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Il mestiere dello storico

Uno storico non è un teorico. Uno storico vuole raccontare i fatti. Li racconta collegandoli tra loro secondo un’ideologia basata sui rapporti di forza. Ciò è inevitabile, in quanto le vicende che racconta sono tutte conflittuali.

Lo storico legge prevalentemente delle fonti scritte, che gli raccontano episodi prevalentemente violenti. Se non c’è violenza non c’è storia, ma cronaca, agiografia, letteratura… Lo storico non avverte il bisogno di farsi una cultura troppo astratta, troppo teoretica. Gli basta – o crede che gli basti – quel tanto per interpretare dei fatti nudi e crudi.

È per questo motivo che ritengo i manuali di storia uno strumento antipedagogico. Secondo me uno storico dovrebbe cercare di motivare lo svolgimento dei fatti anche sulla base di idee culturali (valoriali) e non soltanto sulla base di interessi di parte, economici e politici; cioè uno storico dovrebbe già avere una posizione critica nei confronti di questi interessi, in modo che quando li incontra nella sua indagine non dà per scontato il loro svolgimento. Lo storico non dovrebbe essere come un commissario di polizia che quando s’imbatte in un omicidio comincia subito a ipotizzare i soliti moventi che la società in cui vive gli mette a disposizione: soldi, sesso, potere ecc. Lo storico dovrebbe andare al di là dei fatti, dovrebbe potersi immedesimare nella cultura in cui essi trovano la loro ragion d’essere.

La storia non è solo un intersecarsi di interessi opposti, materiali o di potere politico. Vi è anche lo sviluppo delle idee, dei valori, della cultura, che non necessariamente trova riscontro diretto in specifiche fonti. Infatti non sempre gli uomini si rendono conto che l’accettazione o l’abbandono di determinate prassi o consuetudini è in qualche modo legato all’accettazione o all’abbandono di determinati valori.

I valori sono spirituali, invisibili, impercettibili alla penna di un redattore di fonti, che può anche viverli o, al contrario, smettere di viverli in maniera inconscia, irriflessa, istintiva; meno che mai il redattore riesce, in piena consapevolezza, a collegare “logicamente”, in forma sillogistica, il sorgere o il venir meno di un dato fenomeno al sorgere o venir meno di un dato valore culturale o umano.

Anche quando le fonti hanno la pretesa di far dipendere rigorosamente determinati fatti da determinate idee, bisogna sempre che lo storico agisca con molta circospezione, poiché spesso proprio in questa stretta coincidenza di teoria e prassi si celano le falsificazioni più bieche. Tra fatti e idee esiste sempre un rapporto ambiguo, di reciproca interazione, in cui non a caso la libertà si muove su binari opposti.

Questo significa che nell’interpretazione dei fatti uno storico non dovrebbe avere la pretesa di comportarsi come un ricercatore appartenente alle discipline scientifiche. Non è importante l’esattezza con cui si raccontano i fatti, che è sempre molto relativa, ma la capacità di argomentare ipotesi interpretative con cui cercare di collegare gli eventi più significativi.

Leggendo i vangeli si fa fatica a credere che i redattori fossero degli storici, e tuttavia il loro modo di raccontare le cose – a prescindere dal carattere leggendario di molti episodi – ha convinto milioni di persone, modificandone, a volte anche radicalmente, lo stile di vita.

Questo per dire che un redattore di fonti può essere geniale nel modo di presentare le cose, ma se non incontra consensi effettivi, pratici, il suo genio non vale nulla. Ecco perché quando si raccontano le cose non è tanto importante dire tutta la verità (nessuno è in grado di farlo, e chiedere a un testimone processuale di giurare sopra la Bibbia, sperando che dica effettivamente “tutta” la verità, è semplicemente ridicolo), quanto piuttosto è importante aiutare chi ascolta (o chi legge) a immedesimarsi nei fatti narrati, come fece magistralmente il Manzoni col suo capolavoro.

Quanto più l’immedesimazione empatica è forte, tanto più lo scopo del testo (della fonte storica) è riuscito. Il testo non ha creato soltanto curiosità o interesse intellettuale, ma anche partecipazione emotiva, che può anche diventare corale, se il testo è espressione di un sentire comune (come p.es. avvenne col Libretto Rosso di Mao al tempo della rivoluzione culturale).

Questo a prescindere dal fatto che i contenuti trasmessi dalla fonte siano umani o disumani, veri o illusori, verosimili o falsificati. Non esiste un criterio oggettivo che possa stabilire a priori la differenza tra il vero e il falso. L’interpretazione è sempre un faticoso processo a posteriori, che non può riguardare, in maniera unilaterale, il solo storico, ma anche lo studente che legge una fonte e su cui deve esercitare il proprio raziocinio, lasciandosi stimolare da una batteria di domande-guida. Spesso questo atteggiamento supponente degli storici lo si nota anche nel mondo della politica e del giornalismo: ognuno è sempre convinto di avere la verità in tasca.

Insegnamento e concezione della storia

Forse è giusto sostenere che tutta la storia che facciamo studiare, soprattutto quella dei manuali scolastici, è la storia del “senno del poi”, cioè una storia scritta per dimostrare che le cose si sono svolte in una certa maniera proprio perché questa maniera era quella “giusta”, anche se nel concreto i fatti si sono manifestati secondo ragioni e modalità tutt’altro che nobili.

