
Insomma, se a Kiev, città del golpe, va ripristinata la democrazia, a Odessa, città della prima strage degli ucraini filorussi, va ripristinata la giustizia.

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A quanto pare non è affatto vero che le forze armate ucraine si stiano “ritirando” da Kursk come gesto di distensione in vista dei colloqui di pace. Quella in realtà è una specie di Caporetto. Migliaia di soldati sono rimasti intrappolati nella rocambolesca avanzata russa a Sudzha. Circa 67.000 erano già morti negli scontri precedenti.
Verrebbe quasi da ridere, se non ci fosse da piangere, al pensiero che l’impresa di Kursk doveva essere, nelle intenzioni di Zelensky (che poi in realtà erano quelle della NATO), una grande operazione di scambio di territori tra Mosca e Kiev e un’importante leva contrattuale per l’Ucraina nella fase dei negoziati.
Ora Trump, sapendo bene che tra gli ucraini molti fanno parte della NATO, sta chiedendo a Putin di risparmiare la vita ai sopravvissuti. Ma molti di loro si sono resi responsabili di crimini orrendi. Putin potrà evitare di fucilarli sul posto, ma non può certo esimersi dal sottoporli a giudizio, anche perché, secondo il Codice penale russo, vengono tutti considerati terroristi. Quindi l’unica alternativa che hanno è quella di arrendersi.
Insomma Zelensky se ne deve andare, poiché ha combinato in tre anni una serie incredibile di drammi e tragedie. Se si limitava a fare il comico, sarebbe stato molto meglio per lui. Ora se gli USA non lo fanno fuggire, col suo entourage neonazista, sa bene cosa l’attende: un nuovo processo di Norimberga. E in questo processo non potrà dire d’essere stato ingannato da chi gli prometteva una facile vittoria; dovrà anche ammettere d’essersi comportato come una persona cinica e crudele, falsa e ipocrita, e soprattutto ladra.

Una battaglia mondiale per un chip

Il commissario europeo Thierry Breton responsabile della politica industriale della UE, ha detto al quotidiano economico francese “Les Echos”: “Da diverse settimane si registra una penuria di semiconduttori [minuscoli prodotti di silicio che troviamo ormai ovunque] sul mercato mondiale, e questo ha costretto a interrompere l’attività di alcune fabbriche di automobili [dove i chip sono in media 800!] e perfino impianti per la produzione di tostapane. In questa industria l’Europa si è lasciata distanziare per mancanza d’investimenti. La produzione di semiconduttori di ultima generazione si effettua principalmente in Asia, e in particolare a Taiwan, che non può più venderli alla Cina. Soprattutto l’azienda TSMC detiene un quasi monopolio sui semiconduttori di alta gamma. L’azienda statunitense Intel, dominante fino a 10 anni fa, è stata soppiantata. Oggi TSMC produce l’80% dei semiconduttori più sofisticati e si prepara a commercializzare semiconduttori di 3 se non addirittura 2 nanometri [l’unità di misura del settore che corrisponde allo spessore di un capello]. A parte la Corea del Sud nessuno riesce a tenere il passo, neanche la Cina, che oggi è priva dell’accesso all’industria a causa delle sanzioni americane”.

A dir il vero per quanto riguarda la ricerca e progettazione (che non c’entra niente con la fase della fonderia, dell’assemblaggio e imballaggio) gli USA detengono ancora una leadership mondiale, in virtù della quale possono controllare circa la metà delle vendite globali di semiconduttori, contro il 10% della UE e il 5% della Cina. Ben 8 delle 15 più grandi aziende di semiconduttori nel mondo sono negli USA, con Intel prima per vendite annue.

Un quadro radicalmente opposto si delinea invece per quanto riguarda l’attività di fonderia, dominata effettivamente da Taiwan e dalla Corea del Sud, con rispettivamente il 23% e 26% della capacità produttiva del settore. Complessivamente in Asia orientale è concentrato circa l’80% della produzione mondiale di chip. All’interno di questa quota la Cina ricopre il 12%, con una crescita di 10 punti percentuali negli ultimi 20 anni.

La TSMC ha inoltre investito più di 20 miliardi di dollari per la costruzione, nell’area meridionale di Taiwan, di una nuova fabbrica delle dimensioni di 22 campi da calcio, capace di sviluppare le tecnologie a 3nm e 2nm, rispettivamente previste per il 2022 e il 2024.

