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PANORAMICA DELLA STORIOGRAFIA FRANCESE (X)

Ma la critica al marxismo non si ferma qui. “Il totalitarismo, afferma de Benoist, è il prodotto dello spirito egualitario e, in particolare, dello spirito economico che ne è il corollario obbligato”. Il culto dell’uguaglianza è figlio del culto dell’economia, ha detto C. Polin.

Il marxismo insomma è sotto accusa perchè riduce all’economia tutti i fenomeni e i processi del mondo, riduce l’uomo, che è un essere di cultura, a un “animale economico”. Si dirà: niente di nuovo sotto il sole. Da un un pezzo si sentono critiche del genere. E non potrebbe essere diversamente. Ogni nuova critica al materialismo storico e dialettico non è altro che una rielaborazione riveduta e corretta di critiche borghesi precedenti. Se questi “filosofi” studiassero seriamente il marxismo, si accorgerebbero che in nessuna opera vi sono affermazioni secondo cui le condizioni economiche costituiscono l’elemento determinante di tutti i fenomeni sociali. La concezione materialistica della storia parte soltanto dall’idea che il modo di produzione della vita reale condiziona il processo della vita sociale, culturale e politica.

Engels, in alcune lettere degli anni ’90, dimostrò chiaramente quale ruolo avevano i fattori extra-economici nel processo storico. “La situazione economica è la base, ma anche tutto il resto -egli scrisse- esercita la sua azione sul corso delle lotte storiche e, in molti casi, ne determina in maniera preponderante la forma”. Vi è insomma anche qui una sorta di interazione, all’interno della quale i fattori economici costituiscono una determinante solo in ultima istanza. Sono proprio questi fattori che rendono più importanti taluni aspetti sociali in luogo di altri.

La ND predica la renaissance della cultura europea, ma nega l’unità della storia mondiale, la quale, più di ogni altra cosa, attesta che in tutte le culture dell’uomo vi sono determinati elementi comuni (quella borghese, che è presente in tutti i paesi capitalistici, ne possiede moltissimi).

Ma la filosofia marxista evidenzia anche la diversità nella storia mondiale. In virtù delle specifiche caratteristiche di ogni paese e regione, le leggi generali del processo storico vi si manifestano in diversi modi. Pur in presenza di analoghi rapporti di produzione, la diversità dei fenomeni sociali è infinita.

Al contrario, la ND nega non soltanto l’unità della storia, ma anche l’orientamento della sua evoluzione. A. de Benoist considera la storia un non sens, in quanto delle due concezioni europee dello sviluppo storico, lineare e ciclica, la prima, che mira a evidenziare la direzione del movimento storico mondiale, rappresenta secondo lui una violazione della libertà di scelta dell’uomo.

Ecco qui delineata la classica concezione borghese della libertà: nessuna decisione a vivere il meglio per tutti, conforme alle vere esigenze degli uomini, ma pura e semplice possibilità di scelta. Una libertà, come si può vedere, che vuole essere libera sia dalla natura che dalla società: una libertà in sostanza che non esiste. A. de Benoist colloca nella teoria lineare, che egli giudica “fatalista”, anche il marxismo, il quale, secondo lui, non terrebbe in alcun conto il ruolo della contingenza nella storia.

A. de Benoist e soci hanno praticamente ricondotto la teoria marxista dell’evoluzione sociale a una categoria delle dottrine finalistiche. Engels, tuttavia, scrisse a questo proposito: “Non più della conoscenza, la storia non può trovare un fine perfetto in uno Stato ideale perfetto dell’umanità; una società perfetta, uno Stato perfetto sono cose che esistono solo nell’immaginazione; viceversa, tutte le condizioni storiche succedutesi non sono che tappe transitorie nello sviluppo senza fine della società umana che va dall’inferiore al superiore”.

Da questa angolatura risulta evidente che solo la conoscenza delle leggi dello sviluppo della natura e della società, solo la loro intelligente applicazione pratica rendono l’uomo veramente libero. Lenin, criticando i populisti che, come la ND, ritenevano il determinismo dei fenomeni sociali ostile alla libertà dell’individuo, scrisse: “L’idea del determinismo, che stabilisce la necessità delle azioni umane e che rifiuta l’assurda favola del libero arbitrio, non abolisce affatto la ragione né la coscienza dell’uomo, né la valutazione delle sue azioni”. Dunque, l’oggettività determina le azioni del soggetto, ma quest’ultimo, a sua volta, agisce sul corso dei processi oggettivi.

Necessità e contingenza non possono essere separate. A certe condizioni la necessità può mutarsi in contingenza e viceversa. Chi spera di poter avere a disposizione un dogma col quale interpretare, comodamente seduto in poltrona, tutti i fenomeni storici e sociali, passati e presenti, perde il suo tempo.

Marx ha scritto che “sarebbe evidentemente molto facile fare la storia impegnandosi a lottare con possibilità favorevoli al 100%. Una storia di questo genere però, ove i rischi non giocano alcun ruolo, avrebbe un carattere assai mistico. I casi fortuiti rientrano nel processo generale dell’evoluzione e si trovano compensati da altri casi fortuiti. E tuttavia l’accelerazione o il rallentamento del movimento dipendono da simili inconvenienti”.

La filosofia marxista non ama separare il passato dal presente e dal futuro. Al contrario, il marxismo sostiene che ogni epoca dello sviluppo dell’umanità viene preparata da quella precedente. Proprio l’analisi scientifica di questo stato di cose ha permesso a Marx di elaborare la teoria delle formazioni economico sociali.

Le simpatie di A de Benoist vanno ovviamente per la concezione ciclica, secondo cui la storia non ha né inizio né fine, essendo semplicemente il teatro di un certo numero di ripetizioni analogiche.

Condividendo la tesi dell’idealismo soggettivo, i seguaci della ND si immaginano tutto il processo storico come un flusso irrazionale di avvenimenti slegati fra loro.

La libertà tanto declamata è soltanto la “libertà da ogni responsabilità” per il destino degli uomini. La ripetizione analogica (vedi l’irrazionalista Kierkegaard) è assunta come un pretesto per il proprio disimpegno, come un alibi del proprio conservatorismo.

Da questo punto di vista la répétition trova la sua ragion d’essere. Le idee di questi intellettuali non riflettono soltanto la profondità della crisi spirituale della società capitalistica, ma rappresentano anche un tentativo di giustificare una concezione del mondo unilaterale e autoritaria.

La filosofia della nouvelle droite risponde dunque agli interessi dell’ala più reazionaria della borghesia. E’ davvero singolare che proprio mentre s’impone con vigore l’esigenza di superare le differenze di razza e nazionalità, vi siano correnti filosofiche che teorizzano una direzione opposta, cioè l’affermazione di un libero arbitrio à tout prix.

PANORAMICA DELLA STORIOGRAFIA FRANCESE (IX)

Un movimento ideologico detto della Nouvelle Droite (ND) apparve in Francia a cavallo degli anni Sessanta e Settanta del Novecento. I membri del groupement che si venne a costituire (GRECE) si posero l’obiettivo di “resuscitare” la cultura europea. Filosofi, sociologi, giornalisti, medici, pittori, presero parte attiva ai lavori di questo nuovo movimento.

Naturalmente il GRECE rifiutava l’appellativo di nouvelle droite e si dichiarava aperto sostenitore di idee democratiche e progressiste. In realtà il carattere razzista e sciovinista della sua ideologia era ben evidente sin dagli esordi. Se ne era accorto anche il filosofo cattolico G. Hourdin, che ha paragonato quegli ideologi ai nazisti.

Lo stesso Alain de Benoist, uno dei capifila del GRECE, dichiarò che il loro scopo principale era quello di lottare contro il marxismo. E Raymond Aron, il cui parere fino a qualche tempo fa aveva ancora in Francia un certo peso, ha scritto che la ND aveva intenzione di “togliere alla gauche marxiste il monopolio del discorso politico”.

Oggi la fondazione è riuscita a penetrare negli strati più conservatori della società francese e, attraverso i media, si sta diffondendo fra le masse, trasformandosi in una solida base ideologica della moderna società borghese. Il tentativo è quello di integrarsi col movimento neoconservatore internazionale, ostile non solo al marxismo ma anche al liberalismo e a qualunque corrente progressista.

Oltre a de Benoist, fanno parte della ND, Ch. Bressoles, H. Gobard, R. de Herte, P. Vial, M. Marmin e altri. La ND e i nouveaux philosophes sono apparsi contemporaneamente in Francia subito dopo gli avvenimenti del ’68, ma mentre i secondi vi presero parte attiva, i primi assolutamente no.

