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L’ebraismo affaristico negli Stati Uniti

Interessante l’art. di Thomas Dalton, “Una breve occhiata alla storia della ricchezza ebraica”, su renegadetribune.com. È del gennaio 2024. Ne riporto alcuni aspetti relativi alla contemporaneità americana.
– Dei 10 americani più ricchi, cinque sono ebrei: Mark Zuckerberg (72 miliardi di dollari), Larry Page (60 miliardi di dollari), Sergey Brin (59 miliardi di dollari), Larry Ellison (54 miliardi di dollari) e Michael Bloomberg (50 miliardi di dollari). La maggior parte di questo denaro proviene dall’industria high-tech: Facebook (Zuckerberg), Oracle (Ellison) e Google (Page e Brin).
– Dei 50 americani più ricchi, almeno 27 sono ebrei. Oltre ai cinque di cui sopra, abbiamo S. Adelson, S. Ballmer, M. Dell, L. Blavatnik, C. Icahn, D. Moskovitz, D. Bren, R. Murdoch (probabilmente in parte ebreo), J. Simons, L. Lauder, E. Schmidt, S. Cohen, C. Ergen, S. Schwarzman, R. Perelman, D. Newhouse, D. Tepper, G. Kaiser, M. Arison, J. Koum, S. Ross e C. Cook. Tecnicamente, questa lista dovrebbe includere anche George Soros, il cui patrimonio netto era di circa 26 miliardi di dollari fino a quando non ha “donato” 18 miliardi di dollari alla sua stessa organizzazione di beneficenza all’inizio del 2018. La ricchezza combinata di questi 27 individui ammonta a circa 635 miliardi di dollari. Nota: se gli ebrei fossero rappresentati proporzionalmente tra i primi 50, in questa lista ci sarebbe un solo individuo; invece ce ne sono 27.
– Prendiamo un’altra misura della ricchezza: il reddito del CEO. Tra i 10 CEO americani più pagati, quattro sono ebrei: Leslie Moonves (CBS), Nicholas Howley (TransDigm), Jeff Bewkes (Warner) e Stephen Kaufer (TripAdvisor). Tra i primi 35, non meno di 19 sono ebrei; oltre ai quattro di cui sopra ci sono D. Zaslav, S. Catz, A. Bousbib, R. Iger, M. Rothblatt, S. Wynn, M. Grossman, J. Sapan, B. Jellison, R. Kotick, J. Dimon, L. Fink, B. Roberts, L. Schleifer e S. Adelson.
– Quindi, sia che si considerino le attività totali o il reddito, i dati mostrano che, negli USA, gli ebrei possiedono o controllano circa la metà della ricchezza, almeno tra l’élite più ricca. Queste persone sono i promotori e gli agitatori del processo politico americano…
– Insomma se gli ebrei controllano circa la metà di tutta la ricchezza al vertice, è ragionevole dedurre che possano detenere una quota simile in tutta la gerarchia della ricchezza, almeno tra il 20% dei detentori di ricchezza, che collettivamente detengono più del 90% di tutta la ricchezza delle famiglie americane.
– Nel 2018 il “Wall Street Journal” ha riportato che il totale dei beni di tutte le famiglie private negli USA ha raggiunto i 100 trilioni di dollari per la prima volta in assoluto. Se gli ebrei “americani” possiedono o controllano la metà di questa cifra, allora si arriva a circa 50 trilioni di dollari, cioè 50.000 miliardi di dollari. Ora pensate a quanto potere possiede un uomo con un miliardo di dollari; ora considerate l’equivalente di 50.000 di questi individui, che lavorano più o meno all’unisono. Questo è il potere finanziario degli ebrei “americani”.
– Naturalmente non ci sono neanche lontanamente così tanti miliardari americani. Infatti il numero totale (ebrei e non ebrei messi insieme) è stato recentemente stimato da “Forbes” in soli 585. Se l’analisi di cui sopra è approssimativamente corretta, circa 290 di questi sono ebrei.
– A seconda di come li definiamo, ci sono circa 6 milioni di ebrei “americani”. Questi 6 milioni controllano, in media, circa 8 milioni di dollari a persona, cioè per ogni uomo, donna e bambino ebreo. Una tipica famiglia di quattro persone passerebbe quindi a circa 32 milioni di dollari.
– Ora consideriamo l’1% ebraico, che ammonta a circa 60.000 individui. Se la stessa distribuzione approssimativa vale tra loro come tra il pubblico in generale, allora questo 1% più ricco possiede circa il 35% della ricchezza ebraica totale. Quindi, i primi 60.000 ebrei possederebbero circa 18 trilioni di dollari. I restanti 32 trilioni di dollari verrebbero quindi divisi tra gli altri 5.940.000 ebrei “americani”, ottenendo una cifra ancora sbalorditiva di oltre 5 milioni di dollari a persona.
– Negli USA circa 160 milioni di persone possiedono un totale “combinato” di circa 0,3 trilioni di dollari, mentre circa 80 milioni di persone hanno un patrimonio netto negativo, ovvero più debiti che attività.
A fronte di questa situazione l’autore propone di tassare maggiormente gli ebrei. Mi chiedo che senso abbia farlo riferendosi a loro “in quanto ebrei”. E soprattutto che senso ha dire che “lavorano più o meno all’unisono”: se lo fanno, non è certo perché sono “ebrei”! Questo non ha capito che negli USA il capitalismo funziona così, e se gli ebrei fan più soldi degli altri, non è perché credono in Jahvè, e se vi riescono proprio perché sono “ebrei”, allora vuol dire che dal punto di vista del capitalismo l’ebraismo è migliore di qualunque altra religione o dell’ateismo. Il che, storicamente parlando, non è vero, in quanto il capitalismo, per formarsi e soprattutto per svilupparsi, ha avuto bisogno di altre due religioni: cattolicesimo e protestantesimo.
Fonte: https://www.renegadetribune.com/a-brief-look-at-the-history-of-jewish-wealth/

Quale passaggio di testimone?

Ormai è diventato facile capire che sarà la Cina a sostituire gli Stati Uniti nella guida del capitalismo mondiale, che naturalmente non avrà una connotazione privatistica ma statalistica, sfruttando la tradizione collettivistica di quel Paese, che l’occidente ha perduto molti secoli fa.
Perché non sarà l’India, che pur è destinata ad avere più abitanti della Cina? Perché ha ancora il problema delle caste da superare. Il capitalismo crea discriminazioni, è vero, ma sono di tipo economico o finanziario: tutte le altre non le sopporta, soprattutto se intralciano l’espansione globale dei mercati. Negli USA i nordisti vinsero i sudisti non perché fossero più democratici, ma perché con lo schiavismo non si sviluppa adeguatamente l’industria, anche se poi l’industria sviluppa uno schiavismo salariale.
Oggi però gli USA sono arrivati al capolinea, perché un capitalismo prevalentemente finanziario non regge il confronto con quello industriale, non ha un sottostante credibile, tant’è che ha bisogno di infinite guerre per sostenersi. In quel Paese l’unica vera industria che funziona è quella militare, con annessi e connessi.
Ma perché non può essere la Russia a prendere il testimone del capitalismo occidentale, visto che sul piano militare appare come la più forte di tutte le superpotenze? Non bastano le sue infinite risorse energetiche? Non ha abbastanza popolazione o potere finanziario? Non è forse intenta, già adesso, a gestire il capitalismo in chiave statale?
L’unico vero problema della Russia è la mentalità, troppo condizionata da una forma antica di cristianesimo, che non ha subìto i condizionamenti del cattolicesimo e del protestantesimo. In Russia manca una cultura borghese popolare: si fanno affari solo nelle alte sfere, ad alti livelli, e prevalentemente nelle grandi città dell’area europea, quella più occidentalizzata.
Ma come si è formata una cultura borghese così diffusa nella Cina tradizionalmente agrario-collettivistica? È stata la cultura confuciana, ereditata dal partito comunista. Non è stata quella buddistica, che pur ha scongiurato, essendo fondamentalmente ateistica, la possibilità di svolgere guerre civili sotto il pretesto di qualche religione.
La cultura confuciana permette qualunque comportamento sul piano sociale, salvo uno: l’obbedienza nei confronti delle istituzioni, da quelle statali a quelle familiari. Questa obbedienza è sacra, e chi la trasgredisce può pagarne gravi conseguenze.
Chiedere ai russi di obbedire a questi livelli, li indurrebbe a credere che lo stalinismo sia risorto, ed è molto difficile che possano accettare una cosa del genere. Putin viene accettato perché ha riscattato un Paese distrutto dal capitalismo privato degli anni ’90 e perché sa difenderlo dalle minacce della NATO, ma è impensabile che in questo momento si torni in Russia a parlare di socialismo. Tutti avrebbero l’impressione che si voglia fare un passo indietro.