Parallelamente, USA e UE hanno invece assistito al crollo, negli ultimi tre decenni, della loro quota nella capacità produttiva globale di semiconduttori, da quasi il 40% a rispettivamente il 12% e il 10% circa.

In particolare la UE ha perso la sfida tecnologica per almeno il prossimo decennio, poiché gli investimenti necessari sono colossali. La sola TSMC si prepara a investire 100 miliardi di dollari nel corso dei prossimi tre anni, mentre l’Europa può mettere sul piatto solo una decina di miliardi, più altrettanti di contributi da parte degli industriali. Troppo pochi.

Trump aveva indotto TSMC a costruire una fabbrica in Arizona, con un investimento di 12 miliardi di dollari, per colpire soprattutto il colosso Huawei, accusato dagli USA di collaborare con le autorità cinesi a fini spionistici. I lavori di costruzione (con 1.600 addetti e migliaia di altri nell’indotto) dovrebbe iniziare nel 2021 e la produzione di 20.000 chip al mese a 5 nanometri dovrebbe essere avviata nel 2024. L’impianto sarà la seconda fabbrica della TSMC negli USA. Nel 2017 un’altra big taiwanese, Foxconn, ha annunciato piani per costruire un impianto nel Wisconsin. Anche Intel ha già annunciato un investimento da 20 miliardi di dollari per la creazione di due nuove fabbriche di semiconduttori in Arizona, che dovrebbero iniziare la produzione nel 2024. L’Arizona dovrebbe inoltre accogliere l’impianto da 17 miliardi di dollari di Samsung Electronics. Tutte cose che nella UE ci sogniamo.

Ora Breton vorrebbe convincere i taiwanesi a investire anche in Europa, ma ha già ricevuto un rifiuto: TSMC vuole mantenere l’essenziale della produzione a Taiwan, che però è un’isola rivendicata da Pechino, e l’industria cinese, dopo l’embargo americano sui dazi, ha assolutamente bisogno di quei semiconduttori, anche perché in questo settore patisce diversi anni di ritardo. Infatti ne ha ammassato le scorte prima del blocco e sta investendo nella propria autosufficienza. Poi è venuta la pandemia che ha provocato un incremento nell’uso di materiale informatico.

Insomma ce n’è abbastanza per far scoppiare una guerra, anche perché questo settore tecnologico vale 440 miliardi di dollari di fatturato annuo, ed è in costante crescita (+7,7% previsto nel 2021). Infatti i semiconduttori sono una componente cruciale per smartphone e computer, che insieme costituiscono i 3/5 degli acquisti globali di chip, ma anche per l’industria automobilistica (10% del mercato). In campo militare, poi, sono assolutamente necessari per modellare le traiettorie di missili e droni da combattimento.

Washington mette in pericolo la sopravvivenza di Huawei, orgoglio dell’economia cinese, numero uno al mondo nei dispositivi telefonici e pioniere nella tecnologia 5G, con un giro d’affari globale di oltre 100 miliardi di euro e circa 200.000 dipendenti. E Huawei, già costretta a vendere il suo marchio di smartphone Honor per evitarne il fallimento, è solo la punta dell’iceberg di quella che è ormai una guerra aperta in campo tecnologico. Ricordiamo che un anno e mezzo fa gli USA han fatto arrestare a Vancouver la direttrice finanziaria di Huawei, nonché figlia del fondatore, con l’accusa d’aver violato le sanzioni contro l’Iran.

Pechino infatti sta già prendendo misure ritorsive: bloccherà o rallenterà le esportazioni di terre rare, la famiglia di 17 minerali usati in settori strategici, a cominciare da quello degli armamenti. Servono 435 grammi di questi minerali per fabbricare un aereo da combattimento statunitense F-35. E si può facilmente prevedere che Pechino troverà il modo per piegare Taiwan alle proprie esigenze, anche perché l’isola non può fare a meno del mercato cinese,

Ricordiamo che nel 2010, durante un periodo di tensioni, la Cina aveva già privato il Giappone delle terre rare. All’epoca ne controllava il 95% del mercato; oggi ne controlla ancora l’80%. Ma questa volta sono gli occidentali che stanno cercando di ridurre la loro dipendenza.

URGE UNA PROFONDA REVISIONE DELLE REGOLE ECONOMICHE DELL’UNIONE EUROPEA!