Gli storici dei manuali scolastici sanno bene che non si può insegnare la storia dicendo ai ragazzi che gli avvenimenti sono accaduti per il gioco politico delle forze in campo, che ha spesso reso inevitabili eventi la cui eticità era prossima allo zero. In questo sono pedagogicamente unanimi, “politicamente corretti”: non vogliono far portare sulle spalle dei ragazzi un peso superiore alle loro forze. Sanno cioè che la storia è fatta da “adulti” e che si rivolge, sul piano cognitivo, agli stessi adulti, per cui pensano che ai ragazzi, al massimo, sia sufficiente acquisire le coordinate spazio-temporali in cui collocare i fenomeni e quelle di causa-effetto per interpretarli (ridotte, quest’ultime, a una sorta di semplice operazione aritmetica).

Questo atteggiamento – lasciatemelo dire – è abbastanza curioso. Da un lato infatti essi sostengono che la storia, o meglio la storiografia, non si fa coi “se” e i “ma”, dall’altro invece non possono non sapere che proprio nel momento in cui si è protagonisti della storia (specie nei momenti di transizione o nelle occasioni rivoluzionarie) i “se” e i “ma” sono più fastidiosi delle zanzare.

Perché ci piace così tanto avere delle interpretazioni univoche della realtà? Pigrizia del pensiero? Timori di attività didattiche antipedagogiche? O forse si è convinti, inconsciamente, che l’unico modo di affrontare una realtà sempre più contraddittoria sia quello d’aggrapparsi a certezze meramente teoriche o virtuali? Non è anche questa una forma illusoria del razionalismo occidentale e forse del razionalismo qua talis?

Per quale motivo il passaggio dal feudalesimo al capitalismo viene sempre visto come una sorta di riscossa, di riscatto, di liberazione dal duro prezzo che s’è dovuto pagare alle invasioni barbariche, al punto che quando si fanno “concessioni” al Medioevo (Capitani, Le Goff, Sestan…) è sempre e solo in riferimento al periodo che più somiglia al nostro, cioè quello che parte dalla rivoluzione comunale?

È difficile incontrare un manuale scolastico di storia che preferisca far capire allo studente che nel mentre si prendevano decisioni epocali per le sorti di un determinato paese o territorio, esistevano tesi contrapposte; di regola si preferisce sostenere che la tesi vincente meritava di vincere.

In realtà la storia, come disciplina, andrebbe fatta esattamente come viene vissuta nella vita, cioè ponendo le fonti o le versioni dei fatti in modo parallelo, un po’ come fanno gli esegeti quando devono esaminare la questione sinottica, onde verificare concordanze e discordanze. Lo studente diverrebbe così contemporaneo ai fatti studiati e noi smetteremmo di costringerlo a leggerli come se di un giallo si sapesse già il finale.

E i fatti da studiare dovrebbero essere pochi, quelli paradigmatici dei destini dell’umanità. In tal senso mi piacerebbe elaborare una storia universale per grandi categorie di pensiero, in cui quella dell’area euroccidentale non è più il faro antinebbia di tutte le altre. Scrive a tale proposito Aurora Delmonaco: “tra i prerequisiti fondamentali per uscire dall’eurocentrismo vi è quello di assumere come campo di analisi il locale, perché permette di espandere lo sguardo fin dove vogliamo, fino alla mondialità… dal micro al macro, per poi compiere il cammino inverso, dal macro al micro”(1).

I manuali di storia, questi golem contronatura, sono ancora impostati, se vogliamo, in maniera mitologica, come al tempo del fascismo, poiché ci vogliono far credere, con tutto l’illusionismo possibile, che la storia sia “maestra di vita”. Ma se non riusciamo a sapere la verità delle cose che ci sono più vicine, come possiamo pretendere di sapere quella delle cose più lontane? Nel migliore dei casi veniamo a sapere la verità delle cose quando lo scenario è già da tempo completamente cambiato e il fatto di saperla è ormai diventato del tutto inutile (come accadde con la falsa Donazione di Costantino).

È lo stesso discorso che facevano Croce e Gentile quando dicevano che “non possiamo non dirci cristiani”. Cioè per quale motivo dovremmo insegnare ai giovani che chi nella storia ha ragione ne esce quasi sempre sconfitto? Per quale motivo dovremmo dir loro che chi nella storia s’è imposto con la forza, ha poi dato della propria vittoria un’interpretazione falsata al 100%? Forse è meglio dire che la ragione stava, alla resa dei conti, proprio dalla parte di chi ha vinto, a prescindere dai mezzi e modi usati e dai veri scopi che s’era prefisso.

In questa maniera i ragazzi non si demotiveranno, non avranno a schifo troppo presto il mondo degli adulti: vivranno in un mondo di sogni, che gli verrà infranto solo in età adulta, quando si sforzeranno inutilmente di capire qualcosa delle vicende loro contemporanee, e ad un certo punto si limiteranno a costatare che dalla violenza che regge e governa i destini dell’umanità dovranno difendersi usando, nel loro piccolo, tutte le astuzie possibili, prendendo come modello il mitico Odisseo.

Ma piuttosto che agire così, preferirei rinunciare del tutto alla Storia con la esse maiuscola, e mi limiterei a organizzare ricerche su scala locale, su personaggi, stili di vita, metodi di lavoro, abitudini alimentari… che nel territorio dei miei studenti esistevano nei decenni scorsi, ancora visibili qua e là nelle campagne, nei ruderi del passato, nei musei della civiltà contadina, nei monumenti, epigrafi, tombe, nelle monete antiche, nelle fotografie… e da qui li inviterei a fare interviste agli anziani, riprese con la videocamera, ricerche in biblioteca, comparazioni di ogni tipo tra passato e presente.

(1) Dove si costruisce la memoria. Il Laboratorio di storia, in “Quaderno n. 5”, Roma, MPI Dir Classica, 1994.