Tuttavia la critica antisistema della nouvelle philosophie era troppo astratta perchè pescasse nel vero, e la ND ne ha approfittato. Secondo de Benoist, infatti, non ha senso criticare il potere in sé o definirlo come “il male” per antonomasia, in quanto nessuna società al mondo potrebbe fame a meno. Naturalmente de Benoist ha tutto l’interesse a qualificare i “nuovi filosofi” come una corrente di sinistra, ma chiunque si rende facilmente conto che le idee conservatrici degli uni e le idee anarchiche degli altri non superano i confini dell’ideologia borghese di destra.

In particolare, le tesi avanzate dalla ND rivestono un carattere eclettico assai pronunciato. Vi si mescolano e confondono concezioni che appartengono al biologista J. Monod, a filosofi e sociologi come M. Weber, V. Pareto, M. Scheler, F. Tonnies, F. Nietzsche, M. Heidegger, O. Spengler, ecc.

A sentir questi neoconservatori, le differenze dalla vieille droite sembrano essere sostanziali: totalitarismo, nazionalismo e provvidenzialismo vengono categoricamente respinti. Si plaude cioè al pluralismo tout azimuts. Senonché attacchi virulenti vengono scagliati persino contro i principi di liberté, égalité e fraternité proclamati dalla borghesia rivoluzionaria e difesi tradizionalmente dalle forze democratiche e di sinistra.

Proteggere l’eredità culturale europea per loro significa ritornare niente di meno che alle origini pre-giudaico-cristiane, ovvero alle fonti greco-latine e celtico-germaniche, liberandosi da ogni dogmatismo. E per far questo occorre, secondo loro, una teoria vasta e complessa, che tocchi tutti i campi della scienza e dell’agire umano.

Tuttavia questi eclettici si preoccupano di dimostrare l’ineguaglianza delle razze e degli uomini. E lo fanno soffermandosi sulle discussioni violente che nel Medioevo avevano diviso i nominalisti dai realisti. Com’è noto, i nominalisti riconoscevano il particolare e rifiutavano il generale, mentre i realisti erano su posizioni opposte, cioè idealistiche. Marx scrisse che il nominalismo costituì la “prima espressione del materialismo”.

Anche la ND difende le teorie nominalistiche, ovviamente non perché sì sente materialista, ma perché, a suo giudizio, il nominalismo nega l’uguaglianza delle cose e quindi è antitotalitario. Lo stesso Marx viene relegato fra i seguaci del realismo. “Nel Capitale, osserva de Benoist, le parole chiave usate da Marx (capitalismo, proletariato, operai, borghesia) hanno un valore quasi costante, metastorico, e giocano un ruolo paragonabile a quello degli universali nella scolastica”.

Questi idealisti non sospettano neanche lontanamente l’esistenza di una dialettica fra il particolare e il generale. Proprio come i realisti e i nominalisti medievali, tendono ad assolutizzare uno dei due elementi dopo averli separati. “Il particolare – diceva invece Lenin – non esiste che in questo legame che conduce al generale. E il generale non esiste che nel particolare, per il particolare. Ogni generale è (in un modo o nell’altro) particolare. Ogni particolare è una particella o un lato o un’essenza del generale. Il generale non include che approssimativamente tutti gli oggetti particolari. Ogni particolare entra solo parzialmente nel generale”.

PANORAMICA DELLA STORIOGRAFIA FRANCESE (VIII)

All’inizio del XX secolo la storiografia francese prediligeva la storia politica, affrontando le questioni economiche in sezioni separate, poiché si pensava ch’esse non riguardassero la storia vera e propria. Gli storici francesi di allora non riuscivano a vedere la società come un insieme organico, i cui elementi, una volta separati, non devono far perdere al ricercatore la consapevolezza dell’insieme.

Indubbiamente la concezione di una “storia globale” acquista i suoi fondamenti teoretici e un contenuto storico concreto negli anni Trenta e in quelli seguenti, grazie ai lavori di Bloch, Febvre, Lefebvre, Braudel e altri storici delle “Annales”. Costoro non pretendevano affatto che col concetto di “storia globale” s’intendesse un “tutto su tutto”, come se fosse obbligatorio abbracciare l’universo intero per averne una visione “globale”.

E’ possibile vedere globalmente un aspetto o un problema particolare a condizione di non falsificare la vita di tutta la società, cioè a condizione di non spezzare l’unità e la continuità della storia. L’uomo non può essere suddiviso in politicus, oeconomicus, religiosus… La parola “globale” stava semplicemente ad indicare che la scienza storica deve affrontare la vita dell’uomo e della sua società nella sua totalità e complessità, senza tralasciare quegli aspetti che più difficilmente mutano col tempo e che più sembrano intralciare il movimento storico, come i processi tecnologici, le strutture demografiche e mentali ecc.

Per histoire globale Braudel intendeva una stratificazione della realtà storica in molteplici livelli, cioè la trasformazione della foto in un’immagine in rilievo. Per lui la società era un “grande insieme” composto di diversi insiemi, dei quali i più noti sono l’economico, il sociale, il politico e il culturale, ciascuno dei quali, a sua volta, si suddivide in altri sottoinsiemi, e così via.

“In questo schema -egli dice- la storia globale (o meglio globalizzante, poiché tende a esserlo senza mai poterlo diventare) è lo studio di almeno quattro sistemi considerati prima in se stessi, poi nelle loro relazioni”.

Oltre a ciò l’histoire globale è anche la consapevolezza che la dinamica dei livelli interconnessi della realtà storica procede non come un moto uniformemente accelerato in un’unica direzione, ma come un movimento irregolare, strettamente legato al tempo e alle diverse situazioni.

L’histoire nouvelle era giunta a tali conclusioni non solo per aver ereditato creativamente la lezione di storici e sociologi come Guizot, Durkheim, de Tocqueville, Vidal de la Blache, Mauss e altri, superando definitivamente il semplicismo e la frammentarietà della storia événementielle d’inizio secolo: ma vi era giunta anche per l’influenza che esercitava l’autorevole storiografia marxista. Lo dimostra il fatto stesso che l’histoire nouvelle ha abbandonato la storia degli eroi e degli avvenimenti sparsi, accettando quella delle masse e dei processi di lunga durata.

E’ stato proprio l’interesse per le masse popolari, stimolato dal marxismo, che ha attirato l’attenzione sulle loro condizioni materiali d’esistenza, sullo studio della storia socio-economica, che ha contribuito ad alimentare l’esigenza di una “teoria della storia globale”.

Ci sembra tuttavia che l’histoire nouvelle non abbia saputo trovare una soluzione convincente alla comprensione globale della società. Le sue concezioni generali  della storia spesso risultano eclettiche. Secondo i migliori rappresentanti di questa scuola, nella storia agiscono una moltitudine di forze e di fattori, capaci di passare l’uno nell’altro, senza che però si possa sapere quale sia, in ultima istanza, quello determinante.

Benché pongano l’accento sulle condizioni materiali e sull’economia, essi concepiscono la storia stessa della vita materiale come un aspetto a se stante, piuttosto empirico e poco legato ai fattori socio-politici e ai conflitti di classe. E’ sintomatico, ad es., che i rapporti degli uomini nel momento della produzione e i rapporti di proprietà vengano quasi completamente ignorati nelle loro trattazioni di storia economica.

Questi storici sembrano più essere legati a procedimenti di tipo struttural-funzionale che storico-genetico. Inoltre non parlano mai dei tradimenti storici della borghesia e preferiscono prendere in esame più il passato che il presente.

Solo verso la fine degli anni Settanta Braudel si convinse che la produzione giocava un ruolo fondamentale nella comprensione dei meccanismi storici. Fino ad allora egli aveva pensato che nella fondazione di un modello d’interpretazione storica, universalmente valido nello spazio e nel tempo, il momento della circolazione e dello scambio delle merci dovesse nettamente prevalere su quello della produzione.

Ma questa sua ammissione non è stata neppure presa in considerazione dall’ultima generazione delle “Annales”, che anzi decise, fatte salve le debite eccezioni, d’incamminarsi per una via completamente diversa, rispolverando classiche tesi regressive e concezioni storiche anteriori alla stessa nouvelle histoire.

PANORAMICA DELLA STORIOGRAFIA FRANCESE (VII)

Verso la metà degli anni Settanta l’espressione histoire nouvelle è cominciata ad apparire nelle pubblicazioni francesi, ed ora in Francia quasi nessun storico dubita del fatto che con essa si volesse indicare una nuova scienza storica.

Analogamente all’americana new economic history o alla moderna linguistica di cui F. de Saussure è stato l’iniziatore, la si definisce “nuova” in questo senso, che pur basandosi su principi e metodi d’analisi storica elaborati nel corso dei secoli, essa si differenziava per molti aspetti dalla storiografia tradizionale.