Di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

 Il messaggio del presidente Mattarella per il riesame delle regole del Patto di stabilità, allo scopo di rinnovare la coesione europea e indirizzarla verso la crescita e gli investimenti produttivi, può aprire una stagione di grandi cambiamenti e innovazioni in tutti i campi della politica e dell’economia. Il Presidente interpreta bene le esigenze del nostro popolo e, soprattutto, la delicatezza della situazione che potrebbe minare l’unità dell’Unione europea.  Infatti, il momento economico è difficile per tutti i paesi dell’Ue, colpiti dalla recessione, dalla deflazione e da ondate destabilizzanti di guerre doganali. Ciò, però, potrebbe augurabilmente consentire a dare la spallata definitiva all’assurda politica dell’“austerità a tutti i costi”.

 Negli anni scorsi anche noi abbiamo sovente rilevato le esigenze più stringenti che in Europa si dovrebbero affrontare. Anzitutto sottrarre gli “investimenti per la crescita”, quelli in infrastrutture, reti, innovazione, educazione e ricerca, alla logica delle spese correnti, alle restrizioni di bilancio e al calcolo del deficit. Il rigore non può essere fine a se stesso. E’ da prima dell’Accordo di Maastricht che la politica economica dell’Ue è stata improntata all’esclusiva bussola dell’austerità. Oggi, per fortuna, anche gli economisti monetaristi riconoscono l’errore e ne ammettono il fallimento.  Tra l’altro, occorrerebbe ridefinire, con responsabilità e coraggio, anche la cosiddetta politica del bail in, che, in caso di crisi bancaria, prevede il coinvolgimento di azionisti, obbligazionisti e correntisti della stessa banca. Fu introdotto nel 2016, quando era previsto soltanto il salvataggio con soldi pubblici.  

 Ora, a nostro avviso, sarebbe necessario introdurre la “separazione bancaria” tra le banche d’investimento e quelle commerciali. Le eventuali operazioni speculative dovrebbero essere consentite soltanto alle banche d’investimento. Alle altre, invece, dovrebbe essere vietato. Il risparmio delle famiglie andrebbe, quindi, maggiormente tutelato. Un bail in più duro dovrebbe essere applicato alle banche d’investimento che intendano usare i loro capitali per operazioni rischiose e speculative. 

 Per aiutare la ripresa economica si potrebbe, inoltre, come più volte in passato indicato, fare ricorso agli eurobond. Sebbene reputiamo ancora difficile e lontana la piena trasformazione dei debiti nazionali in debito europeo, gli eurobond di project financing, cioè obbligazioni europee mirate a specifici investimenti produttivi, potrebbero essere attivati da subito. Gli eurobond sarebbero emessi dalla Banca Europea degli Investimenti (Bei) e acquistati dalla Bce ed eventualmente anche dagli Stati membri.

Finora il Quantitative easing della Bce è stato usato per acquistare titoli di Stato dei paesi Ue, in proporzione al loro livello di Pil, e altri titoli in possesso delle banche europee. Purtroppo, troppo spesso la liquidità ottenuta dalle banche non è stata destinata ai crediti per l’economia reale ma è stata deposita presso la stessa Bce. Sarebbe, invece, opportuno vincolare le politiche monetarie della Bce, e quindi anche il Qe,  direttamente ai programmi di sviluppo economico dell’Ue.

Naturalmente l’Europa non può sottovalutare i gravi problemi della fiscalità e la necessità della lotta contro l’evasione e l’elusione. Si stima che l’evasione fiscale a livello europeo sia di circa 900 miliardi di euro. La cifra è enorme, in cui la quota italiana è, purtroppo, notevole. 

La tassazione delle grandi imprese multinazionali, che finora hanno cercato abilmente di sottrarsi ai controlli, non è rinviabile. La vera sfida è uniformare i sistemi fiscali dei vari paesi Ue. Del resto non si può ignorare che alcuni paesi – Belgio, Cipro, Ungheria, Irlanda, Lussemburgo, Malta e Olanda – “mostrano tratti da paradiso fiscale e facilitano l’approccio fiscale aggressivo”, come dice anche il rapporto preparato da una commissione del Parlamento europeo.

L’Europa deve sempre più essere la nostra casa comune. Perciò, a partire dall’Italia, è dovere di tutti mantenerla, cambiarla e migliorarla. 

