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Approfittare della guerra per cambiare sistema

Ogni guerra, dove pur di vincere o di non perdere, si finisce col compiere qualunque cosa, anche quelle che, nei periodi di pace, non si sarebbero mai fatte, procura devastazioni non solo materiali ma anche morali, e non solo in chi perde ma anche in chi vince.

Infatti, se è possibile che chi vince soffra meno disastri materiali, è però certo che non può sottrarsi in alcun modo ai disastri morali, quelli che p. es. colpiscono i militari in congedo, i reduci, affetti da sindromi nevrotiche e psicotiche, incapaci di reinserirsi normalmente nella società.

Questi reduci spesso vengono anche biasimati dalle popolazioni civili quando diventa ufficiale che la guerra era stata ingiusta o inutile, quando la si è persa vergognosamente, quando la vittoria non ha comportato alcun vantaggio significativo, quando si sono compiute azioni assolutamente ingiustificate, ecc.

Il compito che attende la società civile è quello di ricostruire delle personalità distrutte, che non vogliono sentirsi uniche responsabili di un conflitto deciso dalla politica e, a volte, dalla stessa società civile, di cui pur anche loro erano e continuano a essere parte organica.

Invece le istituzioni tendono a nascondere questi traumi, poiché costituiscono un cattivo esempio, un fattore demoralizzante, una critica indiretta ai poteri forti. La politica non vuole essere messa in discussione nelle scelte belliche che prende, siano esse vincenti o perdenti.

Se queste scelte si sono rivelate, alla fine del conflitto, del tutto sbagliate, si tratterà soltanto di sostituire gli statisti responsabili con altri statisti, ma senza modificare il sistema. Il potere non vuole mai che i risultati di una guerra (che sempre, in un modo o nell’altro, destabilizzano)possano indurre la società civile a chiedere una revisione generale del sistema. E’ la società civile che lo deve esigere, e può farlo soltanto se si sostituisce allo Stato, se è capace di dimostrare d’essere in grado di autogovernarsi.

Chi pensa che una società con queste pretese finisca col comportarsi peggio dello Stato, non sta dalla parte dei cittadini ma dei poteri autoritari, illudendosi o facendo credere che le istituzioni rappresentino la volontà della nazione. Nei sistemi antagonistici, caratterizzati dai conflitti di classe, la politica è sempre al servizio dell’economia e l’economia è sempre al servizio di chi detiene il monopolio della proprietà privata. Non esistono istituzioni equidistanti o Stati interclassisti.

Certo, una società civile abituata a essere considerata come una “serva” dallo Stato, abituata soltanto a difendersi da un potere padronale, farà fatica, nel periodo iniziale della propria autonomia, ad autogestirsi in maniera democratica. Ma se non riuscirà a migliorare se stessa, non potrà certo addebitare allo Stato la causa di questa sua incapacità, anche perché i poteri dello Stato, nella fase della transizione, saranno ridotti al minimo, secondo il seguente principio democratico: la forza dei poteri delegati deve essere inversamente proporzionale alla distanza che li separa dalla comunità delegante. Cioè tanto meno forti quanto più lontani.

In ogni caso in un sistema di autonomie locali vi sono condizioni più favorevoli a realizzare un controllo delle attività politiche ed economiche. La democrazia infatti sarà diretta e non delegata, la gestione dei mezzi produttivi sarà collettiva e non privata, la soddisfazione dei bisogni primari dipenderà dalle risorse del territorio e non dai mercati.

In una situazione del genere si potranno recuperare meglio i reduci delle guerre disumane volute da sistemi assurdi.

I 12 principi fondamentali della Costituzione sono intangibili?

E’ stato detto che i principi fondamentali della nostra Costituzione sono intangibili e che, in 60 anni di vita, nessun governo ha mai pensato di modificarli. Sembrano una sorta di decalogo veterotestamentario, una serie di enunciati assolutamente dogmatici. Vediamo se davvero dobbiamo considerarli così.

Art. 1. La Repubblica è democratica in quanto fondata sul lavoro e non sulla rendita o sullo sfruttamento del lavoro altrui. Questo è vero, ma bisognerebbe specificarlo espressamente, perché il concetto di “lavoro”, in sé, non indica affatto il carattere “democratico” di una repubblica. Nel sistema capitalistico il lavoro è soltanto unamerce, al pari di altre, che si acquista sul mercato, tant’è che si parla di “mercato del lavoro”.

Più che essere “fondata” sul lavoro, la Repubblica italiana dovrebbe essere fondata sulla “proprietà collettiva dei mezzi di lavoro”, quella che permette a tutti di non dover essere sfruttati per poter vivere. Il lavoro può non essere una “merce” soltanto se la proprietà dei fondamentali mezzi produttivi non è privata.