L’histoire nouvelle è stato il fenomeno più importante della storiografia mondiale del XX sec. Essa ha avuto una storia per circa mezzo secolo e ha subìto una forte evoluzione. Iniziata alla fine degli anni Venti con la fondazione della rivista “Annales d’histoire économique et sociale” degli storici M. Bloch e L. Febvre, essa s’è prolungata con l’attività dell’eminente storico F. Braudel, il quale ha trasformato la scuola delle “Annales” nell’orientamento dominante della storiografia francese. Tuttavia verso la fine degli anni Sessanta cominciano a mutare non solo gli indirizzi di ricerca, ma anche l’interpretazione dello sviluppo della società e delle civiltà; vi sono regressi e abbandoni di molte conquiste positive.

Forse pochi sanno che oltre a questa scuola sono esistite altre scuole, di tutto rispetto, che si sono sviluppate autonomamente: la scuola storica marxista di P. Vilar, J. Bruhat, A. Soboul, C. Mazauric, C. Willard, M. Vovelle e altri, i quali hanno al loro attivo seri lavori di storia delle rivoluzioni, di storia socio-economica, di storia del movimento rivoluzionario e altro ancora.

Esiste anche l’école des Chartres di Parigi, cioè la scuola della critica delle fonti, i cui storici: Ch. Samaran, J. Favier e M. François hanno spesso trattato soggetti tradizionali di storia politica.

Le scuole più recenti sono quelle di storia delle relazioni internazionali, che raggruppa i discepoli di P. Renouvin; e quella che studia le strutture sociali e i movimenti popolari dei tempi moderni, capeggiata da R. Mousnier.

Tornando all’histoire nouvelle, bisogna dire che è impossibile trovare in questa scuola una concezione dello sviluppo storico e una metodologia di ricerca condivise da tutti i suoi appartenenti. Soprattutto va sottolineata la profonda differenza che esiste tra la cosiddetta “terza generazione” delle “Annales”, iniziata nel 1968-69, al momento della dipartita di Braudel, e le due precedenti, che vanno dai due fondatori Bloch-Febvre a Braudel appunto. Si potrebbe anzi dire che l’histoire nouvelle vera e propria sia terminata alla fine degli anni Sessanta, proseguendo quasi unicamente con le opere pubblicate da Braudel, morto nel 1985.

Nel complesso si può sostenere che l’histoire nouvelle abbia rappresentato la coscienza storica borghese del sec. XX. Come tale essa ha esercitato delle funzioni sociali chiaramente determinate: p.es. le “Annales” dell’immediato dopoguerra ebbero molto successo perché la Francia cercava una posizione culturale che fosse al tempo stesso autonoma dall’egemonia anglosassone e nettamente separata dal pcf.

Questa storiografia è stata in grado di interagire con le correnti più diverse del pensiero storico e con numerose discipline (economia, geografia, antropologia storica, psicologia ecc.), appropriandosi di metodologie e concezioni fra loro spesso divergenti: su di essa ad es. hanno esercitato una indubbia influenza lo strutturalismo, il positivismo, la psicanalisi di Freud, il marxismo, il neo-malthusianesimo ecc.

Nonostante questo è comunque possibile individuare alcuni aspetti dominanti riassumibili nella concezione della “storia globale”, nella categoria della “lunga durata”, nella nozione di “fatto storico”.

Alla fonte della concezione della “storia globale” si trovano gli influssi sia del marxismo, sia delle tradizioni storiografie francesi (Voltaire, Guizot, Michelet, Berr ecc.), sia delle scienze moderne della natura, specie la fisica quantistica, la biologia, l’ecologia, la teoria della relatività ecc.

L’idea della sistemicità, i rapporti fra sincronia e diacronia, il concetto di realtà spazio-temporale, le leggi della probabilità e della statistica, i legami della funzionalità, il ruolo della discontinuità ecc.: queste e altre nozioni sono entrate nella storiografia di questa scuola nel momento stesso in cui s’investigava la realtà storica e la pratica sociale, l’esistenza materiale, in cui si facevano le scoperte più importanti nei vari campi delle scienze esatte e naturali.

PANORAMICA DELLA STORIOGRAFIA FRANCESE (VI)

L’idea di una “storia globale”, nell’ambito dell’histoire nouvelle francese, ha raggiunto i vertici del suo sviluppo negli anni Sessanta. Gli studi monografici condotti sulla base di questa idea sono stati largamente riconosciuti e i suoi promotori sono diventati i rappresentanti più significativi della scuola delle “Annales”.

Tuttavia, a partire dalla fine degli anni Sessanta alcuni ricercatori hanno cominciato a limitarsi ad accettare la concezione della globalità solo sul piano cognitivo, e non anche su quello metodologico, finché, col passare del tempo, sono giunti a dei mutamenti d’indirizzo anche nelle ricerche storiche vere e proprie.

La concezione della “storia globale” è stata messa in discussione proprio da coloro che, continuando a fare riferimento alla rivista delle “Annales”, si ritengono eredi della nouvelle histoire di Bloch, Febvre, Lefebvre e Braudel.

In realtà la terza generazione si dedica a un complesso di storie per le quali la globalità non è più un punto di partenza ma, nel migliore dei casi, un lontano orizzonte. Ci riferiamo a storici come Le Roy Ladurie, Furet, Richet, Roche ecc.

Per alcuni ricercatori la “storia globale” non è che un mito, una sorta di costruzione razionale aprioristica e non il risultato della conoscenza storica positiva. Besançon, p.es., scrive che gli storici della sua generazione si sono finalmente sbarazzati del miraggio della totalità storica. Furet è quasi dello stesso avviso: per lui la struttura d’una società globale non è che un postulato non legittimato dall’attuale storiografia.

Dunque, perché la concezione della “storia globale” non risponde più ai bisogni dell’histoire nouvelle e la scienza storica francese si trova di nuovo ad affrontare il problema della frammentarietà? Le risposte a tale domanda, dei vari Le Goff, Foucault, Revel, de Certeau, possono in sostanza ricondursi a una tesi comune: la concezione dell’oggetto dell’histoire nouvelle, l’acquisizione stessa del sapere storico è radicalmente mutata nel tempo.

In particolare Le Goff e Foucault fanno risalire l’ingombro della nozione stessa di “storia globale” ai limiti della continuità-concatenazione della storia stessa, che oggi non corrisponde più, secondo loro, ai canoni della scienza moderna, la quale evita categoricamente di porre l’uomo al centro della storia. Essi in sostanza affermano che Copernico, Darwin e Marx hanno reso praticamente impossibile qualunque tentativo di riportare l’uomo al centro dell’universo: hanno prodotto la discontinuità eliminando la rigida casualità.

In precedenza lo storico si liberava della discontinuità cercando la concatenazione elementare degli avvenimenti. Oggi invece la nouvelle histoire preferisce servirsi della discontinuità lasciandosi influenzare dalle scienze più disparate: psicanalisi, linguistica, etnologia…

Una storia globale non è dunque più possibile. Oggi lo storico mette in luce la diversità, le specifiche particolarità cronologiche, gli scarti e i dislivelli. Una storia in cui regna la discontinuità (che poi diventa, si badi, fine a se stessa), in cui l’uomo è dominato dai miti, dalle leggi del linguaggio ecc., è più inquietante e suggestiva di quella in cui le cause e gli effetti si susseguono univocamente. Entrando in contatto con questo tipo di storia, l’uomo moderno si sente più esitante, perde le sue certezze, però ha il vantaggio -dice Foucault- di un maggior realismo. Questa storia rinuncia ad essere l’ultimo rifugio del pensiero antropologico e diventa la vera antitesi della “storia globale”.

L’uomo non è più il personaggio centrale della storia. Scrive a questo proposito de Certeau: “La teoria, che ieri era orientata all’oggetto, retrocede oggi verso il linguaggio, la parola… Ed è un’illusione credere che la ricerca storica possa avere per risultato una riproduzione adeguata della realtà”.

La storiografia si ritrova così, come all’inizio del sec. XX, nel mondo dell’idealismo agnostico e soggettivo di Rickert, Dilthey e Russel; solo che di quell’idealismo non può più conservare l’ingenuità, in quanto la crisi delle “Annales” e di tutta la nouvelle histoire è strettamente legata al venir meno dell’impegno ideologico e politico, al non volersi confrontare col pensiero marxista e con la pratica del socialismo democratico.

In un certo senso il fallimento dell’utopia sessantottesca ha portato le “Annales” a rinnegare se stesse. Dalla fine degli anni Sessanta l’histoire nouvelle è diventata talmente “nouvelle” che Braudel ha dovuto abbandonarla completamente.

Bloch e Febvre avevano cercato di trasformare la storia in una scienza sociale, nel senso ch’essa doveva superare lo stadio del pensiero “individualizzante” ed entrare nel novero delle scienze “generalizzanti”. Conditio sine qua non per realizzare tale passaggio era il rifiuto categorico della scienza narrativa dei fenomeni singoli, ovvero della storia evenemenziale, in cui il concetto di “tempo storico” veniva concepito in maniera semplicistica e univoca, come una sorta di calendario uniforme, un asse predisposto sul quale gli storici si limitavano a infilare i fatti e gli avvenimenti del passato.