 *già sottosegretario all’Economia

 **economista

 

 

 

 

 

 

BIGLIETTO VERDE E PERICOLI PER LA VOLATILITA’ MONETARIA INTERNAZIONALE

Ruolo del dollaro e volatilità monetaria internazionale

Paolo Raimondi* Mario Lettieri** 

Il 2015 potrebbe segnare l’inizio di profondi rivolgimenti monetari con effetti economici planetari. I segnali in tale direzione non sono stati pochi. Soprattutto nelle economie emergenti, dove flussi repentini di capitali in entrata ed poi in uscita, si sono verificate pesanti svalutazioni. E’ stato l’effetto della grande liquidità creata dalla Federal Reserve negli Stati Uniti. Adesso nel ciclone potrebbero entrarci direttamente il dollaro e l’euro.

Anche gli economisti della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea hanno cercato di dare una spiegazione al fatto che, mentre l’economia americana rappresenta meno di un quarto del Pil mondiale, le riserve mondiali in dollari sono ancora più del 60% del totale. Questo livello si è mantenuto negli anni, nonostante che dal 1978 la quota del Pil americano sul totale mondiale si sia ridotta del 6% e nonostante che il dollaro sia diminuito in media del 24% rispetto alle maggiori valute.

Ciò, secondo gli analisti della Bri, dipenderebbe dalla dimensione non dell’economia statunitense bensì della “zona del dollaro”.

Quest’area rappresenterebbe ancora oltre la metà dell’economia mondiale. In essa rientra, ad esempio, tutta quella parte di economia e di commercio dei vari Paesi del mondo che viene contrattata in dollari. Per cui componenti significative delle riserve di molti Paesi sono tenute in dollari in quanto gli interventi nei mercati dei cambi vengono gestiti in dollari, cioè nella divisa con la quale si negozia maggiormente la moneta nazionale.

Confrontando l’attuale situazione anche con le tendenze storiche riguardanti il ruolo di moneta di riserva della sterlina tra le due passate guerre mondiali, la Bri conclude che le quote delle varie valute nei panieri delle riserve monetarie potrebbero in futuro modificarsi molto rapidamente.

Una delle principali ragioni di tale cambiamento potrebbe essere la decisione della Cina di negoziare una parte crescente del suo commercio in renminbi o in monete di altre nazioni. Se il renminbi evidenziasse un movimento sostanzialmente indipendente rispetto alle principali valute e se le monete dei Paesi vicini e dei partner commerciali della Cina condividessero un tale movimento, si potrebbe determinare una “zona del remninbi” simile a quella del dollaro. In tal caso, i gestori delle riserve ufficiali potrebbero scegliere di detenere una quota considerevole di renminbi, forse non troppo diversa dal peso delle rispettive monete all’interno della citata zona.

Dopo le sanzioni, anche la Russia sta pensando di rendersi, per quanto possibile, sempre meno dipendente dal dollaro e dalle riserve in dollari. Prima dell’inizio della crisi ucraina ne deteneva circa 90 miliardi. Il comportamento dell’Europa purtroppo non aiuta, per il momento, all’individuazione dell’euro come principale moneta di riserva alternativa da parte della Banca Centrale russa.

Anche la recente decisione della Banca Nazionale Svizzera di sganciarsi dal cambio fisso con l’euro e di lasciare fluttuare liberamente il franco sta creando dei terremoti all’interno del sistema monetario internazionale. In poche ore il franco si è rivalutato di circa il 20% nei confronti dell’euro e del 17% rispetto al dollaro.

La decisione della Bns è avvenuta il 15 gennaio scorso, esattamente il giorno dopo il parere espresso da un rappresentante del consiglio degli avvocati della Corte di Giustizia dell’Ue secondo cui le cosiddette operazioni monetarie sui titoli (omt) annunciate da Draghi nel 2012 non violerebbero le leggi europee. In altre parole ci si aspetta che il quantitative easing della Bce dovrebbe essere sbloccato. Ciò comporterà l’acquisto da parte della Bce di titoli europei e l’allargamento dei suo bilancio. Di conseguenza una maggiore circolazione di euro avrebbe portato ad una fortissima pressione per una rivalutazione del franco rispetto alla moneta europea.