Il lavoro è un diritto-dovere, ma dove esiste proprietà privata dei mezzi produttivi, spesso diventa soltanto una casualità, una fortuna o un ripiego. Se davvero la Repubblica fosse fondata sul lavoro, noi non dovremmo avere disoccupati o inoccupati o sottoccupati o cassintegrati, né lavoratori in nero o clandestini, né quelli che svolgono mansioni che non c’entrano nulla con gli studi fatti, né quelli che, non rassegnandosi a questo trend di sprechi e inefficienze, emigrano dal nostro paese per cercare un’occupazione inerente ai propri studi o comunque un’occupazione che permetta di vivere dignitosamente. Né dovremmo avere quelli che approfittano del bisogno o delle debolezze o della precarietà altrui per estorcere favori di ogni genere, per obbligare a servizi umilianti, per ridurre in stato di schiavitù. Non dovremmo neppure avere tutti quei giochi, sommamente diseducativi, che promettono premi favolosi col miraggio di non lavorare o di lavorare molto meno.

Solo se la Repubblica è fondata sulla proprietà collettiva dei fondamentali mezzi produttivi, si può davvero dire che la “sovranità appartiene al popolo”, come recita la seconda parte di questo articolo. In caso contrario la definizione resta puramente formale. Non è sufficiente essere lavoratori o cittadini per esercitare un’effettiva “sovranità”. La sovranità politica è una diretta conseguenza di quella economicasociale. Là dove manca la proprietà comune dei mezzi produttivi, la sovranità politica si esercita unicamente nel momento della scadenza periodica del voto. In tal modo la vera sovranità politica non viene esercitata dal popolo ma dai suoi delegati parlamentari, i quali tendono a fare gli interessi solo di quella parte di popolazione che dispone di proprietà privata.

Art. 2. Poiché non si è specificato nell’art. 1 che la Repubblica deve essere fondata sulla proprietà comune dei principali mezzi produttivi, accade inevitabilmente, quando si afferma ch’essa “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”, che all’interno di questi diritti debba essere inteso anche quello alla proprietà privata, come è naturale che sia in tutte le Costituzioni borghesi, dove appunto tra i diritti fondamentali si prevedono sempre quelli alla libertà e alla proprietà, concepiti quasi in maniera interscambiabile.

In realtà il diritto alla proprietà privata può essere tollerato solo quando questa proprietà non è relativa ai mezzi fondamentali di produzione, che sono poi quelli che garantiscono la sopravvivenza di un’intera collettività, ovvero quelli che le permettono di esercitare i diritti irrinunciabili che la caratterizzano o la identificano come tale.

Tutti gli articoli relativi al titolo III della Costituzione: “Rapporti economici” non rendono affatto più chiara l’esigenza di precisare il primato della proprietà comune dei mezzi produttivi rispetto al lavoro.

Art. 3. E’ inutile affermare l’uguaglianza giuridica di tutti i cittadini di fronte alla legge, quando non si precisa a chiare lettere la necessità della loro uguaglianza sociale ed economica di fronte al bisogno. La seconda parte dell’art. 3, in assenza della suddetta precisazione, rischia di restare, sul piano pratico, una pia intenzione, ovvero di tradursi in uno sforzo moralistico o paternalistico di dubbia efficacia.

Infatti, se si fosse puntato più sul bisogno che sulla legge, più sulla concreta proprietà pubblica che non sull’astratta tutela del lavoro, non si sarebbe detto, in questo articolo, che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, ma, al contrario, che i cittadini con più bisogni hanno più diritti davanti alla legge. Hanno più diritti di precedenza e di preferenza, proprio al fine di colmare il loro gap dovuto a motivi fisici, psichici, esistenziali, sociali, geografici, linguistici ecc., rispetto agli altri concittadini.

L’uguaglianza assoluta davanti alla legge può andar bene quando tra cittadini non esistono differenze rilevanti. Tuttavia, se consideriamo che persino la natura pone una certa differenza di genere tra i sessi e pone altre differenze dovute all’età anagrafica, è del tutto inutile auspicare un’uguaglianza assoluta di fronte alla legge.

E’ la legge che deve adeguarsi alla diversità dei bisogni, non sono i bisogni che devono adeguarsi all’uniformità della legge. Ci si adegua all’uniformità imposta dalle circostanze per soddisfare meglio il bene comune. Ma è evidente che le circostanze possono cambiare e, con esse, la regola dell’uniformità.