L’impostazione lineare-diacronica nell’insegnamento della storia

Da dove nasce l’impostazione didattica di tipo lineare-diacronica o cronologica, così consueta nell’insegnamento della storia? Essa, a ben guardare, sembra essere supportata da tre motivazioni di fondo, spesso di tipo più psicologico che ideologico:
1. suscita l’illusione di favorire meglio la comprensione dei nessi di causa-effetto;
2. evita l’imbarazzante decisione, che potrebbe essere facilmente contestata, di dover scegliere i momenti salienti dell’evoluzione storica;
3. induce a credere nell’esistenza di una immaginaria linea progressiva che vede nel tempo presente di noi occidentali la risultante ottimale di vari percorsi iniziati nel passato.

È molto difficile, anzi impossibile, rinvenire in tale impostazione l’ipotesi che il nostro tempo presente sia in realtà il frutto di una scelta tra opzioni differenti, se non opposte, e che quella che ad un certo punto si è deciso di prendere o in qualche modo di imporre, non necessariamente vada considerata come la migliore.

L’impostazione lineare-cronologica privilegia la categoria della necessità storica, la quale, in un certo senso, non privo di risvolti magici, offre agli occhi dello storico l’impressione che per mezzo di essa si sia favorito al meglio lo sviluppo della libertà umana; nel senso cioè che allo storico appare quanto mai giusto che, al cospetto delle infinite e astratte possibilità teoriche, ad un certo punto si sia deciso di sceglierne una, nei confronti della quale poi, guardando le cose dappresso, lo storico s’è sentito in dovere di farla rientrare nella categoria della necessità, negando un qualunque significativo valore a tutte le altre opzioni in campo. Basta vedere con quanta supponenza e apriorismo, nei nostri manuali di storia, si nega all’ipotesi federalista, nell’imminenza dell’unificazione nazionale, una qualunque possibilità di successo.

Tutti gli storici ancora oggi sostengono che dal comunismo primitivo alla nascita delle prime civiltà fondate sullo schiavismo il passaggio era necessario o inevitabile, o, peggio ancora, che in tale mutamento si sono prodotte le condizioni che hanno permesso all’umanità di svilupparsi.

In realtà non esiste affatto, in maniera incontrovertibile, una linea evolutiva dall’uomo primitivo a quello civilizzato; anzi ci sono molte ragioni per definirla involutiva (già con Esiodo, nell’VIII sec. a.C. si parlava di una mitica epoca d’oro, cui sarebbero succedute l’età dell’argento, del bronzo, degli eroi e del ferro), e possiamo parlare di “evoluzione” solo nel senso che dai tempi in cui è sorto lo schiavismo ad oggi gli uomini hanno lottato contro gli antagonismi sociali, nella speranza, andata sempre delusa, di poterli risolvere una volta per tutte.

La storia delle civiltà non è stata altro che una serie di tentativi di sostituire forme esplicite e dirette di schiavitù con altre forme più implicite e indirette. A tutt’oggi infatti è impossibile sostenere che il lavoro salariato costituisca il superamento certo dell’antica schiavitù. Sono cambiate le forme, le apparenze, le condizioni materiali o fenomeniche, ma la sostanza è rimasta la stessa: il lavoro salariato resta comunque una forma di sfruttamento, e la società ch’esso rappresenta non disdegna forme di lavoro che spesso s’avvicinano a quelle di natura schiavile o servile.

La storia purtroppo è stata un susseguirsi continuo di fallimenti di questo genere. D’altra parte gli individui o le masse, se prima di intraprendere un qualunque progetto di emancipazione sociale, si guardassero indietro o facessero pesare il passato più del presente o del futuro, o se addirittura fossero convinti che, pur cercando di realizzare il suddetto progetto secondo le migliori intenzioni democratiche, esso inevitabilmente produrrà effetti opposti a quelli sperati, alla fine non prenderebbero mai alcuna decisione. Il che per fortuna non avviene mai, in quanto nell’uomo esiste, in maniera innata, qualcosa che lo spinge a modificare tutto ciò che presenta difetti, lacune, problemi. L’immobilismo è sempre in malafede.

Tuttavia, se questa è una caratteristica dell’uomo in generale, perché non esiste alcun manuale di storia che metta in discussione l’idea che gli uomini contemporanei siano più liberi dei loro predecessori? La risposta è semplice e ce la diamo da soli: fino a quando i manuali di storia esalteranno, come tratto distintivo della nostra epoca, la rivoluzione tecnico-scientifica, che ovviamente non può trovare paragoni nel passato, sarà difficile mettere in dubbio l’idea che da essa sia andata affermandosi una maggiore libertà.

In realtà se c’è una cosa che dovremmo fare è proprio quella di rovesciare la linea del tempo, partendo decisamente dal presente e andando a ricercare nel passato tutte quelle motivazioni che ne spiegano il senso. Noi viviamo in un’epoca che, ci piaccia o no, si chiama “capitalismo”, in cui il rapporto tra uomo e lavoro è mediato dalla macchina, e in cui il rapporto tra lavoratore e merce è mediato dalla proprietà privata dei mezzi produttivi, nel senso che l’operaio, essendo un salariato, non è padrone di ciò che produce.

Esiste un antagonismo di fondo tra capitale e lavoro, che passa attraverso il riconoscimento, da parte dell’imprenditore, di una formale libertà giuridica appartenente all’operaio. Il lavoratore è tanto formalmente libero quanto sostanzialmente costretto a lasciarsi sfruttare, non essendo altro che un nullatenente. Il salario infatti non corrisponde mai all’effettiva produttività del lavoro, ma è soltanto il pretesto che permette all’imprenditore di sfruttare il lavoratore ben oltre quanto pattuito.