Con l’histoire nouvelle l’idea del tempo come “durata senza contenuto” era stata rimpiazzata dall’idea del “tempo sociale a contenuto determinato”, che è in sostanza l’idea della molteplicità dei tempi, dei diversi ritmi del tempo a seconda delle diverse realtà storiche, l’idea della discontinuità nello scorrere del tempo sociale.

Da Bloch a Braudel gli storici delle “Annales” hanno sempre avvertito forte la preoccupazione di fare della storia una scienza al pari delle altre scienze. Detestavano il caso, i zigzag repentini, preferivano soffermarsi sulle tendenze durevoli, sui rapporti familiari, sulle strutture mentali.

La longue durée, in tal senso, è stata senz’altro una positiva conquista dell’histoire nouvelle. Tuttavia essa non è priva di ambiguità. Anzitutto non sembra che faciliti la soluzione dei problemi più cruciali della teoria della conoscenza storica. Viene qui in mente la domanda che Marx fece a Proudhon in Miseria della filosofia: “In che modo la sola formula logica del movimento, della successione del tempo potrebbe spiegare il corpo della società, nel quale tutti i rapporti coesistono simultaneamente e si sostengono gli uni con gli altri?”. Una tale questione non è mai stata posta dall’histoire nouvelle. E non rispondendovi l’histoire nouvelle non è in grado di garantirsi una vera scientificità nell’analisi storica, che vada cioè al di là di ciò ch’essa è sicuramente in grado di fare: offrire una mole impressionante di dati.

Il tempo del mondo o della storia è -secondo Braudel- il tempo della formazione sociale che domina in una data epoca, niente di più. Il che però risulta assai limitativo nei confronti della totalità degli esseri umani, che appartengono a zone geografiche marginali rispetto ai criteri della formazione sociale dominante.

Braudel non comprende che il legame tra tempo e storia è costituito dal modo di produzione, e che i modi di produzione non sono statici ma evolvono di continuo. Non tener conto di determinati processi storici equivale a considerare la storia come un cieco destino, lo sviluppo di una fatalità. La storia diventa un mero prodotto del tempo.

In questa ambiguità filosofica di fondo si può anche arrivare all’assurdità di credere che la rivoluzione francese non sia mai avvenuta, cioè che sia un mito o una sopravvivenza ideologica. Per Furet, Richet, Roche, Chaussinand-Nogaret la rivoluzione francese fu un semplice conflitto politico-ideologico tra nobiltà e borghesia, non un rivolgimento sociale. A loro giudizio la nobiltà era progressista, per cui non erano in questione il feudalesimo e l’ancien régime (considerati addirittura come già inesistenti a quel tempo), ma solo una questione di rivalità politica all’interno di una comune concezione.

Sul piano socio-economico l’avvenimento viene giudicato da questi storici come una vera e propria catastrofe nazionale, poiché avrebbe impedito alla noblesse libérale di trapiantare in Francia i rapporti agro-capitalistici della vicina Inghilterra.

L’histoire nouvelle – sottolinea lo storico marxista Vovelle – tende in generale all’immobilità, non crede nelle brusche modificazioni che avvengono nella storia, non è dialettica, non considera le diverse epoche storiche come tappe d’uno sviluppo progressivo delle società e delle civiltà, e i diversi ritmi di tempo come momenti d’un tempo a senso unico.

La discontinuità è talmente assolutizzata ch’essa non è più un momento particolare di una più generale e uniforme evoluzione. Questa scuola non crede in alcuna transizione dal capitalismo al socialismo, come non crede in quella dal feudalesimo al capitalismo. Furet rifiuta categoricamente la prospettiva dell’evoluzione che conferisce un senso o una direzione significativa al tempo. Sicché l’analisi quantitativa o “seriale”, come la chiama Chaunu, diventa fine a se stessa: l’importante diventa solo il raccogliere dati e classificarli. Non c’è più analisi qualitativa.

Ricostruendo p.es. la storia dei prodotti alimentari, si lascerà in ombra la questione delle relazioni tra produttori e consumatori. Questo significa, in sostanza, ricadere nella superficialità, cioè proprio in quel limite contro cui l’histoire nouvelle s’era posta negli anni Venti. A quel tempo le “Annales” -come vuole Braudel- era una rivista di “eretici”, oggi invece è una rivista perfettamente allineata con le concezioni borghesi dominanti, in grado di favorire la promozione sociale e le carriere scientifiche.

PANORAMICA DELLA STORIOGRAFIA FRANCESE (V)

Fra il 1961 e il 1969 uscì la Storia quantitativa dell’economia francese, il cui difetto principale, ereditato ovviamente dalla scuola americana, era quello di tenere separata la storia economica dalla storia sociale e dall’evoluzione dei rapporti di classe, il che ovviamente portava a giustificare una crescita progressiva del capitalismo francese.

I concetti e la metodologia della scuola “quantitativa” vennero ereditati e approfonditi, alla fine degli anni Sessanta, dai cosiddetti “cliometristi” della scuola americana “new economic history”. I ricercatori di questa nuova corrente si avvalevano di decine di studiosi altamente qualificati, incaricati di raccogliere dati e materiali, predisponendoli a un uso computerizzato.

D. North, R. W. Fogel, S.L. Engerman e altri, grazie a questi nuovi metodi arrivarono, fra l’altro, alla incredibile conclusione che l’economia schiavista dei piantatori di cotone, negli Usa, si trovava fino alla guerra di Secessione a un altissimo livello di sviluppo. Al fine di dimostrare la continuità e l’immanenza della crescita economica del loro paese, essi avanzarono l’ipotesi che nessun fattore esterno era intervenuto per accelerarla, neppure la costruzione delle ferrovie.

Fogel arrivò persino a dire che né la macchina a vapore, né la locomotiva, ma solo il lavoro dei farmers e l’antica istituzione dello schiavismo, allora perfettamente redditizia, avevano portato avanti la ricchezza americana del XX sec. Pertanto – ecco la tesi finale dei cliometristi – l’abolizione dello schiavismo aveva comportato un regresso del capitalismo americano. Tesi questa considerata assurda anche dal quantitativista francese P. Chaunu.

Ciononostante l’astrazione della scuola americana, coi suoi calcoli matematici, guadagnò negli anni Sessanta i consensi della terza generazione degli “annalisti” francesi. A giudizio di Le Roy Ladurie, F. Furet e altri l’avvenire sarebbe appartenuto ai soli metodi matematici e statistici, capaci di quantificare in maniera informatica i dati storici.

Fu tale l’entusiasmo che i modelli elaborati per il presente venivano sistematicamente usati anche per il passato. Le Roy Ladurie affermò addirittura che né la guerra d’indipendenza americana, né la realizzazione della ferrovia, né il new deal roosveltiano avevano comportato delle modifiche sostanziali al tasso di crescita dell’economia americana. Egli negò qualunque valore alla storia événementielle e alla biografia atomistica: la nuova storia doveva per lui essere strutturale, orientata verso lo studio di diverse collezioni di dati, soggette a un uso seriale o quantitativo, cioè programmato. Anche le istituzioni scientifiche avrebbero dovuto dotarsi di centri di ricerche quantitative, sul modello americano.

Dieci anni dopo tuttavia l’entusiasmo di Le Roy Ladurie scemò. La storiografia francese, nel suo complesso, era comunque riuscita a dimostrare che se i metodi matematici potevano avere una certa importanza per lo studio della storia economica e specialmente della storia agraria, nessuna “storia quantitativa” avrebbe potuto però sostituirsi alla storia propriamente detta. Le crisi economiche mondiali degli anni 1973-75 e 1980-82 diedero poi il colpo di grazia al concetto di “crescita continua” del capitalismo.

In ogni caso i ricercatori della terza generazione delle “Annales” hanno continuato a trascurare le esigenze di un’analisi economica strutturale dei fatti storici. Oggi si parla di tutto e di niente: del clima, del corpo umano, dei miti, delle feste, della cucina francese… Quando è in gioco l’economia si evitano accuratamente le questioni riguardanti la produzione e i conflitti di classe.

Le scienze usate sono tra le più svariate: psicanalisi, linguistica, sociologia, cinematografia… Nella Storia immobile di Le Roy Ladurie, tanto per fare un esempio, i fattori demografici e biologici si vedono attribuire un ruolo decisivo relativamente allo sviluppo della Francia. Dall’XI al XII sec. -egli afferma- vi è stata una crescita senza interruzioni, poi, nel XIV sec. è iniziato un lungo periodo di stagnazione. La popolazione si mantenne agli stessi livelli dal XIV al XVIII sec. Il volume della produzione agricola non aumentò. Quale fu dunque la causa della crisi? La risposta di Le Roy Ladurie si pone tutta a un livello biologico: ratti e pulci pestifere avevano invaso l’Europa occidentale e la Francia, attraverso gli eserciti mongoli e le carovane che, a partire dal XIV sec., trasportavano la seta acquistata in Asia centrale. La prima fatale conseguenza s’ebbe nel 1348, con la terribile peste nera. Scoppiò quindi una reazione a catena, che s’interruppe solo dopo l’epidemia di peste di Marsiglia nel 1720.