Una società che per molto tempo si vantasse di avere regole uniformi a livello nazionale, potrebbe dare impressioni del tutto opposte: di grande coerenza democratica, ma anche di grande forza dittatoriale. Non è certo dal contenuto in sé delle leggi che si può valutare il grado di democraticità di una nazione. Bisogna piuttosto esaminare il livello di rispondenza delle leggi ai bisogni collettivi. E, considerando che i bisogni sono per lo più mutevoli, soggetti al continuo modificarsi delle circostanze, può apparire, al limite, del tutto superflua l’esigenza di darsi delle leggi scritte.

Art. 4. Questo articolo è molto importante e la Repubblica dovrebbe essere denunciata quando non assolve il proprio dovere di assicurare a tutti un lavoro. Se il lavoro è un diritto-dovere, allora è compito della Repubblica garantirlo. Non basta dire ch’essa “promuove” le condizioni che rendono effettivo il diritto; le condizioni devono essere “assicurate”, “garantite”, altrimenti non è possibile sostenere che il lavoro è un “dovere” di tutti.

Come noto il lavoro è un diritto che può essere rivendicato, ma se è anche un dovere, il cittadino dovrebbe essere obbligato a lavorare, anche nel caso in cui non volesse farlo.

Finché il cittadino rivendica il lavoro come un diritto, significa che la Repubblica non è in grado di assolvere al proprio dovere di assicurarlo a tutti. E’ dunque giusto affermare che ognuno ha il dovere di lavorare, salvo che qualcosa di oggettivo non gli impedisca di esercitare questo obbligo.

Art. 5. Questo articolo non è mai stato applicato per due semplici ragioni:

  1. esistono nel territorio italiano degli spazi geografici in cui la sovranità dello Stato è insussistente, come p.es. quelli della Città del Vaticano, della Repubblica di S. Marino e delle basi Nato. In queste aree delimitate da precisi confini si esercita il principio della extraterritorialità da parte di uno Stato che inevitabilmente deve essere considerato come “straniero” all’interno della nostra Repubblica;
  2. il nostro Stato, prima monarchico poi repubblicano, è nato e si è sviluppato in maniera centralistica, usando gli Enti Locali Territoriali come propri organi periferici. Sono state piuttosto le autonomie locali a lottare per essere riconosciute come tali dallo Stato.

Nella nostra Repubblica non è lo Stato ad essere a servizio della società civile, ma il contrario. E non è detto che questo rapporto sia destinato a mutare trasformando lo Stato da centralista a federalista.

Art. 6. Questo articolo non è mai stato attuato con coerenza, semplicemente perché uno Stato centralista non può farlo. In particolare il centralismo si è espresso sul versante del confessionalismo, emarginando le minoranze religiose, e sul versante educativo, esercitando il monopolio dell’istruzione pubblica: la scuola “statale”, essendo di estrazione, di formazione, di cultura “borghese”, ha fagocitato la cultura contadina e operaia, ha impedito l’uso dei dialetti, ha distrutto tutto quanto era di tradizione “pre-borghese”. Se le minoranze hanno continuato ad esistere, è stato unicamente per merito loro, per la loro volontà di sopravvivenza.

Art. 7. Questo articolo è la dimostrazione più evidente della debolezza del nostro Stato, costretto a riconoscere, da un lato, la propria limitatezza istituzionale, in quanto il Vaticano agisce in piena autonomia politica ed economica in una determinata porzione di territorio, rivendicando una gestione temporale dei propri beni che lo qualifica come uno Stato a pieno titolo (in grado addirittura di agire indisturbato a livello internazionale); e, dall’altro, il nostro Stato dimostra la propria insufficienza normativa, in quanto il Vaticano gli impedisce di affermare con coerenza i principi della laicità in materia di libertà di coscienza.

Questo articolo andrebbe completamente abolito o riscritto, evidenziando la piena sovranità e laicità dello Stato.

Art. 8. Questo articolo non prevede la libertà di non credere in alcuna religione. La libertà di coscienza viene qui equiparata alla libertà di religione, nel senso che ogni cittadino è libero di credere nella confessione che vuole.

In realtà la libertà di religione è solo un aspetto della libertà di coscienza, la quale appunto prevede anche la libertà di non credere in alcuna confessione.

Art. 9. Questo articolo è troppo generico per essere importante. Per renderlo più significativo si potrebbe aggiungere che la Repubblica tutela solo lo sviluppo di quella cultura orientata a promuovere l’umanizzazione dei rapporti sociali, e solo lo sviluppo di quella ricerca tecnico-scientifica favorevole alle esigenze riproduttive della natura.

