Articoli

Qual è il vero significato del lavoro?

Cosa vuol dire “lavorare”? Un commerciante che acquista un prodotto da un agricoltore e lo rivende sul mercato, è un “lavoratore”? Se l’acquirente andasse direttamente dal produttore, sentiremmo la mancanza di un “rivenditore”?

Nel Medioevo consideravano i mercanti degli imbroglioni, di cui sicuramente era meglio non fidarsi: si sapeva infatti che speculavano di molto su quanto vendevano, approfittando del fatto che l’acquirente non poteva conoscere il prezzo d’origine della merce, quello che lo stesso mercante, andando in oriente, aveva pagato per ottenerla.

Lavorare infatti non può significare “rivendere”, a meno che chi compra non ne abbia una necessità vitale. Non a caso nel Medioevo vigeva il baratto: lo scambio delle cose presupponeva che entrambe le parti conoscessero il tempo e i mezzi impiegati per produrle, la fatica occorsa ecc. Si barattavano cose reciprocamente prodotte o trasformate. La moneta, negli scambi, veniva usata dalle persone facoltose e solo per merci rare e preziose.

Il mercante ovviamente si giustificava dicendo che il suo era un “lavoro” importante, in quanto doveva viaggiare molto, avere molte conoscenze, rischiare beni personali ecc.

Tuttavia era anche una sua scelta: nessuno ve lo obbligava. In campagna le unità produttive erano del tutto autosufficienti, e chiunque avrebbe potuto pensare che quando un contadino si trasformava in mercante, lo faceva perché detestava il servaggio o perché voleva arricchirsi a spese altrui.

Nel Medioevo i lavori fondamentali erano quelli agricoli e artigianali; persino la caccia e la pesca e la raccolta di radici bacche erbe miele selvatico, ch’era il lavoro fondamentale nel Paleolitico, venivano praticate nei tempi morti dell’agricoltura o, la sola caccia, dai “signori” come passatempo.

Nel Medioevo il lavoro era contrapposto all’ozio dei possidenti terrieri, come il servaggio alla rendita. Gli agrari vivevano approfittando del fatto che i loro avi, in un lontano passato, avevano usato la forza militare per impadronirsi di determinati territori: era la terra il simbolo della ricchezza. Soltanto dopo aver conquistato questi territori, costruirono le mitologie delle ascendenze aristocratiche, elaborarono la legge del maggiorasco ecc., proprio allo scopo d’impedire che i patrimoni si frantumassero o finissero in mani sbagliate.

La borghesia mercantile nacque per reagire proprio a una situazione bloccata, in cui era praticamente impossibile arricchirsi seguendo le vie legali. O si restava servi della gleba tutta la vita o si doveva cercare fortuna in maniera non convenzionale (a meno che uno non accettasse la carriera ecclesiastica). E quando la fortuna, coi commerci, veniva fatta, il borghese doveva poi convincere il contadino a lavorare per lui, non come contadino, ovviamente, ma come artigiano, o meglio, come operaio salariato. E a quel tempo il modo più veloce d’arricchirsi, con un’impresa produttiva, era quello di dedicarsi al tessile.

Quando il contadino scinde il suo lavoro in due mansioni diverse, agricola e artigianale, può anche nascere la città: qui infatti possono trasferirsi gli operai che servono alla borghesia per arricchirsi (possono abbandonare il feudo e respirare l’aria “libera” della città).

Gli stessi artigiani possono diventare imprenditori di loro stessi, con alle dipendenze molti garzoni o apprendisti o lavoranti che non hanno mezzi sufficienti per mettersi in proprio. Gli artigiani fanno presto ad arricchirsi e a diventare una casta, specie quando il frutto del lavoro dipende da conoscenze specializzate, che pochi possono avere.

L’edificazione di una città non comportava la libertà per tutti ma solo l’illusione d’averla: di fatto era libero solo chi disponeva già di capitali e voleva aumentarli, oppure disponeva di terre i cui prodotti voleva cominciare a vendere proprio per soddisfare una domanda proveniente dalle città (p.es. la lana, che comportò la trasformazione di molti agricoltori in pochi e semplici pastori).

Naturalmente non mancava chi andava in città sperando di emanciparsi dalla condizione servile del passato, propria o dei propri parenti. E per riuscirvi aveva bisogno di dar fondo a tutte le proprie risorse, intellettuali, comportamentali, comunicative, psicologiche… Si trattava soprattutto di modificare la propria passata mentalità.

Il borghese infatti rappresenta la persona astuta, senza tanti scrupoli, in grado facilmente di simulare e dissimulare, sostanzialmente atea, anche se formalmente religiosa, attaccatissima al denaro e disposta a vendere l’anima pur di accumularne il più possibile. Non si diventa borghesi accontentandosi del poco o restando sottomessi, né affidandosi al caso o alla fortuna, né sperando nella benevolenza dei potenti.

Il borghese è un individualista per definizione, che si vanta d’essersi fatto da solo, e non accumula solo per avere il potere economico, ma anche per quello politico.

Il borghese deve arrivare alla convinzione che la ricchezza è unicamente dipesa dalle proprie capacità e deve trasmettere questa convinzione al pubblico, illudendolo che la ricchezza in generale è alla portata di chiunque.

Esiste solo uno stile di vita peggiore di quello borghese, e ne abbiamo avuto un assaggio con lo stalinismo. E’ lo stile di vita dell’intellettuale di partito e del funzionario di Stato, che si costituisce come casta privilegiata, sfruttando il lavoro di tutti. Attraverso lo strumento dell’ideologia e dello Stato (e quindi non del vile denaro), il partito diventa una sorta di sfruttatore collettivo.

Oggi, in forza di queste sconfitte storiche del capitalismo e del socialismo amministrato, possiamo dire che il lavoro può acquisire un carattere democratico solo se chi lo compie ha la percezione della sua utilità sociale e la convinzione che questa utilità gli viene riconosciuta e la certezza di non essere soggetto ad alcuna forma di sfruttamento.

Per una transizione al socialismo: due problemi da risolvere

 I due problemi che una qualunque transizione al socialismo si deve porre sono i seguenti:

  1. fino a che punto la tecnologia è compatibile con l’ambiente?
  2. in che maniera staccarsi dalla dipendenza nei confronti del mercato?

Questi due aspetti sono strettamente correlati, nel senso che – a differenza di quello che pensava il marxismo – non è possibile affrontarli separatamente. La rivoluzione russa affrontò solo il secondo problema, dando per scontato che sotto il socialismo si potesse usare la stessa tecnologia del capitalismo o comunque gli stessi metodi scientifici per ottenerla, pensando che la differenza stesse soltanto nelle forme di applicazione. Fu – come noto – un errore macroscopico, che comportò, come concausa, il crollo dell’intero sistema.

Il primo problema da affrontare è di tipo culturale, mentre il secondo è di tipo sociale e, per poterli affrontare insieme, per una transizione al socialismo umano e democratico, ci vuole un’organizzazione di tipo politico, che preveda anche aspetti di tipo militare (difensivo).

Il capitalismo si serve della tecnologia per dominare il pianeta. La tecnologia viene usata non solo per produrre beni materiali, ma anche per sfruttare le risorse naturali, amministrare i capitali, assicurare la formazione, divulgare le informazioni, gestire i conflitti. Quindi si tratta di capire quale tecnologia è idonea a una concezione di vita in cui il “dominio” sia escluso.

La natura non va “dominata” ma “gestita” come fonte di vita. La natura non può essere “sfruttata”; al massimo può essere “utilizzata”, e dentro la parola “uso” ci deve essere quella di “rispetto”, “tutela”. Nei suoi confronti bisogna stare attenti alle parole che si usano. Gli antichi lo facevano per un’entità che oggi abbiamo capito essere inesistente (dio); a maggior ragione dobbiamo farlo per ciò che ci caratterizza ogni giorno in maniera evidente, sia nel senso che sappiamo vivere secondo natura, sia nel senso che, non sapendo vivere in questa maniera, ci comportiamo come esseri alienati.

L’essere umano deve pensarsi come ente di natura e non come qualcosa al di sopra di essa. E’ vero che in noi vi è una sorta di autoconsapevolezza della natura, come se in noi essa avesse trovato il suo compimento, come se le sue leggi oggettive avessero potuto trovare in noi la sintesi suprema della più grande legge dell’universo: quella della libertà di coscienza. Ma è anche vero che noi, come prodotto finito, non possiamo sussistere senza fare continuamente riferimento agli elementi primordiali che ci costituiscono.

La riproduzione della specie umana deve essere strettamente compatibile con la riproduzione della natura. Se non vi è questo adeguamento libero e consapevole, non è la natura che va cambiata ma l’uomo.

Dunque nei confronti del capitalismo va fatta un’operazione culturale che ne rovesci i suoi presupposti di fondo. La natura è al servizio dell’uomo fintantoché l’uomo si comporta in maniera naturale. La natura infatti ha proprie leggi, le quali, se non vengono rispettate, non permetteranno la sopravvivenza del genere umano. Quanto più l’uomo, con la propria attività, incide sulla natura, tanto più finirà col mettere a repentaglio la propria stessa esistenza.

L’aspetto sociale è interconnesso a questo: infatti se si permette alla natura di autoriprodursi agevolmente, significa che si è capita l’importanza dell’autoconsumo. Se si rispetta l’autonomia della natura, non si può tollerare che la propria sopravvivenza dipenda da fattori indipendenti dalla propria volontà. E’ stato un grossolano errore quello di credere che l’uso della scienza avrebbe potuto liberarci dalla dipendenza nei confronti della natura. Una liberazione di questo genere è stata la nostra condanna.

Una comunità non può essere definita “di vita” se dipende dal mercato, cioè dalle forniture di cibo che altri soggetti economici mettono a disposizione. Il consumatore non può essere nelle mani del produttore, soggetto continuamente a ricatto sulla qualità del prodotto, sul suo prezzo, sulla sua reperibilità.

Una comunità del genere è, nell’ambito del mercato capitalistico, una sorta di colonia da sfruttare, un luogo di lavoro servile, che vive secondo esigenze che non le appartengono. Chiunque sostenga che una comunità, per diventare autonoma e progredire, deve puntare sull’export, inevitabilmente vuole che quella comunità resti per sempre dipendente nei confronti di altri soggetti economicamente più forti.

Qui tuttavia il problema diventa più serio di quello culturale, poiché, mentre il capitale può anche tollerare che una comunità resti all’età della pietra, non può tollerare che in questo primitivismo essa non sia funzionale alle esigenze del mercato.

Cioè anche se una comunità può rinunciare, per motivi di principio, a una certa tecnologia, non può rinunciare di mettere al servizio la tecnologia di cui dispone alle esigenze del capitale, se questo è penetrato nella sua struttura economica. Anzi, quanto più una comunità è dipendente dal mercato, tanto più sarà indotta, se vuole un minimo sopravvivere, a rinunciare ai propri principi e a utilizzare tecnologie più avanzate. Tutta la storia del colonialismo e dell’imperialismo può essere letta in questa maniera.

Come liberarsi di questo fardello? Come tornare all’autoconsumo? Qui vale un vecchio detto: “l’unione fa la forza”. La strategia politica è tutta da inventare ed è difficile, in tal senso, che dei contributi significativi possano venire dall’Europa o dagli Usa o dall’occidente in generale o dai paesi capitalistici sparsi nel mondo.

Infatti, non solo va messa in discussione l’utilità della scienza e della tecnica in uso sotto il capitalismo, ma, in via del tutto generale e quindi astratta, va considerata anche ogni merce come rispondente a un falso bisogno. Occorre cioè guardare con sospetto ogni merce e negare l’identità che il mercato pone tra valore di scambio e valore d’uso.

I valori d’uso non possono mai essere decisi dal mercato ma solo dalla comunità di appartenenza. Di ogni merce bisogna imparare a chiedersi se sia davvero indispensabile e non sostituibile con qualcos’altro. Il problema non è soltanto quello che si pone il “consumo critico” (riduzione, riutilizzo, riciclo, rispetto), ma è anche quello di fare di queste regole un motivo per uscire dal mercato.

Le comunità basate sull’autoconsumo da quali Stati potrebbero essere difese se non da se stesse? Gli Stati, per definizione, difendono solo i poteri più forti, cioè proprio quei poteri che meno ne avrebbero bisogno.

Generalmente oggi le comunità autosussistenti non avvertono neppure d’essere l’unica alternativa praticabile al capitalismo. Cercano soltanto di resistere il più possibile, attendendo rassegnate la loro assimilazione progressiva. Si lotta per conservare un passato ancestrale, non per costruire un nuovo futuro per l’intera umanità.

Per noi occidentali le comunità autarchiche sono solo – nel migliore dei casi – oggetto di studio etno-antropologico. Non ci sfiora neanche lontanamente l’idea ch’esse possano costituire un’alternativa praticabile al nostro sistema di vita alienato, dipendente del tutto da fattori esogeni. Le vediamo troppo lontane da noi. Preferiamo pensare d’essere tutto sommato un sistema senza alternative realistiche, che durerà per un tempo indefinito e che quando scomparirà si porterà con sé l’intera umanità.

Quando pensiamo di aiutare le realtà più povere del mondo, p.es. col commercio equo-solidale o col microcredito, lo facciamo sempre col proposito d’inserirle in un sistema illusorio, che da un momento all’altro potrebbe distruggerle definitivamente. Ci interessa che entrino in questo sistema solo perché il lavoro che impiegano nel costruire determinati manufatti costa pochissimo. Ma non le mettiamo mai in condizione di potersi autogestire senza aver bisogno di un mercato. Noi diamo sussidi, aiuti estemporanei allo scopo di mettere tutti in condizione di dover dipendere da qualcosa che li sovrasta: tutti devono diventare come noi, adoratori del valore di scambio.

