Articoli

La questione delle fonti storiche

Un qualunque lavoro didattico sulle fonti storiche è indispensabile, di qualunque natura esse siano. Tuttavia bisognerebbe partire dal presupposto che non esiste e non può esistere alcuna fonte storica la cui interpretazione sia incontrovertibile. Se tale fonte esiste non è storica, cioè non è un prodotto dell’azione umana. Anche quando, all’interno di una classe scolastica, succedono incidenti di percorso, dovuti a malintesi o a forme di insofferenza o di esasperazione, il docente ha il compito di sentire le “varie campane”, cercando di separare il grano dal loglio, ma sempre nella consapevolezza, e deve anche farlo capire ai ragazzi, che nessuno di loro, da solo, può aver la pretesa di raccontare una verità assoluta dei fatti.

Questo modo di agire porta a conseguenze ben precise quando si studia la storia:
1. il ricorso alle fonti e quindi la loro espressa citazione, nella ricerca della verità dei fatti, è sì una necessità ma relativa;
2. le fonti scritte non sono di per sé più oggettive di quelle non scritte;
3. in genere la verità non coincide mai con l’evidenza;
4. l’interpretazione delle fonti può essere anche più importante delle fonti stesse ai fini della ricerca scientifica;
5. nessuna fonte è muta, nessuna parla chiaramente;
6. nessuna fonte è sicura, nessuna è irrilevante;
7. le fonti false o falsificate non sono meno importanti delle altre fonti;
8. l’interpretazione delle fonti è sempre parziale e viziata dal limite soggettivo dell’interprete, il quale a sua volta è condizionato dal periodo storico in cui egli è vissuto;
9. non esiste un criterio oggettivo per stabilire quale interpretazione delle fonti sia più attendibile o più vicina alla verità oggettiva dei fatti, la quale pur esiste, anche se non siamo in grado di stabilirne tutte le proprietà;
10. credere in questa o quella interpretazione delle fonti è cosa soggettiva, connessa a convincimenti personali, che maturano nella coscienza e nell’esperienza dei ricercatori indipendentemente dalle fonti stesse e persino dalle interpretazioni che se ne possono dare;
11. l’accettazione di una determinata interpretazione (di un punto di vista) il più delle volte nasce, anche inconsapevolmente, da un interesse già maturato nella coscienza del ricercatore, nel senso che quest’ultimo finisce col ritenere attendibili cose in cui già crede, sicché le interpretazioni non fanno che dare una certa consapevolezza teorica, concettuale, a un qualche sentire interiore, a una percezione che matura sulla base di determinate esperienze;
12. questo modo di procedere, nell’analisi delle fonti storiche, rientra nella dialettica (o dinamica naturale) del comportamento umano in campo gnoseologico;
13. le vere falsificazioni emergono quando si vogliono negare le alternative, i modi diversi di intendere la realtà;
14. si può vivere nella falsificazione senza avvertirla come tale, senza avvertirla in tutto il suo spessore o in tutta la sua evidenza. Il problema infatti non sta in questo, ma nel rifiuto di accettare forme diverse di esperienze delle cose, della realtà. È l’attaccamento ostinato, pervicace, a determinate idee, opinioni, a sua volta connesse a determinati interessi, che porta ad atteggiamenti innaturali, inumani… Se tutti sono nell’errore, nessuno lo è, soggettivamente. Tutti però lo diventano quando si vuole rifiutare una qualunque alternativa allo status quo.
15. La miglior fonte per l’uomo è la storia in generale, che va vissuta sino in fondo nel proprio presente.
Una conoscenza oggettiva dei fatti storici è sempre una conoscenza parziale. Quanto più pretendiamo d’essere oggettivi, tanto più diventiamo astratti. Non a caso la conoscenza più oggettiva è quella matematica, che è poverissima di contenuto umanistico. Se la matematica non avesse trovato un’applicazione nell’informatica, sarebbe rimasta una scienza per pochi eletti, anche se chi insegna materie letterarie se la ritrova, in un certo senso, nell’impostazione della grammatica, in parecchie cose della geografia e persino nel genere letterario del giallo (sic!).

Per come noi oggi conosciamo la storia, cioè per come ci viene trasmessa dai libri di testo, dobbiamo dire ch’essa è solo la storia dei potentati economici e politici, è storia scritta, scritta da intellettuali che, nelle civiltà antagonistiche, hanno sempre fatto generalmente gli interessi di una ristretta minoranza.

Nei confronti di queste versioni ufficiali dei fatti, che ci hanno voluto tramandare facendoci credere che fosse “la verità nient’altro che la verità”, noi abbiamo il dovere di esercitare la funzione del dubbio.

In particolare la storia basata sulla scrittura è la più ambigua di tutte, la meno affidabile. È di gran lunga migliore la “non-storia”, quella tramandataci oralmente, attraverso le mille generazioni, collaudata nel tempo, patrimonio storico della cultura contadina, che è stata completamente distrutta dalla scienza basata sull’esperimento da laboratorio.

Per millenni si è andati avanti senza sapere che il sole sta fermo, che la terra è tonda e che l’universo è in espansione… Siamo proprio sicuri che le nostre conoscenze astronomiche, per l’uso quotidiano che ne facciamo, siano di molto superiori a quelle egizie, maya, celtiche o druidiche? Com’è possibile non guardare con sospetto il fatto che la borghesia, nel mentre diceva la “verità” di queste scoperte, ne approfittava anche per imporre il proprio stile di vita, il proprio modo di produrre? Ci sentiamo davvero più sicuri oggi, con tutta la nostra scienza? Quando la Germania scatenò le due guerre mondiali era forse un paese di trogloditi? E lo erano forse le altre nazioni europee che non seppero e addirittura non vollero impedirlo?

Questo per dire che un manuale scolastico di storia non può limitarsi ad essere un semplice “bignami” di testi di livello universitario, cui si aggiungono esercizi di verifica, apparati iconografici, mappature, glossari, linee del tempo ecc. per agevolare il più possibile l’apprendimento dei contenuti storiografici. Un manuale di storia dovrebbe soprattutto essere impostato sul piano della metodologia, favorendo al massimo la ricerca (in greco zetesis), che non vuol dire anzitutto ridurre la quantità delle nozioni, ma farle emergere da un bisogno reale di conoscenza, in cui ci si sente coinvolti attivamente.

Faccio ora un esempio tratto dal testo di Alba Rosa Leone, Dal villaggio alla rete: cap. di Napoleone. Al par. 3 spiega che ad un certo punto, dopo l’istituzione delle cosiddette “repubbliche sorelle” volute dall’imperatore, “nel sud in particolare migliaia di contadini e intere bande di briganti formarono, sotto la guida del card. Ruffo, l’esercito della Santa Fede che marciò contro la repubblica partenopea… riportando i Borboni sul trono”.

Poi, dopo aver riempito il paragrafo di nomi, lo conclude dicendo: “Analoghi movimenti sanfedisti insanguinarono il Lazio, la Toscana e il Piemonte, dimostrando l’incapacità dei nuovi governi di coinvolgere nei programmi di rinnovamento le masse rurali, povere e analfabete”. Punto!

Cosa capisce un alunno di scuola media? Come si poteva evitare il nozionismo? Semplicemente partendo dalla vita dei ragazzi, ponendo alcune domande su taluni comportamenti. In questo caso chiedendo loro: come ci si deve comportare quando, rispetto a tutti gli altri, si sa o si pensa di aver ragione? Se dopo aver detto le proprie ragioni, gli altri continuano ancora a non credervi, come ci si deve regolare? Quando si pensa di aver ragione è giusto usare la forza per dimostrarlo? Ci sono altri strumenti a disposizione?

Domande di questo genere se ne possono fare a centinaia. Sempre più precise, circostanziate, contestualizzate nello spazio e nel tempo, sempre più riferibili a situazioni in cui sono coinvolti gli adulti, i genitori, gli insegnanti, i protagonisti della storia.

A questo punto viene quasi da dire che sarebbe sufficiente avere un libro di storia composto unicamente di fonti, con domande interpretative da parte del curatore e al massimo uno specimen apposito per il docente, contenente le risposte effettivamente date a quelle domande, nonché quelle che si sarebbero potute dare se le cose fossero andate diversamente (storiografia del “se”). In questa maniera si lascerebbe campo aperto alla ricerca personale e di gruppo, nonché alla discussione in classe.

Un altro modo di fare ricerca storica (che in molte scuole ha preso piede) è quello di adottare un monumento locale, lavorandoci sopra a 360 gradi: cosa rappresenta per la cittadinanza locale? perché lo si è voluto? come preservarlo tecnicamente? come tramandarne la memoria? ecc. Esistono anche varie attività didattiche organizzate da associazioni culturali, relative p.es. a come si faceva il pane una volta o un codice miniato, ecc. Molto interessanti sono anche le rappresentazioni teatrali, cinematografiche, televisive e persino di animazione su taluni eventi storici. È difficile incontrare uno studente che non associ il cartoon di Lady Oscar alla rivoluzione francese.

L’importante insomma è rivedere criticamente i presupposti di fondo su cui si basano quasi tutti i manuali scolastici di storica, e cioè:
1. che l’Europa occidentale ha espresso la civiltà più significativa della storia;
2. che questa civiltà è diventata significativa a partire soprattutto dalla rivoluzione borghese, scientifica e industriale;
3. che lo era già al tempo del mondo greco-romano, “rovinato” dalle invasioni cosiddette “barbariche”;
4. che la religione migliore del mondo è quella cristiana, specie quella di confessione cattolico-romana, benché sia stata quella luterana e soprattutto calvinista a fare da supporto esplicito alle idee della borghesia.

È impressionante vedere con quanta sicurezza molti insegnanti, autori di manuali scolastici, ritengono che la storia sia una “scienza”. Basterebbe solo un esempio clamoroso per smentirli, ma se potrebbero fare molti: perché non parlano mai di quei sette secoli di “crociate baltiche” organizzate dall’Europa cristiana d’occidente?

Dunque di che scientificità stiamo parlando? Forse sarebbe meglio dire che in definitiva non esiste la storia, esiste solo la sua interpretazione, che è quella voluta dai poteri dominanti, dai quali però dobbiamo continuamente difenderci, ipotizzando una diversa interpretazione dei fatti. Qui il conflitto è tra un’esegesi e l’altra, tra un’ermeneutica e l’altra… Non esiste un solo concetto che non possa essere oggetto di interpretazioni opposte. Questo è l’unico dogma che bisognerebbe essere disposti ad ammettere.

Lo studio delle civiltà (V)

Evoluzione e involuzione

Noi non possiamo attribuire il livello di progresso di una popolazione al grado di sviluppo tecnologico, di divisione del lavoro o ad altri fattori meramente materiali o economici, senza prendere in considerazione l’insieme delle condizioni sociali, culturali e politiche dell’intera popolazione. Non sono un indice sicuro di progresso i fattori cosiddetti “dominanti”, come p.es. il livello delle forze produttive, che si misura sulla capacità di riprodursi economicamente. È l’insieme della vita sociale che va preso in considerazione e non un suo singolo aspetto.

Non dobbiamo dimenticare che i guasti principali arrecati al nostro pianeta provengono esclusivamente dalle cosiddette “civiltà”, cioè da organizzazioni “avanzate” dell’economia, delle istituzioni, dell’apparato bellico… Bisogna quindi ripensare totalmente il significato della linea evolutiva che va dalle società tribali alle civiltà. Questo perché, a ben guardare, non c’è stata una vera e propria “evoluzione”, ma piuttosto un’involuzione da uno stadio di vita collettivistico a una serie di formazioni sociali individualistiche.

Se fossimo un minimo onesti con noi stessi, troveremmo alquanto difficile sostenere che gli uomini di oggi hanno una coscienza della loro umanità di molto superiore a quella che potevano avere gli uomini di mille, diecimila o un milione di anni fa. Non sono le circostanze esteriori, materiali o fenomeniche, che rendono più o meno grande tale consapevolezza, altrimenti si sarebbe costretti ad affermare che popolazioni prive di scienza e di tecnica evolute dovrebbero essere considerate dal punto di vista della consapevolezza umana, assolutamente primitive. Ma se anche solo guardassimo al modo in cui hanno vissuto il loro rapporto con la natura, dovremmo dire esattamente il contrario.

Come d’altra parte è assurdo sostenere che, solo per il fatto di non aver lasciato nulla di scritto, determinate popolazioni possono essere considerate umanamente sottosviluppate. Noi oggi siamo talmente condizionati dalla scienza e dalla tecnica che non siamo più capaci di stabilire dei parametri qualitativi con cui indicizzare e monitorare l’umanità dell’uomo, a prescindere dai mezzi tecnico-scientifici che impiega.

Per noi l’essere umano è anzitutto l’homo technologicus, oltre il quale esiste solo l’homo animalis, assolutamente primitivo, ferino, come – a partire dal mondo greco-romano – si presumeva fossero le popolazioni cosiddette “barbariche”, disprezzate anche nel modo di parlare. Facciamo molta fatica ad accettare l’idea, per molti versi incredibilmente banale, di un sano relativismo storico.

In realtà sarebbe sufficiente rinunciare a tutto ciò che contraddice le esigenze riproduttive della natura, per capire che la nostra attuale civiltà è lontanissima dal potersi definire “umana”. Infatti è soltanto la natura che può farci capire l’essenzialità della vita. E se c’è una cosa che non possiamo permetterci, anche se all’apparenza sembra non essere così, è proprio quella di essere contro-natura, cioè di usare scienza e tecnica etsi daretur non esse naturam.