Bisogna dettagliare questo per impedire che la prima parte dell’articolo finisca col trovarsi in contrasto con la seconda. Non tutta la cultura, non ogni tipo di ricerca merita d’essere tutelata.

Art. 10. Questo articolo dovrebbe avere un valore sia in tempo di pace che in tempo di guerra, e quindi a prescindere da qualunque contenzioso la nostra Repubblica possa avere con chicchessia.

Inoltre bisognerebbe precisare che la nostra Repubblica si attiene alle norme del diritto internazionale solo quando queste sono conformi ai valori umani universali e alle esigenza di tutela ambientale.

Infine bisognerebbe aggiungere che nelle controversie internazionali o anche solo bilaterali (tra Stato e Stato), la nostra Repubblica si appellerà, se lo riterrà opportuno per risolverle, a organi di carattere internazionale, riconoscendo a questi organi un potere vincolante per le decisioni che prenderanno.

Art. 11. Questo articolo viene costantemente smentito dalle cosiddette “missioni di pace”, che vengono compiute da un personale militarizzato. Bisogna quindi precisare che qualunque intervento armato, non avente scopo meramente difensivo dei nostri confini territoriali, cioè dell’integrità della nostra nazione, va considerato illegale. Dal nostro territorio non dovrebbero uscire forze armate di alcun genere, neppure per fare delle esercitazioni.

Anzi, il nostro Stato dovrebbe operare affinché si riconosca a livello internazionale il divieto, da parte di forze militari nazionali, di occupare spazi di cielo, di terra e di mare che risultano comuni a più nazioni o anche a tutte le nazioni del mondo. Gli spazi internazionali devono essere lasciati liberi da qualunque tipo di arma.

Dovrebbe essere tassativamente vietato che uno Stato possa disporre di proprie basi militari al di fuori dei propri confini.

Sarebbe bene che il nostro Stato s’impegnasse per primo in questa direzione, mostrando agli altri Stati che la sicurezza è maggiormente garantita non in presenza ma in assenza delle armi.

Inoltre nella Costituzione dovrebbe esserci un articolo che prevede la rinuncia definitiva alla produzione, alla vendita, all’uso di qualunque arma di sterminio di massa. Dovrebbe essere proibita in maniera tassativa anche la vendita di qualsivoglia arma all’estero.

Art. 12. Questo articolo è frutto dello Stato centralista. Si può riconoscere allo Stato una determinata bandiera, ma permettendo anche alle Regioni e persino ai Comuni di aggiungere sullo sfondo tricolore gli elementi simbolici che li caratterizzano da secoli.

Una legge hegeliana e la terza guerra

Quando si esaminano le due guerre mondiali, ci si accorge abbastanza facilmente di quanto sia giusta una delle leggi della famosa dialettica hegeliana, quella per cui una serie successiva di determinazioni quantitative (cioè di eventi apparentemente irrilevanti), ad un certo produce una nuova qualità, che va a incidere in maniera sostanziale su quelle stesse determinazioni.

Se gli statisti avessero condiviso questa legge, avrebbero fatto di tutto per evitare quei due catastrofici conflitti, cercando di risolvere pacificamente sia i problemi interni ai loro paesi, relativi al confronto tra imprenditori senza scrupoli e mondo del lavoro intenzionato a rivendicare i propri diritti, sia i problemi interstatali, relativi alla spartizione imperialistica del pianeta.

Ma come avrebbero potuto risolvere quei problemi quando nel sistema capitalistico è l’economia privata che detta ragione alla politica? La politica è solo una delle espressioni dell’economia: è al suo completo servizio, al pari dello sviluppo tecnico-scientifico, della cultura, della formazione e anche della guerra. E dagli imprenditori non poteva certo venir fuori la soluzione dei problemi che loro stessi avevano creato.

Gli statisti non solo fecero gli interessi delle rispettive borghesie nazionali, ma permisero anche alle borghesie degli Stati vittoriosi d’infierire sulle popolazioni dei paesi sconfitti, ponendo le basi dei successivi risentimenti e revanchismi. Riuscirono persino a ottenere il consenso, che poi risultò decisivo per i crediti di guerra votati nei parlamenti, di molti dirigenti socialisti della II Internazione, che invece avrebbero dovuto approfittare dell’occasione per dimostrare la forza della loro opposizione. L’unico che non si mise a difendere gli interessi imperialistici della propria nazione e che anzi voleva scatenare una guerra civile, al fine di ottenere una transizione al socialismo, fu quello bolscevico, che lanciò anche la proposta, rimasta inascoltata, di una pace senza annessioni né indennizzi.