Spiegazioni di questo genere s’incontrano spesso nei suoi libri. Di qui le critiche mossegli da altri eminenti storici francesi come J. Le Goff, G. Duby, P. Raveau ecc., i quali, ad esempio, si chiedono sino a che punto si possa considerare come un periodo di “storia immobile” il XVI sec., che ha visto sia l’apertura dell’Atlantico al commercio mondiale, sia la nascita del capitalismo manifatturiero in Europa occidentale.

I limiti dell’impostazione metodologica di storici come Le Roy Ladurie, F. Furet, D. Richet, D. Roche, G. Chaussinand-Nogaret, P. Chaunu ecc. si rivelano soprattutto quando viene presa in esame la rivoluzione francese. Riprendendo i termini d’una memorabile polemica scoppiata alla fine degli anni Cinquanta fra R. Mousnier e B. Porchnev, essi negano recisamente, proprio come Mousnier, che nella Francia del XVIII sec. vi fossero tracce di feudalesimo.

In particolare, Furet, che è il più duro avversario dell’interpretazione marxista della rivoluzione, afferma che l’ancien régime era già morto prima della rivoluzione e che questa pertanto altro non è stata che un “mostro metafisico”. Secondo Furet e Richet il ruolo decisivo nella rivoluzione venne giocato non dalle classi sociali ma da una élite, la cui principale componente era non la borghesia commerciale e affaristica (che rimase sempre in una posizione di retroguardia), bensì la noblesse libérale, sostenuta dagli intellettuali.

La nobiltà francese, secondo loro, non era neppure una classe feudale reazionaria, ma al contrario una classe dinamica, laboriosa, volta a sviluppare rapporti capitalistici nelle campagne. Cosa che in realtà poteva essere vera solo limitativamente e in ogni caso solo perché già esisteva una borghesia socialmente affermata.

Non meno unilaterale è il giudizio sul movimento contadino. Le Roy Ladurie sostiene, contrariamente alla tesi di Porchnev, che i contadini insorgevano non contro i signori ma contro l’esosità fiscale dello Stato. Anzi i proprietari terrieri avrebbero voluto realizzare il capitalismo nelle campagne alla maniera inglese, e furono proprio i contadini a impedirglielo, essendo di vedute obiettivamente reazionarie.

Come si può notare, l’obiettivo di questi storici è quello di far passare la rivoluzione francese per un “complotto massonico”, rispolverando le vecchie tesi di D. Cochin, uno storico reazionario degli inizi del XX sec., il quale, a sua volta, le aveva riprese da un abate francese del XVIII sec., A. Barruel. Non le contraddizioni socio-economiche avrebbero fatto scoppiare la rivoluzione ma il bisogno di potere che aveva una squallida “oligarchia anonima”, il cui giacobinismo altro non era che una macchina propagandistica per ottenere consensi popolari.

Oggi, a questo, i vari Furet, Richet ecc. aggiungono che la rivoluzione francese frenò le tendenze progressiste, in senso capitalistico, manifestatesi in agricoltura, ritardando di almeno un secolo lo sviluppo della nazione; che la rivoluzione non distrusse né l’ancien régime né il feudalesimo, allora già inesistenti e che la vera, unica rivoluzione prodottasi nel XVIII sec. fu quella tecnica e industriale dell’Inghilterra.

Stante queste analisi non stupisce che Braudel abbia preferito troncare ogni rapporto con le “Annales”.

PANORAMICA DELLA STORIOGRAFIA FRANCESE (IV)

Le principali tendenze della storiografia francese degli anni Cinquanta hanno proseguito il loro sviluppo nel corso degli anni Sessanta e Settanta. Si sono semplicemente affinate le tecniche di ricerca. Fra i medievisti spicca il nome di G. Duby, il più importante continuatore di Bloch. Si può ricordare anche P. Goubert, vero maestro nell’analisi dei processi demografici e nell’utilizzo degli archivi delle parrocchie rurali, fino ad allora snobbati.

Goubert fu uno dei fondatori della demografia storica, che conobbe in Francia un notevole sviluppo verso la metà del XX sec.

Molto interessante è anche la monografia di R. Trempé sui minatori di Carmaux: è il miglior studio su un movimento operaio-socialista che sia apparso in Francia dopo Les Guesdistes di Willard. Importante è anche l’opera di M. Perrot sul movimento degli scioperanti francesi negli anni 1880-1890. Poi naturalmente va citata la monumentale tesi sulla Catalogna di P. Vilar, discepolo di Labrousse e suo successore alla Sorbona.

Ma dalla seconda metà degli anni Sessanta e soprattutto negli anni Settanta una nuova tendenza comincia a farsi strada. Essa traspare con più nettezza nei lavori dei rappresentanti della cosiddetta “terza generazione” delle “Annales” (la prima va dal 1929 al 1956, cioè da Bloch – Febvre a Braudel; la seconda da Braudel a Le Goff – Le Roy Ladurie e va dal 1956 al 1969).

Fra le opere della terza generazione, quella tuttora egemone nell’ambito delle “Annales”, spicca la tesi di dottorato di E. Le Roy Ladurie, I contadini della Linguadoca.

Nato in Normandia nel 1929, Le Roy Ladurie è stato in gioventù un fervente cattolico: aveva persino intenzione di diventare prete. Fu la guerra a modificare completamente il corso della sua vita. Nel 1949 aderisce al pcf, sotto l’influenza dello storico comunista J. Bruhat.

Dal 1953 al 1963 insegna prima in un liceo, poi all’università di Montpellier. Nel 1956 lascia il pcf, giudicandolo dogmatico.

Pubblica diversi studi sulla storia del clima, ma la sua opera principale resta quella sui Contadini, ove dimostra un’eccezionale competenza in campi specifici come la climatologia, la glaciologia, la botanica e la pedologia (scienza dei terreni).

Il suo limite è quello di voler essere a tutti i costi originale, per cui spesso giunge a conclusioni affrettate e non dimostrate. Nel libro suddetto inoltre manca un capitolo sulle strutture sociali e sull’esame della proprietà, cosa grave quando si parla di una classe sociale. L’autore ha preferito concentrarsi sulla demografia.

La sua tesi di fondo è che dal XV sec. fino alla metà del XVIII la Linguadoca ha conosciuto un arresto nella sua crescita economica, in quanto la spinta demografica era accompagnata da un immobilismo tecnologico e da una arretratezza nella produzione agricola.

Qualche anno più tardi cercherà, con esito infelice, di applicare questa “scoperta” a tutta la Francia e alla quasi totalità dell’Europa occidentale. Peraltro, a proposito dei movimenti popolari in Linguadoca, egli disse chiaramente di non nutrire alcuna simpatia per la rivolta dei Camisardi scoppiata all’inizio del XVIII sec. Là dove Marx aveva visto due tipi di movimento contadino, reazionario in Vandea e progressista nella Cevenne, Le Roy Ladurie vedeva solo un’agitazione nevrotica, dettata dal fanatismo religioso.

Nel 1963 lascia Montepellier per andare a lavorare a Parigi, alla VI sezione dell'”école des hautes études pratiques”, fondata nel 1946 da L. Febvre e diretta, dopo la sua morte, da Braudel. Le Roy Ladurie divenne ben presto uno dei membri dello staff degli “annalisti”.

Nel 1967 si reca negli Usa in qualità di visiting professor e resta affascinato dai principi quantitativi, matematici e statistici della “new economic history”. Sul rapporto tra questa scuola americana e la storiografia francese che si rifà alle “Annales” occorre spendere alcune parole.

Già abbiamo detto che a cavallo dei secoli XIX e XX, sotto l’influenza della Storia socialista di Juarès, s’era imposto in Francia un crescente interesse per la storia economica. Lo confermano, nel corso dei primi tre decenni del sec. XX, le opere di H. Hauser, H. Sée, A. Mathiez e G. Fefebvre. La crisi economica mondiale del 1929-33 non fece che rafforzare ulteriormente tale tendenza.

Le “Annales” di Bloch e Febvre, gli studi di Siminad e soprattutto di Labrousse inaugurarono una nuova fase nello sviluppo della storiografia francese in campo socio-economico; una fase che, grazie soprattutto a Labrousse, non subirà alcun declino nel periodo che va dal dopoguerra alla prima metà degli anni Sessanta. La storia economico-sociale conobbe ottimi lavori da parte di J. Bouvier (sulla storia delle banche francesi), J. Meuvret (sul problema alimentare), P. Vilar (sullo sviluppo economico della Catalogna), P. Léon (sulla nascita della grande industria), di P. Goubert (sulla formazione del capitalismo in Picardia). Un tratto caratteristico della maggior parte di questi ricercatori era il rifiuto di separare la storia economica dalla storia delle lotte di classe.