Russia, Ucraina e occidente

L’“Operazione Kursk” è stata uno degli errori più costosi per Kiev. Probabilmente il governo pensava a dei vantaggi più politici che militari, da far valere in sede di trattativa. Ma ha perso su entrambi i fronti, e siccome la NATO, che manovra sempre dietro le quinte, ora è furiosa, aspettiamoci, come spesso succede in questi casi, che compia ulteriori errori di valutazione, ancora più gravi, soprattutto per i destini della UE. Poi dicono che i militari occidentali sono più intelligenti dei politici. Sarebbe meglio dire che la russofobia rende ciechi tutti quanti.
Si era anche convinti che i russi avrebbero allentato la pressione sul Donbass, ma, ancora una volta, si sono sbagliate le previsioni. Evidentemente non era bastato il fallimento della passata controffensiva.
Questa completa sottovalutazione delle forze del nemico, nonostante tutta la nostra intelligence e tutto il nostro spionaggio, ha davvero qualcosa di singolare. O noi non riusciamo a capire nulla della Russia, oppure loro sono bravissimi a confondere le cose, a mimetizzarsi, e soprattutto a rimediare velocemente ai loro errori. Noi, al confronto, siamo solo degli arroganti pressappochisti.
Indubbiamente i militari ucraini dimostrano una certa capacità di resistenza, che spesso però va di pari passo con vergognosi atti terroristici sui civili, ma quel che non si capisce, nel loro atteggiamento, è l’ostinazione a farsi comandare da un governo capace solo di mandarli al macello, un governo chiaramente ultracorrotto, che si spartisce buona parte dei fondi occidentali.
La sconfitta nella regione di Kursk sembra una tragica allegoria della terribile situazione che non solo l’Ucraina ma anche l’intero occidente sta affrontando. La convinzione d’essere superiori in tutti i campi (da quello etico a quello giuridico, da quello economico a quello militare) sta per crollare rovinosamente. E siccome si vuole evitarlo, non ci resta che scendere in campo in maniera diretta. Solo che per essere disposti al suicidio occorrono dei “volenterosi”.

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Resta piuttosto incredibile che tanti italiani considerino la Russia un “nemico” quando di fatto l’Italia non ha mai subìto alcuna sanzione da parte di questo Paese, in nessun momento della sua storia millenaria; e neppure è mai stata minacciata né come popolo né come Stato, mai stata invasa o bombardata, né ha mai subìto alcuna “esportazione della democrazia”. Anzi i russi amano profondamente la nostra arte e architettura.
Come si fa a non capire che il nostro Paese è una colonia americana? Noi siamo stati liberati da un fascismo politico per subire l’occupazione di un fascismo economico e finanziario: un fascismo protetto da 120 basi e installazioni militari sparse ovunque nel nostro Paese.
Evidentemente dobbiamo chiederci in che cosa abbiamo sbagliato, cioè come sia stato possibile che il consumismo di massa, importato dagli USA, più tutta la loro narrativa trasmessa attraverso i mass-media, siano riusciti a imporci uno stile di vita che deforma l’oggettività dei fatti.
Persino oggi ci appare scontato che gli USA, dopo aver distrutto il Nordstream, che ci permetteva di avere tanto gas a prezzo scontato e di ottima qualità, siano autorizzati a farci acquistare il loro gas molto più costoso e inquinante, non sufficiente a soddisfare tutte le nostre esigenze. Non solo, ma dopo aver minato la competitività dell’economia europea, ora hanno deciso di imporci dazi a volontà per difendere la loro produzione.
Non è normale un atteggiamento così servile. Fa pensare solo una cosa: che tutte le persone che contano siano sul libro-paga degli americani, o che vogliano continuare a esserlo anche adesso che ci prendono a pesci in faccia.
Non riuscire a distinguere l’amico dal nemico avrà inevitabilmente delle conseguenze negative su di noi. Certamente, dopo averle subite, impareremo qualcosa di più, ma ricordiamoci che con le armi attuali molti di noi non avranno modo di pentirsi, proprio perché mancherà il tempo.

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L’intero occidente non si rende bene conto che Putin, essendosi fidato troppo delle promesse pacifiste degli euroamericani negli anni passati (seguace, in questo, di Gorbaciov), e avendo un forte debito di riconoscenza verso la popolazione del suo Paese, che ha accettato di andare a morire in Ucraina per difendere i russofoni del Donbass dalle persecuzioni nazionaliste e neonaziste di Kiev, e sentendosi responsabile dei gravi disagi che le sanzioni occidentali hanno causato a tutte le popolazioni della Russia, non potrà mai accettare alcuna tregua militare finché non verranno conseguiti tutti gli obiettivi prefissati all’origine di questa operazione speciale.
Ormai questo conflitto, ampiamente sostenuto dalla NATO (che fino adesso si è limitata a combattere per procura), si basa su questioni di principio inderogabili, che non possono essere soggette ad alcuna trattativa: 1) nessuna adesione alla NATO per l’Ucraina; 2) nessun peacekeeper della NATO in Ucraina; 3) Ucraina denazificata e smilitarizzata; 4) regioni del Donbass riconosciute come territori russi, più la Crimea.
Qualunque tentativo di non tener conto di tutti i suddetti obiettivi, non porterà a nulla. Anzi, quanto più si cercherà, da parte dell’occidente, di non ammettere l’evidenza delle cose, tanto più Mosca si convincerà che il ricorso al nucleare sarà, in ultima istanza, la soluzione più idonea per far capire agli Stati sponsor del terrorismo che il loro tempo è finito. Le trattative potranno essere fatte solo dopo che l’occidente avrà smesso di armare e finanziare il governo di Kiev e dopo che questo avrà accettato la resa incondizionata.
Se continuiamo a provocare militarmente la Russia, inducendo Putin a pentirsi: 1) di aver lasciato che l’Ucraina invadesse il Donbass; 2) di aver accettato gli accordi di Minsk; 3) di aver aspettato fino al 2022 prima di iniziare l’operazione militare; 4) di non aver organizzato subito la mobilitazione generale, gli occidentali non potranno poi meravigliarsi che Putin dica: “Noi siamo fortemente imparentati con gli ucraini e per niente con voi”.

Che armi stanno arrivando in Ucraina?

C’è una gran segretezza sul tipo di armi che gli occidentali stanno inviando in Ucraina, che sembra essere diventato un territorio in cui sperimentarne l’efficacia, a spese della stessa popolazione, come se fossimo in un videogioco.

Tuttavia ogni tanto trapela qualcosa. Per es. il presidente Macron, in un’intervista rilasciata il 21 aprile al quotidiano “Ouest-France”, ha detto che la Germania consegnerà i carri armati Leopard, mentre la Francia prevede i missili anticarro Milan e i cannoni Caesar, più missili anticarro Javelin e missili antiaerei a corto raggio Mistral. Per usare i quali ci si è dovuti impegnare in un addestramento specifico del personale militare ucraino.

L’idea (assurda) è sempre quella di non entrare in cobelligeranza. Il che penso voglia dire non inviare proprie truppe e soprattutto l’aviazione. Di qui la definizione di “guerra per procura”.

Ormai il supporto umanitario, militare e finanziario, fornito dai Paesi del G7 e della UE, è così grande che pare da escludersi l’ipotesi di un conflitto di breve durata e soprattutto che non veda vittorioso l’occidente. Ormai chiunque ha capito che questa non è una guerra tra Russia e Ucraina. Quest’ultima è solo un territorio casuale ma ideale, in quanto molto vasto (due volte l’Italia), difficile da essere controllato per intero. Se anche i russi avessero occupato Kiev nei primi giorni, avrebbero poi avuto a che fare con un governo e un comando militare che, fuggiti all’estero, avrebbero organizzato una guerriglia interna di lunga durata, come fecero i talebani in Afghanistan.

La Francia dispone anche di almeno tre satelliti di osservazione con cui fornisce immagini quotidiane allo stato maggiore ucraino.