Per settant’anni abbiamo creduto che il socialismo reale avrebbe potuto costituire un’alternativa al sistema borghese, pur con tutti gli evidenti limiti di quel modello. Ma oggi solo l’idea di riproporre un “socialismo statale” ci appare pura follia. Lo stesso socialismo cinese, che pur sul piano politico resta autoritario e sul piano culturale alquanto limitato e ideologico (specie nel campo dei diritti umani), sul piano sociale ha preferito accettare la logica del mercato.

Ci vorranno probabilmente ancora alcuni secoli prima di capire che l’unico socialismo possibile, alternativo al capitalismo, è quello precedente alla formazione delle civiltà antagonistiche. Tale forma antichissima di socialismo sussiste nelle regioni più remote del pianeta, in attesa di essere colonizzate da qualche monopolio.

Queste regioni dovremmo tutelarle come si fa con la biodiversità, come si proteggono le specie animali in via di estinzione. Ma lo faremo? Riusciranno queste comunità a far valere il loro diritto a vivere in un mondo che tende a negarglielo? Possono esse sperare che l’esplosione degli antagonismi risulti più doloroso a chi le opprime che non a loro stesse? Ha senso avere questa speranza quando di fatto un qualunque disastro (ambientale, finanziario, bellico…) che avvenga in una qualunque regione del mondo ha ripercussioni sull’intero pianeta, a causa delle strette dipendenze che si sono volute creare?

I momenti migliori per fare le rivoluzioni sono quelli in cui gli antagonismi creano situazioni invivibili, ma sono anche quelli in cui si scatenano gli elementi peggiori dell’umanità, proprio perché l’interesse, quando si è abituati ad agire in maniera individualistica, è sempre superiore alla ragione. Chi detiene il potere non vuole cederlo ed è anzi disposto a tutto. Chi vuole acquisirlo, rischia di comportarsi anche peggio, proprio perché da tempo ci si è disabituati a vivere rapporti umani. Quando scoppiano le crisi e le popolazioni non sono abituate a provvedere a se stesse, essendo schiave dei mercati, l’ira diventa davvero “funesta”.

Fare le rivoluzioni politiche senza prima aver chiaro che del sistema che si vuole abbattere non si può riutilizzare quasi nulla, o almeno non lo si può fare nei modi ch’erano divenuti tradizionali, è un’impresa praticamente impossibile, anche perché, proprio nel momento in cui si preparano le rivoluzioni, si organizzano e materialmente si fanno, non si può in alcuna maniera lavorare per l’autoconsumo, cioè per la vera alternativa. La politica, di per sé, senza l’aiuto della cultura e del sociale, è come un guscio vuoto, che quando cade dall’albero non si sa dove va a finire.

Forse più che compiere delle rivoluzioni, bisognerebbe attrezzarsi per affrontare il peggio, cioè bisognerebbe iniziare da subito a organizzarsi in senso autoconsumistico, ristrutturando quegli ambienti che il capitale considera poco appetibili. Di sicuro però bisognerà prevedere delle opere di tipo difensivo, a tutela del proprio vissuto, poiché là dove non c’è un minimo di sicurezza, non si riesce a costruire nulla.

Bucharin e il destino della Russia

Se non si leggono le opere di Nikolaj Bucharin, è difficile capire perché è fallito il socialismo di stato. Egli infatti esprime la posizione di chi voleva aiutare i contadini, conservando però l’idea di statalizzazione dell’economia (banche, industrie, trasporti, miniere, commercio con l’estero ecc.). Voleva sviluppare l’industria permettendo ai contadini di diventare borghesi. Voleva il capitalismo nelle campagne per ottenere il socialismo di stato nelle città. Iniziò a sostenere queste idee nel 1925 e, nonostante le sue successive rettifiche (in senso peggiorativo per le sorti dei contadini), tredici anni dopo venne fucilato dagli stalinisti.

I comunisti avevano fatto la rivoluzione coi contadini, ricchi e poveri, ma consideravano gli operai la loro punta di diamante: sia perché, non essendo proprietari di nulla, essi non avrebbero potuto imborghesirsi come gli agrari (kulaki); sia perché, militando nel partito bolscevico, non avevano rapporti con la chiesa, per cui erano ideologicamente più affidabili.

Una volta fatta la rivoluzione e superata la guerra civile e l’interventismo straniero, i comunisti non permisero ai contadini di svilupparsi autonomamente, ma solo in funzione degli operai e degli intellettuali, cioè dell’industria di stato e dell’apparato politico-amministrativo.

Ad un certo punto la differenza tra il gruppo di Bucharin e quello di Stalin stava soltanto nel modo di “usare” i contadini. Nessuno dei due gruppi metteva in discussione il “primato dell’industria”: semplicemente un gruppo pensava più a metodi di tipo economico (p.es. permettere ai contadini di arricchirsi, tassarli e concedere credito con banche statali), l’altro invece preferiva metodi di tipo amministrativo (il lavoro rurale va organizzato come quello operaio, essendo la terra un bene statale come le fabbriche).

A nessun bolscevico venne mai in mente di assegnare il primato dell’economia alla campagna (in un paese peraltro dove oltre l’80% dei lavoratori erano rurali), né di far ritornare gli operai alla terra, né, tanto meno, di favorire l’autoconsumo e il valore d’uso, o di potenziare le antiche comunità di villaggio (obscine) o di produrre soltanto quei beni industriali durevoli che venissero considerati assolutamente indispensabili alla riproduzione dei lavoratori e che non fossero lesivi per la tutela ambientale. A nessuno venne in mente di decentrare progressivamente, sul piano locale e regionale, i poteri politici ed economici.

Tutti avevano il terrore che in assenza di una statalizzazione e industrializzazione accelerata dell’economia, di una centralizzazione dei poteri decisionali, non solo sarebbero rinati il capitalismo e l’oscurantismo religioso, ma l’intera Russia sarebbe stata anche sconfitta dalle potenze straniere.

Così facendo però davano l’impressione che la rivoluzione socialista fosse stata un puro e semplice colpo di mano di pochi avventurieri, i quali naturalmente sapevano di non avere forze sufficienti per potersi difendere, alla lunga, dai nemici interni ed esterni.

I comunisti non hanno mai creduto in un consenso spontaneo da parte dei contadini, neppur dopo aver assegnato loro gran parte delle terre requisite ai latifondisti laici ed ecclesiastici.

Stalin subentrò a Bucharin (pur avendolo inizialmente appoggiato) quando ci si accorse che il capitalismo nelle campagne aveva reso i contadini troppo forti, in grado di ricattare non solo gli operai di città, ma tutti gli abitanti urbanizzati e persino il potere politico, la cui sopravvivenza dipendeva appunto dagli approvvigionamenti rurali.

I bolscevichi seppero solo fare la rivoluzione, ma, una volta al potere, fecero un errore dietro l’altro, tanto che, paradossalmente, se non fossero stati attaccati dai nazisti, è da presumere che sarebbero implosi prima. La vittoria, in quella terribile guerra patriottica, permise infatti a tutto il paese di non guardarsi allo specchio, di chiudere gli occhi sulle proprie contraddizioni e di andare avanti sino alla morte naturale di Stalin.

Poi improvvisamente si aprì un occhio in occasione della destalinizzazione politica voluta da Krusciov, e finalmente si aprì anche l’altro con la perestrojka di Gorbaciov, che fece capire il fallimento dell’economia sovietica, basato sull’illusione di far coincidere “pubblico” con “statale”.

In un’economia statalizzata, se non esistono motivazioni particolari – come appunto in caso di conflitti bellici -, si produce al minimo, senza interesse per la qualità e soprattutto si mente sui risultati raggiunti per non ricevere dall’alto ordini sempre più onerosi.

Purtroppo il destino ha voluto che dopo la perestrojka l’autocritica non sia approdata alla costruzione di un socialismo realmente democratico, bensì alla reintroduzione del capitalismo.

In tal senso il destino dei russi appare davvero incredibile: non solo hanno sofferto più degli altri paesi europei quando nel loro paese vigeva il feudalesimo; non solo hanno sofferto, prima di ogni altro paese europeo, i guasti del socialismo da caserma, ma ora, dopo aver capito, guardando noi, quanto si può soffrire sotto il capitalismo, hanno deciso consapevolmente di farci compagnia.

Miti sul comunismo primitivo e sogni su quello futuro

Interamente dedicato alla transizione dalle società comunistiche primordiali alle civiltà antagonistiche, il n. 27 (aprile 2010) della rivista n+1 (del sito www.quinterna.org), merita una serie di riflessioni, prima ancora che sui contenuti storiografici, sull’impostazione metodologica che regge la tesi fondamentale (che è storica e insieme politica), chiaramente delineata alla pag. 68, e che si può riassumere, nella sua prima parte, nel modo seguente:

  1. nella storia dell’umanità vi è stata un’unica fondamentale transizione, quella dal comunismo primitivo alle società divise in classe contrapposte;
  2. la prossima fondamentale transizione sarà quella da una delle attuali società classiste (il capitalismo) al socialismo democratico, che riprenderà l’organizzazione del comunismo primordiale in forme e modi ovviamente diversi.

Fin qui nulla da eccepire, anche perché è certo che sia avvenuto così e si può ipotizzare o auspicare che avverrà di nuovo così, in quanto solo un collettivismo autenticamente democratico è in grado di sussistere all’infinito.

Le perplessità emergono però nella seconda parte della tesi e riguardano proprio le modalità della transizione. Gli autori infatti guardano i passaggi epocali da una formazione sociale a un’altra coi criteri evolutivi del determinismo economico. Come ritengono politicamente inevitabile la transizione relativa ai nostri tempi, in quanto il capitalismo non è in grado di risolvere le proprie contraddizioni (e tutte le volte che ci prova non fa che peggiorarle), così ritengono che anche la prima transizione sia stata storicamente inevitabile.

Ma per sostenere l’inevitabilità di una transizione, bisogna rinunciare in un certo senso al concetto di “rottura”, che di per sé implica una scelta di campo consapevole e non solo una semplice costatazione di fatto.

Per Quinterna invece, come non è esistito una sorta di “peccato originale” per la prima transizione, così non esisterà una “apocalisse” per la seconda. In luogo di “rottura” gli autori preferiscono parlare di “società ibrida”, quella secondo cui possono coesistere degli elementi sociali che solo in apparenza sono opposti, negando con ciò uno dei presupposti fondamentali di qualunque storiografia marxista, e cioè che mentre ci può essere continuità tra un modello di sviluppo antagonistico e un altro, non ci può essere alcuna vera compatibilità tra socialismo e antagonismo. Detto altrimenti, come il socialismo non potrà mai svilupparsi dentro i confini del capitalismo, così l’obiettivo fondamentale che hanno avuto le prime civiltà della storia fu proprio quello di eliminare il comunismo primordiale.

Trattando del comunismo originario, quali sono questi elementi apparentemente opposti? Gli autori ritengono che detto comunismo si trovasse ancora largamente presente nell’ambito delle prime civiltà della storia, quelle cosiddette “fluviali”, alle quali ovviamente viene risparmiato l’appellativo di “schiavistiche”.

Essi non credono vi fossero particolari contraddizioni tra l’aspetto “naturalistico” del primo comunismo e l’organizzazione urbana delle prime civiltà. Sarebbe stato un errore degli storici borghesi (archeologi, etno-antropologi ecc.) vedere la nascita delle civiltà classiste nella piena urbanizzazione del territorio.

In realtà l’antagonismo sociale vero e proprio – secondo questo saggio monografico – sarebbe nato molto tempo dopo (in Europa p.es. con la civiltà greco-romana). Se nelle prime civiltà esistevano forme di “schiavismo”, non si ponevano certo “a sistema” di un modo produttivo e, al massimo, potevano essere equiparate a una servitù di tipo domestico. Gli autori non fanno differenza di forme nell’ambito dello schiavismo, non si parla neppure del rapporto oppressivo tra uomo e donna (che potrebbe essere considerata la prima forma di schiavitù) e si tacciono le devastanti conseguenze ambientali delle prime civiltà (deforestazioni con conseguenti desertificazioni), vedendo in esse, al contrario, un contributo alla bonifica delle zone paludose.

Per quale motivo Quinterna fa un’analisi storica di questo tipo, che contrasta non solo con quella della storiografia borghese, ma anche con quella di buona parte della storiografia socialista? Il motivo sta nell’analisi politica che essa dà della transizione che ancora deve avvenire.

Infatti, gli autori della rivista sostengono che se va considerata possibile “la persistenza di una struttura comunistica primitiva in ambiente sociale assai avanzato, alle soglie della forma statale”(p. 68), allora deve essere possibile anche il contrario, e cioè che si può anticipare “una struttura comunistica avanzata in ambiente sociale ancora arretrato, cioè con retaggi capitalistici”(ib.). In sostanza si postdata la fine del comunismo primitivo, così come si anticipa la nascita di quello futuro.

In altre parole, se si può parlare di “comunismo originario” in presenza di un’organizzazione sociale evoluta (non definibile come “Stato”, in quanto questo è sempre uno strumento nelle mani della classe egemone), così oggi si può parlare di “comunismo in fieri” negli aspetti più propriamente tecnico-scientifici e produttivi della società, che attendono d’essere usati in maniera davvero “razionale” quando al posto della proprietà privata dei mezzi produttivi si sarà affermata quella sociale.

