Le leggi che gli uomini hanno creduto di poter individuare nei processi storici sono così tante che solo per esse ci vorrebbe una trattazione a parte. Basti pensare a quanti dibattiti suscitò quella marxista relativa all’adeguamento dei rapporti produttivi alle forze produttive, o a quella hegeliana relativa all’ironia della storia, che poi riprendeva, in chiave laica, quella cristiana sul ruolo storico della provvidenza divina. Qui si può soltanto accennarne qualcuna, nella consapevolezza dell’assoluta provvisorietà dell’argomentazione.
1. Sociale, culturale e politico
Una qualunque storia degli avvenimenti di una determinata popolazione deve suddividersi in tre campi d’indagine: sociale, culturale e politico.
Il campo sociale include tutto quanto riguarda la vita collettiva che non riflette su se stessa o non avverte il bisogno di farlo, in quanto agisce spontaneamente, in maniera naturale, seguendo le tradizioni e i valori consueti, dominanti. In questo campo va inclusa l’economia, l’ecologia ecc.
Il campo culturale invece è la riflessione che si fa sul sociale (specie quando questo tende a modificarsi, a evolversi): una riflessione che per molti secoli è stata di tipo religioso. È il luogo del ripensamento degli stili di vita, del significato dei valori, del confronto delle idee, ecc.
Il campo politico è quello delle decisioni collettive. Generalmente la politica è il luogo delle discussioni che devono approdare a una decisione comune, vincolante per tutti, che generalmente viene presa dopo che sui mutamenti sociali gli intellettuali hanno riflettuto criticamente. Nelle civiltà antagonistiche la politica necessariamente riflette la natura dei conflitti di ceto o di classe, per i quali si cerca una qualche mediazione.
Questi tre campi non possono mai essere tenuti disgiunti dallo storico, poiché l’uno presuppone l’altro ed essi si influenzano reciprocamente.
Quando ci si basa solo sul sociale si finisce col vivere la vita in maniera istintiva, ripetitiva, vicina al mondo degli animali. Qui la storia è cieca.
Quando si fa troppa cultura si rischia di cadere nell’astrazione, di confondere i desideri con la realtà, di vendere fumo. Qui la storia diventa illusoria.
Quando si vive solo di politica si ragiona in termini esclusivamente di potere, di schieramento, di rapporti di forza e si finisce col realizzare forme inumane d’esistenza. Qui la storia diventa violenta.
2. Dolore e sofferenza nella storia
In una considerazione storica non ha alcun senso affermare che il dolore e la sofferenza siano una cosa “inevitabile” per determinate categorie sociali o addirittura per intere popolazioni. Uno storico non può credere che un qualche destino assegni, per un periodo di tempo che non si può sapere in anticipo, il compito di “soffrire” ad alcune popolazioni o classi sociali, per il “bene” del genere umano, globalmente considerato. Questo significa fare del cinismo.
Dolore e sofferenza sono un “obbligo” fintantoché vengono subìti passivamente, cioè fino a quando non ci si sa riscattare da un’oppressione che avvilisce. Nella storia bisogna saper cercare il filo che unisce le varie forme dell’autoemancipazione umana dalla sofferenza ingiusta.
La storia delle civiltà umane non è altro, in realtà, che la storia delle diverse forme di “inciviltà” e della lotta contro queste forme. È una storia in cui l’incapacità di superare la forma dell’antagonismo individualistico ha fatto sì che questo si manifestasse in forme sempre più perfette ed esasperate. Una “parziale” resistenza all’individualismo permette soltanto che quest’ultimo si rafforzi ulteriormente, assumendo nuove forme.
Si potrebbe anzi dire che le contraddizioni dei sistemi basati sull’antagonismo sociale tendono progressivamente ad acuirsi, al punto che se non s’interviene in tempo, affrontandole secondo i criteri della democrazia, inevitabilmente la risposta individualistica a quelle contraddizioni proporrà soluzioni ancora più negative: le istituzioni economiche diverranno sempre più fraudolente e quelle politiche sempre più autoritarie. La corruzione si farà “sistema”.
Ciò di cui si è sicuri è che all’individualismo gli uomini non riescono a rassegnarsi, in quanto la loro natura è votata alla socializzazione. Ma non si può essere sicuri che in questa lotta trionferà il collettivismo libero, poiché l’esito della vittoria dipende dalla volontà degli uomini, dal livello di consapevolezza che hanno, dalla libertà di cui vogliono disporre.
Di certo l’esito finale della lotta potrà essere davvero vincente soltanto se costituirà un ritorno alla condizione umana pre-individualistica, un ritorno caratterizzato dalla consapevolezza dei limiti strutturali dell’antagonismo sociale.