La cosa più sconcertante di queste forniture è che i missili Milan e Javelin e i cannoni Caesar prevedono l’uso dell’uranio impoverito. Il che fa pensare che all’interno della NATO nessuno abbia sollevato obiezioni sull’uso di queste armi, i cui effetti (sempre di lunga durata) sono altamente nocivi per la salute e l’ambiente naturale. L’uranio impoverito produce una polvere di ossido che non deve essere inalata, poiché può portare a depositi di uranio nei linfonodi, nelle ossa, nel cervello e nei testicoli. Ciò comporta sempre un forte aumento di vari tipi di cancro, tumori al seno e linfomi, nonché gravi difetti alla nascita.

Anche gli effetti sulle truppe stesse sono endemici: malattie respiratorie devastanti, problemi gastrointestinali, disturbi neurologici, calcoli renali, problemi alla pelle e alla vista e varie forme di cancro. Un certo numero di morti per leucemia, tra i 60.000 soldati italiani in servizio in Kosovo, sono stati collegati proprio all’uranio impoverito, usato dagli americani tenendo all’oscuro i nostri soldati.

Questo perché questo tipo di materiale artificiale è mille volte più radioattivo dell’uranio che si trova nel suolo e nelle rocce. Anzi i missili anticarro a spalla MILAN (utilizzati dalle forze militari di terra in 40 Paesi) contengono torio-232, un metallo che emette particelle sei volte più pericolose per la salute umana rispetto a quelle dell’uranio impoverito.

Dunque questa sostanza non è che un sottoprodotto radioattivo dell’arricchimento dell’uranio naturale per il combustibile nucleare. È in grado di fornire maggiore potere di penetrazione a proiettili e bombe, soprattutto contro carri armati e bunker.

Tali munizioni sono già state utilizzate dalla NATO nelle due guerre del Golfo in Iraq e Kuwait, in Siria e nella ex Jugoslavia (Bosnia, Serbia e Kosovo) e probabilmente anche in Afghanistan.

La Coalizione internazionale per vietare le armi all’uranio (ICBUW) vieta l’uso di queste armi solo per proiettili di carri armati da 105 e 120 mm, e proiettili di piccolo calibro (15/25/30 mm), ignorando completamente le bombe sganciate dagli aerei (GBU), i missili da crociera e altri tipi di missili anticarro. In Francia le munizioni all’uranio impoverito vengono sparate regolarmente in uno dei campi di prova noto come Canjuers.

È difficile sapere quanto lo stato maggiore ucraino conosca la pericolosità di queste armi, che renderanno impossibile vivere per molto tempo nell’area ove vengono impiegate.

Anche il governo inglese ha donato all’Ucraina migliaia di missili guidati anticarro (ATGM) e di armi leggere anticarro (NLAW) che includono una notevole quantità di uranio impoverito.

Molte di queste armi vengono prodotte, più o meno segretamente, in Svezia, che non fa parte della NATO ma che ha già chiesto di potervi aderire.

Da notare che anche i missili aria-terra e le bombe contenenti fosforo sono vietati dal diritto internazionale, poiché rappresentano un un crimine contro l’umanità. Eppure la NATO non si fa scrupoli a fornirli ai militari ucraini.

Fonte: https://21stcenturywire.com/2022/05/03/revealed-are-france-and-nato-shipping-depleted-uranium-weaponry-into-ukraine/

Come uscire dal conflitto ucraino?

Il mondo non capisce Putin. Lo fa passare per un cinico, un uomo senza scrupoli. Un anno fa Biden lo definì un “assassino”. L’odio nei confronti della Russia è troppo antico per poterla pensare diversamente. Prima della rivoluzione d’Ottobre si temeva lo zarismo perché soffocava le rivendicazioni borghesi contro l’oppressione aristocratica; dopo quella rivoluzione si temeva il bolscevismo perché appoggiava le rivendicazioni operaie contro l’oppressione borghese.

Oggi la Russia fa paura perché è troppo vasta geograficamente, possiede immense riserve energetiche in Siberia ed è dotata di un imponente arsenale nucleare. E non si pensa che i veri dominatori del mondo sono gli Stati Uniti, che controllano tutti i mari e che hanno basi militari sparse quasi ovunque.

Putin vuol tutelare i filorussi del Donbass, ma, usando mezzi e metodi incompatibili col fine, s’è messo dalla parte torto. Anche ammesso che per la questione del Donbass abbia ragione, di fatto ha usato una reazione spropositata, simile peraltro a quella che ebbero gli Stati Uniti nella ex Jugoslavia.

L’occidente pensa che sia più importante tutelare dei confini nazionali piuttosto che impedire il genocidio di una popolazione territoriale. Già con la questione catalana si era capito che il concetto di “nazione” è sacro, anche se nessuno ebbe da dire nulla sulla separazione della Cekia dalla Slovacchia. Il prossimo anno vedremo come ci comporteremo se la Scozia deciderà di staccarsi dal Regno Unito per rientrare nella UE.

I tanti negoziati non sono serviti a nulla, e neppure gli otto anni trascorsi dal 2014. Dall’ONU, dalla UE, dagli USA, dal governo di Kiev nessuna proposta realistica, accettabile. Non si è pensato neppure a una forza d’interposizione neutrale e armata che tutelasse il Donbass dagli attacchi dei neonazisti. L’OSCE è disarmata e non ha mai potuto impedire la violazione del cessate il fuoco. E dei suoi rapporti allarmistici, che denunciavano gli abusi di Kiev, all’occidente non è mai importato nulla.

Si è rifiutata l’idea di uno Stato federale, né si è concesso uno Statuto di effettiva autonomia alle due repubbliche popolari di Doneck e di Lugansk. Si sono imposte solo vessazioni, persecuzioni, abusi a non finire, anzi veri e propri crimini, tanto che tra morti e feriti si contano decine di migliaia di persone, per non parlare dei tantissimi profughi.

La Russia rappresenta sempre “l’impero del male”, nonostante si sia liberata dal socialismo statale, senza far pagare a nessuno le conseguenze di questa decisione.

Dopo lo smantellamento del Patto di Varsavia, la NATO, invece di sciogliersi, si è estesa a 30 Paesi europei, e ora la circonda quasi completamente.

Tutto ciò all’Unione Europea appare normale, poiché non ha una propria visione delle cose: la sua politica estera, la sua geopolitica è sostanzialmente quella americana. Vive di riflesso.

Ora però bisogna uscire da questo incubo, anche perché non si può offrire agli Stati Uniti il pretesto per scatenare una guerra mondiale.

Una clausola del negoziato in corso potrebbe essere questa. Nel caso in cui Kiev si arrenda, Mosca assicura che a tutti i filorussi del Donbass verrà data facoltà di espatriare in Russia, dove saranno sicuramente ben accolti. In attesa che lo facciano, il Donbass resterà sotto occupazione russa.

In cambio Kiev, libera di entrare nella UE, rinuncia a chiedere di entrare nella NATO e riconosce alla Russia il possesso della Crimea.

Nel caso invece in cui Kiev non si arrenda, sarebbe meglio dividere l’Ucraina in due, lungo il fiume Dnepr e prepararsi al peggio.

Le dimissioni di Schönbach e la pericolosità della NATO

Sono passate quasi ignorate le recenti dimissioni di Kay-Achim Schönbach, capo della Marina tedesca. Aveva semplicemente detto, in un think tank a Nuova Delhi, che Putin merita rispetto, proprio perché governa un Paese importante, che potrebbe essere un alleato contro lo strapotere economico della Cina. Poi aveva aggiunto che la Crimea va considerata persa per gli ucraini, perché troppo strategica per i russi. Un’affermazione in netta controtendenza rispetto alle posizioni di USA e UE.

Durissime anche le sue parole contro i cinesi, accusati di prestare soldi a vari Paesi, anche guidati da “dittatori, assassini e criminali”, solo per sfruttare le loro materie prime e intrappolarli nella politica del debito.

Mi pare comunque più sensato lui del nostro ministro degli Esteri, che, quando dice che l’Ucraina è libera di entrare nella NATO, non si rende conto che la Russia non può tollerare che la NATO installi i propri missili nucleari così vicini a Mosca. Non riesce a capire che quando gli USA entrano in uno Stato, possono installare qualunque tipo di arma, esattamente come han fatto in altri Paesi europei. Come faccia a non vedere che non sono stati i russi ad arrivare ai confini degli USA, lo sa solo lui. Non c’è alcun bisogno, per un Paese che voglia aderire alla UE, che sia anche costretto a entrare nella NATO. Austria, Svezia, Finlandia e Irlanda non ne fanno parte. E la Svizzera, che ha sempre voluto restare neutrale, non è forse un Paese europeo?