Cosa c’è che non va in questa analisi? Almeno due cose: la prima è relativa all’idea che vi possa essere uno sviluppo tecnico-scientifico indipendente, nel suo significato sociale e culturale, dalle esigenze di uno specifico modo produttivo. Cioè il fatto che oggi scienza e tecnica abbiano raggiunto livelli che solo molto debolmente potevano essere intuiti da uno dei più grandi geni dell’umanità, come Leonardo da Vinci, non può essere considerato di per sé come una forma di progresso, come qualcosa che meriti assolutamente d’essere conservato per quando si realizzerà il socialismo democratico.

Quando i Germani entrarono nell’impero romano d’occidente non eliminarono soltanto lo schiavismo come sistema produttivo, ma anche buona parte di quanto serviva per tenere in piedi una civiltà basata sulle città e sui commerci (dalle terme alle monete, tanto per fare un esempio), proprio perché non erano cose che ritenevano indispensabili per costruire una civiltà basata su autoconsumo rurale e baratto.

La seconda cosa che non va nell’analisi di Quinterna è che nella storia non esistono le evoluzioni, ma solo traumatiche rotture, le quali possono sì creare qualcosa di progressivo rispetto allo stadio precedente ma non in maniera automatica e tanto meno in maniera definitiva.

L’unica evoluzione esistita è stata appunto quella tutta interna al comunismo primordiale (in cui p.es. si passò dal chopper all’amigdala senza creare rivolgimenti di sorta), ma, a partire dal momento in cui si è rinunciato a questo sistema equilibrato di vita, qualunque aspetto di tipo “evolutivo” (p.es. nelle tecniche produttive o di scambio) ha sempre avuto enormi prezzi da pagare in termini sia sociali (sfruttamento del lavoro altrui e guerre di rapina) che ambientali (non può certo essere un caso che i maggiori deserti del mondo siano spesso prossimi alle civiltà antagonistiche).

L’evoluzione vista secondo le esigenze delle società classiste è sempre, inevitabilmente, una involuzione, più o meno culturalmente mascherata, mistificata, con caratteristiche sempre più gravi per i destini dell’umanità.

Ecco dunque spiegato il motivo per cui gli autori di questo saggio vogliono vedere strette analogie tra le due suddette forme di transizione. Se si pensa che il passaggio dal capitalismo al socialismo debba avvenire in maniera deterministica, come una inevitabile esigenza naturale, è più facile pensare che ciò si realizzi quanto più si accetta l’idea che il socialismo futuro debba essere tecnologicamente evoluto; ma se è così, allora anche il comunismo primitivo poteva e anzi doveva esserlo, senza che ciò fosse un riflesso di rapporti squilibrati tra gli esseri umani e tra questi e la natura.

Tuttavia a questo ragionamento si può obiettare che se c’è solo “evoluzione” e non “rottura”, non ci può essere neppure organizzazione della lotta rivoluzionaria, ma soltanto attesa passiva che le contraddizioni scoppino da sole, dopodiché si può facilmente immaginare che qualcuno, dall’alto della propria scienza, faccia capire alle masse che il capitalismo, stante la proprietà privata dei mezzi produttivi, non ha alternative, e che se invece accetta quella sociale, tutto il resto può rimanere come prima.

Ecco perché quando parliamo di miti nei confronti del passato comunismo, dobbiamo parlare anche di sogni in relazione a quello futuro. Di fatto noi oggi possiamo essere sicuri solo di due cose: la prima è che con uno sviluppo planetario del capitalismo (che ora ha investito anche vari paesi dell’ex-socialismo burocratico), la natura verrà completamente distrutta, con conseguenze inimmaginabili sul futuro dell’umanità; la seconda è che senza rivoluzione politica in senso socialista, il capitalismo durerà in eterno o comunque si evolverà in forme che non ne intaccheranno la sostanza (come già sta facendo quello cinese rispetto a quello occidentale).

Il senso della democrazia diretta (in rapporto al federalismo)

Nella storia le tragedie avvengono soprattutto non quando si ha torto (come nelle dittature), ma quando si ha ragione e si pretende di averla (come nelle dittature che sostituiscono altre dittature). Cioè quando le proprie ragioni, che possono essere anche migliori di quelle altrui o di quelle precedenti temporalmente alle nostre, vengono imposte con la forza.

E’ sotto questo aspetto singolare che chi ha ragione e pretende di averla, non s’accorge che se c’è una cosa che contraddice la verità è proprio l’uso della forza.

C’è solo un caso in cui la forza smette d’essere tale e diventa diritto: quando è la forza della stragrande maggioranza di una popolazione (o di un intero paese). In questo caso si è soliti dire che vi sono più probabilità che la ragione stia dalla parte della grande maggioranza, ammesso (e non concesso) che sia possibile stabilire effettivamente la volontà di questa maggioranza. Il “non concesso” è d’obbligo là dove si pensa di stabilire tale volontà limitandosi a quella parodia di democrazia che è l’elezione dei parlamentari.

Quando la popolazione avverte l’esigenza di esercitare la forza come un proprio diritto, significa che non si sente rappresentata da chi la governa, ovvero che al governo si sta usando la forza contro gli interessi della grande maggioranza della popolazione, si sta usando la forza per violare dei diritti generali, che a tutti bisognerebbe riconoscere.

E’ a quel punto e solo a quel punto che alla forza di una risicata minoranza detentrice del potere, bisogna opporre la forza della grande maggioranza che lo subisce. Solo a quel punto la forza diventa violenza rivoluzionaria, avente cioè lo scopo di abbattere il governo in carica con una insurrezione popolare.

Tuttavia la storia ci dice che le tragedie avvengono proprio quando si è abbattuto il governo autoritario in carica. Infatti succede sempre che i trionfatori credono d’essere autorizzati a servirsi delle loro ragioni come occasione per imporre una nuova forza.

Col pretesto di dover abbattere tutti i nemici che ancora cercano di opporsi al nuovo governo, si impongono nuove servitù, nuove costrizioni, spesso peggiori delle precedenti. E il popolo, abituato a obbedire, ingenuamente le subisce, le accetta passivamente per il bene comune, pensando a una qualche “ragion di stato”.

Tutte le rivoluzioni sono fallite proprio perché i vincitori finivano col comportarsi come i vinti. Persino quando le ragioni sono state di tipo “socialista”, si è verificato questo fenomeno.

Bisogna dunque trovare il modo per scongiurare un’involuzione della democrazia. E l’unico non può essere che quello di affidare allo stesso popolo le sorti del proprio destino. Chi lo avrà guidato alla vittoria, dovrà riconoscergli la capacità di autogestirsi e di difendersi da solo contro eventuali nemici.

Il popolo deve sperimentare il significato della democrazia diretta, autonoma, localmente gestita, dove l’esigenza di affermare una qualche forma di centralismo può essere determinata solo da un consenso preventivo, concordato e motivato da parte delle realtà locali, che possono stabilire un patto tra loro al fine di realizzare un obiettivo specifico.

La democrazia o è diretta, locale, autogestita, o non è. La democrazia delegata, centralizzata, nazionale o sovranazionale ha senso solo se è temporanea e solo se le prerogative sono ben definite dalle realtà locali territoriali.

Se si escludono i momenti particolari delle guerre contro un nemico comune, occorre affermare il principio che vi è tanta meno democrazia quanto più chi la gestisce è lontano dalle realtà locali.

Ecco in tal senso è possibile usare l’idea di “federalismo” per spingere la democrazia verso obiettivi più significativi di quelli attuali, che non possono certo essere quelli di rendere il capitalismo più efficiente, né quelli di scegliere, come contromisura al rischio di una disgregazione sociale, di aumentare i poteri dell’esecutivo (che alcuni vorrebbero trasformare in “presidenzialismo”).

Per conservare l’unità nazionale non c’è bisogno di alcun presidenzialismo. Se le realtà locali (federate tra loro) sono democratiche, è la democrazia stessa, è la sua intrinseca forza etica e politica, a tenere unita la collettività nazionale e internazionale.

Ma perché questa democrazia non sia una mera formalità della politica, occorre che da essa si passi al “socialismo”, cioè alla gestione comune delle risorse vitali, alla socializzazione dei mezzi produttivi, in cui il primato economico passi dal valore di scambio al valore d’uso.

Dalle religioni primitive al socialismo

Il fatto che i cristiani dicessero, già nei vangeli, che nessuno può dirsi dio se non Gesù Cristo, è stata, nei confronti del mondo romano, una forma di ateismo. Ma come mai questa forma di ateismo si sviluppò, mentre quella ebraica, che diceva le stesse cose e che costituì indubbiamente un passo avanti rispetto alle civiltà egizia e mesopotamica, non ebbe questa fortuna?

In altre parole, per quale ragione diciamo che il cristianesimo è una forma di ulteriore ateismo rispetto all’ebraismo? Il motivo sta nel fatto che nel cristianesimo dio non resta invisibile ma si può conoscere e si può farlo attraverso un uomo che pretende di dirsi suo figlio unigenito. Il dio dei cristiani non è il “totalmente altro”, ma è prossimo all’uomo, è talmente umanizzato che ha accettato di mostrarsi in tutta la sua debolezza, ha persino accettato, senza reagire, di lasciarsi crocifiggere.

Il cristianesimo è riuscito a tradire il Cristo, che di religioso non aveva nulla, umanizzando i contenuti religiosi dell’ebraismo, che vedeva dio come un’entità assolutamente “altra” rispetto all’essere umano.

Tuttavia, per gli ebrei, di allora e di oggi, il dio assoluto non doveva soltanto restare inaccessibile, doveva anche garantire sulla terra un luogo ove sperimentare il valore degli ideali religiosi. Per i cristiani invece – come noto – questo luogo può essere solo ultraterreno. Dunque com’è stato possibile superare l’ebraismo?

Ai Romani l’ebraismo faceva paura proprio per la pretesa che aveva di unire la religione alla politica, ma dopo la distruzione di Gerusalemme cominciò a far paura il cristianesimo, proprio per la pretesa che aveva di tenere separata la religione dalla politica. Infatti quando un imperatore chiedeva d’essere considerato una sorta di divinità e voleva avere una religione che ci credesse, non poteva certo aver fiducia nel cristianesimo e tanto meno nell’ebraismo.

Ma per quale motivo il cristianesimo faceva più paura? La ragione era una sola: “cristiani” si poteva “diventare”, “ebrei” si poteva solo “nascere”. L’ebraismo era una religione aristocratica e nazionalistica; il cristianesimo invece era democratico e universalistico.

Eppure noi oggi diciamo che gli ebrei avevano tutte le ragioni di desiderare un luogo in cui realizzare concretamente i loro ideali religiosi: non volevano dare per scontato che in questo mondo non fosse possibile alcuna vera forma di liberazione. Quindi sotto questo aspetto li consideriamo migliori dei cristiani, che rimandano tutto all’aldilà.

Il cristianesimo può dunque essere interpretato come una forma di ateismo nei confronti della teocrazia ebraica, per la quale non si può fare distinzione tra politica e religione; nel contempo però esso rappresenta, sul piano politico, un’involuzione rispetto all’ebraismo, proprio perché non crede possibile una liberazione terrena. Il cristianesimo ha potuto trionfare ideologicamente sull’ebraismo proprio nel momento in cui questo era uscito politicamente sconfitto nello scontro con l’impero romano.

Tuttavia gli imperatori, distruggendo militarmente Gerusalemme, si portarono per così dire il nemico in casa. Quando i Romani usavano la religione come strumento della politica, temevano chi voleva fare della politica uno strumento della religione, per questo vollero assolutamente far fuori l’ebraismo. Ma appena l’ebbero fatto, cominciarono a temere chi non era disposto a considerare la religione uno strumento della loro politica, e si trovarono a perseguitare, inutilmente, i cristiani per tre secoli, finché alla fine si arresero, e quando lo fecero, pensarono subito di usare il cristianesimo come prima facevano col paganesimo, con la differenza che dovettero rinunciare alla loro divinizzazione, al loro ruolo sacerdotale.

Il cristianesimo impose all’impero romano una separazione politicamente formale di chiesa e stato, benché nella sostanza ideologica fossero entrambi cristiani e intenzionati a reprimere chiunque non lo fosse.

Ma in origine come si poneva il cristianesimo nei confronti del paganesimo? Essendo di origine ebraica, il cristianesimo aveva già superato il concetto di politeismo. Al massimo possiamo dire che il cristianesimo sia una forma di “triteismo”, in quanto, nell’ambito della “sacra famiglia” (padre, figlio e spirito) vi è unità di sostanza nella diversità delle persone.

Tuttavia il superamento non è affatto avvenuto nel passaggio dal politeismo al triteismo. Già gli ebrei avevano capito che gli dèi pagani altro non erano che l’immagine riflessa dei vizi e delle virtù degli uomini. Gli ebrei preferivano un dio unico, invisibile, onnipotente, onnisciente, superiore al destino, capace di misericordia e di perdono, assolutamente virtuoso, proprio per impedire agli uomini di avere con questo dio un rapporto arbitrario, del tutto soggettivo. Jahvé pretendeva il rispetto dei patti, della legge scritta, altrimenti toglieva la sua protezione e lasciava il popolo in balìa dei suoi nemici.

Per i pagani gli dèi non avevano pretese così elevate: bastava il sovrano deificato ad averle nei confronti di se stesso. Le divinità pagane erano una forma di consolazione dalle frustrazioni quotidiane causate da una società schiavistica, erano un gioco intellettuale per chi scriveva commedie e tragedie, erano un modo che ogni città o classe sociale aveva di distinguersi dagli altri, erano una rappresentazione simbolica di forze naturali. I Romani non si servivano delle loro divinità per muovere guerra contro i loro nemici, anche perché, quando vincevano, rispettavano le divinità straniere, anzi spesso le adottavano, aggiungendole alle proprie.

