La storiografia americana sulla politica estera (II)
Durante il periodo della guerra fredda sono esistite, per così dire, due correnti fra gli storici dello diplomazia: gli idealisti (Perkins, Bemis, Spanier) e i realisti (G. Kennan, H. Morgenthau). I primi promuovevano i valori morali e gli ideali umano-democratici nella politica estera americana; i secondi si basavano soprattutto sui concetti di “interesse nazionale” e di “equilibrio delle forze”. Entrambi i gruppi tuttavia difendevano risolutamente la politica estera di Washington. Ciò che li distingueva era semplicemente il livello del loro conformismo rispetto alle concezioni ufficiali dei governo.
Sotto questo aspetto i termini usati per classificare i due orientamenti sono alquanto convenzionali. Col passare del tempo comunque quello realista divenne il gruppo dominante, anche perchè non si lasciava sfuggire l’occasione di alludere ai valori dell’altra corrente. D’altra parte gli stessi idealisti non ignoravano la realtà degli affari internazionali.
La teoria conservatrice del consensus determinò la revisione dei giudizi che gli storici progressisti del XIX e metà del XX sec. avevano dato su molti avvenimenti della politica estera americana. Ad es. vennero riformulate le spiegazioni economiche di Pratt e Hacker sulla guerra dei 1812: se ne incaricarono B. Perkins Lie (figlio di Dexter Perkins), R. Horsman, N. Risjord e R. H. Brown, i quali ribadirono le vecchie concezioni secondo cui gli Usa non avevano alcun desiderio d’impadronirsi del Canada né della Florida, ma solo quella di difendere i loro diritti marittimi e l’onore nazionale.
Stessa cosa avvenne nel campo delle relazioni storiche angloamericane. Mentre prima, grazie ai lavori di Bemis e C. C. Tansill, si metteva l’accento sul conflitto in atto, dopo la II guerra mondiale gli storici americani concentrarono i loro sforzi nel mostrare che una tradizione di cooperazione e di fratellanza era quasi sempre esistita. Le opere fondamentali, in questo senso, furono quelle di B. Perkins e C. C. Campbell.
Il mutamento di clima si fece sentire anche sull’interpretazione data alla partecipazione degli Usa alla I guerra mondiale. Negli anni ’20 e ’30 c’erano i contrari e i favorevoli. Dopo il 1945 nessun rinomato storico americano sosteneva che gli Usa non avrebbero dovuto lasciarsi coinvolgere. La sola cosa su cui valeva la pena discutere per i conservatori era di sapere se il presidente Wilson era stato mosso do considerazioni pratiche o aveva agito sulla base di fini morali.
Tutto ciò però subì un’improvvisa sterzata alla fine degli anni ’60, cioè nel momento della guerra in Vietnam. Un nuovo gruppo di storici venne alla ribalta: i radicali o la cosiddetta “nuova sinistra”. Uno dei padri fondatori di questa corrente fu W. A. Williams, che trascinò con sé un gran numero di giovani storici pieni di talento, durante i suoi corsi all’università dei Wisconsin. Un ruolo significativo nella riconsiderazione della versione ufficiale sui motivi della guerra fredda fu svolto dagli studi di D. F. Fleming.
All’inizio degli anni ’70 moltissimi storici radicali cominciarono a rifiutare la tesi secondo cui le intenzioni dell’Urss dopo la II guerra mondiale sarebbero state “aggressive” (si pensi, ad es., a G. Alperovitz, L. C. Gardner, D. Horowitz, G. Kolko, W. Lafeber, C. Lash ecc.).
Questi storici ritenevano che non esistesse alcuna “minaccia sovietica”, in quanto gli Usa detenevano il monopolio delle armi nucleari e un considerevole grado di superiorità sui mari e nell’aria. Kolko, il più coerente dei radicali, arrivò persino a dire che gli Usa avevano perseguito i loro scopi imperialisti prima, dopo e durante la II guerra mondiale.
I radicali riesaminarono in modo più o meno approfondito quasi tutti gli argomenti degli studi conservatori sulla politica estera americana. A riguardo delle radici storiche dell’espansionismo americano, essi sostennero che la violenta conquista delle terre, avvenuta soprattutto a partire dal XIX sec., non rappresentò una rottura nella storia degli Stati Uniti, ma la naturale conseguenza di un lungo processo, i cui principali protagonisti furono le forze economico-commerciali del paese.