Il Patto di Varsavia (istituito nel 1955) per contrapporsi alla NATO (istituita nel 1949) è stato sciolto nel 1991. Perché la NATO non ha fatto altrettanto, ma anzi ha cercato di espandersi sempre più, approfittando della debolezza della Russia?

La NATO è un’organizzazione pericolosa, poiché ha l’art. 5 che prevede l’immediato coinvolgimento bellico di tutti i Paesi membri a sostegno del Paese che viene attaccato militarmente in una sua qualunque proprietà o giurisdizione. Non viene specificato il tipo di arma che si può usare. Viene solo detto che l’intervento del Paese può essere anche a titolo individuale e senza bisogno di consultare il Consiglio di sicurezza dell’ONU.

Perché il sistema di difesa israeliano è così forte?

Israele è difeso da una cupola di ferro. Lo spiega bene il sito “Analisi Difesa” www.analisidifesa.it.

Grande protagonista degli scontri di questo mese, come in precedenti occasioni, si è confermato il sistema antibalistico israeliano a breve raggio, chiamato Iron Dome, cioè “cupola di ferro”, realizzato dal colosso dell’industria militare israeliana Rafael, ed entrato in servizio nel 2011. È attualmente efficiente per l’85-90%, cioè da 10 a 15 ordigni nemici ogni 100 presi di mira dal sistema possono raggiungere città e installazioni ebraiche. Senza poi considerare che il sistema prende di mira solo i missili lanciati su obiettivi sensibili ed è posizionato solo per colpire i missili provenienti da Gaza.

Ovviamente Israele non ha solo questo tipo di difesa, anche perché Iron Dome si limita a intercettare oggetti volanti di piccole dimensioni e anche di limitato sviluppo di volo (da un minimo di 4 e un massimo di 70-72 km dalla posizione della batteria). È cioè rivolto a razzi, missili o anche granate di mortaio. Non è in grado d’intercettare ordigni che provengano da una distanza inferiore a 4 km e che abbiano un tempo di volo inferiore a 28 secondi.

Il grosso della sua realizzazione è stato finanziato dal più potente alleato d’Israele, gli Stati Uniti, per un totale calcolato in un miliardo di dollari, secondo dati ufficiali. Tutta la difesa israeliana è finanziata soprattutto dagli USA. Anche perché costa l’ira di Jahvè: ogni missile dell’Iron Dome va dai 40.000 ai 100.000 dollari, laddove il prezzo di ogni razzo sparato dai gruppi palestinesi si aggira sui 1.000-5.000 dollari.

Ma la cosa più curiosa è che gli americani vogliono testare proprio attraverso le guerre d’Israele (che dal 1948 non sono mai finite) l’effettiva efficacia della cupola di ferro, onde verificare se un analogo sistema può funzionare nel proprio territorio, che però ha un’estensione colossale. Ecco perché una prima batteria di Iron Dome è già stata consegnata agli USA e attivata alla base di Fort Bliss alla fine del 2020, e nei prossimi mesi dovrebbe essere consegnata una seconda batteria.

Per combattere i palestinesi Israele non ha altre armi che l’uso delle armi. 4000 anni di cultura ebraica buttati nella Geenna.

Una battaglia mondiale per un chip

Il commissario europeo Thierry Breton responsabile della politica industriale della UE, ha detto al quotidiano economico francese “Les Echos”: “Da diverse settimane si registra una penuria di semiconduttori [minuscoli prodotti di silicio che troviamo ormai ovunque] sul mercato mondiale, e questo ha costretto a interrompere l’attività di alcune fabbriche di automobili [dove i chip sono in media 800!] e perfino impianti per la produzione di tostapane. In questa industria l’Europa si è lasciata distanziare per mancanza d’investimenti. La produzione di semiconduttori di ultima generazione si effettua principalmente in Asia, e in particolare a Taiwan, che non può più venderli alla Cina. Soprattutto l’azienda TSMC detiene un quasi monopolio sui semiconduttori di alta gamma. L’azienda statunitense Intel, dominante fino a 10 anni fa, è stata soppiantata. Oggi TSMC produce l’80% dei semiconduttori più sofisticati e si prepara a commercializzare semiconduttori di 3 se non addirittura 2 nanometri [l’unità di misura del settore che corrisponde allo spessore di un capello]. A parte la Corea del Sud nessuno riesce a tenere il passo, neanche la Cina, che oggi è priva dell’accesso all’industria a causa delle sanzioni americane”.

A dir il vero per quanto riguarda la ricerca e progettazione (che non c’entra niente con la fase della fonderia, dell’assemblaggio e imballaggio) gli USA detengono ancora una leadership mondiale, in virtù della quale possono controllare circa la metà delle vendite globali di semiconduttori, contro il 10% della UE e il 5% della Cina. Ben 8 delle 15 più grandi aziende di semiconduttori nel mondo sono negli USA, con Intel prima per vendite annue.

Un quadro radicalmente opposto si delinea invece per quanto riguarda l’attività di fonderia, dominata effettivamente da Taiwan e dalla Corea del Sud, con rispettivamente il 23% e 26% della capacità produttiva del settore. Complessivamente in Asia orientale è concentrato circa l’80% della produzione mondiale di chip. All’interno di questa quota la Cina ricopre il 12%, con una crescita di 10 punti percentuali negli ultimi 20 anni.

La TSMC ha inoltre investito più di 20 miliardi di dollari per la costruzione, nell’area meridionale di Taiwan, di una nuova fabbrica delle dimensioni di 22 campi da calcio, capace di sviluppare le tecnologie a 3nm e 2nm, rispettivamente previste per il 2022 e il 2024.

Parallelamente, USA e UE hanno invece assistito al crollo, negli ultimi tre decenni, della loro quota nella capacità produttiva globale di semiconduttori, da quasi il 40% a rispettivamente il 12% e il 10% circa.

In particolare la UE ha perso la sfida tecnologica per almeno il prossimo decennio, poiché gli investimenti necessari sono colossali. La sola TSMC si prepara a investire 100 miliardi di dollari nel corso dei prossimi tre anni, mentre l’Europa può mettere sul piatto solo una decina di miliardi, più altrettanti di contributi da parte degli industriali. Troppo pochi.

Trump aveva indotto TSMC a costruire una fabbrica in Arizona, con un investimento di 12 miliardi di dollari, per colpire soprattutto il colosso Huawei, accusato dagli USA di collaborare con le autorità cinesi a fini spionistici. I lavori di costruzione (con 1.600 addetti e migliaia di altri nell’indotto) dovrebbe iniziare nel 2021 e la produzione di 20.000 chip al mese a 5 nanometri dovrebbe essere avviata nel 2024. L’impianto sarà la seconda fabbrica della TSMC negli USA. Nel 2017 un’altra big taiwanese, Foxconn, ha annunciato piani per costruire un impianto nel Wisconsin. Anche Intel ha già annunciato un investimento da 20 miliardi di dollari per la creazione di due nuove fabbriche di semiconduttori in Arizona, che dovrebbero iniziare la produzione nel 2024. L’Arizona dovrebbe inoltre accogliere l’impianto da 17 miliardi di dollari di Samsung Electronics. Tutte cose che nella UE ci sogniamo.

Ora Breton vorrebbe convincere i taiwanesi a investire anche in Europa, ma ha già ricevuto un rifiuto: TSMC vuole mantenere l’essenziale della produzione a Taiwan, che però è un’isola rivendicata da Pechino, e l’industria cinese, dopo l’embargo americano sui dazi, ha assolutamente bisogno di quei semiconduttori, anche perché in questo settore patisce diversi anni di ritardo. Infatti ne ha ammassato le scorte prima del blocco e sta investendo nella propria autosufficienza. Poi è venuta la pandemia che ha provocato un incremento nell’uso di materiale informatico.

Insomma ce n’è abbastanza per far scoppiare una guerra, anche perché questo settore tecnologico vale 440 miliardi di dollari di fatturato annuo, ed è in costante crescita (+7,7% previsto nel 2021). Infatti i semiconduttori sono una componente cruciale per smartphone e computer, che insieme costituiscono i 3/5 degli acquisti globali di chip, ma anche per l’industria automobilistica (10% del mercato). In campo militare, poi, sono assolutamente necessari per modellare le traiettorie di missili e droni da combattimento.