La religione, per i Romani, era come una sostanza oppiacea, assolutamente innocua sul piano politico (semmai poteva dar fastidio a livello sociale, come quando, con i baccanali, si univa religione a lussuria). Nessun credente pagano, in nome del proprio dio, s’è mai opposto politicamente alle istituzioni dell’impero. Nessun pagano ha mai messo in discussione la divinizzazione dell’imperatore (al massimo l’obbligo di prestare sacrifici alla statua del sovrano lo riteneva del tutto formale).

Il paganesimo è sicuramente una religione più intellettualistica e alienata dell’animismo, del totemismo ecc., ma resta sempre una religione ingenua, primitiva, in fondo non violenta e anzi molto tollerante di altri culti e rispettosa dei cicli della natura.

Viceversa, il cristianesimo, proprio come l’ebraismo che l’ha preceduto e l’islam che gli è succeduto, è una religione politicizzata, che vuole imporsi nel nome del proprio dio, anche se non lo fa da sé, ma per mezzo di un proprio braccio secolare.

Dove sta dunque il vero motivo di superamento del paganesimo da parte del cristianesimo, quello che gli ha permesso d’essere considerato una religione non acquiescente ma contestativa? Sta anzitutto nel fatto che il cristianesimo ha inventato la separazione di chiesa e stato, che per un pagano sarebbe stata impensabile (e che invece anche un ebreo avrebbe accettato, benché soltanto al di fuori della propria nazione).

La suddetta separazione è una forma di protesta politica, è la sconfessione della pretesa che i sovrani hanno di deificarsi, di rappresentare la divinità in maniera istituzionale. Non a caso i cristiani venivano definiti “atei” dai pagani.

I cristiani si sono “paganizzati” quando hanno tolto alla loro religione qualunque connotato di protesta sociale (quando p.es. sotto Costantino e Teodosio hanno smesso di parlare di uguaglianza sociale e di libertà di coscienza), e si sono “ebraicizzati” quando, col papato medievale, hanno sottomesso la politica alla religione.

Le due cose, in un certo senso, hanno marciato in parallelo, soprattutto in Europa occidentale: quanto più la chiesa pretendeva di porsi come Stato, tanto più la religione diventava una forma di evasione, perdeva il suo contenuto eversivo, anzi veniva usata per avvalorare le pretese integralistiche della teocrazia. Di qui lo sviluppo impetuoso dei movimenti ereticali, che volevano far recuperare al cristianesimo il carattere contestativo che aveva avuto all’inizio.

Quando, in epoca moderna, il cristianesimo s’è trasformato in socialismo, ha compiuto due operazioni simultanee: ha fatto di ogni uomo il dio di se stesso (umanesimo laico) e ha chiesto all’uomo di realizzare su questa terra la propria liberazione (socialismo democratico, egualitario).

Quindi in un certo senso ha ripristinato il valore politico dell’ebraismo e in un altro senso ha conservato l’universalismo del cristianesimo, togliendo però ad entrambi qualunque connotato religioso.

Ora non gli resta che recuperare del paganesimo ciò che questo aveva ereditato dalle religioni primitive: il rispetto della natura. Il socialismo democratico in occidente s’è sviluppato in senso “scientifico”, senza mettere in discussione lo sviluppo tecnologico e industriale della borghesia. S’è limitato a contestare l’appropriazione privata del profitto e l’assenza di una socializzazione dei mezzi produttivi.

Oggi invece il socialismo deve riscoprire il valore della terra, del rapporto naturale dell’uomo con le risorse del pianeta. Il socialismo deve diventare ecologista, mettendo al primo posto l’importanza dell’autoconsumo e del valore d’uso delle cose che produce.

Ha senso lo Stato nella transizione al socialismo? (II)

All’origine del centralismo autoritario vi è il fatto che il comunismo sovietico, sulla scia di quello tedesco di Marx ed Engels, ha sempre considerato i contadini una classe culturalmente sottosviluppata e socialmente piccolo-borghese. A questa classe ha voluto sovrapporre, in un rapporto di subordinazione gerarchica, il proletariato industriale, che veniva considerato più rivoluzionario in quanto assolutamente privo di tutto.

Tuttavia il proletariato industriale è una classe socialmente sradicata, di provenienza, fino a qualche tempo fa, prevalentemente rurale. Ora, se è vero ch’esso non ha nulla da perdere oltre la propria capacità lavorativa, è anche vero che non è in grado di costruire un’autonomia produttiva della realtà locale. E una classe del genere, priva di alcun riferimento alla terra e alle sue secolari tradizioni, è fatalmente strumentalizzabile da quella intellettuale, priva anch’essa di radici rurali.

L’industria non garantisce in maniera relativamente sicura la sopravvivenza di una comunità locale, o almeno non è in grado di farlo meglio di una comunità rurale. Tant’è che quando essa subisce seri contraccolpi da parte della concorrenza (nazionale o internazionale), la sua chiusura o delocalizzazione determina la fine della medesima comunità o la riconversione produttiva di quest’ultima.

Per distruggere le comunità rurali, il capitalismo ha impiegato dei secoli, ma per distruggere una piccola o media industria (e oggi, a causa del globalismo, lo vediamo anche con le grandi) occorre un tempo infinitamente minore. Negli Stati Uniti intere cittadelle costruite nei pressi di una miniera diventavano dei fantasmi appena la miniera veniva considerata non più “produttiva”.

Nell’ambito dell’agricoltura basata sull’autoconsumo, un anno di siccità non faceva spopolare una comunità di villaggio. L’agricoltura, che includeva anche l’artigianato, veniva aiutata dall’allevamento, dall’uso comune di taluni arativi e prativi, dei boschi, dei laghi, dei fiumi, delle paludi e soprattutto da una cultura dell’assistenza reciproca.

Un prodotto industriale che subisce la concorrenza di un prodotto analogo, specie in un regime ove i trust monopolistici tendono a prevalere e dove non è più possibile applicare le regole del protezionismo senza subire gravi ritorsioni, rende molto debole l’azienda che lo produce in condizioni di inferiorità (anche se queste condizioni, in assenza di concorrenza, potrebbero risultare più che sufficienti per riprodurre il capitale investito). Il futuro di aziende del genere, in un mercato sempre più globalizzato, ove i nuovi competitori si avvalgono di un costo del lavoro molto basso e non hanno scrupoli nel raggirare le regole commerciali che col tempo si sono dati i paesi capitalisti, risulta legato a variabili del tutto imprevedibili, e questo anche quando l’apparenza è lì a mostrare un’azienda economicamente stabile.

A suo tempo, quando si cominciava appena a parlare di globalismo, il socialismo di stato aveva pensato di ovviare a questo continuando a pianificare dall’alto tutta la produzione, come agli inizi dello stalinismo, trasformando tutti (operai e dirigenti d’azienda) in meri esecutori materiali di decisioni prese da organi politici e amministrativi. In questa maniera si tolse definitivamente l’incentivo al lavoro, alla produttività. Per quale motivo infatti si sarebbe dovuto fare volontariamente un lavoro monotono, faticoso, pericoloso e per giunta sotto pagato, quando il prodotto del proprio lavoro (che virtualmente avrebbe dovuto avere un valore maggiore di quello agricolo, in quanto connesso a un imponente capitale fisso) veniva gestito da un ente, lo Stato, che in definitiva restava non meno estraneo del capitalista privato all’operaio del mondo occidentale?

Il socialismo di stato aveva funzionato nel comunismo di guerra (salvo rettificarlo con l’introduzione della Nep, finita la controrivoluzione), aveva funzionato con la nascita dell’industrializzazione, fatta pagare duramente al ceto rurale e all’ambiente in generale, aveva funzionato durante la II guerra mondiale, poiché tutta l’industria era stata trasformata da civile a militare, ma s’era rivelato completamente fallimentare nel periodo della stagnazione, preceduta da quella della destalinizzazione.

Non è curioso che l’inizio del crollo del “socialismo reale” sia avvenuto proprio nel momento in cui la nomenklatura insisteva di più nell’attribuire grande importanza al passaggio dallo “Stato della classe operaia” (dittatura del proletariato) allo “Stato di tutto il popolo”? S’era perso completamente il riferimento alla realtà. Il partito chiedeva ai lavoratori di guardare lo Stato in maniera del tutto idealistica, come una sorta di padre bonario, le cui azioni dovevano risultare ottime di per sé, a prescindere da qualunque riscontro concreto, soprattutto in considerazione del fatto che con la “guerra fredda” il socialismo mondiale continuava ad essere seriamente minacciato.

Il plusvalore estorto politicamente agli operai era servito solo in misura limitata ad accrescere la qualità della vita e, inevitabilmente, esso non poteva accompagnarsi a una progressiva democratizzazione della società. Stalin pretendeva che in tempo di guerra, per la difesa della patria, si lavorasse 24 ore al giorno, ma sotto Breznev, Cernienko, Andropov si poteva pretendere uno spirito di sacrificio senza dare, come contropartita, una qualità di vita né morale né materiale?

* * *

Il socialismo futuro dovrà dunque essere di tipo rurale, in cui l’apporto dell’industria sarà ridotto al minimo, rispettando le compatibilità ambientali. Nessun socialismo potrà essere democratico se non sarà ambientalista. Questa cosa è stata completamente trascurata dai classici del marxismo.

L’autonomia produttiva dovrà basarsi sulla soddisfazione di bisogni locali utilizzando risorse interne. Non ha alcun senso che una comunità locale venga tenuta in piedi attraverso i salari che guadagnano gli operai di un’azienda, le cui materie prime provengono da chissà dove e le cui merci vengono vendute chissà dove. Questa cosa non avrebbe senso neppure se l’azienda fosse di proprietà degli stessi operai.

Il socialismo futuro non potrà avere nei confronti della scienza e della tecnica alcuna devozione feticistica. Anche perché un qualunque primato concesso all’industria implica l’impossibilità di rinunciare al primato del valore di scambio su quello d’uso. Il che non vuol dire che l’industria non debba esserci, ma semplicemente che la sua ragion d’essere andrà decisa dalla comunità locale che vorrà fruire dei suoi prodotti.

Ha senso lo Stato nella transizione al socialismo? (I)

La storia ci dice che il socialismo ha qualche speranza d’affermarsi solo in coincidenza di catastrofi epocali, come p.es. le guerre. Là dove non vi riesce, o non vi riesce in forma adeguatamente democratica, tornano inevitabilmente in auge i rapporti antagonistici, nel senso che le società divise in classi, dopo un certo momento di sbandamento, sono in grado di riorganizzarsi e di riprendere il cammino là dove gli eventi l’avevano interrotto, salvo introdurre variazioni di forma, onde salvaguardare la sostanza dello sfruttamento.

Non esiste alcun processo “naturale” dal capitalismo al socialismo, come non è mai esistita alcuna inevitabilità dal comunismo primitivo allo schiavismo. Moltissimo dipende dalla volontà degli uomini, che devono saper approfittare delle circostanze per affermare i loro progetti alternativi, i quali, a loro volta, solo le circostanze diranno se erano davvero favorevoli agli interessi delle masse, oppure no.

Questa è stata la lezione del leninismo, che riuscì a imporsi proprio grazie alla catastrofe della I guerra mondiale, trasformando il conflitto contro un nemico esterno (i tedeschi) in una guerra civile tra nemici interni (russi). Lenin non dovette combattere solo contro lo zarismo, ma anche contro i marxisti che ritenevano impossibile una transizione dal feudalesimo al socialismo saltando la fase del capitalismo.

Egli riuscì ad avere la geniale intuizione che se la struttura economica determina in maniera irreversibile la sovrastruttura politica, non avrebbe mai potuto esserci alcuna rivoluzione comunista. Il rapporto tra economia e politica doveva basarsi sul reciproco condizionamento. La frase che Marx aveva detto in Per la critica dell’economia politica (1859): “Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza”, era la frase di un uomo politicamente sconfitto dalla rivoluzione del 1848.

Il fatto che oggi la Russia sia diventata capitalistica non vanifica la giustezza del ragionamento anti-deterministico di Lenin. Oggi, in questo immenso paese, esiste il capitalismo semplicemente perché non si è avuta la sufficiente volontà per trasformare il socialismo autoritario, di matrice stalinista, in quel socialismo democratico che Gorbaciov, ampliando e approfondendo il tentativo abortito di Krusciov, era riuscito a inaugurare. Il mezzo secolo di dittatura non poteva non comportare effetti gravissimi sul senso della democrazia partecipata.

Questo per dire due cose:

  1. anche la migliore impostazione del tipo di edificazione del socialismo, quale sicuramente era quella leninista rispetto alle altre di quel tempo (da quelle utopiste a quella della Comune), non offre alcuna garanzia circa la sua continuità, proprio perché non esiste alcuna condizione oggettiva che possa impedire alla libertà umana di negare alle proprie esperienze storiche il loro valore positivo;
  2. i comunisti che vogliono “rovesciare” l’esistente dovrebbero impegnarsi a predisporre la popolazione ad attendere l’arrivo dei momenti cruciali della storia. Per poterlo fare, non ha senso mantenersi separati dalla società, nella convinzione di poter conservare meglio la purezza dei propri ideali. Bisogna anzi rinunciare ad anteporre la previa accettazione di dottrine astratte all’affronto quotidiano delle contraddizioni sociali. Bisogna persino accettare il rischio di cadere nell’opportunismo, pur di non perdere il contatto con le masse.

E’ evidente infatti che finché esiste la proprietà privata, la corruzione delle idee e dei comportamenti è sempre possibile. Lo stalinismo ha addirittura dimostrato che tale corruzione è possibile anche là dove la proprietà viene completamente statalizzata. Ma sarebbe peggio se, per timore di questa corruzione, ci si rinchiudesse in una politica attendista, da guarnigione assediata, che con un binocolo osserva, molto preoccupata, fingendo ostentata indifferenza, i movimenti di un nemico molto più forte.