Ebbene questa dinamica lavorativa ha avuto un’origine storica ben determinata in Europa occidentale, ed è il XVI secolo, fatte salve alcune anticipazioni in Italia e nelle Fiandre. Non riuscire a capire questo significa, sic et simpliciter, precludersi di poter comprendere adeguatamente il proprio tempo, significa viverlo passivamente, senza avere gli strumenti per progettare qualcosa di diverso.

Questo silenzio omertoso dei manuali di storia sulle dinamiche sociali ed economiche che legittimano il nostro presente induce inevitabilmente a pensare che la scuola non sia un luogo di “produzione del sapere”, ma soltanto di “riproduzione” di un sapere deciso altrove.

Peraltro lo studio della storia in ordine cronologico non aiuta di per sé alla comprensione delle reiterazioni (gli “eterni ritorni” di Vico), se non in maniera generica e superficiale.

Questo per un altro semplice motivo: si tende a non applicare al proprio presente le stesse leggi che hanno caratterizzato il passato. Questa problematica era già stata sollevata dalla Sinistra hegeliana allorché s’accorse che se il metodo hegeliano della dialettica era rivoluzionario, il sistema che lo inglobava era del tutto conservatore, in quanto Hegel poneva lo Stato prussiano al vertice della perfezione politica.

È naturale, anche se illogico sul piano razionale e illecito su quello etico, l’atteggiamento di chi considera la propria civiltà, appunto perché parte di un “presente”, come la migliore possibile. In realtà la storia dell’umanità non è che la storia di molte civiltà che in vari modi hanno cercato di negare e insieme di recuperare ciò che si era vissuto nell’epoca del comunismo primitivo, a testimonianza che il genere umano ha perduto qualcosa di fondamentale per la propria sopravvivenza.

La negazione storica dell’innocenza primigenia (il mitico “peccato originale”, che poi si è ripetuto al sorgere di sempre nuove civiltà, tant’è che anche Marx lo individua nel XVI secolo per spiegare l’origine del capitalismo) è servita per affermare una determinata civiltà individualistica. Nella misura in cui il recupero dell’innocenza perduta non è stato sufficientemente adeguato, è sorta una nuova civiltà, diversa dalla precedente in qualche aspetto fondamentale, ma non così diversa da determinare la fine del processo reiterativo, che è una sorta di loop storico in cui al cambiare delle forme non cambia la sostanza, come si diceva nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.

Le civiltà sono come delle parabole matematiche: hanno varie fasi di sviluppo progressivo, l’apice dello splendore (in realtà il vertice delle contraddizioni antagonistiche), poi il lento e inesorabile declino, infine il repentino crollo. Sono appunto “civiltà”. Bisognerebbe studiarle guardandole non con gli occhi del nostro presente, ma con quelli del passato ad esse precedente. Se l’uomo primitivo potesse guardare il futuro con gli occhi del suo presente si renderebbe facilmente conto che la storia degli uomini è stata solo un tentativo drammatico, per molti versi disperato, di recuperare quanto già si possedeva sin dall’inizio, e cioè il rapporto armonico con la natura, l’equilibrio con se stessi e nel rapporto coi propri simili. In sostanza la storia, a tutt’oggi, è soltanto l’occasione in cui gli esseri umani possono verificare i limiti del loro arbitrio.

D’altra parte possono gli uomini considerare relativa la loro civiltà e continuare a lottare per il suo sviluppo? Possono considerare più vero un passato che a loro appare definitivamente sepolto? Lo sviluppo progressivo delle civiltà pone forse un limite invalicabile al recupero integrale del comunismo primitivo, oppure questo recupero dipende esclusivamente dalla volontà degli uomini?

Occorrerebbe trovare delle coordinate interpretative con le quali poter dimostrare che, poste certe condizioni, ogni civiltà avrebbe potuto superare se stessa recuperando adeguatamente le leggi del comunismo primitivo. Queste leggi sono poi quelle dei popoli che noi riteniamo sprezzantemente “senza civiltà”, come i marxisti classici consideravano “senza storia” le popolazioni slave. Di fatto, lo studio della storia delle cosiddette “civiltà” non aiuta a comprendere queste leggi più della mancanza di questo stesso studio.

Indubbiamente oggi siamo molto lontani dalle leggi del comunismo primitivo: ma questo cosa significa? Abbiamo forse meno possibilità di recuperarle rispetto a quei popoli che le avevano appena abbandonate e che per questo motivo erano convinti di essersi avventurati in un percorso decisamente migliore? È la memoria che alimenta il desiderio o il desiderio si alimenta da solo?

Ogni rivoluzione politica può essere considerata come un tentativo di recuperare una memoria perduta. Ogni antagonismo contiene un desiderio di rivoluzione e il suo immancabile tradimento. La storia sembra stia lì a dimostrare che non è possibile alcuna vera liberazione. Eppure un popolo che non lottasse per la propria liberazione sarebbe come morto, senza storia. Un popolo di questo genere o è già libero, e allora giustamente sarebbe “senza storia”, oppure sarebbe un popolo inutile, meritevole d’essere dimenticato.

Ciò che gli storici devono superare è l’idea che il passaggio da una civiltà a un’altra sia stato unicamente il frutto della necessità. Le civiltà si formano necessariamente in questa o quella maniera solo a seguito di determinate scelte compiute dagli uomini, che a loro volta sono sempre frutto della libertà o, se si preferisce usare il termine “libertà” soltanto in riferimento alla scelta di un valore positivo, del libero arbitrio, in forme e gradi diversi di responsabilità, sulla base dei condizionamenti ereditati dalle generazioni precedenti: la categoria della “necessità” va applicata soltanto alle conseguenze che comportano determinate scelte, e nei confronti di tali “conseguenze” uno storico dovrebbe sempre sostenere il principio ch’esse, in nome della stessa facoltà di scelta, sono soggette a ulteriori modificazioni.