Qui non è più questione di destra o sinistra, di capitalismo o socialismo; la stessa tutela ambientale rischia di diventare un mero surrogato, se non si pone il problema di come uscire da un concetto di “civiltà” in base del quale noi oggi intendiamo cose del tutto innaturali e quindi inumane.

Quando gli storici prendono in esame i seguenti venti punti, non hanno dubbi da quale parte stare, o comunque un docente sa già a quale risposta porteranno gli interrogativi che dovrà porre allo studente, nel mentre insieme useranno il libro di testo. Ma dare per scontata una risposta a questi temi significa fare un torto alla ricerca storica.

1. La scrittura di pochi singoli ha sostituito la trasmissione orale di un popolo (interessi particolari hanno prevalso su interessi generali);
2. la vita urbana ha subordinato a sé quella rurale;
3. il valore di scambio ha prevalso su quello d’uso;
4. il mercato ha rimpiazzato l’autoconsumo;
5. la specializzazione del lavoro ha sostituito la capacità di saper fare ogni cosa utile a sopravvivere;
6. il lavoro intellettuale è decisamente prevalso su quello manuale;
7. con la scienza e la tecnica si vuole “dominare” la natura o la parte più debole, meno acculturata dell’umanità;
8. all’uguaglianza dei sessi è seguita la dominanza del maschio;
9. la proprietà privata domina su quella sociale;
10. la stanzialità ha sostituito il nomadismo;
11. l’esigenza del superfluo ha prevalso sui bisogni fondamentali;
12. l’idea di progresso prevalente è stata usata soltanto in relazione alla materialità della vita, al benessere economico ed è stata portata avanti da pochi contro molti;
13. s’è fatto coincidere, in maniera automatica, il livello di produttività di un paese col benessere sociale della popolazione; indici quantitativi hanno prevalso su quelli qualitativi; l’economico ha prevalso non solo sull’ecologico ma anche sul sociale;
14. l’io prevale sul collettivo;
15. la democrazia delegata ha sostituito quella diretta;
16. le amministrazioni statali hanno paralizzato l’autogestione o l’autogoverno delle popolazioni, e in generale lo Stato domina la società civile; si è voluto far credere che una maggiore statalizzazione significasse automaticamente una maggiore socializzazione;
17. le nazioni hanno sostituito le comunità di villaggio; abbiamo posto dei confini per stare separati;
18. ci si arroga il diritto di imporre alle nazioni più deboli i propri criteri di vita: non c’è confronto alla pari, rispetto della diversità, ma imposizione di un modello;
19. tutti i valori affermati (siano essi laici o religiosi) servono solo per assicurare questo stato di cose, cioè anche se i valori sembrano umani e conformi a natura, nella pratica producono il contrario;
20. le armi che servivano per cacciare ora possono distruggere l’intero pianeta.

Lo studio delle civiltà (IV)

Barbaro e civile

Quando trattano la storia dell’impero romano, pagano o cristiano che sia, gli storici sono abituati a considerare le popolazioni cosiddette “barbariche” nemiche non solo di questa specifica civiltà, ma anche della civiltà qua talis. Non vedono mai le distruzioni e le devastazioni operate dai “barbari” come una forma di negazione delle contraddizioni antagonistiche della civiltà romana e quindi come un tentativo di ricostruzione della “civiltà” su basi nuove.

Noi sappiamo che le civiltà individualistiche (che potremmo definire anche come quelle dello “sfruttamento”) hanno fatto a pezzi quelle collettivistiche: quest’ultime oggi sopravvivono a stento in posti remoti della terra e, per definizione, non fanno la “storia”.

Noi ovviamente non possiamo sostenere che le popolazioni cosiddette “barbariche”, che distrussero il mondo romano, fossero caratterizzate da un collettivismo analogo a quello del comunismo primitivo. Però possiamo dire che vivevano una forma di collettivismo sufficiente a far fronte all’ondata individualistica della civiltà romana. Se questa forma pre-schiavistica non avesse avuto sufficiente forza, l’impero romano non sarebbe crollato o per lo meno non l’avrebbe fatto in maniera così rovinosa.

Probabilmente proprio il continuo contatto con l’individualismo dei romani aveva permesso ai “barbari” di porsi nei loro confronti in maniera non ingenua, li aveva cioè indotti a trovare delle strategie utili alla propria difesa. Cosa che non è avvenuta da parte degli africani nei confronti delle potenze occidentali o da parte degli indiani d’America nei confronti degli europei.

Solo che questo continuo contatto non solo ha permesso ai “barbari” di comprendere le astuzie dei romani, ma ha anche prodotto un condizionamento negativo: infatti, una volta penetrati nell’impero, i cosiddetti “barbari” si sono sostituiti all’individualismo romano, limitandosi a mitigarne le asprezze (vedi p.es. il passaggio dallo schiavismo al servaggio, in cui però la proprietà feudale resta una forma di individualismo, essendo contrapposta a quella comune di villaggio).

Gli storici sono abituati a vedere la “civiltà” come un qualcosa che si basa su elementi prevalentemente formali: p.es. il valore delle opere artistiche e architettoniche, le espressioni linguistiche e comunicative, i livelli economici e commerciali raggiunti ecc. Tutti questi aspetti, che pur sono “strutturali” ad ogni civiltà, vengono visti in maniera esteriore o convenzionale, in quanto non ci si preoccupa di verificare il tasso di “umanità” in essi contenuto.

Nell’esame storico di una civiltà gli storici dei nostri manuali non riescono neppure a capire che non si possono giustificare i rapporti antagonistici tra le classi, facendo leva sul fatto che anche tra le fila delle classi dirigenti vi possono essere soggetti che provano sentimenti umani o che sono capaci di gesti di umanità, ecc. Così facendo si fa un torto a milioni di persone che vivono in condizioni servili, da cui non possono sperare di uscire confidando nei buoni sentimenti di chi rappresenta l’oppressione.

Noi dobbiamo rinunciare alla pretesa di sentirci assolutamente superiori a qualunque altro tipo di civiltà, di ieri di oggi e di sempre. Non abbiamo il diritto di porre una seria ipoteca per il futuro, solo perché non sappiamo immaginare soluzioni alternative allo status quo.

È pedagogicamente un’indecenza non riuscire a trovare uno storico che accetti almeno come ipotesi l’idea di considerare più “civili” proprio quelle esperienze tribali prive di tecnologia avanzata, di urbanizzazione sviluppata, di mercati e imprese produttive ecc. Nei manuali che usiamo un’esperienza “tribale” non appare tanto più “civile” quanto più “umana”, ma solo quanto più è vicina al nostro modello di sviluppo. Infatti quanto più se ne allontana, tanto più diventa, ipso facto, “primitiva”. E per noi occidentali il concetto di “primitivo” non vuol soltanto dire “rozzo e incolto” in senso intellettuale, ma anche in senso morale: il primitivo è un essere con poca intelligenza e con scarsa profondità di sentimenti, quindi non molto diverso da una scimmia. Tale rappresentazione dei fatti è semplicemente ridicola.

Se mettessimo a confronto i livelli di istintività con cui si reagisce a determinate forme di condizionamento sociale e culturale, ci accorgeremmo che noi “individualisti” siamo molto più vicini al mondo animale di quanto non lo siano stati gli uomini primitivi, che ragionavano mettendo l’interesse del collettivo sempre al primo posto. Una reazione istintiva di fronte alle difficoltà è tipica di chi è abituato a vivere la vita sotto stress, in stato di continua tensione, ai limiti del panico, sentendo tutto il peso delle responsabilità sopra le proprie spalle, senza possibilità di avere significativi aiuti esterni.

Questo per dire che il crollo di una civiltà non andrebbe di per sé giudicato negativamente, poiché bisogna sempre vedere se da questo crollo è sorta (o può sorgere) una civiltà superiore, e se questa superiorità s’è manifestata solo sul piano meramente formale della tecnologia, della scienza, dell’arte, dell’economia, dell’organizzazione politica ecc., o non anche invece sul piano dell’esperienza dei valori umani, sociali, collettivi.

P.es. nel passaggio dal mondo romano al feudalesimo sicuramente vi è stata un’evoluzione positiva nel tasso di umanità degli individui, in quanto si riuscì a sostituire lo schiavismo col servaggio. Tuttavia questa forma specifica di evoluzione non può essere analogamente riscontrata nel passaggio dal feudalesimo al capitalismo, in quanto esigenze collettive rurali sono state qui distrutte da esigenze individualistiche urbane.

Negli ultimi settant’anni si è creduto possibile che l’individualismo urbano del capitalismo potesse essere sostituito con il collettivismo urbano del socialismo amministrato dall’alto, ma il fallimento di questo risultato è stato totale. Ciò a testimonianza dell’impossibilità di creare una civiltà autenticamente “umana” limitandosi a cambiarne alcune forme. Non si può costruire un socialismo umanistico limitandosi semplicemente a socializzare la proprietà e la gestione dei mezzi produttivi.

Altri aspetti, generalmente dati per scontati, vanno riconsiderati: p.es. il primato della città sulla campagna, dell’industria sull’agricoltura, del lavoro intellettuale su quello manuale, della cultura sulla natura, dell’uomo sulla donna, della scienza sulla coscienza ecc.

Lo studio delle civiltà (III)

Civiltà e inciviltà

È singolare che ogniqualvolta i manuali di storia cominciano a trattare l’argomento delle “civiltà” partano da quelle “mediterranee”, come se l’intero pianeta ruotasse attorno a questo mare. Ma è ancora più singolare che quando trattano delle società pre-schiavistiche, anteriori quindi alle suddette “civiltà”, usino sempre il termine dispregiativo di “primitive” per definirle. Il concetto di “primitivo” non viene inteso tanto nel senso di “primordiale” quanto piuttosto nel senso di “rozzo”, “barbaro”, “incivile”… Non indica un tempo storico ma una condizione dell’esistere.

Per come lo usiamo noi occidentali, esso non è mai neutro o tecnico, ma esprime un concetto di valore vero e proprio, che a sua volta rappresenta un inequivocabile stato di fatto: in tal senso non è molto diverso da quello di “feudale” o “medievale”. “Primitivo” non è anzitutto “colui che viene prima”, quanto piuttosto “colui che non è civile”, e per “civile” noi occidentali, normalmente, intendiamo le civiltà che conoscevano la scrittura, il progresso tecnico-scientifico, un’organizzazione politica di tipo monarchico o repubblicano, fondata sulla separazione delle classi, un apparato amministrativo e militare molto sviluppato, una netta divisione dei lavori e delle proprietà… in una parola tutte quelle che conoscevano e praticavano lo schiavismo. “Civile” per noi è Ulisse, che mente, ruba e uccide; “primitivo” invece è Polifemo, che pascola tranquillamente le proprie capre.

I manuali di storia non hanno neppure il termine di “civiltà primitive”, proprio perché lo considerano un controsenso. Una popolazione pre-schiavistica non ha dato origine ad alcuna “civiltà”, proprio perché non ne aveva gli strumenti, le possibilità. Non a caso tutte le popolazioni nomadi vengono definite “tribù primitive”, mentre le popolazioni sedentarie vengono messe a capo della nascita delle “civiltà”. Quando i nomadi sconfiggono i sedentari, allora gli storici dicono che si ha un regresso nello sviluppo sociale, politico, culturale ecc.

Da questo punto di vista sarebbe meglio usare il termine “primitivo” come sinonimo di “rozzo”, “incivile” ecc., in riferimento a qualunque atteggiamento, di ogni epoca e latitudine, che risulti nocivo o agli interessi delle masse popolari o alla natura nel suo complesso. Per il nostro modo di saccheggiare le risorse naturali o di sfruttare il lavoro altrui noi occidentali siamo molto più “primitivi” degli uomini vissuti milioni di anni fa.

Al posto di “primitivo” o di “selvaggio”, per indicare le popolazioni più antiche, noi dovremmo usare termini come “originario”, “primordiale” o “ancestrale”. Sono “prime” non “primitive” quelle popolazioni esistite prima di noi, agli albori della nascita dell’uomo in generale e non tanto delle civiltà in particolare. Per indicare una popolazione noi non dovremmo usare dei termini che di per sé esprimono già dei giudizi valutativi.

Le popolazioni potrebbero anche essere suddivise in “stanziali” (o “sedentarie”) e “nomadi” (o “itineranti”), in “agricole” e “allevatrici”, senza che per questo ci si debba sentire in diritto di esprimere giudizi di valore su questa o quella forma di conduzione sociale della vita. I confronti sono sempre relativi.

Una popolazione che usa la scrittura non può essere considerata, solo per questo, più “civile” di quella che si basava sulla trasmissione orale delle conoscenze. Quando i legami tribali sono molto forti, la tradizione orale è più che sufficiente. Per milioni di anni gli uomini non hanno conosciuto la scrittura, ma non per questo la storia si è fermata.

La trasmissione orale delle conoscenze e delle esperienze offriva un certo senso della storia, utile alla conservazione e riproduzione del genere umano e dei suoi valori, secondo leggi di natura, anche se questa trasmissione era infarcita di elementi mitologici, favolistici, che costituivano la cornice fantasiosa di un quadro sostanzialmente realistico.

Non ha senso definire “barbare” le popolazioni che non si riconoscevano nella civiltà greco-romana: lo schiavismo è nato nella polys e non tra i barbari, che anche quando l’hanno praticato, non sono mai arrivati ad adottarlo come “sistema di vita”. Diamo dunque un nome alle popolazioni sulla base della loro provenienza geografica o sulla base delle caratteristiche linguistiche o religiose, ma non usiamo una terminologia comparativa che a priori considera più avanzato solo quanto tradizionalmente ci appartiene: oggi peraltro non sappiamo neppure quanto sia tipicamente “nostro” e quanto no.

