Terminata la guerra, la storiografia francese riprese con nuovo vigore. La pubblicazione, nel 1949, del libro di F. Braudel (1902-1985), Il Mediterraneo e il mondo mediterraneo all’epoca di Filippo II, costituì allora un avvenimento eccezionale. La sua stesura richiese una quindicina d’anni. Braudel venne riconosciuto come uno degli storici più importanti non solo della Francia, ma anche di tutta l’Europa occidentale.
Egli era figlio di un professore parigino di matematica. Durante il periodo universitario alla Sorbona, di tutti i docenti fu H. Hauser, che insegnava storia economica, quello ch’ebbe su di lui l’influenza maggiore. All’inizio degli anni Venti cominciò a insegnare a Costantina, in Algeria, ove intraprese gli studi e le ricerche per realizzare l’opera suddetta.
Nel 1930 conobbe H. Berr e partecipò ai lavori del suo centro di sintesi storica. A partire dal 1935 e per tre anni insegnò in Brasile. Sulla nave che lo riportò in Francia incontrò Febvre che tornava invece dall’Argentina. Nel 1939 scoppia la guerra e Braudel si ritrova al fronte. Fatto prigioniero e detenuto dal 1940 al 1942 in un campo presso Mayence, viene trasferito, a motivo della sua attività politica, in un campo speciale a Lubecca, ove il regime era più severo.
Pur privato di tutto il suo materiale documentario, Braudel, dotato di una memoria prodigiosa, riprende la sua opera sul Mediterraneo, proprio come H. Pirenne, un altro grande storico francese che, durante la I guerra mondiale, aveva scritto in prigione la sua Storia d’Europa, inviando un quaderno alla settimana all’amico Febvre.
La Méditerranée fu il risultato di ricerche compiute in tutti gli archivi e le biblioteche storiche più importanti del mondo mediterraneo. Seguendo i consigli che Febvre gli aveva dato sin dagli anni Venti, Braudel evitò di trattare soltanto della Spagna, limitandosi, si fa per dire, a tutti i paesi rivieraschi del Mediterraneo: compito questo, in realtà, d’una complessità eccezionale, specialmente per un singolo ricercatore.
Il libro, che nella seconda edizione del 1966 fu sdoppiato in due volumi perché rivisto e aumentato di un notevole apparato critico, risente fortemente dell’influenza della scuola geografica di Vidal de la Blache; inoltre esso riserva maggiore attenzione alla circolazione, agli scambi e alle strade commerciali che non alla produzione vera e propria. Ciò ad es. si riflette laddove Braudel più che parlare della rivalità fra i due centri del commercio capitalistico (nella fattispecie Spagna e Impero ottomano), ovvero fra i diversi gruppi delle borghesie emergenti, preferisce parlare della rivalità di due vie di transito, mediterranea e atlantica.
Là dove Febvre e Braudel non avevano visto che l’antagonismo fra un “mare” e un “oceano”, Marx molto tempo prima aveva scoperto un processo ben più profondo: la nascita dello stadio manifatturiero del capitalismo nel XVI sec.
Ciononostante un indubbio progresso era avvenuto: la storia tradizionale di superficie, la cosiddetta storia événementielle (quella basata sugli avvenimenti politici più esteriori) veniva confinata definitivamente in un ruolo subalterno, a vantaggio di un modello di ricerca strutturale e funzionale basato su uno stretto rapporto fra storia e tempo.
“La storiografia tradizionale – dirà Braudel ne La storia e le altre scienze sociali – interessata ai ritmi brevi del tempo, all’individuo, all’évenement, ci ha abituati da tempo al suo racconto frettoloso, drammatico. di breve respiro. La nuova storiografia economica e sociale pone invece al primo posto le oscillazioni cicliche e punta sulla validità delle loro durate”.
Ma il merito maggiore va forse attribuito alla decisione dell’autore di contrastare l’idea catastrofista, allora dominante, espressa nel famoso libro di O. Spengler, Il declino dell’occidente, apparso l’indomani della disfatta tedesca del 1918. In che modo lo fece? Mostrando che dalle crisi più acute (nel contesto della Méditerranée quelle appunto degli imperi mediterranei) quasi sempre sorgono nuove imponenti civiltà.