Come è noto, dopo la decisione svizzera del 6 novembre 2011 di fissare il cambio a 1,20 franchi per 1 euro, la Bns ha dovuto costantemente comprare euro nel tentativo di mantenerne tale livello senza rivalutare. Così nel tempo ha accumulato 220-240 miliardi di euro di riserve. Con il QE di Draghi la Bns avrebbe dovuto accrescere e di molto gli acquisti di euro. Ha invece deciso di gettare la spugna prima anche se ciò ha fatto perdere decine e decine di miliardi sul valore delle sue riserve in euro e anche in dollari. A seguito della rivalutazione della sua moneta la Svizzera teme anche di perdere una grossa fetta delle sue esportazioni con effetti recessivi sulla sua economia. Adesso altre monete, a cominciare dalla corona danese, sono sotto simili enormi pressioni.

A questo punto le continue sortite della stampa ufficiale tedesca, anche se smentite in verità in modo poco convincente, secondo cui Berlino avrebbe cambiato opinione circa la volontà di tenere la Grecia nell’euro, non giovano alla stabilità della moneta europea e di quella dell’intero sistema monetario internazionale.

Tenuto conto della crescente e preoccupante instabilità geopolitica, la volatilità monetaria rischierebbe di portare il mondo verso una crisi inimmaginabile, di sicuro molto rischiosa per l’economia e per gli equilibri politici. Per questa ragione ancora una volta noi riteniamo urgente che i Paesi del G20 inizino a lavorare per la costruzione di un nuovo sistema monetario internazionale multipolare basato su un paniere di monete importanti.

* Economista **già Deputato e Sottosegretario all’Economia

1) – Le sanzioni contro la Russia: un autogol contro la ripresa europea. 2) – Argentina: non è default, ma resistenza contro la speculazione selvaggia. 3) – Fibrillazione nel sistema bancario: anche la Bri teme una nuova crisi. 4) – Agenzie rating: la “mano armata” della finanza speculativa.

OSPITIAMO QUATTRO INTERVENTI DEI NOSTRI COLLABORATORI SPECIALISTI IN ECONOMIA E FINANZA SU ALTRETTANTI TEMI DI GRANDE IMPORTANZA E ATTUALITÀ.

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**
*Sottosegretario all’Economia del governo Prodi **Economista

1) – LE SANZIONI CONTRO LA RUSSIA: UN AUTOGOL CONTRO LA RIPRESA EUROPEA.

Le sanzioni contro la Russia per Washington hanno una valenza soprattutto geopolitica.
E’ il ritorno alla guerra fredda tra le due superpotenze. Per l’Unione europea, invece, esse rischiano di creare dei grandi disastri economici e politici per l’intera area euro-asiatica.
La mancanza di “personalità internazionale” dell’Europa è purtroppo nota. Con il suo indebolimento economico, l’Europa rischia anche di sottomettersi ad un nuovo atlantismo. Ciò farebbe piacere a Washington. Le sanzioni di fatto mortificano il ruolo indipendente dell’Ue e ogni sua autonoma visione strategica degli assetti geopolitici da realizzare.

Gli effetti negativi delle sanzioni in Europa, in particolare in Germania, per fortuna stanno però generando un dibattito profondo sul ruolo e sullo sviluppo dell’Ue.
Come è noto l’Ue ha deciso di estendere le sanzioni anche contro le imprese russe, così come già fatto dagli Usa. Washington ha sulla sua “black list” imprese quali il gigante petrolifero Rosneft, quello del gas Novatek, la Gasprombank e la fabbrica di armamenti Kalashnikov. Queste aziende non possono più chiedere prestiti alle banche americane, né vendere titoli di medio e lungo termine a investitori che hanno legami con gli Usa.

In breve si vuole strangolare finanziariamente le imprese e le banche russe che potranno avere sempre meno accesso ai mercati finanziari internazionali. Il rischio però è un boomerang. Gli effetti si sentiranno in tutta Europa, Germania compresa. In Italia si è già toccato l’export di prodotti agricoli e di vino.
La Confindustria tedesca parla di una perdita di 25.000 posti di lavoro. La Deutsche Bank calcola una diminuzione dello 0.5% del Pil tedesco causata dalle sanzioni incrociate. Continua a leggere

1) – La follia dell’uscita dall’euro e della “svalutazione competitiva”; 2) – Le “sviste” di “Chi l’ha visto?” per mandare avanti l’Emanuela Orlandi Show

1) – La follia dell’uscita dall’euro e della “svalutazione competitiva”

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Dopo i recenti exploit populisti in varie regioni europee, anche le elezioni tedesche di settembre potrebbero riservare qualche brutta sorpresa. Infatti in Germania è sorta una nuova formazione politica che mette al centro l’abbandono dell’euro.