Ogni popolazione può avere aspetti di grandezza e di miseria, quindi forme di civiltà e di primitivismo. Le forme di civiltà sono il tentativo di superare il proprio primitivismo. E in questi tentativi si compiono passi avanti ma anche passi indietro, poiché questo andirivieni fa parte della natura umana. Non esiste un vero progresso all’infinito, ma solo il fatto che si compiono scelte diverse, che impongono diverse consapevolezze, diverse forme di responsabilità. Non dimentichiamo che i peggiori crimini contro l’umanità noi li abbiamo compiuti nel XX secolo.

Lo studio delle civiltà (I)

Premessa

Forse a questo punto si è capito che un manuale di storia dovrebbe essere impostato non solo come occasione per fare ricerche sul campo, ma anche come stimolo a capire che lo studio delle forme di civiltà è il terminus a quo e ad quem di ogni indagine storica. Oggetto particolare d’interesse dovrebbero essere le trasformazioni di una civiltà in un’altra.

La nostra stessa civiltà – che è quella borghese o capitalistica (anche se la borghesia la definisce con altri termini: p.es. “democratica”, “liberale”, “industriale” o addirittura “post-industriale”, “tecnologica”, “mediatica”, “terziaria”, sino a quelli più generici come “avanzata”, “complessa” ecc.) – andrebbe studiata in rapporto a ciò che l’ha preceduta e anche in rapporto a ciò che potrebbe superarla o sostituirla. In tal modo se ne capirebbero meglio i pregi e i difetti.

Invece gli storici fanno il processo inverso: considerano la nostra civiltà come il metro di paragone di tutte le altre, le quali inevitabilmente vengono viste in maniera distorta. È vero che lo storico non è un politico, ma è singolare che non riesca a vedere i limiti del nostro presente, né sia in grado di proporre alcuna soluzione di carattere generale per le sue gravi contraddizioni.

Nel 1966 uscì a Parigi il libro di J. Maquet, Les civilisations noires, in cui si faceva chiaramente capire che il termine “civiltà” andava usato sensu lato, come sinonimo di “cultura avanzata”, donde le nozioni di “civiltà neolitica”, “civiltà pastorale” ecc. Ebbene, nonostante sia passato un quarantennio, ancora oggi i manuali scolastici di storia usano il termine di “civiltà” per indicare tutto ciò che è “storico”, in contrapposizione alla “preistoria”. Il prefisso “pre” non sta semplicemente ad indicare una precedenza temporale, ma una limitatezza semantica.

Infatti, fa parte della “civilizzazione” quanto soprattutto ha contribuito, anche indirettamente, allo sviluppo della odierna “civiltà borghese”, unanimemente considerata dai redattori di questi manuali al vertice di tutte le civiltà.

D’altra parte anche molti storici stranieri delle civiltà la pensano così: p.es. R. McCormick Adams, The Evolution of Urban Society (Chicago 1966); C. Renfrew, The Emergence of Civilization (London 1972); K. V. Flannery, The Cultural Evolution of Civilization in “Annual Review of Ecology and Systematics” (n. 3/72); G. Daniel, The First Civilizations (London 1968); Ch. L. Redman, The Rise of Civilizations (San Francisco 1978). Tutti questi storici, chi più chi meno, collegano la civiltà alla società classista, cioè al sistema di stratificazione sociale dei ceti e delle classi, a una delimitazione precisa del territorio, a un’organizzazione statale sufficientemente sviluppata, alla divisione avanzata del lavoro ecc. E tutti ritengono la “nostra civiltà” la migliore in assoluto.

È così difficile accettare l’idea di considerare “relative” le civiltà? Cioè pensarle nei loro aspetti positivi e negativi, aventi in sé elementi di successo e di sconfitta? È strano che gli storici, abituati come sono a studiare l’evoluzione delle cose, non siano capaci di applicare il concetto di “relativismo” alla stessa civiltà in cui vivono.

Certo, nel momento in cui si è contemporanei a una determinata civiltà, si pensa inevitabilmente ch’essa sia la migliore o che debba durare il più a lungo possibile; tuttavia, è proprio lo studio della storia che dovrebbe risparmiarci queste pie illusioni.

Le civiltà nascono, si sviluppano e muoiono – e così sarà anche per la nostra. Ecco perché bisognerebbe cercare di porre sin da adesso le fondamenta della civiltà prossima a venire. Se gli uomini si sentissero parte della storia di un popolo, che vive attraverso varie civiltà, forse non attribuirebbero a se stessi delle qualità che non hanno e che non possono avere.

Le costanti nello studio della storia

Uno storico dovrebbe trovare delle costanti nelle vicende storiche mondiali, tali per cui una persona qualunque sia indotta a credere nella possibilità di una lettura obiettiva a prescindere dall’analisi dettagliata dei particolari della singola vicenda; o, se vogliamo, l’analisi delle vicende storiche dovrebbe poter servire, fatta salva l’individuazione delle costanti, come concreta dimostrazione paradigmatica della fondatezza di quest’ultime.

È possibile trasformare la storia in una sorta di “scienza esatta”? No, non è possibile, poiché qui si ha a che fare con gli esseri umani, che sono infinitamente più complicati di Deep Blue, il primo computer della storia a vincere una partita a scacchi contro il campione del mondo in carica. Tuttavia, se è possibile dimostrare che esistono delle costanti nello sviluppo degli avvenimenti di qualunque luogo e tempo, lo studio di questi avvenimenti può in un certo senso essere decontestualizzato, e finalmente si può affrontare uno studio della storia per concetti, dove la contestualizzazione serve solo per giustificare la diversità delle forme e dei modi.

L’idea in sostanza è quella di permettere che l’astrazione vada oltre la realtà contingente, affinché si possa avere una visione d’insieme, olistica, di un intero periodo storico o di una o più civiltà. In tal modo, aumentando il livello di astrazione, è possibile elaborare le linee di un’interpretazione della storia mondiale dell’uomo.

Per arrivare a definire le leggi scientifiche degli avvenimenti storici, cioè le costanti che si diversificano solo negli aspetti di forma e non di sostanza, occorre stabilire una visione sinottica o comparativistica delle civiltà ed estrapolare dalle vicende le linee di tendenza che nell’essenza si ripetono. Se arriviamo ad elaborare delle leggi scientifiche, oggettive, che tengano in considerazione non solo la categoria della necessitàma anche quella della libertà, che è tipica dell’essere umano, non ci sarà avvenimento storico che non potrà non essere adeguatamente interpretato.

È difficile però accettare l’idea che la scientificità possa basarsi sulla categoria della libertà. La mutevolezza delle scelte umane sembra escludere a priori un esame scientifico degli avvenimenti; eppure bisogna convincersi che la legge scientifica della corrispondenza tra azione e reazione si può in qualche modo applicare anche ai comportamenti umani. Il problema semmai è definire che cosa è “umano” e che cosa non lo è.

In una storia del genere le responsabilità dello svolgersi degli avvenimenti ricadono su intere popolazioni e non esclusivamente sui loro rappresentanti istituzionali o ufficiali. Il singolo rientra nel concetto di comunità. Questo non significa “una storia senza soggetto” (come voleva Althusser), ma semplicemente che la storia viene fatta non tanto da individui singoli, quanto dalle masse, con differenti livelli di responsabilità.

Il problema comunque è sempre quello di come uscire dal nozionismo e di come fare ricerca storica o, se si vuole, di come sfruttare la cognizione delle leggi storiche per fare opera di riflessione culturale e politica, utile per il presente. È fuor di dubbio infatti che lo studio olistico della storia ha senso solo se aiuta a vivere meglio il presente o a meglio comprenderlo.

Noi possiamo eliminare lo studio nozionistico dei dettagli di ogni singola civiltà, per concentrarci sulle costanti, sulle linee di fondo trasversali a tutte le civiltà, o meglio, a tutte le formazioni sociali, di cui le civiltà sono una, non l’unica, espressione (a meno che non si voglia intendere col concetto di “civiltà” una qualunque formazione sociale, anche primitiva o comunque non basata sullo schiavismo o sul servaggio: resta curioso infatti che tutti gli storici non usino il concetto di “civiltà” per descrivere l’uomo primitivo).

Possiamo insomma eliminare lo studio dei dettagli per concentrarci sullo studio dei fondamenti strategici di una civiltà, ma resta sempre il problema di come trasformare la conoscenza di questi fondamenti in uno stimolo per la crescita personale e per lo sviluppo della società in cui si vive.

Facciamo un esempio molto concreto. Con due semplici categorie: libertà di coscienza e proprietà (pubblica e privata) noi siamo in grado d’interpretare tutta la storia del genere umano. Le varie combinazioni di questi due elementi (ognuno dei quali è di una certa complessità), possono essere un’occasione ghiotta per gli storici che vogliono rinunciare alle forme tradizionali dell’interpretazione storiografica occidentale.

Praticamente le uniche condizioni metodologiche da rispettare, per affrontare un’indagine storica partendo soltanto da questi due elementi, sarebbero le seguenti:

1. non parteggiare per alcuna religione in particolare;
2. non avere pregiudizi nei confronti delle idee del socialismo;
3. tenere i due elementi in questione (libertà di coscienza e proprietà) sempre interconnessi, dando per scontata la loro reciproca influenza;
4. escludere a priori che all’aumento o al diminuire dell’uno corrisponda in maniera meccanica l’aumento o il diminuire dell’altro: ciò in quanto esiste fra loro una relativa autonomia;
5. escludere a priori che l’affermazione di uno dei due elementi porti automaticamente all’affermazione dell’altro: ciò in quanto ognuno dei due elementi, per poter essere affermato, presuppone determinati aspetti teorici e pratici, ovvero un certo percorso culturale e un certo impegno sociale e politico, entrambi sia in forma individuale che collettiva;
6. i due elementi (proprietà e libertà di coscienza) vanno collegati alla concezione che gli uomini hanno del loro rapporto con la natura. Cioè non è detto che la migliore realizzazione dei due elementi non possa risultare in contraddizione con le esigenze riproduttive della natura. L’effettiva compatibilità tra uomo e natura non può essere dimostrata solo dal punto di vista “umano”. Francesco d’Assisi, p.es., per diventare “uomo di natura” si sentì in dovere di diventare “nudo come Cristo nudo”.

Insomma ormai non è più importante sapere tutto di tutto. Se proprio ne abbiamo bisogno, possiamo usare i cd enciclopedici o il web. In una società o civiltà ove viene richiesta una particolare specializzazione per sopravvivere dignitosamente, la “tuttologia” è una scienza del tutto inutile. Semmai abbiamo bisogno di flessibilità, cioè di passare velocemente da una competenza all’altra, per poter svolgere mansioni diversificate, e a tale scopo la padronanza delle metodiche, delle strategie è di fondamentale importanza per acquisire nuove conoscenze e abilità.

Una storiografia olistica e planetaria (III)

La mondializzazione della storia

Il concetto di “storia olistica” è diventato tanto più importante quanto più è venuto imponendosi, in questi ultimi anni, quello di “storia mondiale”, a seguito della pressante globalizzazione dei mercati, cui ha fatto seguito, a livello scolastico nazionale, un massiccio flusso migratorio di studenti stranieri, provenienti da ogni parte del pianeta.

Forse alcuni di noi ricordano ancora le polemiche emerse dalla proposta che fece la Commissione De Mauro (2002) di voler introdurre l’insegnamento della storia mondiale, riprendendo i temi dibattuti in occasione del convegno di Oslo 2000 organizzato dal Comitato Internazionale delle Scienze storiche. Oggi, a fronte di una presenza straniera di studenti nella scuola del primo ciclo d’istruzione superiore al 10%, quelle polemiche come minimo apparirebbero pretestuose.

Eppure, nonostante questo, non si può certo dire che la globalizzazione abbia indotto gli storici e i pedagogisti nazionali a perorare con forza la causa di un affronto della storia con criteri sempre più globali, olistici e sostanzialmente per grandi categorie interpretative. Come al tempo della Commissione De Mauro “quasi tutti gli storici che hanno accesso ai mass media si schierarono contro quel curricolo, criticandone soprattutto l’impostazione mondiale, che a loro avviso tradiva la funzione primaria dell’insegnamento della storia, che doveva essere quella di far conoscere l’identità della propria civiltà, della nazione e della comunità civile alle quali si appartiene”, così, al tempo delle “Indicazioni nazionali” della Moratti i medesimi storici non ebbero nulla da dire sul marcato eurocentrismo giudaico-cristiano ch’esse esprimevano”. Così si esprime Luigi Cajani in una lunga intervista apparsa nel sito www.storiairreer.it, dal titolo Dalle storie alla storia e dalla storia alle storielle.

Il fatto di non riuscire a tener conto dei tempi che mutano è sintomatico di due gravi difetti, tipici del nostro paese: uno riguarda la società civile nel suo complesso ed è la miopia politica, che non ci fa vedere quanto tutti noi siamo immersi in processi di mondializzazione che rendono culture e civiltà tra loro alquanto relative; l’altro invece riguarda il mondo degli intellettuali, dei formatori in generale e della scuola in particolare, ed è la pigrizia mentale, che non ci aiuta, p.es., a riscrivere i manuali di storia usando impostazioni di metodo generale non etnocentriche, non caratterizzate da una netta prevalenza di primati nazionali, europei e occidentali in genere.