Washington mette in pericolo la sopravvivenza di Huawei, orgoglio dell’economia cinese, numero uno al mondo nei dispositivi telefonici e pioniere nella tecnologia 5G, con un giro d’affari globale di oltre 100 miliardi di euro e circa 200.000 dipendenti. E Huawei, già costretta a vendere il suo marchio di smartphone Honor per evitarne il fallimento, è solo la punta dell’iceberg di quella che è ormai una guerra aperta in campo tecnologico. Ricordiamo che un anno e mezzo fa gli USA han fatto arrestare a Vancouver la direttrice finanziaria di Huawei, nonché figlia del fondatore, con l’accusa d’aver violato le sanzioni contro l’Iran.

Pechino infatti sta già prendendo misure ritorsive: bloccherà o rallenterà le esportazioni di terre rare, la famiglia di 17 minerali usati in settori strategici, a cominciare da quello degli armamenti. Servono 435 grammi di questi minerali per fabbricare un aereo da combattimento statunitense F-35. E si può facilmente prevedere che Pechino troverà il modo per piegare Taiwan alle proprie esigenze, anche perché l’isola non può fare a meno del mercato cinese,

Ricordiamo che nel 2010, durante un periodo di tensioni, la Cina aveva già privato il Giappone delle terre rare. All’epoca ne controllava il 95% del mercato; oggi ne controlla ancora l’80%. Ma questa volta sono gli occidentali che stanno cercando di ridurre la loro dipendenza.

Il nucleare in Iran, l’embargo e gli attacchi d’Israele

È incredibile come al giorno d’oggi, in cui continuamente parliamo di diritti umani, nessuno dica niente su come Israele, che è una potenza nucleare, impedisca all’Iran di diventarlo. Cosa direbbero a noi se di tanto in tanto andassimo a bombardare la Francia solo perché nel 1987 abbiamo rinunciato con un referendum al nucleare?

Sembra addirittura che il sabotaggio israeliano dell’importante impianto nucleare di Natanz (a 300 km a sud di Teheran) stia avendo delle conseguenze sulla politica interna dell’Iran, già in fermento a causa della crisi economica provocata dalle 1.500 sanzioni internazionali volute dagli USA (un numero enorme, senza precedenti, che sta portando al collasso l’economia del Paese).

Lo scontro tra ultraconservatori, guidati da Ali Khamenei (la principale figura politica e religiosa del Paese, ritenuta più potente dello stesso parlamento), e moderati, il cui leader è il presidente Hassan Rouhani, è diventato più acuto. Anche perché i primi non vorrebbero nessun accordo con gli americani. Esattamente come gli israeliani, che, per motivi opposti, han sempre detto di non fidarsi dell’Iran.

Abituati come siamo a ragionare in termini di buoni e cattivi, ci sembra che gli iraniani siano più cattivi degli israeliani, per cui ci fa piacere quando, in un modo o nell’altro, quel regime teocratico mostra vistose crepe. E così non ci rendiamo conto che le istituzioni iraniane sono gestite, non meno di quelle israeliane, da politici orgogliosi del proprio fondamentalismo, disposti a difenderlo in qualunque maniera.

A giugno in Iran si terranno le elezioni presidenziali, ma sin da adesso possiamo scommettere che vinceranno gli ultraconservatori, cioè quelli che sanno meglio sfruttare politicamente l’embargo economico dell’occidente e gli attacchi militari d’Israele. Basti pensare che è il Consiglio dei Guardiani, controllato dai radicali, a fare una preselezione dei candidati ammessi alle elezioni. E poi il presidente Rouhani non potrà candidarsi per un terzo mandato, essendo al potere dal 2013.

In ogni caso il sistema non è ancora crollato: né per le sanzioni, né per le grosse proteste antigovernative degli ultimi due anni, né per le tensioni nel Golfo Persico, né dopo l’uccisione del potente generale Qassem Suleimani, considerato uno degli esponenti più influenti dell’intero regime.

I colloqui relativi al nucleare iraniano in corso a Vienna non porteranno a niente. Infatti Joe Biden vuole sì tornare agli accordi del 2015, interrotti da Trump nel 2018, ma vuole anche che l’Iran non punti i suoi missili balistici a lungo raggio contro Israele o verso l’Oceano Indiano. Non solo, ma Teheran, prima di riportare l’arricchimento dell’uranio nei limiti previsti dall’intesa (un ridicolo 4%), pretende che gli USA ritirino subito la maggior parte delle sanzioni economiche. Sarà un dialogo tra sordi e se l’Iran deciderà di avvalersi dell’appoggio cinese, pur di non darla vinta all’occidente, la situazione in Medio Oriente diverrà esplosiva. Già oggi si ritiene che l’Iran abbia superato il suddetto limite di almeno 5 volte. E con la Cina è stato firmato un accordo di cooperazione strategica globale di 25 anni. Cina, Iran e Russia hanno anche condotto esercitazioni militari congiunte senza precedenti nel Golfo di Oman e nell’Oceano Indiano alla fine del 2019.

Il destino di Taiwan è segnato?

Su “Internazionale” un bell’articolo di Pierre Haski sui rapporti tra Cina e USA (21 ottobre 2020).

Questa settimana la Cina festeggia il settantesimo anniversario del suo ingresso nella guerra di Corea, nel 1950. Per Pechino la volontà di onorare i vecchi combattenti si aggiunge a quella di inviare un messaggio bellicoso a due potenziali avversari, gli Stati Uniti e Taiwan.

Nella guerra di Corea, tra il 1950 e il 1953, si affrontarono per la prima volta nel XX sec. gli eserciti cinese e americano.

Il messaggio dell’attuale governo è piuttosto esplicito: “abbiamo combattuto quando eravamo deboli e poveri, dunque non esiteremo a combattere ancora oggi”.

Gli eventi del 1950 hanno infatti assunto le forme del mito. All’epoca, l’esercito americano del generale MacArthur aveva salvato l’esercito sudcoreano dalla sconfitta coi comunisti del nord, e avanzava verso la frontiera cinese.

Ma nella notte del 19 ottobre 1950 Mao diede l’ordine a 250mila soldati cinesi di attraversare le acque gelate del fiume Yalu, prendendo di sorpresa le truppe statunitensi. Fu una carneficina, anche se i cinesi erano equipaggiati nettamente peggio degli americani. Mao aveva puntato sui numeri e aveva vinto, pur con pesanti perdite, compresa quella di suo figlio.

Nelle settimane successive gli statunitensi furono costretti ad arretrare fino all’attuale linea di demarcazione tra le due Coree. Per MacArthur fu una mezza sconfitta. Furioso, il vincitore della guerra nel Pacifico chiese a Washington l’autorizzazione a sganciare una bomba atomica sulla Cina. Il permesso fu negato e il generale fu sollevato dall’incarico.

Ora la Cina potrebbe approfittare della confusione dovuta alle elezioni negli Stati Uniti per lanciarsi all’assalto di Taiwan, anche se il rapporto di forze è ancora largamente favorevole agli americani.

Ormai da settimane Pechino aumenta la pressione sull’isola, rivendicata come propria sin dal 1949, in cui si affermò la rivoluzione di Mao.

La Repubblica Democratica Cinese di Taiwan è semipresidenziale, monocamerale e pluripartitica con oltre 22 milioni di abitanti. È dotata di un governo democraticamente eletto, di un esercito e di tutti i crismi di uno Stato indipendente, fatta eccezione per il riconoscimento internazionale, in quanto vari Paesi non la riconoscono, mentre altri non riconoscono la Cina: Swaziland, Isole Marshall, Nauru, Palau, Tuvalu, Belize, Guatemala, Haiti, Honduras, Nicaragua, Saint Kitts e Nevis, Saint Vincent e Grenadine, Santa Lucia, Paraguay.

Da quando Taiwan perse il suo seggio alle Nazioni Unite in qualità di rappresentante della “Cina” nel 1971 (sostituita dalla Repubblica Popolare Cinese), la maggior parte degli Stati del mondo hanno spostato il loro riconoscimento diplomatico alla RPC, ammettendo che quest’ultima è la sola rappresentante legittima di tutta la Cina, anche se molti evitano deliberatamente di affermare chiaramente quali territori debba includere la Cina comunista.

Il che non impedisce a Taiwan di mantenere relazioni diplomatiche ufficiali con molti Stati sovrani.

La cosa curiosa è che, con la rielezione del KMT (Partito Nazionalista Cinese) al potere esecutivo nel 2008, il governo di Taiwan afferma che “la Cina continentale è parte del territorio della Repubblica Democratica Cinese”. È curiosa perché le domande della RDC di ammissione alle Nazioni Unite sono state respinte per 16 volte fin dai primi anni 1990.