In tal senso la storia insegna che se non si reagisce subito a una determinazione quantitativa negativa, si reagirà ancor meno alle successive, e alla fine ci si troverà persino a stare dalla parte sbagliata. Le occasioni perdute fanno “imborghesire” anche i migliori.

Va tuttavia detto che ognuna delle due guerre fu così devastante da rendere inevitabile, in talune aree del pianeta, una qualche evoluzione anticapitalistica. Dalla prima alla seconda guerra queste aree si ampliarono notevolmente, al punto che durante la cosiddetta “guerra fredda” tra i due sistemi economici mondiali, si riteneva imminente lo scoppio di una terza guerra.

Senonché l’eventualità venne scongiurata da un fatto inaspettato: il crollo di uno dei due contendenti, dovuto all’impossibilità di realizzare un socialismo democratico con gli strumenti dello Stato centralista.

L’idea di voler creare uno “Stato di tutto il popolo” era stata considerata una contraddizione in termini, una presa in giro. Tutto implose repentinamente e in maniera, bisogna dire, abbastanza pacifica: sicuramente sarebbe potuto andare molto peggio, viste le energie spese per creare quella gigantesca illusione.

Dall’altra parte della cosiddetta “cortina di ferro” si esultò: il capitale aveva dimostrato che il sistema migliore del mondo era il proprio, e ora bisognava farlo capire a chi, durante il Novecento, non l’aveva ancora sperimentato. Si era scongiurata una nuova guerra semplicemente perché un avversario s’era rifiutato di combattere e aveva accettato le condizioni dell’altro.

Sicché in questo momento i tanti paesi ex-socialisti stanno vivendo tutte le dinamiche borghesi al loro interno, come se nulla fosse: hanno buttato via non solo l’acqua sporca del socialismo autoritario, ma anche il socialismo imberbe, che, nonostante i gravi errori della sua crescita, non meritava una fine così ingloriosa. Anche perché non è affatto vero che il sistema vincitore goda di ottima salute.

E’ anzi dall’inizio degli anni Ottanta che i governi cercano, ostinatamente, di smantellare, un pezzo per volta, tutte le conquiste dei lavoratori, portandoli letteralmente alla fame, usando i debiti pubblici come un’arma di ricatto con cui spogliarli di tutti i loro diritti e facendo della corruzione un vero e proprio stile di vita.

Di nuovo abbiamo a che fare con la suddetta legge hegeliana, e siccome non riusciamo a impedire questa successione negativa di mutamenti quantitativi, ci chiediamo quando vedremo sorgere una nuova tragica qualità e quale sarà, questa volta, il prezzo che l’umanità dovrà pagare per realizzare un socialismo davvero democratico.

Essere o non-essere? Il problema del divenire

Che cos’è il non-essere? E’ tutto quello che non è, tutto quello che non riesce ad apparire. Molti pensano che sia così perché in realtà non esiste o comunque non è storicamente realizzabile o sociologicamente rilevante. Chi nega il non-essere pensa che l’essere sia una verità evidente, cioè che una determinata realtà spazio-temporale appaia come legittimamente dominante.

Tuttavia un essere evidente, scontato, è sempre di una povertà etica, politica e culturale disarmante, al punto che i più direbbero non che l’essere in questione è positivo o negativo, favorevole all’uomo o contrario, ma semplicemente che è un dato di fatto, che non può essere messo in discussione, qualsivoglia limite abbia.

Forse qualcuno sarebbe anche disposto ad ammettere che il vero essere è qualcosa di non statico, ma in mutamento, non coincidente con la realtà che oggi si vede. Forse costui lo farebbe sapendo che, in fondo, è più importante il divenire che l’essere, proprio perché se l’essere è negativo, invivibile, non possiamo negargli la speranza di migliorare.

Ma che cosa significa “migliorare”? Il divenire non è una concessione che l’essere fa al non-essere. Infatti il divenire è possibile proprio perché esiste il non-essere, che non è una variante dell’essere, ma una realtà propria, cioè la possibilità dell’opposto o comunque del diverso, il diritto a una alternativa.

La verità non sta nell’essere in sé, ma nel divenire, frutto di un incontro o anche, se necessario, di uno scontro tra essere e non-essere, nel rispetto delle reciproche autonomie. Questa la lezione hegeliana che tutti noi abbiamo appreso sui banchi di scuola.

La verità sta nel suo perenne movimento. Quando si presume che una verità sia evidente, lapalissiana, si sta violando la libertà di coscienza, che ha sempre diritto a pensarla diversamente. Là dove viene negata la diversità, lì esiste una dittatura, foss’anche in nome della democrazia.