Se i nostri manuali di storia, in riferimento al tema di una storiografia mondializzata, fossero soltanto “lacunosi”, a motivo di una mancanza di conoscenze approfondite e didatticamente mediate, il gap sarebbe umanamente comprensibile, ancorché sempre meno culturalmente giustificabile. Il fatto è invece che detti manuali spesso associano la lacuna al “pregiudizio”, in quanto non si astengono dal giudicare negativamente quelle realtà il cui sviluppo non proviene direttamente dalla nostra civiltà tecno-scientifica e mercantile.

Non solo, ma i pregiudizi riferiti alle aree geografiche non occidentali o non europee, finiscono con l’estendersi a quelle stesse epoche dell’Europa non espressamente vocate alle attività dello scambio commerciale (il Medioevo, p.es., continua a restare “buio”; termini come “illetterato” e “barbaro” si possono tranquillamente interscambiare; il cacciatore-raccoglitore resta un “primitivo” e il nomade è sicuramente molto più indietro del sedentario).

Sicché persino di tutta la storia europea pre-moderna, gli storici dei manuali scolastici tendono a salvare in toto soltanto il periodo greco e soprattutto romano, in quanto – viene detto – incredibilmente somigliante al nostro, che è quello che va dalla scoperta dell’America ad oggi, cui – se si prende in esame la sola Italia – occorre aggiungere altri 500 anni, in relazione alla nascita dei Comuni borghesi.

È molto difficile pensare, in condizioni del genere, che possa emergere dagli autori dei manuali scolastici una lettura obiettiva, equilibrata, dei processi storici mondiali, i quali, in maniera sintomatica, vengono fatti iniziare soltanto a partire dal momento in cui l’homo sapiens (che “sapiens” era anche prima che noi lo chiamassimo così) ha fatto la sua comparsa sulla terra.

Finché si guarda il passato con gli occhi del presente, o il diverso da noi con quelli dell’imprenditore industriale o del commerciante affarista, sarà impossibile che gli studenti stranieri delle nostre classi possano trovare soddisfazione alle loro identità (prevalentemente di origine rurale) o possano anche soltanto vagamente capire i motivi non contingenti che li hanno indotti a trasferirsi da noi.

La visione della realtà oggi non può privilegiare alcun aspetto particolare: occorre un affronto “globale” delle cose, capace di “integrare” tutti i settori della vita sociale, culturale e politica, da considerarsi in maniera “paritetica”. “Storia globale” non vuol dire “sapere di tutto un po’“, cioè conoscere qualcosa anche di quelle realtà lontane da noi mille miglia, nello spazio e nel tempo. Significa in realtà dover pensare i processi come se appartenessero a uno svolgimento mondiale.

Oggi i processi sono mondiali perché esiste una “globalizzazione” imposta dall’occidente, che ha fatto diventare “capitalistica” la parte più significativa del pianeta. Ma erano mondiali anche al tempo dell’uomo cosiddetto “primitivo”, allorquando nei confronti della natura e dello stesso genere umano si sperimentavano esperienze di vita sostanzialmente analoghe, senza per questo che le varie tribù, etnie, popolazioni fossero tra loro in contatto.

Bisogna dunque stabilire quali sono stati i processi sviluppatisi a livello mondiale in modo spontaneo o indotto dalla forza degli eventi, quali hanno maggiormente contribuito alla mondializzazione della storia umana, alla consapevolezza di appartenere con dignità a un percorso comune, e quali invece hanno ostacolato questa forma di consapevolezza.

Se guardiamo lo schiavismo, non possiamo dire con sicurezza che questo fenomeno sociale, benché presente su latitudini e longitudini molto diverse tra loro, abbia riguardato l’intero pianeta. Probabilmente il servaggio, implicando meno guerre sanguinose tra le popolazioni per ottenere schiavi da sfruttare, ha potuto diffondersi più facilmente nel mondo.

Ma è stato incomparabilmente il lavoro salariato, creato dal capitalismo con l’avallo del cristianesimo, a diffondersi in maniera planetaria, subordinando a sé le altre forme di sfruttamento del lavoro. È impossibile fare “storia globale” senza sapere che la principale civiltà antagonistica della storia del genere umano è anche quella che impedisce alla stragrande maggioranza della popolazione di sentirsi parte attiva di un processo comune.

Una storiografia olistica e planetaria (II)

Storia e Tecnologia

Approfittiamo dell’occasione per aprire una piccola parentesi dedicata ai rapporti tra storia e tecnologia. Se ci facciamo caso, nei nostri manuali di storia quasi neppure esiste una “tecnologia medievale”. Una vera e propria “storia della tecnologia” nasce solo in epoca moderna, soprattutto a partire dal torchio per la stampa.

Se si vuole avere una conoscenza dello sviluppo storico della tecnologia bisogna andarsi a leggere i manuali di educazione tecnica, dove si viene p.es. a scoprire che nel Medioevo furono introdotte due innovazioni fondamentali per quella che diventerà la moderna meccanizzazione della filatura: la conocchia lunga e soprattutto la ruota per filare. Quando, intorno al 1770, furono inventate le prime macchine inglesi per filare: la “jenny” di Hargreaves, la “water frame” di Arkwright e la “mula” di Crompton, tutte imitavano i filatoi intermittenti e continui del Medioevo, moltiplicandone soltanto il numero dei fusi.

Il telaio orizzontale, di derivazione egizia, usato in Europa sino alla fine del Settecento, era già perfettamente funzionante nel Medioevo e soddisfaceva in pieno le esigenze di un’intera famiglia.

Eppure nei libri di storia la “modernità” non viene associata al fatto che il singolo tessitore era in grado di fare tutto ciò che gli serviva al telaio, ma viene associata al fatto che con l’invenzione del telaio meccanico si poteva ottenere molto di più in molto meno tempo, il che permetteva di arricchirsi facilmente vendendo i prodotti sul mercato: negli anni ’20 dell’Ottocento una bambina che controllava due telai meccanici poteva produrre fino a 15 volte di più di un abile artigiano casalingo.

Peccato che in questa analisi non si sottolinei mai con la giusta enfasi che l’unico soggetto veramente in grado di arricchirsi era non il lavoratore diretto ma il proprietario del mezzo di produzione.

E se si passa dai tessuti al legno il discorso non cambia. Stando ai manuali di storia medievale si ha un’impressione alquanto negativa sul modo di usare il legno da parte della civiltà che trattano: tutte le popolazioni infatti non facevano altro che tagliare e tagliare, costringendo poi la modernità a passare al carbone (quelle di origine “barbarica”, essendo prevalentemente nomadi, addirittura “tagliavano e bruciavano”).

Ora, se è vero che il legno nel Medioevo era la base di tutto (esattamente come oggi in buona parte della bioedilizia), è anche vero che nella produzione di mattoni, ceramica, vetro e nell’uso della pietra naturale si erano ereditate tradizioni antichissime, perfezionandole ulteriormente, al punto che non si aveva affatto bisogno di utilizzare materiali che non fossero naturali.

Acciaio, cemento armato, materie plastiche…: per millenni s’è andati avanti senza l’uso di queste false comodità e false sicurezze e soprattutto senza la necessità di dover far pagare interamente il loro prezzo alla natura.

Che poi non è neppure esatto dire che nell’antichità pre-industriale gli uomini non fossero capaci d’inventarsi materiali non naturali: quello che mancava era l’esigenza di farli diventare il perno attorno a cui far ruotare tutto il progresso (come oggi alcuni vorrebbero fare col nucleare in sostituzione del petrolio). L’acciaio, p.es., era già conosciuto dai fabbri ferrai della tribù armena dei Chalybi nel 1400 “avanti Cristo”.

Ma perché meravigliarsi di questo quando anche in tutti i manuali di storia dell’arte si associa l’idea di “modernità artistica” all’uso della prospettiva, facendo di quest’ultima un’invenzione della mentalità razionale dell’occidente borghese? È da tempo che si sa che la prospettiva geometrica era già conosciuta nel mondo bizantino, che però si rifiutava di adottarla come canone stilistico, in quanto riteneva spiritualmente più profonda la cosiddetta “prospettiva inversa”, con cui si mettevano in risalto le qualità interiori dei soggetti rappresentati.

Ma viene addirittura da sorridere quando i manuali medievali sono costretti ad ammettere che la bardatura moderna del cavallo, quella col collare rigido di spalla, in uso ancora oggi, non fu inventata nell’evoluto mondo greco-romano, che usava il cavallo più che altro nelle battaglie, ma nel Medioevo, che aveva bisogno d’usarlo come potenza di traino nei trasporti e nei lavori agricoli. Viene da sorridere, amaramente, perché, dicendo questo, evitano poi di aggiungere che tale progresso tecnico fu causato non semplicemente da un’esigenza astratta o generica di produttività ma proprio dalla trasformazione dello schiavo in servo (gli schiavi non avevano alcun interesse a migliorare la tecnologia che usavano, anzi gli stessi proprietari romani ne ostacolavano lo sviluppo, temendo ch’esso potesse abbassare il valore della forza-lavoro acquistata a caro prezzo sui mercati).

In ogni caso, se proprio si vuole considerare la meccanica o la metallurgia una scienza fondamentale per lo sviluppo dell’idea di “progresso”, ebbene si dica anche, contestualmente, ch’essa venne messa al servizio di esigenze tutt’altro che naturali, come p.es. le guerre di conquista. È forse un caso che l’idea di “imperialismo” trovò il suo compimento solo dopo che, intorno al 1850, era stata inventata la maggior parte delle macchine utensili moderne? Ed è forse un caso che si possa parlare soltanto di “colonialismo” almeno sino al 1770, periodo in cui le macchine per lavorare i metalli erano molto simili a quelle usate nel Medioevo?

Tutti i libri di storia, invece di chiedersi se nell’uso naturalissimo della forza umana (che tale è rimasto sino al 1800) non ci fossero elementi innaturali che si dovevano rimuovere senza per questo rinunciare a quella tipologia di lavoro (che al massimo si serviva dell’aiuto degli animali) – e questi elementi innaturali sappiamo benissimo ch’erano quelli dello sfruttamento indebito del lavoro altrui -, preferiscono sostenere la tesi della necessità di passare dalla forza muscolare e animale a quella meccanica e industriale, proprio perché in questo passaggio estrinseco, di forme esteriori, si è realizzato, sic et simpliciter, un progresso “qualitativo” nella condizione di vita dei lavoratori.

Gli stessi manuali di educazione tecnica, quando analizzano l’evoluzione della tecnologia nella storia, danno per scontata la medesima necessità, che è poi quella che ha portato alla odierna meccanizzazione; sicché la storia dello sviluppo della tecnologia che presentano, appare come dettata da una semplice esigenza di maggiore produttività o di maggiore comodità, oppure dall’esigenza di passare a fonti energetiche più convenienti, perché più facilmente reperibili.

Non viene mai collegato tale sviluppo con la necessità di trasformare i rapporti di sfruttamento del lavoro. Lo sviluppo della tecnologia viene evidenziato come un merito specifico dell’Europa occidentale, la quale, se anche in taluni casi, adottò scoperte, invenzioni, sistemi di lavorazione elaborati in oriente, fu comunque la prima a universalizzarli, implementando la produzione in serie di merci vendibili sul mercato.

È in questo senso incredibile che, pur essendo passati ormai due secoli dalle primissime analisi del socialismo utopistico, nei nostri manuali scolastici ancora non si riesca a connettere in maniera organica e strutturale le storie dei due sviluppi fondamentali della nostra epoca: quello tecnologico e quello capitalistico.

Una storiografia olistica e planetaria (I)

Oggi la storiografia è destinata a diventare planetaria, a interessarsi delle vicende di popolazioni mondiali. La stessa storia italiana ha molto più senso in una prospettiva che vede il nostro paese come parte dell’Occidente, componente del capitalismo avanzato, membro dell’Unione Europea.

Una storia dell’Italia fine a se stessa ha davvero poco senso. Tanto più che il nostro paese è da qualche tempo oggetto di forte immigrazione. Interessa poco agli stranieri che frequentano corsi di alfabetizzazione o di licenza media, le diatribe tra Cavour, Garibaldi e Mazzini, solo per fare un esempio.

Si è costretti a parlare di macro-problemi, come in geografia si è costretti a parlare di macro-aree (le singole regioni italiane si studiano solo alle Elementari). Mai come in questo momento è tornata di attualità la ripartizione schematica delle varie formazioni socio-economiche apparse nella storia dell’umanità, e cioè comunità primitiva, schiavismo, servaggio, capitalismo e socialismo.

Sulla base di queste categorie generali si può affrontare qualunque argomento di storia. Tutto il periodo delle civiltà antiche, mediterranee e non, può rientrare facilmente nella categoria economica dello schiavismo, per quanto vi sia stata una sua riproposizione in Africa e nelle Americhe dal XVI al XIX sec., a motivo del fatto che il razzismo culturale (in questo caso di matrice cattolico-protestante), tipico dei paesi euro-occidentali, può risorgere dalle ceneri come l’araba fenice, se non incontra resistenze di un certo spessore.

Anche questo comunque ci aiuta a capire che tutto va visto in maniera trasversale. Non più un prevalente ordine cronologico degli avvenimenti, ma un organico ordine tematico, in cui, pur senza tralasciare il dio Chronos, varie epoche e civiltà vengono messe costantemente a confronto, come gli esegeti fanno coi vangeli sinottici.