Anche Williams era perfettamente convinto che il capitalismo americano non avrebbe potuto svilupparsi così facilmente senza la rapida espansione del suo mercato in virtù dell’imperialismo. Egli sostenne anche che l’ideologia espansionista dei leaders americani durante e dopo gli anni ’90 del secolo scorso fu la trasposizione cristallizzata in “veste industriale” di quelle concezioni espansioniste in “veste agricola” che la maggioranza degli agrari del paese aveva sviluppato fra il 1860 e il 1893.
Altri storici radicali affrontarono argomenti più settoriali: T. J. McCormick, l’interesse dell’America per il mercato cinese alla fine del XIX sec; E. P. Paolino, le concezioni espansioniste del segretario di Stato W. H. Seward; J. E. Eblen, i crudeli metodi usati dagli Usa all’inizio della loro indipendenza in occasione dell’esproprio delle terre.
Resta strano il fatto che tali storici non abbiano affrontato importanti argomenti come la rivoluzione americana, lo guerra del 1812 o la Dottrina Monroe dei 1823. Interessante comunque è l’opera di H. I. Kushner sulle relazioni russo-americane nel nord-ovest del Pacifico e sulla storia del trattato sull’Alaska del 1867, attraverso il quale i fautori dell’espansionismo pensavano di sviluppare un mercato in Asia.
Le concezioni degli storici radicali sulla storia diplomatica e sulla politica estera Usa ebbero un certo successo fino alla metà degli anni ’70. Le ultime opere più significative sono state quelle di Gardner, Lafeber e McCormick. ll capovolgimento di fronte è stato improvviso. Gli accesi dibattiti sulla “sporca guerra” in Vietnam, sulla guerra fredda, sull’uso tendenzioso delle fonti storiche, sulla leadership e l’organizzazione dell’Associazione storica americana subirono una battuta d’arresto assai preoccupante.
La new left si sfasciò. Il trend patriottico conservativo si diffuse in tutto il paese. Si cominciò a parlare, dopo la celebrazione del bicentenario della nazione nel 1976, di new consensus e di sintesi post-revisionista, in grado di combinare le concezioni ortodosse degli anni ’50 con nuove idee revisioniste, al fine soprattutto di spiegare le origini della guerra freddo e di difendere le posizioni della “Truman Administration”.
Gaddis ammise che gli Usa cercarono di usare il loro potere economico per fare pressioni sull’Urss durante i negoziati relativi al piano Marshalli e al lend-lease. In breve tempo si formò l’idea che la rinuncia alla cooperazione fra Usa e Urss doveva essere addebitata a una comune responsabilità, e che anzi fu l’Urss che subito dopo la guerra cercò di garantire la sua sicurezza con l’uso di mezzi unilaterali (vedi le tesi di V. Mastny).
Inoltre, mentre gli storici radicali avevano sostenuto che moltissime nazioni, contro lo loro volontà, vennero incluse nella sfera d’influenza americana, i nuovi testi di G. Lundstad, B. R. Kuniholm, L. S. Kaplan affermavano invece che furono i paesi europei, scandinavi e mediorientali a chiedere l’appoggio degli Usa.
Per la nuova sintesi post-revisionista l’esistenza dell’impero americano doveva essere esplicitamente ammesso e si chiedeva ch’essa fosse tutelata nel migliore dei modi. Posizioni più realistiche e moderate di quella di Gaddis, si possono trovare in questo new trend nelle opere di G. Kennan e A. Harriman, ma restano minoritarie.
Questi nuovi storici conservatori non hanno alcun interesse a esaminare l’influenza delle classi medio-basse sulla politica estera americana. Essi inoltre si limitano a considerare tale politica da un punto di vista veramente nazionale, cioè senza utilizzare materiale proveniente da altri paesi.
Il loro scopo in pratico si riduce – come ha detto Lafeber – a difendere le posizioni assunte dal Dipartimento di Stato. Nulla di strano quindi che gli studi sugli affari esteri degli Stati Uniti siano diventati – come vuole C. S. Maier – un “figlio bastardo” degli studi storici americani.