La storia non va studiata per compiacersi delle sue grandezze, proprio perché le civiltà tendono a mascherare se stesse e a ingannare i posteri. Ciò che più importa è vedere, con rigore, il livello di vicinanza o di lontananza che ha contraddistinto una civiltà rispetto ai parametri fondamentali del comunismo primitivo. Ecco perché, prima di accingersi a studiare una qualunque civiltà bisognerebbe conoscere le leggi essenziali che caratterizzano l’epoca più lontana da noi. Oggi invece studiamo il passato con l’atteggiamento di superiorità che ci viene dalla convinzione di vivere in una civiltà migliore di tutte quelle che l’hanno preceduta.

Ingenuamente gli uomini ritengono che il presente, solo perché presente, sia in grado di conservare nella propria memoria quanto di meglio è stato prodotto nel passato. La nostra civiltà è ancora più convinta di questo in quanto presume di potere conservare il passato attraverso la strumento illuministico della mera conoscenza.

L’odissea del Novecento nei manuali di storia

Sulla questione del Novecento, così tanto dibattuta negli anni passati, bisogna necessariamente spendere qualche parola.

Considerando che per uno studente di scuola media, in genere, la storia coincide con la sua propria storia, in forza di uno schiacciamento quasi assoluto sul presente, finì col diventare patetica l’introduzione berlingueriana del Novecento nell’ultimo anno delle scuole medie e superiori (decreto n. 682 del 1996). Non poteva certo essere questo il modo con cui invogliare lo studente ad affrontare con maggiore interesse e convinzione lo studio della storia in generale. Infatti la persistenza di un’impostazione storiografica di tipo lineare-cronologico ha vanificato ogni serio tentativo di riforma.

Se si vuole partire dal presente, occorre farlo non dall’astrazione delle date bensì dalla concretezza dei suoi problemi. E quelli fondamentali della nostra epoca sono causati da un sistema di vita sociale fortemente antagonistico, basato sui conflitti sociali.

Questo sistema ha avuto una genesi storica che oggi quasi tutti gli storici fanno risalire al XVI secolo, fatte salve le anticipazioni commerciali e finanziarie delle Fiandre e soprattutto dell’Italia, che istituì i primi Comuni borghesi agli albori del Mille.

I famosi “saggi” della commissione istituita da Berlinguer dovevano sapere che non si può sapere in che “epoca” si vive semplicemente focalizzando per un anno intero l’attenzione sul cosiddetto “secolo corto”, quello che pur nella propria brevità ha prodotto gli sconvolgimenti epocali più tragici di tutta la storia del genere umano.

A tale proposito Antonio Brusa osserva, con l’acume che solitamente lo caratterizza, che mentre noi adulti, avendo una visione unitaria del Novecento, sentiamo come “contemporanei” i temi delle guerre mondiali, della Costituzione, della nascita della Repubblica ecc.; viceversa, uno studente di scuola media e persino di scuola superiore “registra nella sua mente i suddetti temi allo stesso titolo del paleolitico superiore” (cfr Il nuovo curricolo di storia, in riferimento al Decreto Berlinguer).

Sotto questo aspetto, se si vuole affrontare il Novecento con gli stessi criteri con cui si affronta un qualunque altro periodo storico, si rischierà di fare un’operazione didattica e culturale del tutto inutile. Sarebbe quasi meglio abolire la storia come disciplina, sostituendola con una che tratti estesamente l’attualità, che sicuramente coinvolgerebbe di più gli studenti, nei cui confronti i media radiotelevisivi e cartacei non hanno certo preoccupazioni didattiche, cioè di mediazione dei contenuti di attualità a quel livello di problematizzazione che può avere una fascia d’età che va dai 12 ai 19 anni.

Nonostante che un affronto sistematico dell’attualità tornerebbe comodo a quanti non hanno intenzione di proseguire gli studi, purtroppo ancora oggi la scuola supplisce assai poco al fatto che l’informazione extrascolastica (mediatica) sui grandi temi dell’attualità non è tarata per un target non adulto. P.es. la lettura di un qualunque quotidiano nazionale rischia di essere proibitiva, per tutta una serie di ragioni tecniche e formali, anche per uno studente liceale.

Se diamo per assodato che ciò che maggiormente può interessare un giovane sono i problemi del suo tempo, declinati nelle linee essenziali, come solo un docente è in grado di fare, quale volume migliore di quello di educazione civica poteva soddisfare queste esigenze? Non a caso molti manuali di religione cattolica delle superiori rispecchiano in gran parte la medesima impostazione didattica di quei testi, diversificandosi ovviamente nell’interpretazione.

Ma allora – ci si può chiedere – davvero la storia non serve a nulla? In realtà è proprio dai testi di educazione civica che emerge il bisogno di fare “memoria” delle cose, di predisporsi a un’indagine di approfondimento. Ogni problema contemporaneo ha una propria radice storica, che nel nostro caso risale per l’appunto alla nascita di fenomeni ben determinati, come l’Umanesimo, il Rinascimento, la Riforma protestante, il sistema capitalistico, il colonialismo, la rivoluzione tecnico-scientifica, la rivoluzione francese, la nascita degli Stati e delle Nazioni, lo sviluppo della rappresentanza parlamentare, la separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, la nascita della giurisprudenza civile, commerciale, penale e via dicendo.