Lo stesso concetto di “nazione” diventa quanto mai obsoleto. I fenomeni migratori hanno spezzato i confini geografici stabiliti dalla borghesia sin al suo esordio come classe egemone. Il mondo è un villaggio globale, reso tale non solo virtualmente dagli scambi mediatici (di cui il web ne costituisce oggi la quintessenza), ma anche fisicamente dagli stessi flussi migratori, i quali, a loro volta, sono frutto della globalizzazione degli scambi commerciali del capitalismo mondiale, quegli scambi che portano progressiva ricchezza ai paesi tecnologicamente e militarmente avanzati, e progressiva miseria ai paesi del Terzo Mondo, salvo le eccezioni della cosiddetta “Cindia” (Cina+India), in cui gli enormi tassi di crescita dello sviluppo vengono fatti pagare da un lavoro massacrante il cui costo materiale, per il capitale investito, è incredibilmente irrisorio: il che provoca squilibri non solo sul versante dei diritti umani e civili ma anche su quello della perequazione socioeconomica, in quanto del cosiddetto “sviluppo a marce forzate” non si avvantaggiano certamente le popolazioni rurali o quelle poco qualificate.

Stiamo assistendo, su scala planetaria, a un fenomeno analogo a quello accaduto nel corso dello sviluppo dell’impero romano, allorché il concetto di “cittadinanza romana” doveva necessariamente estendersi a popolazioni che di “romano” o di “latino” non avevano nulla, ma che non per questo avrebbero potuto essere meno utili agli interessi di dominio e, a un certo punto, di mera sopravvivenza dell’impero.

La stessa rivoluzione tecnico-scientifica andrebbe studiata come una secante della storia socio-economica e non come un capitolo a parte, poiché in tutte le civiltà antagonistiche la scienza e la tecnica sono sempre state al servizio dei potentati economici (il profitto) e politico-militari (la guerra), e solo secondariamente o successivamente hanno riguardato il mondo del lavoro (il bisogno).

Nei manuali scolastici di storia non s’incontrano quasi mai rilievi critici sullo sviluppo della tecnologia, in grado di mettere in evidenza aspetti positivi e negativi (l’arretratezza tecnologica di un paese rispetto a un altro viene sempre vista negativamente, il che, anche alla luce della moderna ecologia, non ha alcun senso). Nei manuali che usiamo è rarissimo trovare una critica dei criteri o delle motivazioni sulla base delle quali è nata e si è sviluppata la moderna tecnologia. Questa viene considerata alla stregua di un totem da adorare. Non si mette mai in discussione (neppure quando si studia il passato) il rapporto di dominio tra uomo e natura mediato dallo strumento tecnologico: sarebbe come violare un tabù ancestrale.

Eppure abbiamo avuto e continuiamo ad avere esempi pericolosi per tutto il pianeta, disastri che si verificano lontano da noi ma che ad un certo punto ci coinvolgono come fossero successi sotto casa nostra: si pensi ai fatti di Cernobyl del 1986, ma anche agli sversamenti di petrolio nel mare, alla progressiva desertificazione dei terreni coltivati chimicamente o soggetti a deforestazione, alle piogge acide, ai devastanti test o incidenti nucleari, al buco dell’ozono.

Nonostante ciò tutti noi siamo convinti che la scienza e la tecnica siano in grado di risolvere i problemi che loro stesse contribuiscono a creare. Oggi non abbiamo dubbi nel credere che in occasione di conflitti bellici si possano tranquillamente bombardare intere città nella convinzione che la ricostruzione verrà fatta molto velocemente. Non si mette mai in discussione l’enorme spreco di risorse, anzi, si sostiene che tale spreco è un incentivo alla produzione e quindi al consumo.

Sul concetto di storia

Abbiamo parlato di come schematizzare astrattamente il significato degli eventi storici formulando delle categorie generalizzanti, sufficientemente chiare nella loro paradigmaticità e sufficientemente valide per la storia complessiva del genere umano, e, a titolo esemplificativo, abbiamo proposto una comparazione teorica tra due forme di civiltà: quella feudale e quella borghese.

Ora, se davvero vogliamo universalizzare il concetto di storia, cioè se vogliamo che nelle scuole e nella società s’impari a capire qual è la storia del genere umano, è necessario anzitutto eliminare i riferimenti privilegiati alle persone, in quanto i cosiddetti “protagonisti” della storia altro non sono che esponenti di un movimento di idee, culture o tradizioni.

La singola persona è parte di un tutto. Anche un leader politico non può essere considerato più importante della corrente di pensiero cui egli appartiene, anzi la sua importanza è direttamente proporzionale al grado di coinvolgimento personale in una causa per il bene comune.

È vero che a volte certe persone concentrano su di loro lo svolgimento di interi periodi storici, come se in un piccolo microcosmo umano fosse racchiusa l’essenza dello sviluppo di un macrocosmo storico. La storia però non ha conosciuto tante persone di questo genere, anche se quelle che ha conosciuto hanno lasciato indubbiamente un segno indelebile, tanto che può capitare, passato un certo periodo di tempo, in cui quelle persone erano state come dimenticate, un ritorno improvviso alle loro idee, dando ad esse nuove interpretazioni, che riprendono quelle precedenti aggiungendo particolari inediti e innescando così nuovi sviluppi. Si pensi solo alla riscoperta medievale dell’aristotelismo o del “Cristo povero” da parte dei movimenti pauperistici ereticali.

Questo probabilmente avviene perché l’essenza dell’uomo, in ultima istanza, è univoca: cambiano solo le forme, le circostanze, l’ambiente in cui essa deve muoversi. Dal confronto con modalità diverse nasce l’esigenza di riformulare le idee di un tempo.

Ma questo non ci esime dal compito di contestualizzare l’azione di queste singolari persone, né ci può indurre a credere ch’esse fossero per i loro contemporanei come piovute dal cielo. Ognuno di noi è rigorosamente figlio del proprio tempo ed è proprio per questa ragione che la storia va appresa per concetti generali, per categorie astratte di pensiero (politico, economico, sociale, culturale…), comprensibili da parte di chiunque, ovunque si trovi. Quanto più s’impone il senso di appartenenza globale al pianeta, cioè a una storia comune, tanto più occorre riscrivere il percorso di questa storia.

“Al centro di una storia che voglia essere ‘globale’ non sta più lo sviluppo delle singole civiltà, ma si pongono invece i loro rapporti, i loro incontri e scontri, i loro scambi, le trasformazioni che il contatto con altre civiltà induce in ognuna di esse”(1). È una prospettiva “relazionistica” non “sommativa”.

Sarebbe anzi molto interessante vedere come p.es. gli ideali di un qualunque leader rivoluzionario siano stati in realtà già formulati da parte di correnti di pensiero, movimenti di opinione di altre epoche e latitudini del tutto sconosciute a quel leader. Bisogna abituarsi all’idea di considerare l’essere umano come un soggetto universale, con bisogni e caratteristiche universali. Se un individuo si sente parte di un cosmo, di una realtà infinitamente più grande di lui, è più disposto a rinunciare al proprio personalismo.

La storia dunque va studiata in maniera trasversale. P.es., un concetto come la democrazia sociale, obiettivo di ogni vera politica, come si è sviluppato in questo o quel paese di qualsivoglia periodo storico? Nel Medioevo non si parlava di “democrazia”, ma saremmo degli sciocchi a sostenere che non ve n’era solo perché non se ne parlava (eppure tutti i manuali scolastici parlano di “secoli bui”, di grande arretratezza rispetto al mondo greco-romano ecc.). Nella Grecia classica si parlava di democrazia tutti i giorni, eppure nessuno ha mai messo in discussione l’istituto della schiavitù, neppure grandissimi filosofi come Platone e Aristotele.

Tempo e spazio diventano relativi, poiché vanno ricondotti al fatto che l’essere umano è unico in tutto il pianeta e che le differenze che ci caratterizzano sono soltanto di forma. Bisognerebbe stabilire sul piano concettuale una sorta di percorso evolutivo dell’umanità, che è passato per determinate fasi, comuni a molte civiltà: comunismo primitivo, schiavismo, servaggio, lavoro salariato, socialismo amministrato…, e cercare di vedere in che modo queste fasi sono state vissute da questo o quel paese, di questo o quel periodo.

Lo stesso concetto di “nazione”, che oggi consideriamo come “naturale”, diventerebbe molto circostanziato: meglio sarebbe parlare di “civiltà”, la cui cultura dominante è sufficientemente omogenea ma i cui confini geografici sono inevitabilmente meno definiti.

La storia non può essere studiata in maniera cronologica-lineare-sequenziale, partendo da un’arbitraria prevalenza concessa a questa o quella zona geografica o a questa o quella civiltà. È la storia del genere umano, della specie umana, che va studiata, secondo delle linee evolutive in qualche modo verificabili e dimostrabili, appunto perché costanti, ricorrenti.

Non lo sanno gli storici che la comparazione internazionale sprovincializza, rendendo meno angusti gli ambiti locali e nazionali, al punto che ci sente “cittadini del mondo”? O forse ritengono, ingenuamente, che i processi della globalizzazione non andranno mai a influenzare in maniera decisiva l’impostazione di fondo delle ricerche storiche condotte in occidente?

Nei prossimi decenni l’unica ricerca storica possibile sarà quella “comparativistica”, cioè quella che metterà a confronto, in maniera olistica, integrata, globale, soltanto i grandi eventi della storia, le grandi trasformazioni epocali, di breve e di lungo periodo, che hanno caratterizzato, in momenti diversi e con diversa gradazione e intensità, popolazioni geograficamente molto distanti tra loro. Tutta la periodizzazione storica cui noi occidentali siamo abituati, andrà abbondantemente riveduta e corretta.

Quanto più ci mondializziamo, tanto più dobbiamo rinunciare all’idea che esista un “centro” da usare come punto di riferimento per osservare la “periferia”. L’esigenza di una “storia mondiale” ci sta entrando in classe ogni giorno che passa e la vediamo nei volti dei nostri ragazzi immigrati.

La storia globale va vista come un gigantesco intreccio di fattori culturali, sociali, economici, politici, in cui la stessa nozione di civiltà, che fino ad oggi è stata usata non per unire ma per dividere, dovrà essere sostituita con quella di “macroaree geografiche tangibili”, come dice Olivella Sori, nella sua relazione al convegno “Global History” del 2004. La storia globale non è un’impossibile “storia del mondo”, che nessuno studente sarebbe mai in grado di apprendere, ma un nuovo approccio ermeneutico, una “reinterpretazione di storie particolari in prospettiva diversa”, sicuramente più sintetica, più per concetti generali che non per fatti particolari, in cui l’individuazione di una specifica identità non sarà il criterio con cui impostare preliminarmente la ricerca, ma una sorta di prodotto finale, conseguente appunto alla necessità di mettere a confronto eventi e processi di ogni tipo. Dovrà insomma essere il “tu” ad aiutare l’“io” a capire se stesso.

Non è un processo semplice, non è una metodica che si può acquisire in poco tempo. Facciamo un esempio delle difficoltà in atto. La fine del conflitto est-ovest, a partire dalla svolta gorbacioviana del 1985, seguita dal crollo del muro di Berlino quattro anni dopo, avrebbe dovuto indurre gli storici a rivedere i giudizi frettolosi, riduttivi, da sempre espressi nei confronti della cultura religiosa di tipo ortodosso dei paesi slavi ed ellenici, la cui importanza dovrebbe in teoria risultare centrale nei manuali scolastici di storia medievale e che invece viene sempre circoscritta in poche paginette.

Tutto purtroppo è rimasto come prima. I bizantini restano “cesaropapisti” e il loro Stato “fiscalmente esoso”, gli ortodossi restano “scismatici” e i loro teologi “cavillosi”. Ancora oggi appare del tutto normale intitolare il capitolo dedicato a Carlo Magno: “Il sacro romano impero”, senza fare cenno alcuno al fatto che un impero del genere esisteva già, ed era a Bisanzio, anzi a Costantinopoli, gestito dal legittimo basileus, secondo una discendenza che partiva da Costantino, sicché quello carolingio fu in realtà un abuso giuspolitico a tutti gli effetti, tanto che dovette essere legittimato da quel falso patentato, elaborato in qualche monastero benedettino, che passò alla storia col nome di Donazione di Costantino.

Una realtà millenaria come quella bizantina, che ha diffuso il cristianesimo presso tutte le popolazioni slave, e che mantenne in vita gli scambi commerciali e culturali tra paesi slavi, indo-cinesi e islamici, viene sempre liquidata in un unico capitolo dedicato a Giustiniano (482-565), come se dopo il tentativo, abortito, della renovatio imperii, un intero impero, al pari di Atlantide, fosse scomparso nel nulla, salvo ripescarlo, con poche righe, in occasione dell’iconoclastia, dello scisma del 1054 e della IV crociata.

(1) Pietro Rossi, Verso una storia globale, in “Rivista storica italiana”, CXIII, n. 3/2001

Che cosa s’intende per “metodo storiografico”?

Bisognerebbe cercare di capire il motivo per cui nell’ambito delle civiltà ogni azione compiuta per un fine di bene, che prevalentemente è quello di superare i limiti dell’antagonismo sociale, finisce spesso coll’ottenere l’effetto contrario a quello voluto, creando nuove forme d’antagonismo. Bisognerebbe cioè cercare di capire se nel momento in cui si decide di porre in atto tali azioni non vi sia un elemento imprescindibile di cui bisogna tener conto sul piano metodologico, onde evitare spiacevoli conseguenze.

Infatti, considerando ch’esiste uno sviluppo storico del genere umano e che quindi, inevitabilmente, le varie azioni positive sono sempre caratterizzate da contenuti culturali assai diversi, sarebbe importante poter trovare un qualche elemento connettivo ad esse trasversale, in grado di tenerle unite almeno negli aspetti essenziali. Questo elemento non può essere trovato che sul terreno del metodo.