Nel 1950 Braudel ottenne una cattedra al Collegio di Francia. Dopo la morte di Febvre assunse la direzione delle “Annales” e della VI sezione dell’Ecole pratique des hautes études, uno dei centri più significativi della scienza storica francese.
Questi impegni lo porteranno a elaborare il suo secondo importante libro, Civilizzazione materiale e capitalismo, il cui primo volume apparve nel 1967, dopo che per quasi sessant’anni i suoi interessi si erano progressivamente concentrati sulla vita quotidiana, materiale, degli uomini (dall’alimentazione all’abitazione, dalle fonti energetiche alle vie di comunicazione, dai mezzi di trasporto alla circolazione del denaro). E questa volta il perimetro geografico non era più solo l’Europa ma anche l’Asia, l’Africa, l’America.
I limiti tuttavia non mancano- Anzitutto Braudel separa la civilizzazione materiale dalla vita economica produttiva e dal capitalismo. La prima, a suo giudizio, è fatto di routine, è una vita elementare, vegetativa, che non si presta, se non con molta difficoltà, al mutamento, è dunque una realtà di “lunga durata”. La vita economica invece gli appare come uno stadio superiore, privilegiato, della vita quotidiana. Il capitalismo poi è uno stadio ancora più elevato, più sofisticato.
In sostanza sfuggiva a Braudel il fatto che il capitalismo s’afferma proprio sulla base delle forme più elementari dei rapporti mercantili, giungendo in diretto antagonismo con altri tipi dominanti di economia. Una svista prodotta probabilmente dalla sua stessa concezione della “lunga durata”, che resta troppo vada e indeterminata e che rischia di condannare a una semi-paralisi la storia dell’uomo in rapporto al suo ambiente specifico.
La Civilizzazione materiale vide il suo definitivo compimento, in tre volumi, nel 1979, costituendo un avvenimento del tutto eccezionale, “Le Monde” le consacrò due intere pagine, salutandola col titolo di “decodificatrice della storia mondiale”.
L’opera, in effetti, testimonia d’una erudizione notevolissima. Braudel provava un immenso piacere nel disegnare, dello sviluppo storico-sociale, sia i grandi tratti, come artefice della “storia totale”, sia i più infimi dettagli, come “pescatore di perle”, secondo la felice espressione di J. H. Hexter. Egli utilizzò persino le fonti dell’archivio della politica estera dell’Urss per esaminare la corrispondenza del console russo a Lisbona.
Dopo l’uscita del primo volume dichiarò in un’intervista che per lui Marx era il “padre della storia moderna”, e nel libro in effetti lo difende sempre, soprattutto dalle critiche di W. Sombart e M. Weber. Braudel si era convinto che solo chi possiede i mezzi di produzione detiene nella società le posizioni dominanti. Nel secondo e terzo volume cita Lenin dichiarandosi d’accordo con lui sul problema delle origini del capitalismo.
Eppure egli rimase abbastanza scettico nei confronti del marxismo del XX secolo e attendeva sempre l’apparizione d’un “capolavoro della storiografia marxista” che provasse la possibilità e l’opportunità d’una applicazione del marxismo alla storia. In questo senso l’atteggiamento di Braudel (e delle stesse “Annales”) fu abbastanza contraddittorio, anche perché dopo la guerra, soprattutto dopo gli anni cinquanta e all’inizio degli anni sessanta, i progressi nella storiografia marxista erano stati considerevoli.
A dir il vero il prestigio del marxismo nella storiografia francese aveva già potuto farsi strada negli anni Trenta, allorché, dopo la crisi del 1929, la sua influenza s’era estesa in tutte le direzioni, obbligando molti storici a ripensare il loro rifiuto dell’interpretazione materialista della storia.
Nella Francia degli anni Cinquanta si poteva già parlare non soltanto di un’influenza del marxismo su molti storici non simpatizzanti per le idee del comunismo, ma anche di una storiografia marxista vera e propria, di alto livello scientifico, che s’era guadagnata delle solide posizioni in ambito universitario.