Esiste infatti dittatura anche quando al non-essere si offre una formale libertà di parola, che alla resa dei conti, a causa dei vari impedimenti oggettivi, non produce alcun risultato tangibile. La democrazia illusoria dell’essere è appunto questa, che si vuol far credere che il non-essere ha diritto di esprimersi e che se nessuno lo ascolta, la responsabilità è sua: i cittadini, in definitiva, preferiscono l’essere, in quanto lo ritengono un’evidenza ineludibile.

E’ così che lo spessore delle contraddizioni viene ridotto al minimo: tutto viene relativizzato. Quando i politici americani affermano che il bello della loro democrazia è che i poveri non invidiano i ricchi, perché nel loro paese a tutti viene data la possibilità di arricchirsi, esprimono appunto questo relativismo superficiale con cui si affrontano i problemi.

Là dove esiste un irriducibile antagonismo sociale si preferisce vedere una sana competizione, da cui emergeranno i migliori. La competitività è uno dei totem da adorare del moderno capitalismo, il quale, proprio perché “moderno”, tende sempre più a escluderla, a favore di trust, cartelli e monopoli d’ogni genere.

Le corporazioni preferiscono gli accordi sotto banco alle liberalizzazioni, preferiscono tutelare i privilegi acquisiti alle logiche del libero mercato. Quando parlano di laisser faire è solo per contrastare l’autoconsumo, il protezionismo e le nazionalizzazioni o qualunque forma di socialismo. Ma, una volta ottenuta la facoltà di agire secondo i principi del free market, ecco che scattano i meccanismi monopolistici.

La concorrenza viene sbandierata come valore nel momento in cui ci si deve fare largo fra imprese monopolistiche, ma, una volta ottenuto il proprio spazio, immancabilmente lo si nega ai nuovi arrivati. Il capitalismo è un sistema individualistico che, a causa del proprio carattere antagonistico di fondo (tra chi ha e chi non ha), tende a trasformarsi in una casta sempre più piccola di privilegiati dal potere enorme.

E’ l’essere che nega risolutamente il non-essere, rifiuta la dialettica del movimento, il diritto al futuro. L’unica possibilità di emergere in queste condizioni è quella di dimostrare competenze straordinariamente complesse, capacità produttive, commerciali e comunicative altamente specializzate, fortissime aderenze col potere politico, affiliazioni sempre più criminose… Ma anche in questi casi si finisce soltanto per compiere operazioni di tipo quantitativo, cioè per modificare proporzioni, gradi e intensità di un essere che nella sostanza rimane inalterato. Nel migliore dei casi le contraddizioni non fanno che acuirsi.

Nei confronti di un essere del genere, il non-essere non potrà avere molti riguardi.

Abbiamo bisogno di eroi

Forse, per uscire dalla corruzione dilagante, abbiamo bisogno di eroismo. Forse in periodi di grande crisi motivazionale, di grande mancanza di valori si può recuperare un certo senso della vita impegnandosi in azioni coraggiose, quelle che suscitano ammirazione e che inducono a una sequela imitativa.

Tuttavia nelle società antagoniste – e la nostra certamente lo è – questa esigenza vuol dire soltanto una cosa, che è poi quella di tutte le civiltà degli ultimi seimila anni: far scoppiare una guerra (o una crociata), dimostrando in battaglia il proprio valore. Si ridiventa umani sterminando altri esseri umani, convinti di compiere la cosa giusta. E’ un eroismo al negativo e soprattutto al maschile.

Se poi un paese la guerra la subisce, è ancora più facile: si diventa eroi semplicemente limitandosi a difendere la patria. In tal caso le azioni di grande coraggio possono essere alla portata di chiunque: non c’è bisogno di essere dei valorosi combattenti al fronte.

Il Reich nazista chiedeva ai propri soldati di non arretrare mai, di resistere sino all’ultimo uomo, e loro si sentivano degli eroi e apprezzavano i riconoscimenti, le premiazioni. Eppure erano soltanto degli invasori, convinti di portare ai cosiddetti “popoli senza storia” una civiltà superiore, fatta di razzismo e di tecnologia.

Ma anche ai propri soldati la Russia stalinista, attaccata da Hitler, chiedeva la stessa cosa. Soldati imperialisti si sentivano eroi esattamente come i soldati comunisti che difendevano una delle peggiori dittature della storia; con la sola differenza che i primi avevano attaccato per dominare, mentre i secondi dovevano difendersi per sopravvivere. Entrambi sparavano per uccidere ed entrambi si sentivano responsabili di una missione ch’era stata loro affidata da autorità superiori.