La storia, come disciplina, serve non solo a capire l’origine remota dei fenomeni del presente, ma anche a individuare le possibili soluzioni generali ai loro problemi, senza per questo che il docente si debba addentrare in questioni troppo tecniche o di natura politica, che certamente non gli competono. Compito essenziale della scuola infatti deve essere quello di far capire il presente nelle sue linee di fondo, dando del passato un quadro sufficientemente chiaro e sintetico.

Il presente può essere meglio compreso se si vanno a ricercare nel passato le motivazioni storiche del suo esistere, ma questo non significa che il passato possa offrire le soluzioni ai nostri problemi. La libertà dell’uomo deve giocarsi nelle contraddizioni del presente e la scuola può soltanto educare alla “cittadinanza” come forma responsabile dell’agire. La storia dunque andrebbe fatta a partire dal presente, che è l’unica realtà veramente esistente, volgendo il proprio sguardo al passato per cercare insegnamenti o ispirazioni.

Purtroppo nella scuola la storia viene spesso studiata come una cosa che appartiene unicamente al passato: noi rendiamo morto un tempo vivo come il presente e ci meravigliamo che lo studente non consideri vivo un tempo morto come il passato.

La stessa scuola appare più viva quando fa “progetti” col territorio che non quando si caratterizza come “lezione frontale”, la quale lezione infatti si autoregolamenta per far studiare non tanto sui “problemi” quanto semplicemente sul “manuale”, che contiene già le risposte a tutte le domande. Lo studio sui libri è aprioristico par exellance, per cui non può mai essere una conseguenza dei problemi che si devono affrontare. Si studia non su eventi in movimento, ma su eventi statici, predefiniti, il cui significato è un già dato, un elemento acquisito che va solo memorizzato, a meno che un docente non preferisca la “lezione laboratoriale”, in cui si parte da una semplice domanda, destinata a complicarsi strada facendo, e finché non s’è trovata una risposta sufficientemente adeguata, utilizzando la strumentazione più varia, non si va avanti, proprio perché al centro dell’attività didattica vi è solo una parola: la ricerca.

A scuola bisogna imparare l’evoluzione dinamica dell’acquisito, che non può essere dato per scontato, meno che mai per la mente di un alunno in via di formazione, che ha bisogno di costruirsi le coordinate spazio-tempo del proprio presente. “Dinamica” perché la suddetta evoluzione non può essere una semplice catena di fatti legati in maniera necessaria, come se ad ogni causa potesse corrispondere soltanto un determinato effetto. Scrive, a questo proposito, Mario Pinotti: “dalle conoscenze già organizzate [si dovrebbe passare] al cammino che le informazioni devono percorrere prima di venir dotate di senso. Il racconto storico cede il passo ai criteri storiografici da cui scaturisce la narrazione” (in Il laboratorio e la sua polisemia, art. trovato nel sito www.israt.it).

Affrontare i fatti come se essi non fossero il frutto di scelte difficili, compiute di fronte a determinati problemi, non serve a nulla. Lo studente non riesce ad apprendere la necessità di operare delle scelte decisive, strategiche, per loro natura rischiose, spesso sofferte e sempre tipiche della libertà umana.

Quando noi docenti diciamo che lo studio del passato ha senso solo nella misura in cui può servire a far vivere meglio il presente, non abbiamo intenzione di formulare una sorta di “espressione statica”, dando cioè per scontato che l’attuale configurazione del mondo contemporaneo sia un “dato di fatto”. Ogni presente ha in sé delle contraddizioni che vanno risolte in maniera progressiva. Il passato va studiato nella misura in cui aiuta a comprendere e risolvere queste contraddizioni. Studiare il passato in maniera evolutiva, come una successione temporale di fatti che si cerca di tenere insieme secondo uno schema di causa ed effetto, semplificato al massimo, non aiuta a migliorare le cose, a far sentire “protagonisti” i nostri allievi. Anche perché in tal modo si dà per scontato che il senso ultimo del passato risieda nel presente, in forza del fatto che il presente è visibile, contemporaneo all’uomo, in grado di guardare dall’alto ciò che lo ha preceduto.

Il significato del passato non sta nel presente, altrimenti si sarebbe costretti a ipotecare il futuro. Il presente deve limitarsi a cercare nel passato quelle indicazioni che possono aiutare l’uomo a vivere meglio il suo tempo. Avere un passato significa avere un aiuto in più, sempre che questo passato non venga vissuto come un potere vincolante, come una sorta di forca caudina per il presente. L’uomo deve essere libero di fare le sue scelte: il passato ha senso se lo aiuta in questo compito.

Può avere un senso una “storia cronologica” non tanto quando, seguendo una sequenza lineare del tempo, si è convinti che il nostro presente, appunto perché a noi contemporaneo, sia capace di includere nel proprio scibile il meglio di tutte le epoche precedenti; ma semplicemente quando i problemi del presente interpellano il passato, al fine di individuare i momenti salienti in cui sono avvenute delle svolte storiche, delle transizioni decisive verso soluzioni inedite.

Studiare il passato ha senso quando serve per capire il presente; se questo non è vero, è meglio studiare solo il presente, come generalmente fa la politica, che spesso però è priva di cultura. Lo studio della storia è lo studio delle origini culturali del nostro tempo presente: le coordinate della politica, dell’economia, dell’organizzazione sociale, amministrativa, di un paese sono sempre di tipo culturale, e riguardano decisioni esistenziali, scelte valoriali, in cui indubbiamente anche gli aspetti religiosi hanno giocato e a volte giocano ancora un ruolo rilevante.