La situazione inizia a cambiare verso la metà degli anni Sessanta. Gli schemi economici di Simiand e Labrousse, ispirati dallo stato dell’economia degli anni Trenta, non erano più adatti per gli anni Sessanta. Dopo la guerra il capitalismo mondiale, soprattutto quello americano, sembrava entrato in una fase di crescita stabile.

Il Manifesto non comunista di W. Rostow è un prodotto tipico di quell’epoca. La sua apparizione (1960) coincise sia con la rivoluzione tecnico-scientifica che con l’impiego del computer nello studio della storia. Ed è così che, prima negli Usa poi in Francia, acquistò sempre più credito la scuola detta “quantitativa”, secondo cui un periodo di crescita ininterrotta era cominciato per lo meno sin dalla metà del XVIII sec.

Uno dei fondatori di questa scuola fu S. Kuznets, docente all’Università di Harvard, che già verso gli anni Trenta e Quaranta aveva pubblicato le sue prime opere (sul reddito nazionale americano) contribuì anche al finanziamento dei lavori di un gruppo francese, diretto da J. Marczewski che, nel 1956, cercò di mettere a punto un “modello” francese di crescita economica su scala nazionale. L’iniziativa venne appoggiata da F. Perroux, direttore dell’Istituto di scienza economica applicata.

PANORAMICA DELLA STORIOGRAFIA FRANCESE (III)

Terminata la guerra, la storiografia francese riprese con nuovo vigore. La pubblicazione, nel 1949, del libro di F. Braudel (1902-1985), Il Mediterraneo e il mondo mediterraneo all’epoca di Filippo II, costituì allora un avvenimento eccezionale. La sua stesura richiese una quindicina d’anni. Braudel venne riconosciuto come uno degli storici più importanti non solo della Francia, ma anche di tutta l’Europa occidentale.

Egli era figlio di un professore parigino di matematica. Durante il periodo universitario alla Sorbona, di tutti i docenti fu H. Hauser, che insegnava storia economica, quello ch’ebbe su di lui l’influenza maggiore. All’inizio degli anni Venti cominciò a insegnare a Costantina, in Algeria, ove intraprese gli studi e le ricerche per realizzare l’opera suddetta.

Nel 1930 conobbe H. Berr e partecipò ai lavori del suo centro di sintesi storica. A partire dal 1935 e per tre anni insegnò in Brasile. Sulla nave che lo riportò in Francia incontrò Febvre che tornava invece dall’Argentina. Nel 1939 scoppia la guerra e Braudel si ritrova al fronte. Fatto prigioniero e detenuto dal 1940 al 1942 in un campo presso Mayence, viene trasferito, a motivo della sua attività politica, in un campo speciale a Lubecca, ove il regime era più severo.

Pur privato di tutto il suo materiale documentario, Braudel, dotato di una memoria prodigiosa, riprende la sua opera sul Mediterraneo, proprio come H. Pirenne, un altro grande storico francese che, durante la I guerra mondiale, aveva scritto in prigione la sua Storia d’Europa, inviando un quaderno alla settimana all’amico Febvre.

La Méditerranée fu il risultato di ricerche compiute in tutti gli archivi e le biblioteche storiche più importanti del mondo mediterraneo. Seguendo i consigli che Febvre gli aveva dato sin dagli anni Venti, Braudel evitò di trattare soltanto della Spagna, limitandosi, si fa per dire, a tutti i paesi rivieraschi del Mediterraneo: compito questo, in realtà, d’una complessità eccezionale, specialmente per un singolo ricercatore.

Il libro, che nella seconda edizione del 1966 fu sdoppiato in due volumi perché rivisto e aumentato di un notevole apparato critico, risente fortemente dell’influenza della scuola geografica di Vidal de la Blache; inoltre esso riserva maggiore attenzione alla circolazione, agli scambi e alle strade commerciali che non alla produzione vera e propria. Ciò ad es. si riflette laddove Braudel più che parlare della rivalità fra i due centri del commercio capitalistico (nella fattispecie Spagna e Impero ottomano), ovvero fra i diversi gruppi delle borghesie emergenti, preferisce parlare della rivalità di due vie di transito, mediterranea e atlantica.

Là dove Febvre e Braudel non avevano visto che l’antagonismo fra un “mare” e un “oceano”, Marx molto tempo prima aveva scoperto un processo ben più profondo: la nascita dello stadio manifatturiero del capitalismo nel XVI sec.

Ciononostante un indubbio progresso era avvenuto: la storia tradizionale di superficie, la cosiddetta storia événementielle (quella basata sugli avvenimenti politici più esteriori) veniva confinata definitivamente in un ruolo subalterno, a vantaggio di un modello di ricerca strutturale e funzionale basato su uno stretto rapporto fra storia e tempo.

“La storiografia tradizionale – dirà Braudel ne La storia e le altre scienze sociali – interessata ai ritmi brevi del tempo, all’individuo, all’évenement, ci ha abituati da tempo al suo racconto frettoloso, drammatico. di breve respiro. La nuova storiografia economica e sociale pone invece al primo posto le oscillazioni cicliche e punta sulla validità delle loro durate”.

Ma il merito maggiore va forse attribuito alla decisione dell’autore di contrastare l’idea catastrofista, allora dominante, espressa nel famoso libro di O. Spengler, Il declino dell’occidente, apparso l’indomani della disfatta tedesca del 1918. In che modo lo fece? Mostrando che dalle crisi più acute (nel contesto della Méditerranée quelle appunto degli imperi mediterranei) quasi sempre sorgono nuove imponenti civiltà.

Nel 1950 Braudel ottenne una cattedra al Collegio di Francia. Dopo la morte di Febvre assunse la direzione delle “Annales” e della VI sezione dell’Ecole pratique des hautes études, uno dei centri più significativi della scienza storica francese.

Questi impegni lo porteranno a elaborare il suo secondo importante libro, Civilizzazione materiale e capitalismo, il cui primo volume apparve nel 1967, dopo che per quasi sessant’anni i suoi interessi si erano progressivamente concentrati sulla vita quotidiana, materiale, degli uomini (dall’alimentazione all’abitazione, dalle fonti energetiche alle vie di comunicazione, dai mezzi di trasporto alla circolazione del denaro). E questa volta il perimetro geografico non era più solo l’Europa ma anche l’Asia, l’Africa, l’America.

I limiti tuttavia non mancano- Anzitutto Braudel separa la civilizzazione materiale dalla vita economica produttiva e dal capitalismo. La prima, a suo giudizio, è fatto di routine, è una vita elementare, vegetativa, che non si presta, se non con molta difficoltà, al mutamento, è dunque una realtà di “lunga durata”. La vita economica invece gli appare come uno stadio superiore, privilegiato, della vita quotidiana. Il capitalismo poi è uno stadio ancora più elevato, più sofisticato.

In sostanza sfuggiva a Braudel il fatto che il capitalismo s’afferma proprio sulla base delle forme più elementari dei rapporti mercantili, giungendo in diretto antagonismo con altri tipi dominanti di economia. Una svista prodotta probabilmente dalla sua stessa concezione della “lunga durata”, che resta troppo vada e indeterminata e che rischia di condannare a una semi-paralisi la storia dell’uomo in rapporto al suo ambiente specifico.

La Civilizzazione materiale vide il suo definitivo compimento, in tre volumi, nel 1979, costituendo un avvenimento del tutto eccezionale, “Le Monde” le consacrò due intere pagine, salutandola col titolo di “decodificatrice della storia mondiale”.

L’opera, in effetti, testimonia d’una erudizione notevolissima. Braudel provava un immenso piacere nel disegnare, dello sviluppo storico-sociale, sia i grandi tratti, come artefice della “storia totale”, sia i più infimi dettagli, come “pescatore di perle”, secondo la felice espressione di J. H. Hexter. Egli utilizzò persino le fonti dell’archivio della politica estera dell’Urss per esaminare la corrispondenza del console russo a Lisbona.

Dopo l’uscita del primo volume dichiarò in un’intervista che per lui Marx era il “padre della storia moderna”, e nel libro in effetti lo difende sempre, soprattutto dalle critiche di W. Sombart e M. Weber. Braudel si era convinto che solo chi possiede i mezzi di produzione detiene nella società le posizioni dominanti. Nel secondo e terzo volume  cita Lenin dichiarandosi d’accordo con lui sul problema delle origini del capitalismo.

Eppure egli rimase abbastanza scettico nei confronti del marxismo del XX secolo e attendeva sempre l’apparizione d’un “capolavoro della storiografia marxista” che provasse la possibilità e l’opportunità d’una applicazione del marxismo alla storia. In questo senso l’atteggiamento di Braudel (e delle stesse “Annales”) fu abbastanza contraddittorio, anche perché dopo la guerra, soprattutto dopo gli anni cinquanta e all’inizio degli anni sessanta, i progressi nella storiografia marxista erano stati considerevoli.