Gli uomini non sanno esprimere il loro eroismo se non uccidendosi. Possibile che non possa esistere un altro modo per dimostrare il proprio valore sul campo?

La Russia una volta aveva gli “eroi del lavoro”, gli stakhanovisti, coloro cioè che riuscivano a compiere imprese mirabolanti nel loro ambito lavorativo, aumentando di molto l’efficienza di talune mansioni e la produttività in generale, a vantaggio dell’intera nazione. Venivano strumentalizzati dalla propaganda del regime per dimostrare che il sistema sovietico poteva reggere la concorrenza di qualunque altro sistema economico. Venivano esaltati per mistificare la realtà.

Ma degli eroi di questo genere non avrebbero alcun senso nell’occidente capitalista, dove, vigendo la proprietà privata dei mezzi produttivi, solo qualche ingenuo autolesionista ambirebbe al titolo di “eroe del lavoro”. Infatti gli unici “eroi” che il capitale riconosce sono gli stessi imprenditori e, al massimo, i loro lacché, cioè quelli che possono vantare profitti favolosi o premi di produttività, per aver saputo ingannare al meglio una determinata clientela.

Eroismo vuol dire generosità, altruismo, spirito di sacrificio, un qualcosa di significativo che possa valere per tutti, che sia dimostrabile sulla base di determinate azioni.

Eroi possono essere quelli che salvano la vita a qualcuno, specialmente se mettono a rischio la propria. A noi occidentali, così abituati al benessere e a dominare il mondo, fa un certo piacere quando un immigrato o una persona emarginata compie un gesto di eroismo o di particolare generosità nei nostri confronti, e siamo persino disposti a riconoscergli qualcosa di più di una semplice medaglia.

Invece questa o una semplice targhetta ci pare sufficiente quando a riceverla è un donatore di sangue: un vero altruista, che per tanto tempo s’è imposto uno stile di vita rigoroso, capace di resistere alle tentazioni della martellante pubblicità.

Ma questi non sono eroi che possono scuotere le fondamenta d’un sistema, che possono inaugurare una transizione costruttiva, che suscitano emulazioni di massa, anche perché le loro azioni o sono puramente casuali o restano circoscritte ad azioni specifiche.

Certo, sono eroi positivi, ma noi avremmo bisogno di qualcosa che possa essere praticato quotidianamente e soprattutto alla portata di tutti, senza distinzioni di alcun tipo.

In tal senso non basta neppure cadere sotto i colpi della criminalità organizzata, anche perché spesso queste vittime non si rendono conto di difendere uno Stato che è l’alleato n. 1 di quella criminalità.

Dunque cos’è che può farci diventare degli eroi nella nostra vita quotidiana? Solo una cosa dà veramente fastidio al sistema: associarsi in comunità che lottino con tutte le loro forze per rendersi indipendenti dal mercato, recuperando tutti quei mestieri, tutte quelle attività che nel passato favorivano l’autoconsumo. Dobbiamo diventare eroi dell’autogestione.

Una volta veniva considerato molto moderno quel borghese che riusciva a vivere come se dio non esistesse. Oggi dobbiamo considerarci molto moderni se riusciamo a vivere come se tutta la realtà borghese sia per noi una gigantesca finzione.

Il virus della borghesia

La borghesia che si è sviluppata in Europa a partire dal Trecento (in Italia a partire dal Mille, con la nascita dei Comuni, che già nel Duecento erano così forti da impedire agli imperatori tedeschi di far valere i loro diritti feudali) in che cosa viene considerata “progressiva” dagli storici? Semplicemente nel fatto ch’essa riuscì a ottenere, attraverso il commercio e l’industria, ciò che prima poteva essere ottenuto solo attraverso la terra e le armi.

Ma davvero possiamo dire che la borghesia sostituì l’uso della rendita con quello del profitto? Davvero rimpiazzò l’uso delle armi per ottenere la terra con l’uso del denaro per ottenere ricchezze e prestigio? O non è piuttosto vero ch’essa si limitò ad abbinare uno stile di vita a un altro?

Davvero la borghesia può essere considerata una classe “rivoluzionaria”? Una cosa dovrebbe essere considerata “rivoluzionaria” quando elimina o sostituisce quella precedente, non quando le si affianca, limitandosi a ridurne il peso o il volume.

Per raggiungere il suo obiettivo, la borghesia, più che altro, s’è comportata con una buona dose di opportunismo e di cinismo; ha sapientemente dissimulato le proprie intenzioni; ha fatto dell’ambiguità un vero modello di comportamento. Ha saputo approfittare di tutte le contraddizioni della nobiltà e del clero cattolico, lacerati tra un idealismo astratto e un’immoralità concreta, soltanto per produrre nuove contraddizioni, strettamente legate all’uso dei capitali.