Quali aspettative può offrire di realizzare in futuro la democrazia quel movimento che oggi teme il dissenso, si trincera dietro una presunta purezza ideologica, dietro una coerenza che, in ultima istanza, è solo formale. Chi pretende di autogestirsi, in maniera autoreferenziale, in attesa del “crollo”, somiglia a una di quelle comunità monastiche che, al tempo dei primi compromessi politici tra chiesa e impero, preferiva ritirarsi nel deserto.

* * *

Ora, la domanda cui si vuole cercare di dare una risposta è la seguente: per poter affermare la proprietà sociale dei mezzi produttivi bisogna necessariamente passare attraverso lo Stato? Se sì, in che misura e fino a che punto? Non è, per caso, che l’importanza attribuita da Marx ed Engels al ruolo dello Stato, nella prima fase di transizione al socialismo, rifletteva in realtà una certa sfiducia nelle capacità organizzative delle masse?

Secondo loro lo Stato era inizialmente indispensabile proprio perché permetteva di regolamentare non solo la gestione collettiva della produzione (almeno finché la società non fosse in grado di autogestirsi), ma anche una difesa contro chi, dall’interno, vorrebbe fermare la storia. Inoltre, finché esistono Stati stranieri che possono e vogliono distruggere il socialismo costruito all’interno di una nazione, è impossibile fare a meno dello Stato, che garantisce facilmente la centralizzazione del comando politico-militare. L’assenza di una direzione operativa centrale non fu forse fatale per le sorti del socialismo durante la guerra civile spagnola?

Ebbene, questo modo di vedere le cose, alla luce di quanto è accaduto al cosiddetto “socialismo reale”, va considerato soggetto necessariamente ad alcune rettifiche. Infatti, quello che si deve evitare, a rivoluzione compiuta o nelle prime fasi della transizione, è la tendenza, che ad un certo punto diventa inarrestabile, a burocratizzare il socialismo.

Non è sufficiente sapere che lo Stato è destinato a estinguersi, né che occorre un centralismo operativo nei momenti in cui le conquiste rivoluzionarie appaiono più instabili, più minacciate da resistenze esterne. Il compito principale del socialismo è quello di dimostrare la propria capacità democratica non solo nei brevi momenti di conflitti bellici, ma anche e soprattutto nei lunghi momenti di pacifica e civile convivenza.

Non si tratta soltanto di saper difendere le proprie posizioni dagli attacchi di nemici esterni o di collaborazionisti interni, ma anche di saper costruire una gestione democratica dei bisogni collettivi. Se non si è capaci di fare questa seconda cosa, non si saprà fare in maniera adeguata neanche la prima. Non a caso la forza dell’autoritarismo stalinista, responsabile di inumane purghe politiche, svanì improvvisamente come neve al sole nei primi mesi dell’attacco proditorio dei nazisti.

Anzi, col pretesto di dover garantire ordine e sicurezza, si finirà col negare qualunque valore alla democrazia. Questa la tristissima lezione dello stalinismo, che, a tale proposito, arrivò ad affermare che quanto più si sviluppa il socialismo, tanto più si rafforza la volontà di chi vuole distruggerlo. In tal modo Stalin (e la sua cricca) manteneva forte la necessità di una direzione centralizzata del socialismo, il quale, inevitabilmente, veniva a configurarsi come una forma di “socialismo di stato”.

Gli effetti negativi di questo tipo di socialismo sono stati infinitamente superiori a quelli, positivi, che si potevano mettere in rapporto alle contraddizioni antagonistiche del capitalismo. La Russia non vinse la guerra contro i nazisti grazie allo stalinismo ma nonostante questa aberrazione storica, che, ben prima del 1941, aveva già fatto sparire dalla circolazione tutta quella generazione di comunisti che aveva partecipato attivamente alla rivoluzione bolscevica. Era lo stalinismo stesso che si creava continuamente i propri nemici interni, che poi sfruttava per dimostrare, in uno dei circoli più viziosi della storia, che la dittatura era necessaria.

Oggi per fortuna è diventato sufficientemente chiaro che non ha alcun senso sostenere il socialismo nel momento stesso in cui si nega la democrazia, anche se nella Russia di Eltsin e di Putin, col pretesto di voler affermare la democrazia, s’è finito col negare qualunque valore al socialismo.

* * *

E’ questo il motivo per cui oggi bisogna pensare a un altro modo di difendere le conquiste rivoluzionarie. L’accentuazione eccessiva dell’importanza dello Stato pare essere il riflesso di una sfiducia nelle capacità auto-organizzative delle masse. Gli uomini devono liberarsi da soli delle loro contraddizioni antagonistiche, non possono aspettare che qualcuno lo faccia per loro. Qualunque accentuazione del ruolo dello Stato finirà col deresponsabilizzare le masse. La gestione della democrazia non può essere delegata al centralismo.

Questo non vuol dire essere contrari al “centralismo democratico”, ma semplicemente che nella gestione quotidiana del bene pubblico è più importante la democrazia che il centralismo. Quest’ultimo trova la sua ragion d’essere quando è necessario coordinare gli sforzi delle varie realtà democratiche per un obiettivo specifico, quando queste realtà devono affrontare problemi comuni. Ma la regola, nelle decisioni da prendere, non può certo essere quella che va dall’alto al basso.

Il processo di smantellamento delle istituzioni statali va avviato subito dopo la rivoluzione, o comunque progressivamente, in modo che i cittadini possano sensibilmente accorgersene. Occorre realizzare quanto prima l’autonomia produttiva delle singole realtà locali, conservando istanze o livelli superiori soltanto per integrare i bisogni trasversali a queste stesse realtà.

I rapporti tra comunità locali indipendenti, federate tra loro, vanno fortificati attraverso scambi commerciali e culturali, patti d’amicizia, trattati di difesa bilaterali, convenzioni su progetti di comune interesse o di reciproco vantaggio.

Al momento dell’ingresso nazista in Russia, centinaia di villaggi vennero completamente distrutti non tanto perché erano dei “villaggi”, quanto perché la dirigenza stalinista, che si riteneva invulnerabile, non li mise in stato d’allerta, non li attrezzò alla difesa, non volendo dar retta agli avvisi di un attacco imminente.

Al tempo della guerra in Vietnam, gli americani erano infinitamente superiori in mezzi offensivi, eppure furono sconfitti da una rete di comunità di villaggio organizzate militarmente. La dottrina militare sa perfettamente che è più facile difendersi che attaccare, e la riuscita dell’attacco diventa tanto più difficile quanto più si prolunga nel tempo.

Nell’America del Nord, fino a quando le tribù indiane rimasero divise tra loro, non ebbero scampo nella guerra contro gli statunitensi, ma quando arrivarono a unirsi (Lakota Sioux, Cheyenne e Arapaho), sotto il comando unificato di Toro Seduto e di Cavallo Pazzo, conseguirono una splendida vittoria a Little Bighorn.

Questo a testimonianza che una difesa armata può esser bene organizzata anche senza Stato, semplicemente attraverso un patto d’alleanza tra realtà locali autonome. L’unica condizione perché ciò riesca è quella d’incrementare, in tempo di pace, i rapporti tra queste realtà: un patto di autodifesa non può improvvisarsi sul nulla. Quanto più queste realtà restano isolate, tanto più difficile sarà trovare un’intesa contro un nemico comune. E, in ogni caso, se il nemico risulta apparentemente più forte, ciò non può essere considerato un motivo sufficiente per rinunciare all’indipendenza delle realtà locali.

E’ meglio essere distrutti per aver difeso la democrazia, che distruggerla dall’interno dopo aver vinto un nemico esterno. Questo infatti è ciò che accadde al socialismo autoritario russo, che dopo aver vinto la guerra contro i nazisti, continuò a perdere la pace nei confronti della democrazia.

Il futuro nelle nostre mani

La sinistra radicale non ha dubbi nel sostenere che sul piano economico la crisi endemica del capitalismo dura da almeno 30 anni. Ci si accorge poco di questa situazione soltanto perché, dopo il decennio che va dal 1968 al 1978 la capacità di resistenza delle masse popolari è andata progressivamente diminuendo. Tuttavia altri fattori ne denunciano la presenza, vissuti in maniera individuale: l’aumento del grado di sfruttamento del lavoro e la diminuzione del potere d’acquisto di stipendi e salari.

Alla progressiva caduta tendenziale del saggio di profitto (una delle leggi bronzee del capitale) s’è cercato di far fronte non solo coi due classici rimedi anzidetti, ma anche puntando sul potenziamento del commercio estero e sulla finanziarizzazione dell’economia, che hanno fatto nascere quello che con una parola sintetica viene detto il “globalismo”, cioè il dominio incontrastato del capitale su scala mondiale, che storicamente è iniziato con la nascita della deregulation reaganiana.

Il commercio estero ha avuto un’impennata enorme col crollo del cosiddetto “socialismo reale”, comportando però anche l’affacciarsi sui mercati mondiali di nuovi paesi capitalistici, molto agguerriti, le cui merci hanno prezzi davvero competitivi, potendo essi sfruttare un costo molto basso della loro manodopera, non abituata alle leggi del mercato.

L’enorme espansione del credito, ovvero la gestione dell’economia produttiva da parte di quella finanziaria ha generato incredibili bolle speculative, rese ancor più gigantesche dalla facilità degli scambi telematici. Queste bolle (si pensi solo a quella degli alti tassi di rendimenti assicurati dagli Usa negli anni Ottanta per rastrellare capitali da tutto il mondo, rivelatasi poi un buco nell’acqua), che sembravano garantire enormi rendite con rischi molto bassi, sono improvvisamente scoppiate, a causa dei periodici e drammatici crolli borsistici, mandando in fallimento banche e imprese, e soprattutto mandando in rovina i piccoli risparmiatori, che ormai hanno rinunciato a risparmiare e investire, pensando solo a sopravvivere.

Gli Stati anzi, pur di contenere al massimo gli effetti devastanti dei crac di borsa, dei fallimenti aziendali e delle crisi bancarie, hanno attinto agli ultimi risparmi dei lavoratori, hanno usato il gettito fiscale non per rilanciare la produttività, ma per sanare situazioni finanziarie disperate, provocate da abusi e speculazioni d’ogni genere. Oggi non solo una gran parte dei cittadini, ma anche e soprattutto le istituzioni pubbliche dello Stato e degli Enti locali vivono sopra una montagna di debiti.

In Italia i debiti sono più sul versante istituzionale che privato, ma la situazione resta ugualmente preoccupante, proprio perché, essendo molto forte da noi l’evasione fiscale, il debito pubblico viene praticamente sostenuto con la pesante tassazione dei già magri stipendi e salari dei lavoratori, e naturalmente facendo incetta dei risparmi sempre più esigui, attraverso l’immissione continua di titoli, i cui interessi vengono pagati dallo Stato solo dopo aver emesso nuovi titoli, in una spirale senza fine.

Non essendoci da noi il senso del bene pubblico, collettivo, a causa di pregresse ragioni storiche e culturali, manca un controllo dell’equità fiscale, una lotta tenace contro il lavoro nero e precario e soprattutto contro la criminalità organizzata, che fattura capitali enormi (al momento non meno del 6% del pil nazionale). L’intero paese è dominato da un gigantesco debito statale, che viene parzialmente compensato da un pil molto elevato, che ci pone tra i primi dieci paesi al mondo. Si calcola tuttavia che entro il 2025 il nostro paese verrà superato dalla Spagna (oggi nona) e dal Brasile (oggi decimo) e, a questi ritmi, anche da Corea del Sud, India, Indonesia e Russia.

Da noi l’individualismo è caratterizzato da un proliferare abnorme di imprese piccole e piccolissime, spesso coincidenti con lo stesso titolare della partita iva; imprese la cui gestione è di tipo familiare e dove l’innovazione è molto scarsa, ivi inclusa, ovviamente, la formazione richiesta. Imprese di questo genere, unitamente al valore considerevole che ancora oggi si attribuisce alla struttura familiare, rendono il nostro paese relativamente debole in un mercato globale del capitalismo avanzato. Esse sono in grado di reggere la concorrenza soltanto quando possono fruire di un certo protezionismo statale o quando lo smercio dei prodotti può muoversi dentro confini nazionali, senza dover fronteggiare una forte concorrenza straniera (cosa che già con la nascita dell’U.E. non è più possibile).

Le imprese che possono competere all’estero o che possono reggere i colpi della concorrenza straniera devono essere di dimensioni medio-grandi o comunque devono smerciare prodotti dai prezzi contenuti oppure aventi un buon valore aggiunto, perché frutto di studi e ricerche.

Il crollo del “socialismo reale” non ha certo favorito le imprese piccole non facenti parte di un indotto significativo, ma solo quelle medie e grandi, che avevano capitali sufficienti per investire in quei territori. Anzi, con la trasformazione capitalistica delle economie di quei paesi, tutte le nostre aziende, non solo quelle piccole, hanno dovuto fronteggiare una concorrenza inaspettata, spesso brutale (in quanto non sempre vengono rispettate le regole del mercato o gli standard previsti per le nostre aziende), una concorrenza che non si pensava così immediata, in quanto si era convinti, in virtù della propaganda occidentale, che quei paesi fossero molto arretrati sul piano tecno-scientifico, anche se si poteva facilmente immaginare un costo del lavoro molto basso.

Il globalismo si sta rivelando un grosso affare solo per chi è davvero in grado di muoversi a livello internazionale. Dovremo pertanto aspettarci, nei prossimi decenni, una fortissima concentrazione di capitali e di imprese nelle mani di pochi monopoli che sapranno agire con molta disinvoltura su scala planetaria. Qualunque crisi sistemica, fatale per le sorti dei piccoli produttori, non farà che ingigantire il potere di questi colossi.