Che cosa vuol dire “progresso”?

Non ho mai sostenuto d’essere contrario al progresso tecnico-scientifico. Sarebbe molto sciocco esserlo. Ciò che non mi ha mai convinto è stata l’idea, di origine borghese, che lo sviluppo tecnologico fosse di per sé indice di progresso. Ogni volta che si esamina un fenomeno, bisogna sempre chiedersi quali sono state le motivazioni che l’hanno generato e quali hanno contribuito a farlo sviluppare in una direzione e non in un’altra.

Penso che debba essere considerato come un dato di fatto che l’essere umano possieda un certo desiderio di cercare nuove forme di vita, di fare nuove esperienze. L’esigenza di conoscere l’ignoto, di gestire razionalmente ciò che sembra sfuggire al controllo, di creare ordine da ciò che appare caotico, appartiene da sempre a ogni popolo della storia. In tal senso dovremmo ringraziare la prima donna del genere umano che, trasgredendo un divieto e convincendo il marito a fare altrettanto, ha permesso il sorgere di qualcosa che prima non c’era.

Eppure ciò è avvenuto in maniera anomala, trasgredendo appunto un divieto, cioè un’esperienza pregressa, delle tradizioni comuni, dei valori più o meno consolidati. Gli esseri umani sono usciti da una condizione d’ingenua innocenza per avventurarsi in un’esperienza di vita, perlopiù negativa, dalla quale non avrebbero più potuto prescindere.

Cosa c’era di sbagliato in quella scelta? Non eravamo forse destinati a compierla? L’unica cosa sbagliata era la tipologia della modalità. Gli esseri umani (almeno una parte di essi) avevano deciso di vivere una vita che rompesse col loro passato e che affermasse una sorta di esperienza arbitraria, del tutto inedita.

L’essere umano è destinato, per natura, a progredire infinitamente nella conoscenza e nel modo di applicare le nozioni che apprende. Tuttavia deve imparare a farlo secondo natura e secondo l’etica che lo caratterizza umanamente, rispettando le condizioni spazio-temporali in cui è chiamato a vivere. Per ogni cosa ci sono le dovute modalità e c’è anche il suo tempo: ogni arbitrio e ogni anticipazione sono indebiti.

Indubbiamente il pianeta contiene aspetti negativi che vanno superati. Ma questi aspetti sono naturali: servono a formare il carattere, a migliorare se stessi. Abbiamo bisogno di avversità climatiche, di asperità ambientali, di sconvolgimenti tellurici non solo per capire che siamo soltanto “ospiti” della madre Terra, ma anche perché è l’affronto delle contraddizioni che ci fa crescere, che ci rende forti. Questa pedagogia è universale e ci riguarderà anche quando non esisterà più il nostro pianeta: cambieranno soltanto le forme, i mezzi e le strategie di affronto dei problemi.

In realtà il vero nodo gordiano da sciogliere è un altro: come affrontare le contraddizioni restando umani, cioè senza perdere le caratteristiche fondamentali che qualificano la nostra specie. Questo, da quando è nato lo schiavismo e sino ad oggi, è diventato il nostro problema principale, cui non sappiamo trovare una soluzione convincente.

Alcuni studiosi attribuiscono tale transizione negativa, cioè il momento della nascita della tragedia, alla scoperta dell’agricoltura. Tuttavia in sé non c’è nulla che possa impedirci d’essere noi stessi. L’agricoltura ha cominciato a costituire un grave problema (le cui contraddizioni apparivano insormontabili) soltanto quando si è imposta la proprietà privata, non prima.

Si badi: che questa proprietà appartenga a sfruttatori individuali o che sia gestita, a livello statale, da una élite burocratica, risulta abbastanza irrilevante. Se si guardano i progressi compiuti sul piano tecnologico e quindi economico, dovremmo dire che la proprietà privata ha prodotto risultati più significativi di quella statale. Ma se guardiamo la stabilità dei sistemi, dovremmo dire il contrario, tant’è che storicamente la prima forma di proprietà a imporsi (Egitto, India, Cina, Mezzaluna fertile, Civiltà precolombiane) è stata quella statale, gestita da un sovrano imperiale o da una città-stato.

Infatti, quando gli imperi caratterizzati dalla proprietà statale sono crollati, ciò non è avvenuto per motivi endogeni, ma perché essi incontrarono altri imperi che, essendo basati sulla proprietà privata (e quindi su una forte competizione interna), avevano sviluppato meglio le tecnologie e gli apparati militari. A volte gli scontri epocali erano tra popoli stanziali e popoli nomadici o tra allevatori e agricoltori. Ma la storia ha deciso che dovesse prevalere la stanzialità, prima agricola e poi industriale.

Oggi lo Stato che sembra conciliare meglio istanze private di business con forme di autoritarismo politico-statale, sembra essere la Cina, il paese più idoneo a sostituire la leadership degli Stati Uniti, il cui capitalismo è fondamentalmente privato e lo Stato interviene soltanto per correggere le sue storture, facendone pagare interamente il prezzo al comune cittadino.

Hilary Clinton lo definisce non a caso “La nostra NATO economica”: la strategia del silenzio e della non informazione per far passare il trattato TTIP, che con la scusa del libero scambio ci rende di fatto colonia anche agroalimentare degli USA

TTIP: chi difende l’interesse dell’Europa?

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Si sta facendo di tutto affinché in Europa la stessa politica e la società civile non siano in grado di esprimere in modo sovrano e pacato un giudizio consapevole sul Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), il Trattato di libero scambio tra Stati Uniti e Unione Europea in cantiere da ben tre anni. Da una parte è stata imposta una peculiare quanto ingiustificata ed intollerabile segretezza sui documenti, sulle procedure e sul contenuto del Trattato. Dall’altra, avendo radicalizzato l’argomento e avendolo portato nelle piazze con forti dimostrazioni, a volte anche provocatoriamente degenerate in scontri, si tenta di etichettare come “facinoroso” chiunque chiede chiarezza e vuole esprimere la sua democratica opposizione.

Eppure, dal poco che è trapelato, il TTIP potrebbe avere un impatto profondo, per alcuni anche devastante, sulle nostre produzioni, soprattutto, ma non solo, nel settore agricolo ed agroalimentare, sul nostro sistema sociale di mercato e sul nostro commercio. I promotori vorrebbero la sua ratifica prima della scadenza della presidenza Obama, che ne è stato uno dei grandi promotori. Hilary Clinton lo ha già definito la nostra ‘Nato economica’. Alcuni parlamentari tedeschi hanno recentemente chiesto di visionare i documenti presso il Ministero dell’Economia di Berlino. Ne hanno fatto un resoconto desolante. Si possono leggere alcuni documenti solo sul computer in una stanza controllata, per poche ore senza consultazioni con altri e senza prendere appunti. Del materiale letto non se ne può neanche parlare pubblicamente.

E’ grave che il commissario europeo per il Commercio, Cecilia Malmström, sostenga che la stesura del trattato non sia di competenza dei parlamenti nazionali. L’obiettivo del TTIP sarebbe la creazione della più grande zona di libero scambio commerciale del pianeta, con circa 800 milioni di consumatori. Questa rappresenterebbe quasi la metà del Pil mondiale e un terzo del commercio globale. L’Ue è la principale economia e il maggior mercato del mondo. In gioco, quindi, ci sono enormi interessi economici. Ma in gioco c’è anche il futuro delle relazioni politiche internazionali. Non si tratta di mettere in discussione il rapporto di amicizia con gli Stati Uniti, ma la mancanza di trasparenza fa dubitare della bontà dell’accordo. Gli interrogativi che i cittadini e gli operatori economici, non solo italiani, si pongono sono tanti. Gli Usa usano gli ogm in agricoltura. Sarà anche l’Europa costretta a introdurli nelle sue coltivazioni? L’Italia ha 280 prodotti a denominazione d’origine protetta. E’ il numero più grande in Europa. Gli Usa li rispetteranno oppure avremo il ‘parmisan della Virginia’ o il ‘san danny del Minnesota’? Eventualmente venduti anche nei nostri mercati?