Si tratta di stabilire, sul piano storiografico, un criterio metodologico sufficientemente scientifico, in grado d’interpretare obiettivamente le azioni positive compiute dagli uomini, individuando, di esse, il fondamentale punto debole, in forza del quale ad un certo punto s’è determinata una tale situazione contraddittoria da rendere inevitabile nuove istanze di mutamento. Si tratta in particolare di capire quanto queste contraddizioni facevano parte del naturale processo evolutivo del genere umano o quanto invece costituivano un freno a tale processo, rendendo necessarie soluzioni inedite se non addirittura rivoluzionarie. In altre parole, gli uomini davvero ebbero bisogno della ribellione prometeica per ottenere il fuoco, o dobbiamo pensare che ci sarebbero arrivati lo stesso?

Sul piano del metodo operativo il punctum dolens è sempre un’eccessiva concessione fatta agli interessi individualistici dell’antagonismo, che ovviamente vengono difesi dai detentori del potere politico o economico o da coloro che vogliono acquisirlo, senza tener conto del bene comune.

Lo studio della storia, in tal senso, non dovrebbe essere basato su fatti già interpretati (come generalmente avviene nei manuali scolastici), cioè sulle decisioni prese dagli uomini e sulle conseguenze ch’esse hanno determinato, ma dovrebbe essere basato sui problemi in gioco, sugli interessi che hanno stimolato, sulle diverse istanze e proposte risolutive. Uno storico, nel momento della disamina dei fatti (o delle fonti che li illustrano), dovrebbe sempre porsi il seguente interrogativo: “prendendo questa decisione in questa maniera sono stati prodotti determinati risultati, ma se la stessa decisione fosse stata presa in altra maniera o se si fosse addirittura presa un’altra decisione, si sarebbero comunque ottenuti gli stessi risultati oppure avremmo avuto risultati opposti o comunque diversi?”.

Lo storico deve abituare il lettore (o, se insegnante, l’allievo) non tanto a sentirsi un intellettuale curioso che legge le vicende storiche come fossero un romanzo, quanto piuttosto a sentirsi un cittadino attivo, che, guardando il passato, si sente in dovere di prendere delle decisioni per il presente. Lo storico deve abituare il lettore ad acquisire un metodo non solo per interpretare il passato, ma anche per intervenire sul presente.

Ecco perché più che di “nozioni” storiche è preferibile parlare di “competenze” storiche. Le competenze sono quel complesso di formule o di regole ermeneutiche che permettono d’interpretare i fatti nella loro complessità, riconducendoli a una fondamentale essenzialità. Non è importante “sapere molto”, è importante sapere bene le cose importanti. Sembra una tautologia, ma decifrare esattamente i termini di questa tautologia richiede una notevole competenza.

Qui infatti non si tratta semplicemente d’individuare i “momenti forti” di un determinato percorso storico (di carattere locale, nazionale o mondiale), quanto piuttosto di stabilire un criterio obiettivo con cui poter interpretare qualunque evento, anche quello meno significativo. E la difficoltà principale sta proprio nel fatto che, avendo lo storico a che fare con gli esseri umani, il criterio non può essere “scientifico” in maniera astratta. La storia non è la matematica, anche perché persino la matematica ha una propria “storia”, i cui processi evolutivi non sono stati affatto così univoci. Nella storia anzi vi sono state molte “matematiche”, dove assai differenti erano i modi per fare operazioni di calcolo.

Dobbiamo, è vero, trovare delle formule rigorose per interpretare la storia, ma nella consapevolezza che l’oggetto da trattare è quanto mai sfuggente e ambiguo. Sarebbe assurdo pensare di poter interpretare i processi storici usando soltanto la categoria della necessità, anche se, non per averlo fatto in maniera preponderante, dobbiamo squalificare in toto sistemi filosofici come l’idealismo hegeliano e il materialismo storico-dialettico.

La storiografia (di destra o di sinistra non fa differenza) tende ad opporsi ai “se” e ai “ma”, preferendo di regola un approccio deterministico, in cui ad ogni azione corrisponde una sorta di reazione uguale e contraria.

Tuttavia tale approccio, se può dare sicurezze sul piano psicologico e intellettuale, non è di alcuna utilità su quello pedagogico e propriamente cognitivo. Chi studia storia deve essere messo in grado di capire come le cose sarebbero potute andare se si fossero rispettati determinati requisiti. Cioè chi studia storia deve poter essere allenato a capire che le cose sarebbero potute andare diversamente se si fosse agito diversamente. Tale allenamento va considerato come una sorta di incentivo pedagogico (e a scuola dovrebbe far parte della didattica di qualunque disciplina) utile per il presente, proprio per non prendere le cose con fatalismo e rassegnazione.

Dunque, oltre la categoria della necessità, bisogna acquisire quella della possibilità, che è poi quella che ci permette di capire quali potevano essere le opzioni da scegliere. La necessità subentra dopo che si son prese delle decisioni, ma il momento della discussione preliminare, della trattativa, del confronto delle idee, della mediazione tra interessi opposti o contrastanti, risulta per certi versi più importante delle decisioni stesse, poiché è lì che si può misurare il tasso di democrazia di una società, di una civiltà: è proprio lì infatti che si vanno a cercare compromessi vantaggiosi per tutte le parti in causa, oppure si cerca di far prevalere con la forza un’opzione sulle altre.

Chiarito questo, si può passare ad affrontare il secondo problema: quello della lettura delle fonti, la cui complessità spesso è davvero disarmante. Gli storici infatti, pur con tutti i loro faticosi lavori di ricerca, non sempre sortiscono gli effetti sperati. Il motivo di questo sta nel fatto che le fonti a nostra disposizione sono in genere piuttosto tendenziose, in quanto elaborate da quei ceti sociali espressione degli interessi prevalenti, delle decisioni dominanti. Tutta la storia scritta rischia di apparire come una gigantesca storia di documenti parziali se non addirittura inaffidabili ai fini della verità storica, proprio perché i ceti dominanti non hanno dato possibilità alle minoranze di esprimersi adeguatamente in piena libertà. La stragrande maggioranza degli abitanti del nostro pianeta, di ieri e di oggi, anche quando mostra d’aver precise istanze da far valere, non è mai stata in grado di produrre alcuna fonte.

Gli stessi storici, influenzati dalla loro cultura o ideologia, anche quando hanno a che fare con una serie di fonti dai contenuti opposti, spesso tendono a privilegiare le une sulle altre. Cioè anche quando hanno la fortuna di sentire due o più campane, preferiscono ascoltarne soltanto una, determinando così una reazione a catena nell’ambito della loro categoria, al punto che i manuali scolastici di storia altro non sono che una riedizione a mo’ di Bignami dei grandi manuali classici in uso nel mondo universitario.

Oggi è pacifico, in ambito storiografico, che col concetto di “fonte storica” non si debba intendere soltanto un trattato ufficiale, un documento governativo, una legge statale, ma anche cose molto più semplici, come p.es. un registro parrocchiale (utilissimo per individuare le strategie matrimoniali), le lettere, i diari personali, persino gli oggetti di uso quotidiano. Per raffigurarsi una “storia globale” tutto diventa “fonte”. Come dice Riccardo Neri, Il mestiere dello storico (Rcs, Milano 2004), “oggetto della ricerca storica è sempre più spesso divenuto il fenomeno e non l’evento, e l’histoire événementielle ha perso rilievo a favore di una visione storica più attenta al quadro d’insieme”.

Questo modo di procedere ha permesso di produrre a scuola un impatto emotivo forte sugli adolescenti. Quando si dice loro: “Non buttate via niente di quello che fate, perché farà piacere ai vostri figli mettere a confronto la loro storia con la vostra, e farà piacere anche a voi stessi, quando da grandi andrete a rivedere com’eravate da adolescenti”, forse per un momento riescono anche a capire che non è il caso di fare le cose solo per prendere un voto o solo perché qualcuno le chiede.

Le cose infatti è importante farle per conservare una memoria di sé, da poter trasmettere ad altri. In fondo è bello abituarsi all’idea che ogni cosa che si fa può rientrare nella categoria storica del fenomeno, che – come dice sempre il Neri – non riguarda il “breve periodo”, come l’evento, ma un periodo così lungo che può coprire decenni, secoli o anche millenni.

Non è forse entusiasmante l’idea di sapere che il fenomeno, all’interno del quale noi siamo protagonisti e che in virtù del quale si fa la “storia”, è un processo molto terreno, molto prosaico, caratterizzato da tradizioni popolari da noi assimilate spesso inconsciamente? La storia non è più, come fino a ieri, soltanto la storia delle classi sociali superiori, ma è la storia del popolo, per la cui conoscenza vanno considerate “fonti” anche la semplice filastrocca, la fiaba, il proverbio, la festa, gli usi e i costumi più antichi, la parlata dialettale…

Se ci abituiamo a considerare la gente comune come soggetto attivo di storia e non come oggetto passivo di storie altrui, ci diventerà facile prestare attenzione alle condizioni di vita delle diverse classi sociali, alle fondamentali differenze di genere, alle cosiddette “civiltà altre”, cioè a tutte quelle civiltà non europee, non occidentali, da sempre condannate al silenzio.

Ma può davvero la scuola insegnare la storia se essa stessa non riesce a tenere un archivio delle proprie realizzazioni? La scuola ha forse una memoria storica del proprio sapere, a disposizione di chiunque voglia consultarla? Perché quando entra in una classe, il docente ha sempre l’impressione di dover iniziare le cose da capo, come se nel suo istituto non ci sia alcun pregresso cui poter attingere? Perché dobbiamo sempre sentirci così soli quando già decine, centinaia di colleghi hanno fatto prima di noi un cammino didattico e culturale?

Didattica della storia (VI)

6. Saper declinare

Se nella storia di un giovane non vi sono elementi almeno sufficienti per poter comprendere le vicende del mondo degli adulti, la storia, né come disciplina a se stante, né come background trasversale a tutte le aree di sapere, può essere insegnata. Qui parliamo di “elementi almeno sufficienti”, dando per scontato che la storia degli adulti, proprio a motivo delle ambiguità di cui essi sono capaci, sfugge, nella sua complessità, a una comprensione adeguata da parte del giovane.

Un educatore dovrebbe comunque preferire sempre a una ripetizione meccanica di contenuti prestabiliti e spesso complicati, un confronto dialettico su contenuti più semplici. Il giovane in fondo non deve fare altro che abituarsi all’idea di poter esercitare la libertà di scelta per rendere la vita più umana. E deve essere messo in grado di capire dove nella storia si è più esercitata questa facoltà e quali ne sono state le conseguenze.

Compito dell’educatore, proprio perché qui si ha a che fare con dei “giovani”, è quello di mediare la comprensione delle azioni degli uomini col vissuto e con le capacità interpretative del giovane. Quindi si tratta d’impostare una forma di didattica i cui contenuti devono emergere da continue domande di senso, in cui gli aspetti psico-pedagogici della relazione giovane-adulto risultano, ai fini della motivazione iniziale e della rimotivazione in itinere, di fondamentale importanza. Per non parlare del fatto che sono proprio questi aspetti che aiutano l’educatore a declinare anche il contenuto in sé della disciplina.

Se un giovane comprendesse adeguatamente tutta la doppiezza o l’ambiguità di cui un adulto è capace (nel senso che spesso l’adulto fa esattamente il contrario di ciò che dice), diremmo che siamo di fronte a un’anomalia. In fondo a noi i giovani piacciono proprio per la loro carica idealistica, per l’aspettativa che hanno di vedere realizzata l’unità di teoria e prassi, di metodo e contenuto.

Tuttavia un giovane può essere aiutato a capire che nella storia sono stati fatti tentativi per rendere la vita più coerente con gli ideali professati. In via di principio potremmo sostenere che quanto più una formazione sociale tende ad allontanarsi dalla naturalità dei rapporti umani o, se si preferisce, dall’umanità dei rapporti naturali, tanto più essa cerca di giustificare se stessa con l’inganno, la propaganda, la demagogia, le guerre ecc.

Con ciò però non si vuole sostenere che quanto più ci si allontana dalla primitiva innocenza dell’umanità, tanto meno si sarà in grado di recuperarla; certo, questo recupero sta diventando sempre più difficile, ma non possiamo sostenere che l’odierna civiltà ha meno possibilità di farlo rispetto a quella medievale o schiavile, altrimenti le attuali generazioni si sentiranno senza speranza. Anzi, dovremmo dire il contrario, e cioè che quanto più ci si allontana da quella innocenza primordiale, tanto più se ne avverte la mancanza e si è disposti a lottare per riaverla, nella consapevolezza di non poterne fare a meno.

Ma qui s’è già introdotto un elemento interpretativo decisivo che sbagliamo a dare per scontato. Fino a che punto un educatore è disposto ad accettare il postulato che l’epoca del comunismo primitivo sia stata quella più umana e democratica? Accettare una cosa del genere, quando si deve impostare un lavoro collegiale tra adulti, è la cosa più difficile in assoluto, poiché lo stesso educatore è soggetto a condizionamenti culturali da parte dei mezzi di comunicazione della società in cui vive (ivi inclusi gli stessi libri di testo).

Senonché questo è per noi un presupposto irrinunciabile, che riguarda l’interpretazione generale da dare alla storia. Gli educatori, prima di impostare un qualunque lavoro didattico collegiale, sarebbe bene che partissero da questo terminus a quo, chiarendosi reciprocamente le idee su che tipo di lettura fanno della storia.