Un enorme potere concentrato nelle mani di poche strutture produttive, avente una fisionomia fortemente internazionale, in grado di condizionare pesantemente anche le istituzioni politiche, trasformerà le società civili in un serbatoio di manodopera a costi talmente bassi da sfiorare lo schiavismo di epoca romana.

Una situazione del genere può trascinarsi all’infinito, se le forze soggette a sfruttamento non spezzeranno le catene che le legano. Non è affatto vero che questo processo di concentrazione del potere economico e politico sarà tanto più lento o tanto meno violento quanto meno si cercherà di contrastarlo. Non è neppure vero che l’assenza di un’alternativa al sistema capitalistico renderà meno forte la competizione tra i monopoli all’interno di questo sistema.

Il capitale divora non solo i lavoratori ma anche gli imprenditori più deboli, e quando arriva a un punto che per continuare a divorare occorre scatenare guerre e conflitti d’ogni tipo, non ha scrupoli nel farlo. Attualmente vi sono oltre 30 guerre sull’intero pianeta, i cui conflitti tra gli Stati coinvolti non sono stati risolti per via diplomatica.

Ecco perché bisogna che i lavoratori si attrezzino, sin da adesso, ad affrontare il peggio.

  1. Anzitutto essi devono rendersi conto che se il capitale riesce a muoversi a livello internazionale, anche loro, per potersi difendere dallo sfruttamento, devono muoversi nella stessa maniera. Una collaborazione di classe a livello solo nazionale non ha più senso. Occorre costituire una struttura internazionale a difesa dei lavoratori di tutto il mondo: una struttura che affianchi quelle nazionali già esistenti e che abbia potere contrattuale nei confronti delle multinazionali, le cui sedi produttive sono sparse sul pianeta;
  2. in secondo luogo occorre capire che un’alternativa al capitalismo deve essere un’alternativa ai fondamenti di questo sistema, cioè l’industria, il mercato, gli scambi monetari… Non si tratta soltanto di superare il momento dello sfruttamento dei lavoratori (plusvalore), ma anche il primato del valore di scambio su quello d’uso, il primato del mercato sull’autoconsumo, il primato dell’industria sull’agricoltura ecc.;
  3. in terzo luogo occorre assolutamente convincersi che non può esistere alcuna alternativa reale al capitalismo, cioè alcuna forma di socialismo umano e democratico, senza rispettare i processi riproduttivi della natura: questa è la base da cui partire per realizzare una transizione eco-compatibile;
  4. in quarto luogo bisogna affermare il principio della ineguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, nel senso che chi ha più bisogno ha più diritti. Va abolito il principio borghese secondo cui di fronte alla legge si è tutti uguali: affermare un principio del genere quando poi nelle società civili si permettono, in nome della proprietà privata, le differenze più abissali, è un controsenso;
  5. in quinto luogo bisogna sostenere, a livello mondiale, tutte le forme in cui si esprimono i valori umani, dei quali il principale è quello della libertà di coscienza. Nessuno può essere costretto a fare ciò che non vuole. Chiunque sia in grado d’intendere e di volere deve essere lasciato libero di assumersi le responsabilità delle proprie azioni.

Contestualizzare sempre

E’ impossibile capire la teoria di un qualunque pensatore se prima non si stabiliscono le coordinate di spazio e tempo che lo caratterizzano. Questa è anche una forma di rispetto, non solo di oggettività interpretativa.

Le coordinate non si riferiscono solo alle vicende storico-politiche (e quindi ai mutamenti socioeconomici), ma anche all’evoluzione della cultura (che può essere favorevole al laicismo o alla religione). A livello culturale, se si esclude la parentesi feudale, tende a prevalere, in occidente, il tentativo di liberarsi della religione usando gli strumenti della filosofia, prima, e della scienza, dopo.

La religione nasce col sorgere degli imperi schiavistici, come strumento per giustificare l’oppressione. La filosofia (non solo quella greca ma anche quella borghese) tende indubbiamente a emanciparsi dalla religione sul piano gnoseologico, ma assai raramente arriva a metterla in discussione su quello politico (forse il primo vero tentativo è stato quello della rivoluzione francese).

Nelle civiltà antagonistiche la religione costituisce una forma di potere politico, di cui le istituzioni si servono per dominare le masse, le quali, nell’ignoranza e superstizione in cui vengono tenute, raramente mettono in discussione il fatto che la religione debba avere una valenza politica. Le masse si difendono dall’oscurantismo e dal clericalismo con l’indifferenza o con l’opportunismo di un’adesione meramente formale; nel migliore dei casi sostituendo delle convinzioni religione con altre, com’è avvenuto, p.es., con la riforma protestante.

Per capire ciò che un pensatore ha voluto dire, bisogna chiarire il contesto in cui egli è vissuto e il tipo di esperienza che ha vissuto. In tal senso anche la sua biografia acquista una certa importanza.

In ogni società esistono contraddizioni che attendono d’essere risolte. Nei confronti di tali contraddizioni si possono formulare delle ipotesi risolutive sulla base di proprie istanze emancipative o di liberazione. I soggetti possono avere desideri o interessi a che le cose mutino nella sostanza e non solo nella forma.

Sotto questo aspetto è molto importante non soffermarsi sulle opere principali di un teorico, ma, se lo si vuole veramente capire, è necessario analizzare tutto quello che ha prodotto. Infatti, non è raro il caso che istanze nutrite nel periodo giovanile, siano poi state abbandonate nel periodo della maturità, a causa delle difficoltà insorte nel tentativo di trovare delle soluzioni. Alle sconfitte ci si adatta, trovando dei compromessi che permettono di continuare a vivere. Basta leggersi la vita di Kant o di Hegel.

Bisogna quindi verificare se nei confronti di quelle istanze originarie esiste un tradimento vero e proprio, un’involuzione nel pensiero, o semplicemente un provvisorio ridimensionamento, in attesa di tempi migliori. I soggetti si confrontano sempre con una realtà che li precede, indipendente dalla loro volontà, e ad un certo punto si pongono il problema se hanno forze sufficienti per modificare in toto o in parte quella realtà. Di qui la trasformazione, p.es., di una concezione religiosa o filosofica in concezione “politica”, rivolta concretamente all’organizzazione delle masse.

Chi esamina questi soggetti non può essere così schematico da focalizzare la sua attenzione solo sui tradimenti delle istanze originarie. Un intellettuale può porsi dieci come obiettivo finale e poi ottenere solo tre: ebbene, per il critico che ne esamina le opere, questo tre deve diventare più importante del fallimento del restante sette. Un intellettuale cioè può aver fallito sul piano politico, ma può aver dato un contributo molto importante in altri settori della conoscenza: filosofia, economia politica ecc., come p.es. nel caso di Marx.

Generalmente sono due i processi che un critico deve esaminare: l’emancipazione della filosofia dalla religione, ovvero i progressi dell’umanesimo laico, e la trasformazione della filosofia in politica rivoluzionaria, cioè tutti quei tentativi pratici di liberarsi degli antagonismi sociali, per riportare l’umanità a quel periodo storico in cui non esistevano conflitti di classe o appropriazioni private di mezzi produttivi e che storicamente è durato un tempo infinitamente più lungo di quello che fino ad oggi ha caratterizzato le cosiddette “civiltà”.

I due processi non marciano in parallelo, essendo relativamente autonomi, anche se quello pratico-politico, volto a realizzare il socialismo, si avvale delle conquiste culturali del laicismo. Semmai non è vero il contrario, nel senso che queste conquiste culturali non necessariamente sono finalizzate ad affermare il socialismo democratico.

La ragione di ciò è molto semplice: i poteri dominanti sono più disposti a tollerare degli sviluppi culturali contrari alle loro tradizioni ideali che non dei rivolgimenti politici, che rischierebbero di far perdere loro i poteri acquisiti. Da tempo l’ateismo è diventato culpa levis, diceva Marx. Ecco perché la lotta contro le istituzioni oppressive può essere condotta su due binari paralleli, non necessariamente destinati a incrociarsi: quello della cultura e quello della politica.

Se si compie una rivoluzione politica prima di quella culturale, come p.es. nella rivoluzione russa, poi bisogna avere grandi accortezze a non imporre alle masse l’ideologia che ha trionfato. Se invece si preferisce la soluzione gramsciana dell’egemonia culturale, non ci si può poi illudere che questo sia sufficiente per realizzare una transizione a favore del socialismo.

Per operare un cambiamento effettivo della realtà, bisogna saper trasformare le contraddizioni del sistema e i bisogni delle masse in armi rivoluzionarie. E questo non è mai un processo facile né indolore.

O capitalismo o barbarie

Una civiltà non si regge in piedi se non riesce a convincere i propri cittadini che i suoi valori, i suoi modelli di vita sono assolutamente superiori a quelli di ogni altra civiltà, passata, presente e futura. La maggioranza dei cittadini deve avere la convinzione che alla propria civiltà non vi siano alternative praticabili: al massimo sono possibili sono aggiustamenti, riforme, ma non rivolgimenti rivoluzionari.

In quella romana, p.es., nonostante la presenza dello schiavismo, della povertà, dell’indebitamento progressivo dei cittadini liberi meno abbienti, nonostante il crescente latifondismo, il rapace fiscalismo dello Stato, la durissima leva militare e quant’altro, la gran parte dei cittadini era convinta che Roma fosse superiore a ogni altra civiltà in virtù della propria ingegneria e architettura, in virtù della proprie arte bellica, in virtù del proprio diritto… Solo quando la disperazione raggiunse livelli inusitati, i cittadini (specie quelli della periferia dell’impero) cominciarono a pensare che sotto i barbari sarebbero stati meglio.

Lo stesso avviene con la civiltà borghese, dove in nome della scienza e della tecnica, della capacità commerciale e finanziaria, della potenza bellica, della grande elaborazione di leggi, di filosofie, di ideologie di ogni tipo, su qualunque argomento dello scibile umano, si è convinti d’essere i migliori della terra.

I cittadini hanno la convinzione che, nonostante le crisi cicliche di sovrapproduzione, i fallimenti bancari e aziendali, i dissesti finanziari delle borse mondiali, le relazioni illegali tra economia e politica, la cronica disoccupazione e la crescente inflazione, il nostro sistema di vita non abbia alternative, ovvero costituisca in ogni caso, in via di principio, quanto di meglio si possa desiderare.

Sin dalle sue origini la borghesia ha generato l’attività commerciale più immorale e, nel contempo, ha predicato a tutta la società, ereditandola da una chiesa non meno corrotta, la morale più umana e più cristiana mai apparsa sulla terra. Dietro la copertura di elevati principi etici si sono tollerate, nella pratica quotidiana, le peggiori bassezze.

Ci si può chiedere, in tal senso, quali caratteristiche potrà e dovrà avere la prossima civiltà, quella che sostituirà la nostra. Dovrà per forza avere un aspetto più elevato della sordida economia borghese. Dovrà per forza mostrare maggiore coerenza tra valori umani e prassi sociale, almeno nella fase iniziale, quella in cui lotterà per imporsi sulla nostra. La politica, l’ideologia, l’etica, la coscienza dovranno necessariamente avere più importanza del profitto, della rendita, del denaro, del capitale, dell’oro e delle pietre preziose. Dovranno avere più importanza anche della scienza, della tecnica che devastano la natura, del militarismo aggressivo e colonialista con cui ancora oggi si vuol dominare il mondo intero.

In occidente, nei paesi capitalisti ci si appella all’etica, ai suoi principi assoluti, universali, quando fallisce l’economia, quando i gestori della produzione, del business, della finanza rivelano il loro vero volto di truffatori, di usurai legalizzati, di corrotti e corruttori. Si parla di etica nella speranza che i cittadini, cui sono stati abusivamente tolti moltissimi risparmi per rimediare i guasti dei manager furbi o incapaci, degli imprenditori senza scrupoli, dei bancari cinici ed egoisti e degli speculatori finanziari, abbiano pazienza, usino misericordia, tolleranza, sappiano perdonare gli iniqui, la cui iniquità – ci viene detto, con facce che a dir di bronzo è poco – resta puramente soggettiva, incapace di mettere in forse l’oggettività metafisica del sistema.

Ieri venivamo spaventati col pericolo del comunismo, oggi veniamo rassicurati che non ci succederà nulla, che possiamo continuare tranquillamente a consumare, a ballare sul Titanic, ché tanto la situazione, in un modo o nell’altro, si sistemerà. Proprio perché non c’è alternativa. Se affondano le imprese, le banche, le società finanziarie, affonda la civiltà. E questo oggi è inconcepibile, visto che l’unica alternativa possibile, il cosiddetto “socialismo reale”, è miseramente fallito.

Oggi gli statisti, gli economisti borghesi continuamente e cordialmente ci dicono: O capitalismo o barbarie. Come se le due cose fossero davvero in alternativa.

Il socialismo alla Berlinguer

Spesso, quando a sinistra si parla delle capacità profetiche che ha avuto Berlinguer in merito all’esaurimento della “spinta propulsiva” dei paesi est-europei, si dimentica di sottolineare che quando Berlinguer diceva quelle cose non aveva tanto di mira la democratizzazione del socialismo (come poi in effetti avverrà con la perestrojka di Gorbaciov), quanto piuttosto il superamento in sé del socialismo, sia “reale” che “ideale”, in nome di un’accettazione integrale, definitiva, della democrazia “occidentale”.

Con Berlinguer, infatti, è nata l’illusione di credere possibile una vera democrazia sociale senza socialismo, cioè senza rivoluzione politica e senza una gestione collettiva dei fondamentali mezzi produttivi.