A dir il vero il prestigio del marxismo nella storiografia francese aveva già potuto farsi strada negli anni Trenta, allorché, dopo la crisi del 1929, la sua influenza s’era estesa in tutte le direzioni, obbligando molti storici a ripensare il loro rifiuto dell’interpretazione materialista della storia.

Nella Francia degli anni Cinquanta si poteva già parlare non soltanto di un’influenza del marxismo su molti storici non simpatizzanti per le idee del comunismo, ma anche di una storiografia marxista vera e propria, di alto livello scientifico, che s’era guadagnata delle solide posizioni in ambito universitario.

Fu anzitutto nel campo della storia della rivoluzione francese che tale influenza si manifestò. L’apparizione, all’inizio del secolo, dell’opera di Jaurès, seguita dagli studi di Mathiez, di Lefebvre e di Labrousse aveva già largamente aperto la porta, nella storiografia della rivoluzione, alle idee e ai metodi marxisti.

A. Soboul, p.es., fu uno storico marxista di tutto rispetto. Cresciuto in un ambiente popolare modesto e divenuto assai presto orfano (a sei mesi perse in guerra il padre, contadino povero, e a otto anni la madre), Soboul fu cresciuto a spese dello Stato. Fece gli studi superiori negli anni Trenta, all’epoca del Fronte popolare.

Lefebvre l’aveva subito notato tra i suoi allievi e Soboul considerava Lefebvre come il suo principale maestro. Nel 1939 pubblica la sua prima opera, dedicata alla rivoluzione francese. Diventa uno dei dirigenti dell’organizzazione degli studenti comunisti di Parigi e nello stesso anno aderisce al pcf. Artigliere durante la guerra, prende parte attiva alla Resistenza.

Nel 1942 è costretto a lasciare il liceo di Montpellier, ove insegnava; poi viene arrestato. In seguito e sino alla fine della guerra vive in clandestinità. Nel 1945 si stabilisce a Parigi ove insegna in vari licei, continuando a lavorare alla sua tesi di dottorato, sostenuta la quale, nel 1958, ottenne la medaglia di bronzo dal Centro Nazionale della Ricerca Scientifica. L’opera magistrale sui sans-coulottes parigini gli procurò subito una grande notorietà.

Soboul aveva scelto un tema poco studiato, ma ugualmente molto importante: il ruolo degli strati parigini più popolari durante la rivoluzione. In un’altra opera molto importante, in cui rivelava una conoscenza approfondita dei rapporti agrari nella Francia del XVIII sec., Soboul contestava l’opinione di coloro che negavano l’esistenza di tracce di feudalesimo in Francia alla vigilia della rivoluzione.

In omaggio ai suoi numerosi lavori storici, egli ottenne alla Sorbona nel 1967 la cattedra di storia della rivoluzione. Lungi dall’essere un successo unicamente personale, si trattava piuttosto del riconoscimento dei meriti della storiografia marxista e della sua integrazione nella scienza universitaria durante gli anni 1950-60. Non dimentichiamo che negli anni Venti la cattedra era stata rifiutata a uno storico della rivoluzione come Mathiez.

Un’altra importante opera della storiografia marxista fu la tesi di dottorato sui Guesdistes sostenuta da C. Willard nel 1965.  Questi si accostò assai presto al movimento democratico. Suo padre fu il celebre avvocato che difese Dimitrov al processo di Lipsia nel 1940. Partecipando alla Resistenza, Willard aderì al pcf nel 1944.

Il tema del guesdismo era del tutto originale. Fino alla metà del XX sec. e nonostante che il ruolo del movimento operaio socialista fosse stato in Francia particolarmente significativo, non esisteva sulla storia del movimento socialista dei guesdisti alcuno studio scientifico, né i docenti della Sorbona erano disposti ad accettarlo.

Willard s’impegnò tantissimo: la ricchezza delle fonti reperite gli permise di compiere un’opera esaustiva sulla storia di questo movimento dal 1893 al 1905, cioè sino alla fondazione del partito socialista unificato. A tutt’oggi nessun paese dell’Europa occidentale possiede uno studio così completo su questo argomento.

Willard peraltro fu il primo a fare il punto sulle divergenze fra Guesde e Lafargue emerse all’epoca dell’affare Dreyfus circa la tattica del partito operaio. La tesi venne condotta sotto la direzione di Labrousse, ch’era diventato, dopo la morte di Bloch, titolare della cattedra di storia economica alla Sorbona. Qui, sia Lefebvre che Braudel rappresentarono, negli anni Cinquanta e fino alla prima metà degli anni Sessanta, il momento più felice della storiografia francese.

Tuttavia, già nel corso della seconda metà degli anni Sessanta e soprattutto negli anni Settanta nuove tendenze cominciavano a farsi strada, che rompevano con le tradizioni ereditate dal periodo precedente.

PANORAMICA DELLA STORIOGRAFIA FRANCESE (II)

Gli anni Trenta segnano l’inizio della fine della storiografia meramente politica. E’ vero che i suoi sostenitori sono ancora in auge alla Sorbona (si pensi a Seignobos), ma il processo in direzione degli studi socio-economici appare irreversibile. La rivoluzione d’Ottobre, il diffondersi del pensiero marxista, i mutamenti post-bellici sul piano sociale, l’esplicito ruolo giocato dall’economia durante e dopo la I guerra mondiale, in particolare la crisi economica mondiale all’inizio degli anni Trenta (che coinvolse anche la Francia): tutto ciò finì per avere ragione del disinteresse degli storici francesi per le questioni economiche.

In verità alla Sorbona da tempo esisteva una cattedra di storia economica e il suo titolare, H. Hauser, era un eminente specialista, ma negli anni Venti i suoi corsi era disertati dagli studenti.

La crescita dell’interesse per l’economia è soprattutto legata, inizialmente, a due nomi: F. Simiand e E. Labrousse. Simiand era sociologo ed economista, simpatizzava per il socialismo e fu vicino alle idee di L. Herr e L. Blum. I suoi schemi interpretativi delle congiunture economiche e delle fluttuazioni dei prezzi ebbero, per quanto imprecisi, una larga diffusione in Francia.

L’influenza di Labrousse, discepolo di A. Mathiez, sugli studi storici fu ancora più profonda. Egli era diventato segretario della federazione degli studenti comunisti, redattore per qualche anno dell'”Humanité”, membro del comitato direttivo della società di studi robespierristi. Entrambi ricorsero ai metodi della statistica matematica per studiare il movimento dei prezzi, e Labrousse, a differenza di Simiand, sapeva collegarlo efficacemente alla dinamica storica degli antagonismi di classe.

La sua tesi di dottorato del 1944, La crisi dell’economia francese alla fine dell’ancien régime e all’inizio della rivoluzione, fece epoca, tanto che Braudel la considerò come una pietra miliare della storiografia francese.

Dopo la barbara esecuzione nazista di Bloch, che occupò la cattedra di storia economica dalla morte di Hauser, nel 1936, sino al 1944, la Sorbona appena poté riprendere una vita normale chiederà a Labrousse di subentrare a Bloch.

Se vogliamo, gli esponenti più significativi di questi nuovi processi nella storiografia francese degli anni Trenta non furono Simiand e Labrousse, ma L. Febvre e M. Bloch, a motivo della famosissima rivista “Annales”, fondata nel 1929 e con cui fecero scuola.

Febvre e Bloch furono storici di grande talento: la loro collaborazione, proseguita per molti anni, fu particolarmente feconda, nonostante le differenze nell’età e negli interessi.

Febvre (1878-1956) si dedicò prevalentemente allo studio della geografia storica (conformandosi alla lezione della scuola geografica di Vidal de la Blache), della storia e della cultura del secolo da lui preferito: il XVI.

Bloch (1886-1944), figlio d’un grande specialista di storia romana, ricevette una brillante formazione scientifica e apprese molte lingue straniere (compreso il russo, il protonordico e il tedesco antico). Durante la I guerra mondiale s’impegnò, come Febvre, a combattere nell’esercito, ottenendo il grado di capitano e numerose decorazioni. I suoi primi lavori furono consacrati alla Francia capetingia: il più importante è senz’altro I re taumaturghi (1924), che testimonia l’interesse dell’autore per i problemi della psicologia collettiva.

Verso la metà degli anni Venti la sua attenzione si concentra sulla storia agraria medievale francese ed europea. Nel 1931 insegna a Oslo storia agraria comparata. Proprio in quel periodo pubblica l’opera che lo fece diventare il maggior storico-economista della Francia: I caratteri originali della storia rurale francese. Negli anni 1939-40 appare quello che può essere considerato il suo capolavoro: La società feudale.

Il suo interesse per le questioni economiche e rurali in particolare aveva chiaramente lo scopo di presentare gli avvenimenti storici nella loro concretezza, nella loro sofferta umanità, contro le interpretazioni aristocratiche che guardavano i fatti solo dall’alto.