Fu anzitutto nel campo della storia della rivoluzione francese che tale influenza si manifestò. L’apparizione, all’inizio del secolo, dell’opera di Jaurès, seguita dagli studi di Mathiez, di Lefebvre e di Labrousse aveva già largamente aperto la porta, nella storiografia della rivoluzione, alle idee e ai metodi marxisti.
A. Soboul, p.es., fu uno storico marxista di tutto rispetto. Cresciuto in un ambiente popolare modesto e divenuto assai presto orfano (a sei mesi perse in guerra il padre, contadino povero, e a otto anni la madre), Soboul fu cresciuto a spese dello Stato. Fece gli studi superiori negli anni Trenta, all’epoca del Fronte popolare.
Lefebvre l’aveva subito notato tra i suoi allievi e Soboul considerava Lefebvre come il suo principale maestro. Nel 1939 pubblica la sua prima opera, dedicata alla rivoluzione francese. Diventa uno dei dirigenti dell’organizzazione degli studenti comunisti di Parigi e nello stesso anno aderisce al pcf. Artigliere durante la guerra, prende parte attiva alla Resistenza.
Nel 1942 è costretto a lasciare il liceo di Montpellier, ove insegnava; poi viene arrestato. In seguito e sino alla fine della guerra vive in clandestinità. Nel 1945 si stabilisce a Parigi ove insegna in vari licei, continuando a lavorare alla sua tesi di dottorato, sostenuta la quale, nel 1958, ottenne la medaglia di bronzo dal Centro Nazionale della Ricerca Scientifica. L’opera magistrale sui sans-coulottes parigini gli procurò subito una grande notorietà.
Soboul aveva scelto un tema poco studiato, ma ugualmente molto importante: il ruolo degli strati parigini più popolari durante la rivoluzione. In un’altra opera molto importante, in cui rivelava una conoscenza approfondita dei rapporti agrari nella Francia del XVIII sec., Soboul contestava l’opinione di coloro che negavano l’esistenza di tracce di feudalesimo in Francia alla vigilia della rivoluzione.
In omaggio ai suoi numerosi lavori storici, egli ottenne alla Sorbona nel 1967 la cattedra di storia della rivoluzione. Lungi dall’essere un successo unicamente personale, si trattava piuttosto del riconoscimento dei meriti della storiografia marxista e della sua integrazione nella scienza universitaria durante gli anni 1950-60. Non dimentichiamo che negli anni Venti la cattedra era stata rifiutata a uno storico della rivoluzione come Mathiez.
Un’altra importante opera della storiografia marxista fu la tesi di dottorato sui Guesdistes sostenuta da C. Willard nel 1965. Questi si accostò assai presto al movimento democratico. Suo padre fu il celebre avvocato che difese Dimitrov al processo di Lipsia nel 1940. Partecipando alla Resistenza, Willard aderì al pcf nel 1944.
Il tema del guesdismo era del tutto originale. Fino alla metà del XX sec. e nonostante che il ruolo del movimento operaio socialista fosse stato in Francia particolarmente significativo, non esisteva sulla storia del movimento socialista dei guesdisti alcuno studio scientifico, né i docenti della Sorbona erano disposti ad accettarlo.
Willard s’impegnò tantissimo: la ricchezza delle fonti reperite gli permise di compiere un’opera esaustiva sulla storia di questo movimento dal 1893 al 1905, cioè sino alla fondazione del partito socialista unificato. A tutt’oggi nessun paese dell’Europa occidentale possiede uno studio così completo su questo argomento.
Willard peraltro fu il primo a fare il punto sulle divergenze fra Guesde e Lafargue emerse all’epoca dell’affare Dreyfus circa la tattica del partito operaio. La tesi venne condotta sotto la direzione di Labrousse, ch’era diventato, dopo la morte di Bloch, titolare della cattedra di storia economica alla Sorbona. Qui, sia Lefebvre che Braudel rappresentarono, negli anni Cinquanta e fino alla prima metà degli anni Sessanta, il momento più felice della storiografia francese.
Tuttavia, già nel corso della seconda metà degli anni Sessanta e soprattutto negli anni Settanta nuove tendenze cominciavano a farsi strada, che rompevano con le tradizioni ereditate dal periodo precedente.