La parola “riformismo” è subentrata a “rivoluzione” e la cosiddetta “democrazia progressiva” ha sostituito la necessità di un rovesciamento radicale del sistema, che tale si presenta quando, di fronte all’evidenza di contrasti insanabili, di contraddizioni insostenibili, gli elementi più retrivi della società (che gestiscono ancora il potere) non si rassegnano a farsi da parte, ma anzi minacciano di far piombare la nazione nel caos, nel terrorismo e nella guerra civile.

Berlinguer si è illuso di poter far accettare al capitale la sua idea di socialismo riformista, senza rendersi conto che, così facendo, veniva a perdere il consenso di quelle forze popolari veramente interessate all’idea di socialismo, cioè senza rendersi conto che in questa maniera sarebbero emersi quei ceti medi che piuttosto che sostenere una posizione ambigua come la sua avrebbero preferito votare, negli anni Ottanta, un socialismo chiaramente conservatore come quello craxiano, che pur sul piano laico riuscì parzialmente a ridimensionare le pretese della chiesa con la revisione del Concordato.

Berlinguer impose al partito comunista una battaglia esclusivamente parlamentare, venendo a perdere il rapporto con le masse. Non a caso il Pc non seppe mai cavalcare efficacemente la protesta generale che la società civile espresse negli anni dal 1968 al 1976.

La democrazia sociale da lui teorizzata altro non era che una democrazia politica borghese sostenuta dalla giustizia sociale promossa dallo Stato, il quale si doveva porre come correttivo super partes tra capitale e lavoro, quale fattore di riequilibrio delle leggi tendenzialmente anarchiche del mercato. La sua idea di socialismo altro non era che una forma di razionalizzazione del capitalismo, e tale è rimasta ancora oggi nelle file dei democratici di sinistra.

Con Berlinguer il socialismo italiano non mette più in discussione la sostanza del capitalismo, quella analizzata dai classici del marxismo, ma si limita semplicemente a contestarne gli effetti sociali più deleteri, quelli che potrebbero incrinare la fiducia delle masse nelle istituzioni: di qui la sua critica all’invadenza dei partiti negli organi dello Stato, che sinteticamente veniva definita col termine di “questione morale”.

In questo senso si è voluto vedere il crollo del “socialismo reale” come una conferma delle idee di Berlinguer (e di altri dirigenti del suo partito). Il comunismo italiano non ha saputo vedere nella perestrojka l’esigenza di democratizzare il socialismo, trasformandolo da statale a popolare, da burocratico ad autogestito, ma ha visto soltanto l’esigenza di abbracciare la democrazia politica occidentale (considerata insuperabile) e, con essa, le leggi del mercato (seppur tenute sotto controllo dallo Stato sociale), nella convinzione che questo sistema sociale funzioni meglio di qualunque socialismo. E il fatto che poi la perestrojka si sia trasformata nelle mani di Eltsin e Putin in un qualcosa che col socialismo non aveva più niente a che fare, ha ulteriormente dato conferma ai comunisti italiani che la strada indicata da Berlinguer era stata giusta, per cui si poteva anche smettere di considerarsi comunisti.

Certamente la perestrojka di Gorbaciov è fallita perché senza una partecipazione popolare delle masse, che si assumono il compito di gestire autonomamente la società, essa non poteva che fallire: nessuna vera riforma può essere imposta dall’alto. Ma altrettanto certamente fallirà l’idea di socialismo esistente oggi in Europa occidentale: un’idea che, non tenendo conto della democrazia popolare, se non in maniera demagogica e strumentale, dovrà per forza far leva sui poteri dello Stato, ancor più di quanto non sia stato fatto nei paesi est-europei. Già il socialismo craxiano s’è rivelato profondamente corrotto e ci vorranno delle generazioni prima che si torni di nuovo a parlare di idee socialiste.

Il fatto è che le contraddizioni del capitale col tempo non diminuiscono ma aumentano: basta vedere la recente crisi finanziaria mondiale, cui i governi hanno cercato di porre rimedio usando le leve dello Stato sociale, che di quella crisi non è stato responsabile. In occidente si usa il “socialismo” solo per rimediare ai guasti catastrofici degli speculatori, dei bancarottieri, degli imprenditori falliti, dei manager truffatori.

Andando avanti di questo passo sicuramente aumenterà l’esigenza di “vero socialismo” da parte delle masse popolari, ma chi saprà a quel punto indirizzarla verso una vera transizione? Anche prima che il fascismo e il nazismo andassero al governo esisteva un forte malcontento sociale: si pretendeva un maggior interventismo statale contro gli abusi delle classi sfruttatrici. Ma come andò a finire lo sappiamo. Queste classi si servirono delle proteste popolari indirizzandole verso una soluzione autoritaria, mascherata da slogan di tipo socialista. Il fascismo proveniva dal socialismo massimalista ed estremista, il nazismo si chiamava esplicitamente nazional-socialismo.

Queste forme di dittatura, in occidente, incontrano scarsa resistenza da parte delle masse, poiché queste s’illudono di poter risolvere velocemente, con mezzi autoritari, situazioni conflittuali divenute troppo complicate per poter essere affrontate coi mezzi consueti della democrazia. Il fascismo è il modo che il capitale ha d’imporsi con la forza dello Stato, dopo che la protesta delle masse popolari è divenuta insostenibile, e la capacità mistificatoria che ha è proprio quella di dimostrare che in virtù di tale protesta si possono effettivamente mutare le cose in meglio.

In questo senso il peggior servizio che il socialismo potrebbe fare alla democrazia, nella lotta contro le tendenze verso la dittatura, è quello di concedere troppo allo statalismo. Lo Stato non può mai essere visto come uno strumento neutrale nelle mani dei governi in carica, meno che mai nei momenti di crisi. O si usano le leve dello Stato per abbattere la resistenza di chi vuol vivere di rendita o sfruttando il lavoro altrui, oppure si fa di tutto per creare una società civile che non abbia bisogno di alcuno Stato.

Quello che si deve assolutamente evitare, anche per non ripetere errori già compiuti, è di statalizzare l’economia: fascismo e socialismo di stato non sono uno il rovescio dell’altro ma due facce della stessa medaglia. Lo stalinismo è stato enormemente responsabile del fraintendimento della parola “collettivismo”, eppure ciò che bisogna realizzare è proprio la collettivizzazione sociale dell’economia, la democrazia sociale delle masse, che è l’unico modo per superare efficacemente l’individualismo del produttore borghese e lo statalismo di cui si serve nei momenti di difficoltà e di controllo dell’opinione pubblica.

12 principi costituzionali da rivedere (II)

Art. 7. Questo articolo è la dimostrazione più evidente della debolezza del nostro Stato, costretto a riconoscere, da un lato, la propria limitatezza istituzionale, in quanto il Vaticano agisce in piena autonomia politica ed economica in una determinata porzione di territorio, rivendicando una gestione temporale dei propri beni che lo qualifica come uno Stato a pieno titolo (in grado addirittura di agire indisturbato a livello internazionale); e, dall’altro, il nostro Stato dimostra la propria insufficienza normativa, in quanto il Vaticano gli impedisce di affermare con coerenza i principi della laicità in materia di libertà di coscienza.

Questo articolo andrebbe completamente abolito o riscritto, evidenziando la piena sovranità e laicità dello Stato.

Art. 8. Questo articolo non prevede la libertà di non credere in alcuna religione. La libertà di coscienza viene qui equiparata alla libertà di religione, nel senso che ogni cittadino è libero di credere nella confessione che vuole.

In realtà la libertà di religione è solo un aspetto della libertà di coscienza, la quale appunto prevede anche la libertà di non credere in alcuna confessione.

Art. 9. Questo articolo è troppo generico per essere importante. Per renderlo più significativo si potrebbe aggiungere che la Repubblica tutela solo lo sviluppo di quella cultura orientata a promuovere l’umanizzazione dei rapporti sociali, e solo lo sviluppo di quella ricerca tecnico-scientifica favorevole alle esigenze riproduttive della natura.

Bisogna dettagliare questo per impedire che la prima parte dell’articolo finisca col trovarsi in contrasto con la seconda. Non tutta la cultura, non ogni tipo di ricerca merita d’essere tutelata.

Art. 10. Questo articolo dovrebbe avere un valore sia in tempo di pace che in tempo di guerra, e quindi a prescindere da qualunque contenzioso la nostra Repubblica possa avere con chicchessia.

Inoltre bisognerebbe precisare che la nostra Repubblica si attiene alle norme del diritto internazionale solo quando queste sono conformi ai valori umani universali e alle esigenza di tutela ambientale.

Infine bisognerebbe aggiungere che nelle controversie internazionali o anche solo bilaterali (tra Stato e Stato), la nostra Repubblica si appellerà, se lo riterrà opportuno per risolverle, a organi di carattere internazionale, riconoscendo a questi organi un potere vincolante per le decisioni che prenderanno.

Art. 11. Questo articolo viene costantemente smentito dalle cosiddette “missioni di pace”, che vengono compiute da un personale militarizzato. Bisogna quindi precisare che qualunque intervento armato, non avente scopo meramente difensivo dei nostri confini territoriali, cioè dell’integrità della nostra nazione, va considerato illegale. Dal nostro territorio non dovrebbero uscire forze armate di alcun genere, neppure per fare delle esercitazioni.

Anzi, il nostro Stato dovrebbe operare affinché si riconosca a livello internazionale il divieto, da parte di forze militari nazionali, di occupare spazi di cielo, di terra e di mare che risultano comuni a più nazioni o anche a tutte le nazioni del mondo. Gli spazi internazionali devono essere lasciati liberi da qualunque tipo di arma.

Dovrebbe essere tassativamente vietato che uno Stato possa disporre di proprie basi militari al di fuori dei propri confini.

Sarebbe bene che il nostro Stato s’impegnasse per primo in questa direzione, mostrando agli altri Stati che la sicurezza è maggiormente garantita non in presenza ma in assenza delle armi.

Inoltre nella Costituzione dovrebbe esserci un articolo che prevede la rinuncia definitiva alla produzione, alla vendita, all’uso di qualunque arma di sterminio di massa. Dovrebbe essere proibita in maniera tassativa anche la vendita di qualsivoglia arma all’estero.

Art. 12. Questo articolo è frutto dello Stato centralista. Si può riconoscere allo Stato una determinata bandiera, ma permettendo anche alle Regioni e persino ai Comuni di aggiungere sullo sfondo tricolore gli elementi simbolici che li caratterizzano da secoli.

12 principi costituzionali da rivedere (I)

E’ stato detto che i principi fondamentali della nostra Costituzione sono intangibili e che, in 60 anni di vita, nessun governo ha mai pensato di modificarli. Sembrano una sorta di decalogo veterotestamentario, una serie di enunciati assolutamente dogmatici. Vediamo se davvero dobbiamo considerarli così.

Art. 1. La Repubblica è democratica in quanto fondata sul lavoro e non sulla rendita o sullo sfruttamento del lavoro altrui. Questo è vero, ma bisognerebbe specificarlo espressamente, perché il concetto di “lavoro”, in sé, non indica affatto il carattere “democratico” di una repubblica. Nel sistema capitalistico il lavoro è soltanto una merce, al pari di altre, che si acquista sul mercato, tant’è che si parla di “mercato del lavoro”.

Più che essere “fondata” sul lavoro, la Repubblica italiana dovrebbe essere fondata sulla “proprietà collettiva dei mezzi di lavoro”, quella che permette a tutti di non dover essere sfruttati per poter vivere. Il lavoro può non essere una “merce” soltanto se la proprietà dei fondamentali mezzi produttivi non è privata.

Il lavoro è un diritto-dovere, ma dove esiste proprietà privata dei mezzi produttivi, spesso diventa soltanto una casualità, una fortuna o un ripiego. Se davvero la Repubblica fosse fondata sul lavoro, noi non dovremmo avere disoccupati o inoccupati o sottoccupati o cassintegrati, né lavoratori in nero o clandestini, né quelli che svolgono mansioni che non c’entrano nulla con gli studi fatti, né quelli che, non rassegnandosi a questo trend di sprechi e inefficienze, emigrano dal nostro paese per cercare un’occupazione inerente ai propri studi o comunque un’occupazione che permetta di vivere dignitosamente. Né dovremmo avere quelli che approfittano del bisogno o delle debolezze o della precarietà altrui per estorcere favori di ogni genere, per obbligare a servizi umilianti, per ridurre in stato di schiavitù. Non dovremmo neppure avere tutti quei giochi, sommamente diseducativi, che promettono premi favolosi col miraggio di non lavorare o di lavorare molto meno.

Solo se la Repubblica è fondata sulla proprietà collettiva dei fondamentali mezzi produttivi, si può davvero dire che la “sovranità appartiene al popolo”, come recita la seconda parte di questo articolo. In caso contrario la definizione resta puramente formale. Non è sufficiente essere lavoratori o cittadini per esercitare un’effettiva “sovranità”. La sovranità politica è una diretta conseguenza di quella economica e sociale. Là dove manca la proprietà comune dei mezzi produttivi, la sovranità politica si esercita unicamente nel momento della scadenza periodica del voto. In tal modo la vera sovranità politica non viene esercitata dal popolo ma dai suoi delegati parlamentari, i quali tendono a fare gli interessi solo di quella parte di popolazione che dispone di proprietà privata.

Art. 2. Poiché non si è specificato nell’art. 1 che la Repubblica deve essere fondata sulla proprietà comune dei principali mezzi produttivi, accade inevitabilmente, quando si afferma ch’essa “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”, che all’interno di questi diritti debba essere inteso anche quello alla proprietà privata, come è naturale che sia in tutte le Costituzioni borghesi, dove appunto tra i diritti fondamentali si prevedono sempre quelli alla libertà e alla proprietà, concepiti quasi in maniera interscambiabile.