Febvre e Bloch si erano conosciuti nel 1919 a Strasburgo, città dove, dopo la I guerra mondiale e il ritorno dell’Alsazia alla Francia, vennero incaricati dal governo di creare un centro culturale francese. Ci vollero però dieci anni prima che le “Annales” vedessero la luce. E appena questo accadde, subito piovvero le accuse di “materialismo storico”, ovvero di dare un primato arbitrario ai fattori economici rispetto a quelli politici e morali.

Ma l’équipe delle “Annales” (che comprendeva anche G. Lefebvre, Ch. Andler e altri) seppe difendersi con coraggio e lungimiranza. Essa invitava a rinnovare gli studi storici, ad ampliare la loro problematica, ad affrontare i processi storici strutturali, ovvero la storia della produzione, della tecnologia, dei mezzi di lavoro; sollecitava a colmare i ritardi rispetto alle scienze esatte e naturali; auspicava che gli storici lavorassero in modo collegiale, avvalendosi dei contributi specifici di tutti sulla base di una comune piattaforma interpretativa.

Con ciò naturalmente non si vuole sostenere che le “Annales” rappresentino la quintessenza della storiografia marxista francese. E’ vero che Bloch e Febvre consideravano l’uomo il fattore numero uno dei processi storici e che nell’ambito di questi processi assegnavano alla dimensione economica un ruolo centrale, ma è anche vero che la loro storiografia restava idealistica: i fatti storici venivano ricondotti, in ultima istanza, a fattori psicologici, in cui cioè era la sensibilità collettiva che rendeva possibile il movimento delle cose.

Gli stessi fatti economici, come tutti gli altri fatti sociali, venivano equiparati a fatti di credenza a e di opinione. Febvre, in particolare, ebbe modo di dire che la ricchezza, il lavoro, il denaro non sono, propriamente parlando, delle “cose” ma solo delle “idee”, cioè delle rappresentazioni o concezioni umane delle cose.

Febvre poi, meno di Bloch, venne a contatto col marxismo. Egli si considerava “marxista” solo in senso incidentale, poiché riteneva che molte idee di Marx erano divenute, indirettamente, patrimonio comune di molti storici francesi. Per lui Marx era unicamente un filosofo, che uno storico non aveva tempo di leggere.

Peraltro non è possibile considerare l’esperienza delle “Annales” come la sola che abbia contribuito a determinare questa svolta metodologica nella storiografia. Altri elementi furono non meno importanti: il progresso generale delle scienze, la rivoluzione operata nella fisica, la situazione politica in cui forte era l’odio per il fascismo, la formazione del Fronte popolare, l’influenza crescente del marxismo.

Assai stimolante fu anche l’opera di G. Lefebvre (1874-1959), per quanto esclusivamente dedicata alla rivoluzione francese. All’inizio degli anni Trenta, dopo la tragica morte di A. Mathiez, Lefebvre fu chiamato a Parigi per assumere alla Sorbona l’unica cattedra di storia della rivoluzione francese esistente al mondo. Egli divenne anche presidente della società degli studi robespierristi. Grande fu il suo contributo alla comprensione delle lotte di classe nelle campagne francesi durante il periodo della dittatura giacobina.

Sono stati dunque quattro gli storici francesi più importanti degli anni Trenta: Bloch, Febvre, Lefebvre e Labrousse (quest’ultimo il più sensibile alla lezione marxista). Ma la guerra del 1939 e la catastrofe che s’abbatté sulla Francia l’anno dopo interruppero per un certo tempo questo rinnovamento.

Assai grave per la storiografia francese fu la perdita di M. Bloch. Già cinquantenne, egli pensò fosse suo dovere partecipare alla guerra contro i nazisti. Arruolatosi col grado di capitano fece parte nel 1940 di quelle unità francesi che riuscirono a imbarcarsi a Dunkerque per l’Inghilterra, da dove poi rientrò in Francia. Dopo la capitolazione gli divenne impossibile insegnare alla Sorbona e per qualche tempo esercitò in provincia. Durante questo periodo lavorò all’Apologia della storia, che rimase incompiuta e fu pubblicata postuma da Febvre.

Bloch detestava profondamente l’hitlerismo e la sua ideologia razzista. Divenuto uno dei comandanti della cintura lionese della Resistenza, fu arrestato dalla Gestapo nel 1944 e fucilato il 16 giugno.

Durante tutta la guerra Febvre, rimasto a Parigi, fece l’impossibile per prolungare l’esistenza delle “Annales”, la cui periodicità era divenuta assai irregolare. Nel 1946 i fascicoli ricominciarono ad apparire sotto un nuovo nome, “Annales. Economies-Sociétés-Civilisations”, redatti dal solo Febvre.

PANORAMICA DELLA STORIOGRAFIA FRANCESE (I)

Il pensiero storico francese ha occupato, durante quasi tutto il XIX secolo, una delle posizioni più avanzate nella scienza storica mondiale.

E’ sufficiente ricordare i nomi dei suoi più grandi rappresentanti: A. Thierry, F. Guizot, J. Michelet, F. A. Mignet. Costoro spiegavano tutta l’evoluzione della Francia e dell’Inghilterra in termini di lotta di classe tra nobiltà e borghesia, cioè in termini di scontro sociale e politico.

Ma negli anni 1880-1890 si ebbe un declino di questa storiografia: i suoi nuovi rappresentanti (si pensi a A. Sorel, Ch. Seignobos, A. Aulard, E. Lavisse) si limitavano a svolgere la ricerca su un piano meramente politico-diplomatico.

Solo verso la fine del secolo e l’inizio del successivo si può notare un’inversione di marcia. Nuovi storici, come P. Lacombe (fece epoca il suo libro La storia considerata come scienza) e H. Berr (fondatore della teoria e del movimento della “sintesi storica”, cui aderiscono, fra i giovani, P. Mantoux, L. Febvre e M. Bloch) presero a combattere con nuove energie l’involuzione della storiografia francese.

H. Berr, come E. Durkheim (caposcuola della sociologia francese), non s’interessava molto di economia: la sua preoccupazione principale era quella di realizzare una sintesi culturale su basi filosofiche e idealistiche. Il problema in effetti era quello di come superare il quadro tradizionale della storia cronologica, la storia per secoli o per regni, focalizzando invece l’attenzione sui problemi, al fine di trovare delle costanti nel tempo, senza soffermarsi sugli avvenimenti singolari, le biografie, gli aneddoti ecc.

Nel 1920 Berr intraprese la pubblicazione, che portò avanti fino alla morte, di una collezione intitolata L’evoluzione dell’umanità, in 80 volumi: qui videro la luce le opere di L. Febvre e M. Bloch, fra cui, di quest’ultimo, la famosissima Società feudale.

Questa rinnovata scienza storica aveva subito una certa influenza da parte della scuola sociologica di Durkheim, la cui Année sociologique (1879) opponeva allo studio del fatto individuale, irripetibile, quello delle determinazioni sociali, cui si attribuiva un ruolo essenziale in tutto lo sviluppo della società. Attorno a questa scuola gravitavano ricercatori come F. de Saussure, L. Lévy-Bruhl ecc.

Oltre a questo ebbe un peso notevole sullo sviluppo della scienza storica francese la teoria marxista. Fu J. Jaurès, coi suoi volumi sulla Storia socialista della rivoluzione francese (1900), che indusse gli storici francesi a prestare maggiore attenzione ai fatti socio-economici. G. Lefebvre, il maggior storico francese della prima metà del sec. XX, rimase profondamente impressionato dal valore di quest’opera.

Quando, su iniziativa di Jaurès, fu creata una commissione incarica di raccogliere i documenti relativi alla storia economica della rivoluzione, Lefebvre vi partecipò così attivamente che furono proprio i lavori di Jaurès e di Luchitski, uno storico russo specializzatosi nello studio dei rapporti agrari nella Francia del XVIII sec., che lo portarono a scegliere un argomento di economia rurale per la sua tesi di dottorato: I contadini del Nord durante la rivoluzione, frutto di quasi 20 anni di ricerche.

Ormai l’idea di completare se non di superare la tradizionale storiografia politica con l’analisi economica dei fatti sociali era diventata sufficientemente matura per imporsi all’attenzione di molti storici. A ciò naturalmente avevano contribuito anche altri fattori, come lo sviluppo del capitalismo, i progressi delle scienze naturali (specie la fisica) ecc.

A Strasburgo, nel 1929, appaiono i primi numeri della rivista “Annales de l’histoire éeconomique et sociale”, diretta da L. Febvre e M. Bloch. Due anni prima A. Mathiez, il maggior storico della rivoluzione francese durante il primo trentennio del secolo, aveva pubblicato la sua migliore opera socio-economica: Il carovita e il movimento sociale sotto il Terrore.