Molti, anche negli Stai Uniti, credono che uno dei principali pericoli del TTIP sia la possibilità che investitori privati possano iniziare procedimenti legali e querele milionarie contro gli Stati in tribunali internazionali d’arbitraggio. L’intenzione positiva di proteggere l’interesse pubblico potrebbe essere interpretata dalle multinazionali come una “limitazione dei profitti degli investitori stranieri”, un ostacolo al business e alla libera concorrenza. E’ molto importante notare che questa è anche la maggior preoccupazione della London School of Economics che punta appunto il dito sulle camere arbitrali, i tribunati istituiti dal Trattato. Nel suo studio l’istituto inglese cita come esempio una serie di querele passate, come quelle della Phillips Morris contro l’Uruguay e l’Australia per aver lanciato delle campagne contro il fumo.

In Europa si sentono voci di grande preoccupazione, anche se ancora espresse troppo sottovoce. Il governo francese afferma che dirà un forte no se il Trattato dovesse mettere in discussione la struttura della sua agricoltura. Ci si augura che l’Italia non si dica soddisfatta di qualche generica garanzia di rispetto del nostro ‘made in italy’. Per il sistema agroalimentare italiano, a partire da quello del Sud, il Trattato sarebbe esiziale. La geopolitica e il business tout court non possono mortificare le prerogative democratiche e indisponibili dei popoli e dei loro parlamenti, a partire dal diritto alla conoscenza.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Germania ingrata verso la Grecia, che nel 1953 contribuì a salvarla dal debito pubblico

Paolo Raimondi* Mario Lettieri**

Dopo le elezioni politiche, da Atene è partita la proposta di una “conferenza europea sul debito”. Ciò sta determinando un ampio dibattito in tutto il vecchio continente. La Bce di Draghi e la Commissione europea non possono ignorarla. I fautori del rigore fiscale e dell’austerità senza crescita e senza sviluppo dovranno rivedere il loro approccio.

L’Unione Europea e l’eurogruppo sono di fronte a decisioni che sollecitano profondi cambiamenti di metodo e di politica economica.

La Grecia ha un debito pubblico di 310 miliardi di euro pari a circa il 175% del suo pil. Prima del 2007 era dell’89%. Nella zona euro era del 66% prima della crisi finanziaria globale, oggi si aggira intorno al 93%.

Negli anni passati per salvarsi dalla bancarotta Atene ha chiesto e ricevuto dalla Ue e dal Fondo Monetario Internazionale due bailout per 240 miliardi di euro. In cambio ha dovuto sottoporsi ad una “terapia shock” fatta di tagli dei budget statali, di drastiche riduzioni delle spese pubbliche e di aumenti delle tasse richiesti e imposti dalla Troika.

Di conseguenza oggi l’economia greca è in ginocchio. Dopo 6 anni di compressione economica, gli investimenti sono stati ridotti del 63,5%, la sua produzione industriale è scesa di un terzo, il pil si è ridotto del 26%. La disoccupazione è salita a oltre il 25% della forza lavoro e quella giovanile al 62%.

D’altra parte è noto che dei 240 miliardi di “aiuti” (l’Italia vi ha contribuito con 41 miliardi di euro) solo il 10% è andato a sostegno della spesa pubblica o del reddito dei cittadini greci. Il resto di fatto è stato una partita di giro. Sono stati acquistati titoli di stato greco detenuti dalle grandi banche private europee ed internazionali che premevano per disfarsene, minacciando quindi di accelerare il processo di bancarotta dello Stato. E una parte è andata a pagare gli interessi sul debito pubblico cresciuti a dismisura.

In una simile situazione la cosiddetta ripresa economica non ci può essere, è uccisa ancora prima di iniziare. Riteniamo che sia una scelta suicida sia per Atene che per Bruxelles.

Perciò la richiesta della ristrutturazione del debito greco all’interno di una specifica conferenza europea sul debito è l’unica mossa razionale possibile che va ben al di là del colore politico del governo pro tempore. Infatti la Spagna, l’Irlanda e il Portogallo mostrano un grande interesse per tale proposta. Pensiamo che lo debba fare anche il nostro Paese.

Anche importanti analisti economici di differenti scuole di pensiero economico, e persino il Financial Times, giudicano la politica europea nei confronti della Grecia completamente fallimentare. Osservano che se fossero concessi nuovi aiuti finanziari, indispensabili per tenere in vita lo Stato e il debito della Grecia, e fossero usati come nel passato, l’economia e la società comunque sprofonderebbero nella palude della depressione.

La Bce sta già acquistando titoli di stato dei Paesi europei nella prospettiva di creare maggiore liquidità per nuovi investimenti nell’economia reale. La stessa banca inoltre potrebbe acquistare sui secondary bond market, i cosiddetti mercati obbligazionari secondari, titoli di stato, detenuti dai privati, della Grecia e non solo. Naturalmente ciò comporterebbe una rivoluzione copernicana sia nella Bce che nell’Ue in quanto si potrebbe unilateralmente rinviare indefinitamente le scadenze di tali titoli mantenendo tassi di interesse irrisori.

In sintesi Atene chiede un trattamento non dissimile a quello concesso alla Germania dopo la Seconda Guerra mondiale. Lo si decise alla Conferenza di Londra del 1953 che fu guidata dagli Stati Uniti e coinvolse 20 nazioni, tra cui la Grecia. Alla Germania fu concessa la cancellazione del 50% del debito accumulato dopo le due guerre mondiali e l’estensione per almeno 30 anni del periodo di ripagamento del restante.

Inoltre dal 1953 al 1958 la Germania avrebbe pagato soltanto gli interessi sul debito. Fu concordato in particolare che tali pagamenti non superassero il 5% del surplus commerciale della Germania.

Tale accordo permise all’economia tedesca di ripartire. Il Piano Marshall di sostegni economici fu poi determinate per lo sviluppo dell’economia. Molti Paesi creditori furono interessati a sostenere l’export della Germania permettendole così di pagare i debiti e gli interessi. Naturalmente l’allora geopolitica, che assegnava alla Germania il ruolo di baluardo nei confronti dell’Unione Sovietica, fu decisiva.

E’ importante sottolineare che l’Accordo del 1953 affermava di voler “rimuovere gli ostacoli alle normali relazioni economiche delle Germania Federale con gli altri Paesi e quindi di dare un contributo allo sviluppo di una prosperosa comunità di nazioni”. Un concetto che meriterebbe di essere proposto anche oggi per l’intera Europa.

* economista ** già deputato e sottosegretario all’Economia

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[Pubblicato come interfvista su Blitz: http://www.blitzquotidiano.it/opinioni/nicotri-opinioni/germania-nel-1953-ebbe-dalla-grecia-laiuto-che-oggi-le-nega-2104374/ ]

 

BIGLIETTO VERDE E PERICOLI PER LA VOLATILITA’ MONETARIA INTERNAZIONALE

Ruolo del dollaro e volatilità monetaria internazionale

Paolo Raimondi* Mario Lettieri** 

Il 2015 potrebbe segnare l’inizio di profondi rivolgimenti monetari con effetti economici planetari. I segnali in tale direzione non sono stati pochi. Soprattutto nelle economie emergenti, dove flussi repentini di capitali in entrata ed poi in uscita, si sono verificate pesanti svalutazioni. E’ stato l’effetto della grande liquidità creata dalla Federal Reserve negli Stati Uniti. Adesso nel ciclone potrebbero entrarci direttamente il dollaro e l’euro.

Anche gli economisti della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea hanno cercato di dare una spiegazione al fatto che, mentre l’economia americana rappresenta meno di un quarto del Pil mondiale, le riserve mondiali in dollari sono ancora più del 60% del totale. Questo livello si è mantenuto negli anni, nonostante che dal 1978 la quota del Pil americano sul totale mondiale si sia ridotta del 6% e nonostante che il dollaro sia diminuito in media del 24% rispetto alle maggiori valute.

Ciò, secondo gli analisti della Bri, dipenderebbe dalla dimensione non dell’economia statunitense bensì della “zona del dollaro”.

Quest’area rappresenterebbe ancora oltre la metà dell’economia mondiale. In essa rientra, ad esempio, tutta quella parte di economia e di commercio dei vari Paesi del mondo che viene contrattata in dollari. Per cui componenti significative delle riserve di molti Paesi sono tenute in dollari in quanto gli interventi nei mercati dei cambi vengono gestiti in dollari, cioè nella divisa con la quale si negozia maggiormente la moneta nazionale.

Confrontando l’attuale situazione anche con le tendenze storiche riguardanti il ruolo di moneta di riserva della sterlina tra le due passate guerre mondiali, la Bri conclude che le quote delle varie valute nei panieri delle riserve monetarie potrebbero in futuro modificarsi molto rapidamente.