Noi riteniamo che si debba dire con chiarezza e documentare con dovizia che l’uscita dall’euro non rappresenta una soluzione ai problemi ma l’inizio di un incubo i cui effetti potrebbero esser ben peggiori di qualsiasi altro scenario.

Non siamo i cantori delle bellezze del Trattato di Maastricht né della “perfezione geometrica” dell’euro. Sappiamo che è stato fatto male, che c’è molto da migliorare. Ma sarebbe pura follia politica ed economica far saltare il processo di unità europea.

Solitamente l’uscita dall’euro viene giustificata con la riacquisizione della sovranità monetaria nazionale e quindi con la possibilità di battere moneta, di emissione di nuovo debito e di svalutazioni competitive.

Queste ultime sono il cavallo di battaglia degli euroscettici, il che rivela una sostanziale ignoranza dei principi basilari dell’economia.

Essi sostengono che il ritorno alla moneta nazionale potrebbe permettere appunto la sua svalutazione, rendendo i prodotti nazionali più competitivi sui mercati internazionali. L’aumento delle esportazioni diventerebbe così il volano della ripresa delle produzioni, dell’occupazione  e dell’intera economia.

La verità è un’altra. Il ritorno alla moneta nazionale, per qualsiasi paese Eu, Italia inclusa, lascerebbe l’intero ammontare del debito pubblico e privato, in larga parte in mani estere, denominato in euro oppure in dollari. Soltanto i cittadini risparmiatori potrebbero convertire i loro risparmi, a cominciare dai bot, in titoli denominati nella nuova moneta nazionale, ma gli altri titoli di debito resterebbero come prima. Comunque la riconversione completa equivarrebbe ad una dichiarazione di default nazionale.

Sarebbe possibile finanziare il debito esistente e aumentarlo, come si propone, soltanto a tassi di interesse molto più alti di quelli attuali. Si ricordi che, dopo la crisi del 1992 e la svalutazione della lira, gli interessi dei bot a breve arrivarono fino al 17%!.

Tutte le importazioni, a cominciare dal petrolio e dal gas, sono calcolate in dollari o in euro. Per l’Italia sarebbe perciò lo sconquasso finale delle sue finanze. Gli aumenti dei costi di importazione e del finanziamento del debito si tradurrebbero inevitabilmente in una inflazione galoppante con una drammatica perdita di potere d’acquisto.

E’ difficile immaginare come si possano così ampliare le fette di mercato per le proprie esportazioni. In questa logica per diventare competitivi occorrerebbe abbattere i costi che ancora una volta colpirebbe il lavoro. Ciò vorrà dire innescare nuovamente quel vortice recessivo fatto di meno reddito, meno consumo, meno produzione, meno entrate fiscali, meno disponibilità di bilancio.

L’economia italiana, sulla scia di quella tedesca, non può competere nei settori legati alle vecchie tecnologie mentre le economie emergenti operano con salari bassissimi. Invece bisognerebbe puntare sulle nuove tecnologie e determinare il prezzo e il mercato sulla base della loro qualità e della loro innovazione.

L’uscita dall’euro anche del più piccolo Paese innesterebbe una reazione a catena che porterebbe progressivamente al collasso dell’Ue. Si metterebbe in moto un’inevitabile guerra commerciale protezionista. Ci rimetterebbero tutti. Anche la Germania.

Sarebbe una destabilizzazione globale! Purtroppo non è impossibile. La storia europea del secolo scorso ha fatto conoscere “cose” che i popoli non avrebbero mai ritenuto possibili.

Certo la situazione attuale non è tollerabile. Non si può permettere che i cittadini siano portati ad una tale disperazione e povertà da voler preferire l’inferno.

A nostro modesto avviso serve più Europa. L’impegno prioritario del costituendo governo dovrebbe mostrare maggiore decisione nel consesso europeo per rendere più efficaci e solidali le scelte politiche ed economiche dell’Unione.

*Sottosegretario all’Economia del governo Prodi **Economista

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2) – Per chi vuole tenersi aggiornato sul modo col quale si continua a mentire sul caso di Emanuela Orlandi in modo da suggestionare il pubblico come fossero tutti beoti e favorire l’audience, ecco un altro bell’esempio:

http://www.blitzquotidiano.it/opinioni/nicotri-opinioni/emanuela-orlandi-chi-lha-visto-flauto-mistero-1538698/