In sintesi

Dunque che tipo di approccio didattico possiamo immaginare quando c’è di mezzo una disciplina complicata come la “storia”? Proviamo a delinearlo sinteticamente in cinque punti:

1. partiamo dall’esperienza del giovane, chiarendogli l’importanza di avere un pregresso oggettivo da cui in alcun modo egli può prescindere (relazioni parentali, sociali, ambientali…), e che costituisce la memoria storica, di lui e di chi gli sta accanto, il suo “esserci”;

2. formuliamo domande di senso per mostrare al giovane l’uso ch’egli può fare della libertà di scelta, ovviamente in contesti determinati, da esemplificare nello spazio e nel tempo;

3. ipotizziamo i possibili, diversi, percorsi della sua libertà e le possibili, diverse, conseguenze relative alle scelte che vengono prese e che si potevano prendere;

4. trasferiamo questa dinamica psico-pedagogica alla comprensione dei fatti storici, facendo emergere una possibile interpretazione di tali fatti e soprattutto dei processi storici, usando una tecnica modulare, a difficoltà crescente, adeguandola alla capacità di comprensione e di rielaborazione dell’alunno;

5. basiamo l’interpretazione su una precomprensione relativa alla formazione e allo sviluppo delle cinque fondamentali tappe storiche: comunità primitiva, schiavismo, servaggio, capitalismo e socialismo, di cui la prima viene ritenuta come quella più umana e democratica, essendo l’unica non soggetta a conflitti di classe e a rapporti di sfruttamento uomo-natura (tale precomprensione non necessariamente deve essere esplicitata sin dall’inizio del lavoro didattico; può essere anche una conclusione ottenuta a fine lavoro).

Didattica della storia (V)

5. La questione del come

Compito di un qualunque formatore è quello di far capire al giovane come può contribuire, nel suo piccolo, alla modificazione della realtà in cui vive. Quindi il lavoro da fare è anzitutto di tipo psicopedagogico: comprendere il giovane nei suoi bisogni, nelle sue capacità e attitudini, nella sua realtà pregressa, individuando gli aspetti su cui far leva per suscitare la motivazione.

I docenti sanno bene che questo, a scuola, è il compito più difficile: non solo perché l’università non è stata, fino a ieri, in grado di abilitarli didatticamente all’insegnamento (a ciò s’è cercato di rimediare con l’istituzione della SSIS, rimessa in discussione dall’attuale ministra Gelmini), ma anche perché spesso hanno la percezione di essere considerati dalla pubblica opinione come semplici impiegati statali, cioè rappresentanti di uno Stato che non sa dimostrare di credere davvero nell’importanza della formazione.

A scuola non esiste quasi nulla che predisponga ad una vera azione educativa e formativa. Lo impedisce la rigidità dei criteri fondamentali su cui si regge tutta l’organizzazione scolastica, che, in tal senso, non è molto diversa da una di tipo carcerario o militare: la classe ben definita nei suoi componenti, l’orario rigidissimo, il burocratico registro, le scadenze improrogabili, gli ansiosi voti, i pedanti programmi ministeriali, i libri di testo supponenti, ecc. L’odierna scuola è esattamente l’opposto di ciò che aveva preventivato un qualunque pedagogista classico, quando poi non si ha a che fare con le ben note esperienze di bullismo, di assenteismo, di dequalificazione degli studi, di promozioni assicurate ecc.

Nonostante questo noi dobbiamo comunque realizzare un’attività didattica che ci dia soddisfazione e che permetta ai giovani di avere fiducia nelle loro risorse. Lo studio della storia ha senso soltanto se serve per fare questo tipo di lavoro, così come devono servire la geografia, la lingua italiana e tutte le altre discipline.

A noi interessa far crescere il giovane secondo caratteristiche umane e democratiche, in cui la conoscenza dei contenuti delle varie aree di sapere appaia soltanto come l’aspetto “intellettuale” di una crescita a tutto tondo.

Attenzione in tal senso a non confondere “intellettuale” con “culturale”. La “cultura” è un complesso di cose che va ben oltre la semplice conoscenza dei contenuti: la cultura è esperienza condivisa, basata su valori sociali comuni, tradizioni usi e costumi trasmessi a livello generazionale, linguaggi e credenze popolari che appartengono a una collettività storica, è anche “resistenza” a un colonialismo ideologico che passa attraverso i media dominanti. Tutto ciò oggi esiste sempre meno.

Forse, prima di fare un qualunque lavoro storiografico, bisognerebbe chiarire entro quali confini ci si potrà muovere, i limiti epistemologici entro cui le nostre definizioni troveranno il loro senso; quei limiti che sono appunto determinati dalla società borghese, dalla civiltà occidentale, dal sistema capitalistico ecc. Noi infatti possiamo soltanto ipotizzare una società, una civiltà, un sistema diversi da quelli in cui viviamo, ma non possiamo certo prescindere dal nostro presente, dall’hic et nunc.

Volendo, si può anche fare il percorso inverso (quello di tutti i manuali scolastici di storia): partire cioè dall’esperienza primitiva, per poi giungere alla nostra. Ma in tal caso sarebbe bene non lasciar sottintendere l’inevitabilità di un percorso evolutivo, progressivo, che porta necessariamente alla considerazione che la nostra epoca è la migliore di tutte.

Ogni formazione socio-economica andrebbe affrontata come un unicum, chiarendo bene che nelle fasi di transizione verso una diversa formazione sono state compiute determinate scelte, consapevoli o indotte dalle circostanze, che hanno comportato determinate conseguenze, positive o negative.

Assiomi da superare nell’interpretazione dei fatti storici

In qualunque testo scolastico di storia, di qualunque tendenza esso sia, vi sono sempre alcuni presupposti metodologici ritenuti irrinunciabili, che indicano in un certo senso il carattere apologetico dell’informazione trasmessa nella scuola di stato attraverso una delle sue discipline più significative, appunto la storia.

Tali presupposti provengono direttamente dal senso di appartenenza geo-politica all’Europa occidentale da parte degli autori dei libri di testo, i quali, generalmente, danno per scontata l’idea secondo cui la civiltà di questa parte del continente europeo sia la migliore del mondo, superiore anche a quella degli Stati Uniti, la cui grandezza viene misurata più in termini quantitativi, relativamente al progresso tecnico-scientifico, militare e nell’organizzazione dell’attività commerciale e industriale, che non in termini qualitativi (le tradizioni culturali, religiose e politiche), in cui l’Europa occidentale eccelle da almeno duemila anni.

Sulla base di questi presupposti si fonda l’idea di “scienza” o di “oggettività”. Come se nell’arco della propria vita uno storico non ne vedesse così tante da dover escludere a priori l’esistenza di qualcosa di incontrovertibile o di inconfutabile! Come se uno storico non sapesse quanto le interpretazioni siano condizionate dalla politica, dalle ideologie dominanti (esplicite o implicite), dalle forme di civilizzazione e, sul piano soggettivo, anche dalle proprie storie personali!

E se questo vale, in maniera evidente, per le scienze umane, non vale forse anche per quelle “esatte”? Su asserzioni cosiddette “scientifiche”, del tipo: “la matematica non è un’opinione”, ci sarebbe da discutere all’infinito, essendo ben noto che enunciati assolutamente inconfutabili sono poverissimi di contenuto dialettico o anche semplicemente informativo, e che la nostra “matematica” non è l’unica possibile (i cinesi p.es. usavano la numerazione binaria quando da noi non si sapeva neppure cosa fosse, e i Maya conoscevano la numerazione a base 20 che permetteva loro di fare calcoli molto più complessi di quelli che facevamo noi nel loro stesso periodo).

Gli autori dei manuali scolastici di storia possono essere di ideologia liberal-borghese (crociana-gentiliana), di ideologia socialista (generalmente gramsciana) o, in casi più rari, di ideologia cattolica, ma queste differenze non incidono minimamente sulle scelte di fondo (ontologiche) operate in materia di impianto metodologico generale.

Una constatazione del genere può forse apparire presuntuosa nella sua astratta generalizzazione, eppure essa emerge con sempre maggior insistenza proprio dallo sviluppo di un fenomeno ritenuto ormai incontrovertibile: il globalismo, in nome del quale è diventato legittimo chiedersi se possa essere considerata congrua (sul piano didattico-culturale) una visione unilaterale, in quanto geopoliticamente determinata, dei fenomeni storici.

I fatti dimostrano che le ideologie sottese (in maniera più o meno esplicita) all’elaborazione dei manuali scolastici di storia possono prescindere da molte cose, possono anche essere in competizione tra loro, ma su un aspetto di vitale importanza esiste sempre un’ampia convergenza di vedute, al punto che il senso di appartenenza geopolitica all’Europa occidentale, in particolare alle culture liberal-borghesi (ivi incluse quelle cattoliche e, in misura minore in Italia, quelle protestanti) e, all’opposto, alle culture socialiste-riformiste (che proprio nei testi di storia risultano prevalenti), appare come una sorta di dogma in cui credere per fede.

Si può rilevare questo anche dal fatto che in genere nessuno storico avverte mai l’esigenza di precisare che la sua interpretazione parte da tale assioma, o comunque di chiarire preventivamente i limiti epistemologici entro cui si muove la propria interpretazione dei fenomeni storici del passato e del presente.

Qui in sostanza si vuole sostenere la tesi che, per garantire un minimo di obiettività nei giudizi storiografici, la scelta di un’ideologia in luogo di un’altra, oggi, a differenza, diciamo, di una trentina d’anni fa, risulta del tutto irrilevante, in quanto agli autori dei manuali di storia pare sufficiente far dipendere la verità dei propri enunciati da una preliminare scelta di campo “geografica”, quella dell’Europa occidentale (di cui gli Usa sono soltanto una propaggine), da cui tutto il resto proviene in maniera logica, come una sorta di sillogismo aristotelico.

Si è ormai arrivati a un punto tale di superficialità nell’organizzazione dei contenuti, che ciò che va rimesso in discussione è proprio il rapporto tra ideologia in senso lato e occidente in senso proprio, che va oltre le differenze interne alle medesime ideologie. Questo per dire che anche l’ideologia marxista, o meglio gramsciana, che pur ha dimostrato d’essere teoricamente superiore a quella borghese, nonostante i fallimenti pratici del “socialismo reale”, ha dei difetti intrinseci dovuti proprio al fatto che gli storici di questa corrente considerano assodata la loro appartenenza ideale, specie dopo il crollo del muro di Berlino, all’area occidentale dell’Europa e, indirettamente, degli Stati Uniti, caratterizzati entrambi, soprattutto quest’ultimi, che meno hanno dovuto lottare contro le resistenze del mondo cattolico, da uno sviluppo progressivo dell’ideologia borghese-calvinista, nata nell’Europa del XVI secolo, quell’ideologia che ha portato nel Novecento alle due guerre mondiali e che ha trovato un freno significativo nell’istituzione post-bellica del “Welfare State”.

I limiti metodologici fondamentali che rendono tutti uguali e quindi poco utili, ai fini dell’obiettività del giudizio, i manuali scolastici di storia, sono sostanzialmente frutto di un postulato che andrebbe quanto meno rimesso in discussione, quello per cui si crede che esista una linea evolutiva che va dalla preistoria alla storia, una linea che si estrinseca materialmente secondo un percorso cronologico dei fatti, che trova nell’occidente capitalistico il suo point d’honneur.

Tale linea evolutiva, progressiva, si basa su alcuni fattori fondamentali di “sviluppo”:

1. sviluppo tecnologico e scientifico: la miglior scienza e tecnica – questa la tesi che si sostiene – è quella che permette un rapporto di dominio sulla natura (non è l’uomo che appartiene alla natura ma il contrario);

2. sviluppo dell’urbanizzazione e dei mercati: ogni forma di comunità basata sull’autoconsumo, sul valore d’uso, sul baratto, sulla vendita del surplus, in una parola su un ruralismo non-borghese, viene considerata sottosviluppata; il che porta a giustificare, da parte degli storici, il colonialismo e l’imperialismo, che possono andare dalle classiche crociate medievali alle forme di “aiuto economico” al Terzo Mondo per farlo diventare “come noi”, o comunque a considerare come inevitabili le guerre di conquista o la necessità che i mercati mondiali vengano dominati dall’Occidente;

3. sviluppo della produzione industriale: non solo l’artigianato viene considerato sempre inferiore all’industria (specie quella di massa), ma si tende anche a privilegiare la separazione tra agricoltura e artigianato, considerando prioritaria, specie nel basso Medioevo, la specializzazione dei mezzi tecnici e delle mansioni lavorative;

4. sviluppo della produzione culturale: i valori più significativi di una civiltà vengono ritenuti quelli basati soprattutto sul commercio, sulla scrittura, sul militarismo e in generale sulla supremazia del maschio, quindi tutti valori appartenenti a una determinata categoria di ceti, classi o individui, salvo fare concessioni di circostanza all’ambientalismo e al femminismo.

Posto questo, le differenze, se e quando esistono, tra uno schieramento ideologico e l’altro, risultano del tutto secondarie o formali, come p.es. si evidenzia tra le seguenti:

– nello sviluppo della produzione culturale, gli autori cattolici o protestanti mettono in rilievo l’evoluzione positiva dalle religioni primitive (animismo-totemismo) alle religioni monoteiste, senza però specificare che proprio quest’ultime sono state più facilmente strumentalizzate dalle esigenze di dominio mondiale;
– nello sviluppo della produzione industriale, gli autori di sinistra mettono in risalto le lotte operaie-contadine e, i più radicali (sempre meno in verità) l’esigenza di una socializzazione dei mezzi produttivi; e così via.

Qui si vuole ribadire, se ce ne fosse ancora bisogno, che all’origine di questo incredibile appiattimento culturale sta proprio il primato concesso acriticamente al valore di scambio su quello d’uso, e non solo il primato concesso alla proprietà sul lavoro. Il socialismo non è più un’alternativa al liberismo non tanto perché ha smesso di contrapporre lavoro a proprietà, quanto perché ha sempre visto il lavoro all’interno del valore di scambio.