In realtà il diritto alla proprietà privata può essere tollerato solo quando questa proprietà non è relativa ai mezzi fondamentali di produzione, che sono poi quelli che garantiscono la sopravvivenza di un’intera collettività, ovvero quelli che le permettono di esercitare i diritti irrinunciabili che la caratterizzano o la identificano come tale.

Tutti gli articoli relativi al titolo III della Costituzione: “Rapporti economici” non rendono affatto più chiara l’esigenza di precisare il primato della proprietà comune dei mezzi produttivi rispetto al lavoro.

Art. 3. E’ inutile affermare l’uguaglianza giuridica di tutti i cittadini di fronte alla legge, quando non si precisa a chiare lettere la necessità della loro uguaglianza sociale ed economica di fronte al bisogno. La seconda parte dell’art. 3, in assenza della suddetta precisazione, rischia di restare, sul piano pratico, una pia intenzione, ovvero di tradursi in uno sforzo moralistico o paternalistico di dubbia efficacia.

Infatti, se si fosse puntato più sul bisogno che sulla legge, più sulla concreta proprietà pubblica che non sull’astratta tutela del lavoro, non si sarebbe detto, in questo articolo, che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, ma, al contrario, che i cittadini con più bisogni hanno più diritti davanti alla legge. Hanno più diritti di precedenza e di preferenza, proprio al fine di colmare il loro gap dovuto a motivi fisici, psichici, esistenziali, sociali, geografici, linguistici ecc., rispetto agli altri concittadini.

L’uguaglianza assoluta davanti alla legge può andar bene quando tra cittadini non esistono differenze rilevanti. Tuttavia, se consideriamo che persino la natura pone una certa differenza di genere tra i sessi e pone altre differenze dovute all’età anagrafica, è del tutto inutile auspicare un’uguaglianza assoluta di fronte alla legge.

E’ la legge che deve adeguarsi alla diversità dei bisogni, non sono i bisogni che devono adeguarsi all’uniformità della legge. Ci si adegua all’uniformità imposta dalle circostanze per soddisfare meglio il bene comune. Ma è evidente che le circostanze possono cambiare e, con esse, la regola dell’uniformità.

Una società che per molto tempo si vantasse di avere regole uniformi a livello nazionale, potrebbe dare impressioni del tutto opposte: di grande coerenza democratica, ma anche di grande forza dittatoriale. Non è certo dal contenuto in sé delle leggi che si può valutare il grado di democraticità di una nazione. Bisogna piuttosto esaminare il livello di rispondenza delle leggi ai bisogni collettivi. E, considerando che i bisogni sono per lo più mutevoli, soggetti al continuo modificarsi delle circostanze, può apparire, al limite, del tutto superflua l’esigenza di darsi delle leggi scritte.

Art. 4. Questo articolo è molto importante e la Repubblica dovrebbe essere denunciata quando non assolve il proprio dovere di assicurare a tutti un lavoro. Se il lavoro è un diritto-dovere, allora è compito della Repubblica garantirlo. Non basta dire ch’essa “promuove” le condizioni che rendono effettivo il diritto; le condizioni devono essere “assicurate”, “garantite”, altrimenti non è possibile sostenere che il lavoro è un “dovere” di tutti.

Come noto il lavoro è un diritto che può essere rivendicato, ma se è anche un dovere, il cittadino dovrebbe essere obbligato a lavorare, anche nel caso in cui non volesse farlo.

Finché il cittadino rivendica il lavoro come un diritto, significa che la Repubblica non è in grado di assolvere al proprio dovere di assicurarlo a tutti. E’ dunque giusto affermare che ognuno ha il dovere di lavorare, salvo che qualcosa di oggettivo non gli impedisca di esercitare questo obbligo.

Art. 5. Questo articolo non è mai stato applicato per due semplici ragioni:

  1. esistono nel territorio italiano degli spazi geografici in cui la sovranità dello Stato è insussistente, come p.es. quelli della Città del Vaticano, della Repubblica di S. Marino e delle basi Nato. In queste aree delimitate da precisi confini si esercita il principio della extraterritorialità da parte di uno Stato che inevitabilmente deve essere considerato come “straniero” all’interno della nostra Repubblica;
  2. il nostro Stato, prima monarchico poi repubblicano, è nato e si è sviluppato in maniera centralistica, usando gli Enti Locali Territoriali come propri organi periferici. Sono state piuttosto le autonomie locali a lottare per essere riconosciute come tali dallo Stato.

Nella nostra Repubblica non è lo Stato ad essere a servizio della società civile, ma il contrario. E non è detto che questo rapporto sia destinato a mutare trasformando lo Stato da centralista a federalista.

Art. 6. Questo articolo non è mai stato attuato con coerenza, semplicemente perché uno Stato centralista non può farlo. In particolare il centralismo si è espresso sul versante del confessionalismo, emarginando le minoranze religiose, e sul versante educativo, esercitando il monopolio dell’istruzione pubblica: la scuola “statale”, essendo di estrazione, di formazione, di cultura “borghese”, ha fagocitato la cultura contadina e operaia, ha impedito l’uso dei dialetti, ha distrutto tutto quanto era di tradizione “pre-borghese”. Se le minoranze hanno continuato ad esistere, è stato unicamente per merito loro, per la loro volontà di sopravvivenza.

Rivoluzione e Democrazia

Fino ad oggi è sempre successo, probabilmente a motivo del fatto che i rapporti sociali basati sulla proprietà privata condizionano pesantemente gli uomini, che ogni rivoluzione politica favorevole alla democrazia si sia trasformata in un dispotismo più o meno forte.

Tuttavia, ognuno si rende conto che non può essere la consapevolezza del fatto che la proprietà privata condiziona gli uomini, ad impedire che si facciano delle rivoluzioni. Lenin diceva chiaramente che le rivoluzioni si fanno con i proletari condizionati dal sistema borghese. Cioè le rivoluzioni si fanno quando il livello di sopportazione delle contraddizioni antagonistiche ha raggiunto la massima intensità possibile.

La soglia di sopportazione naturalmente varia di Paese in Paese, ed è anche relativa al periodo di tempo in cui, sopportando lo sfruttamento capitalistico, i lavoratori si sono lasciati condizionare dalla mentalità borghese.

Piuttosto può essere un’altra la ragione per cui, all’ultimo momento, si può anche rinunciare alla rivoluzione politica, quando cioè i mezzi che si dovrebbero usare per realizzare i suoi obiettivi contrastano in modo stridente con le esigenze di umanità di cui si ha consapevolezza.

Si può rinunciare alla rivoluzione nella speranza che gli uomini capiscano ancora di più che la necessità di un cambiamento è inevitabile, è troppo forte per essere elusa, e che proprio per questa ragione bisogna attenersi ancor più scrupolosamente al rispetto dei valori umani universali. Non è singolare che nel momento in cui scoppiò la rivoluzione d’Ottobre comportò pochissimi morti?

Non si deve affatto disprezzare la rinuncia alla rivoluzione politica per motivi umanistici, poiché ciò non implica che il soggetto rivoluzionario non possa continuare a lottare per la transizione. Né implica che l’occasione della rivoluzione non possa ripetersi. Peraltro, nessun rivoluzionario dovrebbe mai dimenticare che la rivoluzione è sempre l’esito di un lavoro costante, faticoso, sotterraneo, quotidiano, condotto a tutti i livelli.

* * *

I teorici del liberalismo e del socialismo riformista hanno sempre rimproverato a Lenin il carattere elitario del suo partito. Addirittura c’è chi vede, ancora oggi, in questa caratteristica la causa primordiale della successiva caduta del cosiddetto “socialismo reale” (meglio sarebbe dire “socialismo statale o amministrato”).

Qui tuttavia bisogna chiedersi: quando si vuole operare un rivolgimento rivoluzionario di un governo al potere, che non sia un semplice “colpo di stato”, ma appunto una rivoluzione che coinvolga le masse oppresse, le quali devono mirare a una ristrutturazione radicale dell’intera società, è forse possibile limitarsi a una lotta “parlamentare” o comunque nei limiti della “legalità”?

Chi avverte con forza l’esigenza di “ribaltare il sistema”, poiché lo ritiene assolutamente irrecuperabile (e questa era la consapevolezza che Lenin aveva sin da giovane), fino a che punto può essere disposto a circoscrivere legalmente la propria azione rivoluzionaria? E’ mai esistito un governo oppressore che abbia accettato una transizione democratica verso l’uguaglianza e la giustizia sociale? Se la Russia zarista non fosse diventata “socialista”, con la rivoluzione bolscevica, non sarebbe stata forse destinata al capitalismo?

Lenin potrebbe aver avuto torto se, oltre alla soluzione “bolscevica”, il Paese avesse potuto beneficiare di un’alternativa, quale ad es. poteva essere il populismo. Ma la storia ha dimostrato che il populismo non aveva in sé la forza sufficiente per rovesciare il regime zarista. Il populismo fu in grado di farlo quando si associò al bolscevismo. La sciagura del socialismo post-rivoluzionario dipese dall’incapacità del bolscevismo di valorizzare al meglio l’apporto dei movimenti di origine non leninista.

Una forza rivoluzionaria può accettare i metodi legali solo fino a quando essi vengono tollerati dal potere, il quale, utilizzandoli, spera appunto di riassorbire nella maniera più indolore (che non è quella più facile né quella più sbrigativa, ma certamente quella più sicura) ciò che con la dittatura gli riuscirebbe con maggiore difficoltà. Normalmente le dittature funzionano quando nell’ambito della società esiste un forte livello di povertà e di ignoranza. Le moderne dittature hanno bisogno della parvenza della democrazia per poter governare.

Ora, quando un potere è oppressivo, perché riflesso di una società basata sull’antagonismo di classe, la democrazia viene usata, in politica, solo fino a un certo punto. Quando non si ottengono i risultati sperati, il ricorso alla dittatura è inevitabile, senza particolari riserve da parte della borghesia e delle masse che si lasciano incantare dalle sue promesse.

Ecco, quando giunge quel momento, ha forse senso credere che un partito democratico-rivoluzionario possa continuare a sussistere nella “legalità”? L’esigenza di circoscrivere la propria azione a un’élite di rivoluzionari di professione non diventa forse una necessità?

Se nella fase in cui la democrazia formale, apparente (quella usata per ingannare i lavoratori), si trasforma in aperta dittatura, il popolo non reagisce immediatamente opponendo un netto rifiuto, come si può salvaguardare l’istanza rivoluzionaria se non si entra nella “clandestinità”? Se non si opta per la “illegalità”? Chi può dire con sicurezza che sotto il capitalismo la Russia zarista avrebbe incontrato meno problemi di quanti ne ha incontrati sotto il comunismo?

Lenin dunque non decise di dare un carattere elitario al proprio partito perché egli intrinsecamente era antidemocratico, ma perché, in quel frangente storico, era quello l’unico modo per lottare efficacemente contro il governo zarista, divenuto sempre più reazionario. Non dobbiamo dimenticare che Lenin passò vari anni in prigione, prima di decidersi di entrare nella “illegalità”.

E quando decise di farlo, non si comportò come un anarchico o un terrorista (vedi suo fratello), ma come uno che aveva a cuore il protagonismo delle masse. L’Iskra non avrebbe avuto alcun successo senza tale protagonismo, né si sarebbe realizzata alcuna rivoluzione.

La rivoluzione bolscevica è stata tradita da coloro che non hanno voluto allargare alle masse popolari la gestione del potere politico e dell’amministrazione della società.

Vinti gli interventisti stranieri e i “bianchi” interni, i bolscevichi avrebbero dovuto affermare la piena democrazia sociale, la cooperazione, l’autogestione, il primato dell’agricoltura… La NEP fu una semplice concessione obtorto collo.

Purtroppo non si rinunciò neppure sotto Lenin alla centralizzazione. Fu infatti sotto il leninismo che vennero poste le basi dell’accentramento amministrativo da parte dello Stato, del monopartitismo, dell’unificazione ideologica, della subordinazione dell’agricoltura alle necessità dell’industria e delle città, ecc. Lenin, soggettivamente, si rendeva conto della fase transitoria di questa situazione, ma non ebbe mai la lungimiranza di porre le basi per un sicuro superamento.

Quando riuscì a far accettare l’idea della NEP e della cooperazione, era già troppo tardi, anche perché l’attentato contro la sua vita gli impediva di controllare da vicino la coerenza democratica delle scelte compiute. Lenin doveva educare prima e meglio il suo staff dirigenziale all’uso della democrazia nei momenti più critici, quando col centralismo si è convinti di poter gestire più facilmente o con più sicurezza le cose.

Alla rivoluzione russa sono mancati i leaders democratici, capaci di sensibilità umana, non disposti cioè a sacrificare sull’altare della politica ogni esigenza democratica e umanistica. Se non si pongono le basi oggettive di questa necessità – che sono quelle dell’uso personale e collettivo della libertà -, finiscono col rimetterci anche i leaders che soggettivamente possono sembrare più democratici di altri. Lo stalinismo infatti non ebbe scrupoli nel togliere di mezzo gli esponenti più significativi della rivoluzione d’Ottobre.

La rivoluzione russa ha dimostrato che anche quando si è mossi dalle istanze rivoluzionarie più giuste, se non si è capaci di autentica democrazia, di autentico umanesimo, le conquiste politiche vengono facilmente strumentalizzate da chi vuole affermare solo un’esigenza di potere.

Il torto di Lenin fu quello di aver valorizzato i suoi seguaci più per le capacità politiche che non per la sensibilità umana. Quando si accorse dell’errore (e il Testamento lo dimostra), era troppo tardi. La prima illustre vittima della rivoluzione fu lui stesso.