Una delle principali ragioni di tale cambiamento potrebbe essere la decisione della Cina di negoziare una parte crescente del suo commercio in renminbi o in monete di altre nazioni. Se il renminbi evidenziasse un movimento sostanzialmente indipendente rispetto alle principali valute e se le monete dei Paesi vicini e dei partner commerciali della Cina condividessero un tale movimento, si potrebbe determinare una “zona del remninbi” simile a quella del dollaro. In tal caso, i gestori delle riserve ufficiali potrebbero scegliere di detenere una quota considerevole di renminbi, forse non troppo diversa dal peso delle rispettive monete all’interno della citata zona.

Dopo le sanzioni, anche la Russia sta pensando di rendersi, per quanto possibile, sempre meno dipendente dal dollaro e dalle riserve in dollari. Prima dell’inizio della crisi ucraina ne deteneva circa 90 miliardi. Il comportamento dell’Europa purtroppo non aiuta, per il momento, all’individuazione dell’euro come principale moneta di riserva alternativa da parte della Banca Centrale russa.

Anche la recente decisione della Banca Nazionale Svizzera di sganciarsi dal cambio fisso con l’euro e di lasciare fluttuare liberamente il franco sta creando dei terremoti all’interno del sistema monetario internazionale. In poche ore il franco si è rivalutato di circa il 20% nei confronti dell’euro e del 17% rispetto al dollaro.

La decisione della Bns è avvenuta il 15 gennaio scorso, esattamente il giorno dopo il parere espresso da un rappresentante del consiglio degli avvocati della Corte di Giustizia dell’Ue secondo cui le cosiddette operazioni monetarie sui titoli (omt) annunciate da Draghi nel 2012 non violerebbero le leggi europee. In altre parole ci si aspetta che il quantitative easing della Bce dovrebbe essere sbloccato. Ciò comporterà l’acquisto da parte della Bce di titoli europei e l’allargamento dei suo bilancio. Di conseguenza una maggiore circolazione di euro avrebbe portato ad una fortissima pressione per una rivalutazione del franco rispetto alla moneta europea.

Come è noto, dopo la decisione svizzera del 6 novembre 2011 di fissare il cambio a 1,20 franchi per 1 euro, la Bns ha dovuto costantemente comprare euro nel tentativo di mantenerne tale livello senza rivalutare. Così nel tempo ha accumulato 220-240 miliardi di euro di riserve. Con il QE di Draghi la Bns avrebbe dovuto accrescere e di molto gli acquisti di euro. Ha invece deciso di gettare la spugna prima anche se ciò ha fatto perdere decine e decine di miliardi sul valore delle sue riserve in euro e anche in dollari. A seguito della rivalutazione della sua moneta la Svizzera teme anche di perdere una grossa fetta delle sue esportazioni con effetti recessivi sulla sua economia. Adesso altre monete, a cominciare dalla corona danese, sono sotto simili enormi pressioni.

A questo punto le continue sortite della stampa ufficiale tedesca, anche se smentite in verità in modo poco convincente, secondo cui Berlino avrebbe cambiato opinione circa la volontà di tenere la Grecia nell’euro, non giovano alla stabilità della moneta europea e di quella dell’intero sistema monetario internazionale.

Tenuto conto della crescente e preoccupante instabilità geopolitica, la volatilità monetaria rischierebbe di portare il mondo verso una crisi inimmaginabile, di sicuro molto rischiosa per l’economia e per gli equilibri politici. Per questa ragione ancora una volta noi riteniamo urgente che i Paesi del G20 inizino a lavorare per la costruzione di un nuovo sistema monetario internazionale multipolare basato su un paniere di monete importanti.

* Economista **già Deputato e Sottosegretario all’Economia

PALESTINA-ISRAELE: CHI HA PAURA DELLO STATO BINAZIONALE?

di Gideon Levy

http://frammentivocalimo.blogspot.it/2014/02/gideon-levy-chi-ha-paura-dello-stato.htmlSintesi personale

Sintesi personale

Ebrei e arabi hanno vissuto insieme in uno stato dal 1948; israeliani e palestinesi vivono insieme in uno stato dal 1967. Questo paese è ebreo e sionista, ma non democratico per tutti. I suoi cittadini arabi sono limitati , mentre i palestinesi nei territori sono diseredati e privi di diritti .una soluzione per i suoi cittadini ebrei e un disastro per i suoi sudditi palestinesi. Quelli che sono spaventati da un unico Stato, quasi tutti gli israeliani ,ignorano che nella realtà è  già esistente.  Sono terrorizzati dal cambiamento : da uno stato di apartheid e di occupazione ad uno stato egualitario, da uno stato binazionale travestito da stato-nazione (del sovrano), ad uno stato binazionale in linea di principio. In entrambi i casi, gli ebrei e palestinesi  vivono in questo stato da almeno due generazioni, anche se  divisi. E impossibile ignorare.ciò
Le relazioni tra i due popoli in questo paese hanno conosciuto cambiamenti: da un regime militare  per gli arabi-israeliani fino alla sua abolizione (nel 1966), da un periodo di maggior calma e libertà nei territori a periodi tempestosi di terrore omicida e  di violenta occupazione. A Gerusalemme, Acri, Giaffa, Ramle, Lod, la Galilea e di Wadi Ara vivono arabi ed ebrei e le relazioni tra loro non sono impossibili.

Le relazioni con i palestinesi nei territori sono cambiati,  ma nel corso degli anni abbiamo vissuto in un  unico paese, anche se con la spada.
Per 47 anni  c’è stata la possibilità di ritirarsi dai territori per mantenere il carattere  ebraico e democratico dello Stato ,ma gli israeliani  hanno scelto di non farlo. E ‘forse questo un loro diritto, ma è loro dovere  offrire un’altra soluzione.   Sotto questa bandiera hanno ampliato gli insediamenti e perpretato l’occupazione con l’  obiettivo  di contrastare  la partizione. Questa finalità  è diventata irreversibile : non si parla più di evacuare oltre mezzo milione di coloni  e quindi non si parla più di una giusta soluzione dei due stati.

Le proposte di Stato John Kerry, che scoraggiano anche un gran numero di israeliani negli Stati Uniti, non garantiscono una soluzione giusta,  non garantiscono una soluzione: i ” blocchi di insediamenti ” resteranno in vigore. . ” Le misure di sicurezza “saranno in vigore per la Valle del Giordano, forse anche lì  sarà  consentito agli insediamenti di rimanere. La proposta dice no al ritorno dei profughi  o a una soluzione al problema dei rifugiati. Nel frattempo  ci  si impegna a non ” evacuare un Ebreo “e si  propone  la sovranità palestinese per i coloni
A questo punto può essere possibile andare dal droghiere all’angolo, formulare e anche firmare un altro documento (senza alcuna intenzione di  attuarlo  ) che somiglia notevolmente a tutti  quelli precedenti  ed ora 
riposti, pieni di polvere, in qualche archivio,ma è impossibile risolvere il conflitto con un tale piano. I rifugiati, i coloni , la Striscia di Gaza, la mancanza di buone intenzioni e  di giustizia   resteranno  .

Chi sostiene la soluzione dei due stati – a quanto pare la maggior parte degli israeliani – deve offrire una soluzione reale. Le proposte di Kerry non fanno ben sperare. Israele vi aderirebbe , ma solo per mantenere le sue relazioni con gli Stati Uniti e il mondo e per spingere i palestinesi nell’angolo , non certo per stabilire la pace o imporre la giustizia.
Da questo generale “no” sorge il “sì  a uno stato”. Se gli israeliani vogliono mantenere gli insediamenti ,nella Valle del Giordano, a  Gush Etzion e Maale Adumim, a Gerusalemme Est e leader nel Beit El devono prendere atto che c’è  un solo stato. Se c’è uno stato, allora il discorso deve cambiare: diritti uguali per tutti.
I problemi sono molti e complicati e come loro lo sono anche le soluzioni: divisione in distretti, federazione,  governi separati . Non ci sarà alcun cambiamento demografico qui – perché lo Stato è  da lungo  tempo  binazionale ,  ma solo un cambiamento democratico e consapevole. E allora si porrà la questione in tutta la sua forza: perchè così spaventoso vivere in uno stato egualitario? Infatti tutte le altre possibilità sono molto più spaventose.

http://www.haaretz.com/opinion/.premium-1.571863

Gideon Levy : Who’s afraid of a binational state?