Il ripristino dell’Educazione civica

Nelle nostre scuole si è tenuta per molto tempo separata la storia dall’educazione civica, finché la Direttiva ministeriale n. 58 ha deciso nel 1996 di spalmare quest’ultima, nelle medie, nell’arco del triennio di storia e parzialmente di geografia, ma soprattutto di delegarla ai progetti educativi di istituto (come p.es. quello alla legalità) o comunque di farla diventare una sorta di “educazione trasversale” a tutte le discipline, al pari di tante altre, che non hanno propri orari, voti e abilitazione e che, pur essendo fatte poco e male, sarebbero forse quelle più utili per i nostri allievi e sicuramente quelle su cui più facilmente si potrebbero testare le competenze.

Le elenca Luciano Corradini nel Documento di sintesi prodotto dal gruppo di lavoro sull’educazione alla cittadinanza istituito con decreto dipartimentale 12.4.2007, n.32: educazione alle relazioni interpersonali, alla socialità e alla convivenza civile; educazione alla cittadinanza (democratica, attiva, responsabile, italiana, europea, mondiale, plurale, a raggio variabile, ecc.) e alla cultura costituzionale, ai diritti umani, alle responsabilità, al volontariato, alla legalità e simili (comprese sottovoci rilevanti come l’educazione stradale); educazione interculturale e alle differenze di genere e alle pari opportunità; educazione alla pace e alla gestione (democratica, non violenta, creativa) dei conflitti e simili; educazione all’ambiente, naturale e culturale, e allo sviluppo (umano, globale, planetario/locale/’glocale’, sostenibile ecc.); educazione ai media e alle nuove tecnologie, e simili; educazione alla salute.

L’educazione civica poteva essere affrontata indipendentemente da un’analisi storica dei problemi, in quanto chiamava in causa questioni giuridiche, sociali, culturali, etiche ecc. E tuttavia la vera efficacia di questo “sapere” stava proprio, quando si trattava di tirare le fila del discorso, nel fare riferimenti precisi alla storia, al fine di comprendere adeguatamente l’origine socioculturale e lo sviluppo dei fenomeni e dei problemi, evitando le astrattezze e le genericità delle analisi non contestualizzate.
Ancora oggi, pur non avendo più un libro di testo specifico, un docente di storia può tranquillamente usare un argomento di educazione civica come occasione motivazionale da cui partire (p.es. il ruolo della famiglia contemporanea), per poi elaborare un percorso sulle diverse tipologie di famiglie lungo i secoli, spiegandone l’evoluzione in rapporto ai processi sociali ed economici.

L’educazione civica non può sopperire all’uso di strumenti legati all’attualità, come p.es. i quotidiani, spesso presenti nelle aule, che coi loro dossier relativi ai grandi temi di attualità, sono in grado di offrire un certo contributo all’affronto di tale “educazione trasversale”. Per l’analisi del presente l’educazione civica può essere anche più importante della storia, la quale, inevitabilmente, si configura come una riflessione sul passato, o comunque su fatti accaduti non di recente, anche quando ci si riferisce all’oggi.

La scuola dovrebbe togliere ai mass-media (tv, radio, quotidiani, web) il privilegio di disporre in maniera esclusiva dell’accesso alla “contemporaneità”, anche perché quando si affronta la contemporaneità senza una base storica (come appunto fanno i media), si cade inevitabilmente nella superficialità delle tesi da sostenere, si finisce nel vicolo cieco delle opinioni fini a se stesse, senza capire la causa remota dei problemi e dei fenomeni.

La ricerca storiografica, in tal senso, ha già parlato di una “nuova alleanza tra storiografia e insegnamento”, nella consapevolezza di un forte legame tra storia contemporanea e formazione dei cittadini. (1)

Didatticamente si può dunque partire in classe da un argomento di educazione civica (o di attualità), per poi arrivare a una precisazione, sufficientemente chiara, dei termini storici entro cui un determinato problema può essere affrontato. La lezione riesce quando i vari punti di vista si confrontano democraticamente, quando emergono opinioni condivise da questo o quel gruppo e soprattutto quando sono i ragazzi stessi che ad un certo punto si mettono a formulare nuove domande.

Se oggi p.es. la famiglia nucleare vive una profonda crisi, si deve comunque sapere ch’essa è uscita dalla famiglia patriarcale e questa è stata distrutta nella transizione dal feudalesimo al capitalismo. Un ritorno alla famiglia patriarcale, in un contesto borghese, non ha senso, tanto più che oggi la famiglia che va imponendosi, per motivi anche di disagio economico, punta spesso sulla convivenza senza figli.

Questo per dire che è stato un errore l’aver abolito il testo di educazione civica. Anzi vien quasi da pensare che nessun’altra disciplina meglio dell’educazione civica (che poi era un’educazione alla legalità e alla democrazia) avrebbe potuto garantire le “situazioni di caso” sulla base delle quali verificare le competenze personalizzate.

In questo momento, come noto, il Ministero della P.I., impressionato dai fenomeni di bullismo dello scorso anno scolastico, ha voluto ripristinare questa disciplina nella scuola media, senza sapere che, pur non facendola in maniera tradizionale, le scuole s’erano attrezzate da tempo a svolgerla in altre forme e modi. L’ha pretesa come materia a sé senza dotare gli studenti dei relativi libri di testo, confidando nella buona volontà dei docenti.

(1) Cfr Convegno internazionale, Storiografia e insegnamento della storia: è possibile una nuova alleanza? (Bologna 2004) e Convegno nazionale di Modena, La storia è di tutti. Nuovi orizzonti e buone pratiche nell’insegnamento della storia (2005)

Quali competenze storiche?