3. L’umanità dell’uomo
È difficile pensare che nel passato sia esistito qualcosa la cui dimenticanza oggi ci impedisce di diventare veramente umani. L’umanità dell’uomo è intrinseca all’uomo stesso: la perdita della memoria che ne possiamo avere non implica automaticamente quella del suo desiderio. Il desiderio possiede una memoria inconscia, che la memoria non conosce.
L’unica difficoltà sta nel recupero di questa memoria: quanto meno forte è stata la dimenticanza, tanto meno forte dovrebbe essere il desiderio di recuperare la memoria. E viceversa: quanto più forte la dimenticanza, tanto più forte deve essere il desiderio.
Tuttavia, questi processi non sono mai automatici, poiché insieme alla memoria e al desiderio vi è anche l’interesse di chi vuol conservare la dimenticanza e alimentare falsi desideri. L’opposizione alla memoria e al desiderio fa parte del gioco della libertà, per quanto la vera libertà non stia nella possibilità di scelta – come generalmente si crede – ma nell’esperienza del valore umano. La libertà di scelta non è in realtà che libero arbitrio, cioè la premessa non la sostanza della libertà.
In occidente la libertà è così poco vissuta – come esperienza del valore (il bene) – che si è stati costretti a farla coincidere, stricto sensu, con la facoltà del libero arbitrio. L’uomo occidentale si sente libero soltanto quando sceglie, cioè solo nel momento in cui crede di poter fare una scelta tra un’opzione e l’altra (cosa p.es. che si verifica quando si va a votare), ma poi l’esperienza di libertà che si è indotti a vivere, di “umano”, di “civile”, di “democratico” spesso ha assai ben poco.
4. Cinque tappe storiche
Tutte le popolazioni esistite nella storia, che per secoli hanno vissuto determinate condizioni socio-culturali, vanno considerate come appartenenti al genere umano.
Ovviamente non nel senso che una popolazione rappresenta i “piedi” del genere umano e un’altra il “cervello” o il “cuore”. Questo sarebbe fare del razzismo. Piuttosto nel senso che ogni popolazione rappresenta un momento particolare del genere umano, ed anche, di conseguenza, un aspetto particolare in cui esso è stato e viene ancora oggi rappresentato. Il “momento” si riferisce al tempo storico, l’“aspetto” si riferisce alla modalità con cui una popolazione ha vissuto nel proprio “spazio” quel particolare momento.
Bisogna infatti che lo storico sappia cogliere, nell’evoluzione storica del genere umano, le varie tappe del suo sviluppo (i diversi momenti storici), chiaramente distinguibili le une dalle altre. Le famose cinque tappe storiche, proposte dal socialismo scientifico, che oggi si accettano solo fino a un certo punto: comunismo primitivo, schiavismo, feudalesimo, capitalismo, socialismo, non sono state vissute contemporaneamente da tutte le popolazioni umane: alcune addirittura sono passate da una all’altra tappa, saltando quella di mezzo.
Esiste nella storia una discontinuità (dovuta alla facoltà della libertà umana) da cui non si può prescindere. Se una popolazione è limitata nel suo sviluppo democratico, ciò non può esserle imputato più di quanto non possa esserlo a tutte le altre popolazioni, che non hanno saputo realizzare lo sviluppo uniforme, continuo, del genere umano verso la democrazia. I torti non stanno mai da una sola parte.
Occorre anche che lo storico sappia distinguere i vari aspetti socio-culturali che hanno caratterizzato l’organizzazione delle diverse popolazioni. Sulla base di questi aspetti è possibile verificare se la tappa evolutiva è stata vissuta in modo adeguato, conforme alle leggi dell’evoluzione storica del genere umano. Se cioè la popolazione ha saputo lottare efficacemente contro le contraddizioni della sua epoca, acquisendo una consapevolezza matura dei rapporti umani e democratici, conformi alle esigenze della natura.
A proposito delle cinque tappe storiche di cui più sopra di parlava, bisogna dire che nel nostro paese, specie in ambito scolastico, chiunque faccia storiografia si vergogna di attribuire la propria metodologia ai classici del marxismo, che pur hanno inventato la storia socio-economica e che sarebbero impensabili senza riferimenti espliciti a tutta la cultura borghese europea.
È raro infatti vedere un quadro comparativo in cui vengono messe a confronto le cinque formazioni sociali individuate dal socialismo scientifico: si teme che questa sinossi, pur agevolando un approccio olistico alla storia mondiale, si caratterizzi in maniera ideologica, spostando marcatamente il baricentro della storiografia verso “sinistra”, o comunque contaminando con opzioni di tipo politico un discorso che invece deve restare rigorosamente culturale.