Sulla base di questi assiomi si è elaborato il concetto di civiltà, e ovviamente nessuno mette in discussione che quella più avanzata della storia sia quella occidentale (europea e statunitense); il Giappone non avrebbe fatto altro che copiare la civiltà americana, trapiantandola su un tessuto culturale semi-feudale, come d’altra parte la Cina sta impiantando il capitalismo in un paese agricolo dominato politicamente da un socialismo autoritario. Gli stessi paesi a cultura islamica non sono che paesi feudali nella sovrastruttura e capitalisti o soggetti a neocolonialismo capitalista nella sfera strutturale della produzione. I paesi ex-comunisti (specie quelli est-europei) non sarebbero che paesi neo-democratici, in quanto sul piano economico si sono finalmente aperti al mercato capitalistico. E così via.

Questa impostazione di metodo è così evidente che viene spontaneo darla per scontata in tutti i manuali di storia, anche se ovviamente solo pochi sono stati adottati o esaminati: ovunque infatti si tende a mettere in risalto quelle civiltà che con più decisione sono uscite dalla preistoria, quindi quelle che hanno sviluppato meglio l’organizzazione schiavistica e servile, e che in definitiva assomigliano di più a quella capitalistica.

Ancora oggi nei manuali scolastici di storia si pone una netta differenza tra “storia” e “preistoria”, senza mai precisare che i fenomeni che hanno determinato quella differenza: scrittura, urbanizzazione, metallurgia, commercializzazione degli scambi ecc., sono tutti strettamente correlati alla nascita dello schiavismo. Il che significa che non ha storicamente alcun senso apprezzarli positivamente separando concettualmente l’analisi di quelle forme sociali e tecnologiche dallo scopo per cui erano nate e che ne legittimava l’ulteriore sviluppo.

Ma c’è di peggio. Tutti i manuali tendono a privilegiare le civiltà commerciali basate sullo schiavismo rispetto a quelle agricole basate sul servaggio, allo scopo di sostenere la validità di alcuni fondamentali postulati, che indirettamente risultano funzionali alla legittimazione della modernità borghese, quali ad es. quelli relativi alla superiorità della città sulla campagna, del mercato sull’autoconsumo, del borghese sul contadino e sull’operaio (cioè del proprietario sul nullatenente), del lavoro intellettuale su quello manuale (cioè della scrittura sulla trasmissione orale del sapere), dell’artigiano specializzato sul contadino-artigiano, dell’agricoltore sull’allevatore, del sedentario sul nomade, del bellicoso sul pacifico, dell’occidentale cristiano (una volta si sarebbe aggiunto di “razza bianca”) su tutti gli altri credenti, e in generale dell’uomo sulla donna e della storia sulla natura.

Facciamo ancora un esempio. Quando si parla di migrazioni dei popoli indoeuropei (specie quella dei Dori) gli storici non sostengono mai ch’esse posero un freno allo sviluppo indiscriminato dello schiavismo o che riorganizzarono questo sistema su basi più primitive, ma non per questo più antidemocratiche.

Spesso gli storici sono soliti definire questi periodi come “oscuri” o “bui” semplicemente perché giudicano l’organizzazione socioculturale e politica sulla base dei parametri della civiltà precedente, che, se era “commerciale” e “stanziale”, sicuramente era superiore. Cioè non si prende mai l’organizzazione comunitaria primitiva come un modello di rapporto equilibrato tra esseri umani e tra questi e la natura.

A tutto ciò gli autori di sinistra aggiungono che va considerato necessario non solo il passaggio dalla preistoria alla storia (al fine di superare i limiti delle comunità basate sull’autoconsumo), ma anche il passaggio dal capitalismo al socialismo democratico, sebbene questa tesi oggi, dopo il crollo del “socialismo amministrato”, sia o stia diventando piuttosto rara, in quanto si tende a sostituirla con la cosiddetta ideologia dell’economia mista o “terza via”, in cui vige una sorta di influenza reciproca tra sfera pubblica e privata; e qui, mentre sul versante degli autori di sinistra si vorrebbe una sfera pubblica (statale) più importante di quella privata (il che contrasta con le tendenze di fatto dell’economia borghese), su quello degli autori borghesi si vuole invece un pubblico che faccia da mero supporto al privato.

Ciò che nessuno autore riesce a comprendere (ma in questa incomprensione possono celarsi motivazioni extra-culturali, come p.es. l’esigenza di dover collocare il libro di testo in un determinato mercato editoriale) è che nel rapporto tra comunità primitiva e civiltà storica, quella che più si avvicina al senso di umanità dell’essere umano non è la seconda ma la prima, e che quindi quanto più le civiltà tendono a svilupparsi, tanto più si allontanano dalla dimensione dell’umanizzazione, per quanto la resistenza ai conflitti di classe non lasci impregiudicata la possibilità di un ritorno alle origini.

Nessun autore sostiene che per ripristinare il concetto di umanità sia necessario “uscire” dal concetto di civiltà, così come esso s’è venuto configurando già nel passaggio dal comunismo primitivo alle prime formazioni schiavistiche, e come poi è andato sviluppandosi fino alle civiltà più recenti, che in un certo senso sono una variante dello schiavismo: il capitalismo è uno schiavismo, sotto la parvenza della democrazia, gestito dall’economia privata, quindi con esigenze di sfruttamento coloniale di paesi terzi; il socialismo amministrato è uno schiavismo gestito in maniera palesemente autoritaria dalla politica, quindi con esigenze di sottomissione a un’ideologia di stato.

Ovviamente con questo non si vuole sostenere che una rappresentazione tematica e non cronologica della storia potrebbe meglio garantire l’obiettività dell’interpretazione. È fuor di dubbio che una rappresentazione tematica aiuterebbe a focalizzare meglio le caratteristiche salienti di una civiltà, ovvero di una formazione sociale, perché in fondo è di questo che si tratta, e in tal senso il contributo del socialismo scientifico non va sottovalutato, in quanto è l’unica metodologia che ci permette di chiarire, sul piano economico-sociale, le differenze di sostanza tra una civiltà e l’altra.

Tuttavia lo storico non può basarsi unicamente sugli aspetti socio-economici: ha bisogno di trattare con pari dignità anche quelli culturali e politici. Ecco perché in una visione tematica o, se si preferisce, olistica, integrata, strutturata, organicista, della storia, ogni aspetto dovrebbe essere preso in esame e messo in rapporto trasversale rispetto a tutte le principali formazioni sociali della storia.

Solo che per arrivare a un’interpretazione sufficientemente obiettiva (e diciamo “sufficientemente” con la consapevolezza che la storia di cui trattiamo è quasi sempre la storia dei “vincitori” o quella di chi era padrone di quei mezzi che gli hanno permesso di trasmettere ai posteri una determinata rappresentazione di sé), occorre qualcosa che alla storiografia occidentale manca del tutto: il confronto con le istanze di identità umana.

Oggi non sappiamo neppure decifrare l’umano. Dopo seimila anni di storia delle civiltà abbiamo creato un essere umano quasi totalmente incivile, una sorta di barbaro che di civile ha solo le apparenze.

Possiamo pertanto lavorare solo sui “fantasmi”, cioè su quanto le civiltà ci offrono, tenendo ben presente, alla nostra indagine, che in tutte le civiltà esiste una divaricazione netta tra quanto affermato in sede teorica e quanto vissuto praticamente. Tale dicotomia tende ad accentuarsi col progredire delle civiltà e ha avuto una netta escalation a partire dal tradimento degli ideali del cristianesimo primitivo. Questo perché tutte le civiltà, nessuna esclusa, ha avuto bisogno, al suo nascere, di apparire più democratica rispetto al passato che stava per negare, proprio per poter vivere con legittimazione il contrario di quanto andava predicando, ne fosse o meno consapevole.

In sintesi. Uno storico dovrebbe preoccuparsi di verificare due cose, nel mentre cerca di capire i fatti, perché sarà su queste cose che si svolgerà il dibattito in classe tra il docente e i propri studenti:

1. quali condizionamenti spazio-temporali possono aver indotto un dato fenomeno a manifestarsi in una data maniera, ovvero quali alternative potevano esserci alla soluzione che storicamente, ad un certo punto, si scelse? Lo storico non deve chiedersi il “perché”, in ultima istanza, si preferì una soluzione piuttosto che un’altra (una risposta, in questo senso, non la troverà mai); deve limitarsi semplicemente a registrare il “come” ciò avvenne, aggiungendo, alla fine della spiegazione storica, l’ipotesi di un’alternativa che si sarebbe potuta seguire, naturalmente sempre sulla base dei fatti. Lo storico non deve “inventarsi” le alternative col senno del poi, ma deve saperle cogliere nel dibattito del tempo, quello pubblico, ufficiale, quello delle posizioni dialettiche che si fronteggiavano a viso aperto (che è poi quello stesso dibattito che, in seguito, la posizione risultata vincente spesso cerca di manipolare secondo i suoi propri interessi).

2. Quali differenze esistevano tra ideologia e prassi, in riferimento alle posizioni politiche contrapposte, che ad un certo punto, da paritetiche che erano, sono risultate una “egemonica” o maggioritaria e l’altra di “opposizione” o minoritaria? Lo storico cioè dovrebbe sempre chiedersi: a) la prassi era conforme all’ideologia? b) la prassi era accettabile nonostante l’ideologia? c) l’ideologia era accettabile nonostante la prassi? “Accettabile” naturalmente dal punto di vista democratico, umanistico…

Le ambiguità della storia

Noi studiamo la storia e la facciamo studiare ai nostri allievi secondo un processo lineare di causa/effetto, quando di fatto, nel mentre gli avvenimenti accadevano nel passato, ciò che dominava non era una logica stringente, necessaria, che legava gli avvenimenti, ma una marcata ambiguità, in cui tutto sarebbe potuto accadere.

Noi insegniamo la storia come se fosse una scienza esatta. P.es. quando si affronta il nazismo, mettiamo facilmente in evidenza l’assurdità delle teorie razziste, ma nel mentre esse venivano divulgate i nazisti dovevano ricorrere a svariate dimostrazioni, a infiniti espedienti per convincere le loro popolazioni.

Oggi quelle teorie ci sembrano assurde per una serie di ragioni: i nazisti hanno perso la guerra; esistono teorie scientifiche che ne negano i presupposti culturali; esistono teorie politiche che temono che la diffusione di teorie razziste possa portare a conflitti bellici; esistono teorie etiche e religiose che ritengono il razzismo una forma di anti-umanesimo. E via dicendo.

Eppure il razzismo permane nel rapporto tra Nord e Sud, tra Occidente e Terzo Mondo; permane in quelle sperimentazioni genetiche che pur essendo fatte prevalentemente sul mondo animale si cerca, seppur in maniera strisciante, di estenderle sempre più al genere umano, o in quelle sperimentazioni specifiche per l’essere umano (clonazione, fecondazione artificiale, banca del seme, ibernazione…); permane nel modo come si recepisce il fenomeno dei flussi migratori o nel modo come viene strutturata la convivenza, l’integrazione nelle città: i ghetti, i quartieri residenziali dove tende a prevalere una o più componente etnica…; può persino far capolino nella formazione delle classi nelle scuole, e non è rara nelle dinamiche di gruppo di quelle classi ove esiste una certa componente straniera.

Il razzismo è figlio dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo; anzi gli uomini sono razzisti anche nei confronti degli animali e della natura in generale. È una forma culturale, politica, psicologica…, sempre più sofisticata, che fa da supporto a un’esigenza di dominio materiale, economico, dell’uomo sull’uomo, degli uomini sulle donne, degli uomini e delle donne sulla natura, in una parola, dei più forti sui più deboli.

Le forme di razzismo esplicite, istituzionali, vengono sostituite da altre forme di razzismo più subdole, più surrettizie, connesse paradossalmente allo sviluppo della democrazia o comunque coesistenti con l’affermazione dei diritti umani universali.

Per non essere superficiali quando si affrontano argomenti del genere, bisogna sempre partire dal vissuto dei ragazzi, dalla loro paura, spesso indotta dai genitori, di perdere privilegi e comodità.

Insomma di fondamentale importanza è il fatto che quando si fa un’analisi storica di un determinato fenomeno, bisognerebbe anzitutto distinguere tra ciò che il fenomeno poteva apparire ai contemporanei che l’hanno vissuto e ciò che il fenomeno appare a noi, che non l’abbiamo vissuto e che per questo possiamo osservarlo con distacco, nella consapevolezza dei suoi limiti.

Se nell’esaminare il nazismo, noi lo presentiamo solo nella sua negatività, che pur, a guerra finita, è stata a tutti evidente, noi non aiutiamo lo studente a capire il motivo per cui tantissima gente (milioni di persone), coeva a quel fenomeno, lo riteneva un evento positivo, da sostenere persino in maniera incondizionata. Un docente non può in alcuna maniera rischiare di attribuire a una qualche “caratteristica negativa naturale” il fatto che un certa popolazione ha compiuto una determinata scelta. Un educatore non può affidarsi alla psicologia delle masse o addirittura alla genetica per trovare spiegazioni di natura socio-economica e politica.

Noi non possiamo presentare le cose col senno del poi. Non possiamo partire da tesi precostituite se vogliamo abituare lo studente a capire che nella vita si devono operare delle scelte e che quelle migliori per i destini delle generazioni non sono immediatamente intuibili o percepibili nel momento in cui si deve scegliere. Generalmente la verità è qualcosa di molto ambiguo nel suo svolgimento.