Nonostante da più di vent’anni, cioè almeno dai programmi del 1985 per la scuola elementare, la storia come disciplina sia oggetto d’interesse da parte dei tanti Ministri della Pubblica Istruzione che fino ad oggi si sono succeduti e che han cercato di superare la ripetizione ciclica dei contenuti, a favore di una visione organica del curricolo tra scuole elementari e medie, il modello gentiliano domina ancora incontrastato.

La didattica di tale disciplina, probabilmente la più complessa di tutte, viene ancora concepita come trasmissione di conoscenze consolidate, frutto delle ricerche degli storici accademici, le quali vengono poi imposte dagli editori, previa semplificazione didattica, attraverso l’adozione del libro di testo, la cui tassativa obbligatorietà nessun Ministro ha mai messo in discussione.

Tale trasmissione avviene per lo più attraverso la lezione frontale e lo studio del manuale, che consiste nella memorizzazione, da parte dello studente, di fatti o eventi disposti in un ordine lineare-diacronico, sulla base del presupposto dell’unicità del tempo storico, coincidente col tempo cronologico degli eventi, che s’intendono riferiti teleologicamente all’Europa occidentale, un’area geo-storica a fronte della quale il resto del mondo o non esiste in maniera autonoma, oppure è visto come mero prolungamento dell’impatto euroccidentale sul pianeta: “nella gran parte dei manuali l’auspicato abbandono dell’eurocentrismo si riduce ancora ad una pura dichiarazione d’intenti”, così scrive R. Dondarini, in Per entrare nella storia, ed. Clueb, Bologna 1999.

Tutta la storia è concepita come un continuo narrativo di fatti eminentemente politico-istituzionali, che trovano il loro terminus ad quem nel presente della civiltà occidentale, il cui inizio storico stricto sensu viene fatto risalire al XVI secolo, fatte salve le anticipazioni di Italia e Fiandre, mentre l’inizio storico sensu lato parte addirittura dalle prime civiltà assiro-babilonesi e soprattutto da quelle mediterranee (egizia, fenicia, minoico-cretese ecc.), che sono a noi più vicine: in definitiva da tutte quelle civiltà caratterizzate dalla scrittura, dagli scambi commerciali, dall’urbanizzazione, dalla divisione del lavoro, dalla contrapposizione dei ceti ecc. e che hanno trovato il loro compimento più significativo nella nostra. Da quel lontano passato ad oggi l’unico momento poco meritevole d’essere preso in considerazione è il cosiddetto “Medioevo”, a causa della sua eccessiva caratterizzazione “rurale”, soprattutto di quel periodo che va dalle invasioni cosiddette “barbariche” al Mille. Insomma il nostro presente va a cercare nel passato una propria anticipata autorappresentazione. Antonio Brusa ha scritto, a tale proposito, un importante Prontuario degli stereotipi sul Medioevo (“Cartable de Clio”, n. 5/2004, reperibile anche in storiairreer.it): se ne citano almeno una quarantina.

Ancora oggi noi usiamo parole come “Medioevo”, “impero bizantino”, “barbari” ecc. che i protagonisti di quelle epoche avrebbero ritenuto del tutto incomprensibili se non addirittura inaccettabili. P.es. il termine “Medioevo”, che pur ci appare così cronologicamente neutro, e che è stato formulato in epoca umanistica, è alquanto dispregiativo: considerare mille anni di storia (che poi in Europa orientale furono molti di più e spesso con caratteristiche meno “feudali” delle nostre) come una sorta di “intermezzo barbarico” tra due “luminose civiltà”: quella greco-romana e quella umanistico-rinascimentale, sicuramente non è stato e continua a non essere il modo migliore per valorizzare quel periodo.

Chiarito infine che l’attributo più significativo con cui cerchiamo di distinguere la nostra civiltà da tutte le altre non meno commerciali, è la rivoluzione tecnico-scientifica, che ha permesso l’industrializzazione del business e il totale assoggettamento della natura, non resta che chiudere il primo ciclo dell’istruzione con la disamina del Novecento, dopodiché alle superiori – ecco perché parliamo di impostazione gentiliana – non resta che ricominciare tutto da capo.

Peraltro il “presente” di cui si poteva parlare in terza media fino allo scorso anno scolastico non era neppure tanto “contemporaneo”, in quanto, con la riforma morattiana, si era tornati a fare, in 60 ore disponibili, l’Ottocento e il Novecento. Questo poi senza considerare che del mondo contemporaneo, generalmente, non si fanno mai quelle cose che potrebbero davvero servire alla gioventù per affrontare al meglio il proprio tempo, e che invece spesso si ritrovavano in un qualunque manuale di educazione civica.

È vero che con le nuove Indicazioni per il curricolo (2007) s’è tornati a riproporre lo studio del solo Novecento nell’ultimo anno della scuola media, ma è anche vero che questa scelta stride ancor più con l’altra, non meno recente, d’aver voluto innalzare l’obbligo scolastico a 16 anni. Infatti se davvero fossimo favorevoli a una visione organica, in verticale, del curricolo di storia, dovremmo far fare il Novecento soltanto nell’ultimo anno del biennio delle superiori, che viene appunto a coincidere con la fine dell’obbligo; anzi, in questo stesso anno si dovrebbe prevedere un esame finale di stato, eventualmente in sostituzione di quello del primo ciclo d’istruzione.

In fondo non era così peregrina l’idea berlingueriana della Riforma dei cicli (n. 30/2000) secondo cui il periodo compreso dalla rivoluzione industriale ai giorni nostri sarebbe stato meglio farlo nelle prime due classi della scuola secondaria superiore, a conclusione appunto di un percorso iniziato in prima elementare. L’affronto più approfondito dei problemi ne avrebbe sicuramente tratto giovamento.