Sicché si preferisce utilizzare solo astrattamente alcuni elementi interpretativi dei fenomeni storici, evitando di metterli in relazione alla necessità di considerare categorie come “occidente”, “capitalismo”, “democrazia borghese”, “Stato nazionale” ecc., destinate ad essere superate dalla storia.
In tal modo però, invece di integrare la concezione materialistica della storia con l’apporto di nuovi elementi umanistici, arricchendola nella sua valenza interpretativa, cioè invece di mettere in risalto non solo il momento economico della “necessità storica” ma anche quello culturale della “libertà umana”, si finisce con l’abbandonare quella concezione a se stessa, limitandosi a offrire un approccio metodologico troppo asettico e privo di prospettive.
P.es. quello che del marxismo andava sicuramente superato non era tanto l’analisi di come le cose sono oggettivamente andate dal feudalesimo al capitalismo, quanto piuttosto la mancanza di un’ipotesi argomentativa, quella di prevedere come le cose sarebbero potute andare senza considerare il capitalismo l’unica alternativa possibile al feudalesimo.
Spiace veder gli storici aver paura di essere troppo “storici”, anche perché, quando preferiscono riservarsi un certo margine di superficialità, se non di ambiguità, al fine di soddisfare i pregiudizi della cultura dominante e sentirsi così più liberi (illusoriamente) di procedere nelle loro ricerche, spesso rischiano, proprio a causa di questa pigrizia intellettuale, di trasformare le loro ricerche in semplici varianti di tesi ampiamente consolidate.
5. Istituzioni e masse
Una delle leggi fondamentali della storia è la seguente: quanto più le istituzioni pretendono di condizionare con la forza poliziesca o militare le masse, tanto meno vi riescono. Cioè i momenti più favorevoli alla coazione sono quelli in cui si usa il condizionamento con strumenti non esplicitamente basati sulla forza “fisica”.
Perché la repubblica romana durò più dell’impero? Perché la chiesa romana ebbe più consensi popolari nell’alto Medioevo che non nel basso? Il motivo è molto semplice: il principio della “forza” era stemperato da istanze democraticistiche (il senato a Roma, le comunità di villaggio nel Medioevo).
In altre parole, il potere che vuole diventare dispotico, in un primo momento, usa la finzione della partecipazione popolare (o comunque deve in qualche modo tener conto di questa realtà). Successivamente, quanto più aumenta l’autoritarismo (potere politico + privilegi economici), tanto meno le istituzioni si sentono indotte a ricorrere alla mistificazione del consenso popolare. Proprio questa convinzione le induce a credere di poter usare la violenza in maniera esplicita e diretta. Ma le masse non amano essere angariate senza neppur avere l’illusione di non esserlo sino in fondo. Di qui la resistenza popolare.
All’arbitrio e alla corruzione presente a livello istituzionale le masse rispondono generalmente in tre modi: con la rivoluzione politica, che impone, soprattutto nella fase iniziale, una svolta positiva nei valori e negli stili di vita (rivoluzione francese, russa ecc.); con la criminalità organizzata, che sfrutta il malcontento per la corruzione istituzionale per affermarne una di tipo territoriale, gestita da poche persone senza scrupoli (mafie di ogni genere); con una reazione di protesta alla corruzione delle autorità, apparentemente in nome di una maggiore democraticità dei rapporti umani, di fatto invece per allargare questa forma di corruzione a livello di tutta la società (l’esempio classico è quello della riforma protestante, dove alla corruzione politica del papato si rispose con quella economica dell’affarismo borghese).
Naturalmente tra i due modi di fare politica, quello delle istituzioni e quello delle masse, lo storico deve privilegiare quello di coloro che hanno cercato di promuovere rapporti sociali democratici e non può accordare troppo spazio, come invece purtroppo fa, alla storia dei poteri dominanti.
6. Le occasioni perdute
Quando, di fronte ai soprusi istituzionali, le masse tentano una forma di opposizione che non sanno gestire sino in fondo, si parla di “occasioni perdute”.
Spesso, in questa debolezza organizzativa e decisionale, le maggiori responsabilità ricadono non tanto sulle masse, che si muovono il più delle volte in modo spontaneo, bensì sui loro dirigenti, che rappresentano invece l’avanguardia più consapevole.
Ebbene, qui la storia parla chiaro: quando le occasioni si ripresentano, vengono sempre meno sfruttate, proprio perché, nel frattempo, il potere istituzionale ha saputo prendere le contromisure. Ogni occasione perduta comporta che all’occasione successiva l’opposizione popolare dovrà pagare un prezzo molto più alto per riuscire ad avere la meglio.