Davvero l’umanità aveva bisogno di vivere questa esperienza per emanciparsi dalla corruzione dei sovrani feudali? E’ stato davvero un “progresso” che una classe sociale potesse arrivare a un’analoga corruzione seguendo strade diverse da quelle percorse da chi l’aveva preceduta nella scala che porta al potere economico e politico?

Stando ai classici del socialismo scientifico, Marx ed Engels, sì, il percorso della borghesia era necessario per emanciparsi dal feudalesimo; stando invece al rivoluzionario Lenin, no: si poteva benissimo passare dal feudalesimo al socialismo democratico, saltando la transizione borghese.

Sono due posizioni completamente diverse, e oggi, alla luce del crollo del socialismo autoritario, dovremmo pensare che, in definitiva, avevano ragione Marx ed Engels.

Teoricamente, in realtà, aveva ragione Lenin, ma l’evoluzione del leninismo verso lo stalinismo ha dato ragione a Marx (e indirettamente a Trotski).

Lo stalinismo infatti è stato la testimonianza, in forme diverse da quelle del capitalismo occidentale, che lo stile di vita borghese può influenzare le masse più di quanto non si creda. Lo stalinismo è stato il tentativo d’impedire alla borghesia di svilupparsi autonomamente, utilizzando, nel fare questo, alcuni strumenti che la stessa borghesia s’era data per imporsi, e cioè lo Stato, le forze armate e di polizia, i servizi segreti, la burocrazia, l’ideologia politica, la parvenza del diritto, l’istruzione di massa, la scienza e la tecnica al servizio del potere, l’informazione manipolata ecc.

Nello stalinismo è mancata soltanto la possibilità che si sviluppasse una classe sociale particolare, frutto di un uso privatistico del denaro (che è poi quello che sta permettendo oggi il socialismo cinese).

Si sviluppò invece la figura del burocrate statale deresponsabilizzato e dell’intellettuale di partito spersonalizzato, ch’erano, nella sostanza, delle figure borghesi, dipendenti da questa tipologia di classe. La tradizione collettivistica, che s’era conservata nella decadenza del feudalesimo est-europeo, aveva ostacolato lo sviluppo della borghesia “economica”, ma non era riuscita a impedire lo sviluppo di quella “politica e amministrativa”.

Tuttavia i fatti hanno dimostrato che se si sviluppa una borghesia del genere, più intellettuale che imprenditoriale, diventa poi impossibile impedire che si sviluppi anche l’altra borghesia, che nell’Europa occidentale esiste da almeno un millennio.

La storia dunque cos’ha dimostrato? Semplicemente che, una volta nato, lo stile di vita borghese è come un virus che si propaga molto velocemente; che bisognerebbe eliminarlo con decisione appena lo si intercetta; che è un virus molto pericoloso, in quanto muta continuamente le sue sembianze; che è un virus in grado di vivere in maniera latente e inerte anche dopo averlo tenacemente combattuto, e che alla prima occasione può venire allo scoperto, cogliendo del tutto impreparato chi l’aveva combattuto.

Per tenere sotto controllo questo virus, impedendogli di svilupparsi e di diffondersi, ci vogliono alcune condizioni fondamentali, che non possono essere imposte dall’alto, poiché una qualunque imposizione fa il gioco del virus.

La prima condizione è che si accetti di vivere un’esperienza collettivistica basata sull’autoconsumo e sulla democrazia diretta. Non solo cioè ci si deve limitare a consumare ciò che effettivamente si produce in maniera autonoma, evitando che si formino delle categorie di persone che, col pretesto di amministrare le eccedenze, evitano di lavorare; ma bisogna anche che ogni decisione da prendere su come ottenere dalla terra i prodotti del nostro sostentamento, sia frutto di una comune volontà, senza interferenze da parte di forze esterne al collettivo.

Posto questo, occorre che si abbia piena consapevolezza che nei confronti della natura non si può avere un atteggiamento di sfruttamento. La natura va rispettata nelle sue esigenze riproduttive, che sono le stesse che permettono agli uomini di esistere. Qualunque cognizione scientifica o uso della tecnologia non può andare oltre un certo limite, perché al di là di questo esiste solo autodistruzione.

Che ne è dei rapporti tra socialismo e religione?

Dopo il crollo del muro di Berlino e dell’Urss, il tema del rapporto tra socialismo e religione, in Europa occidentale, sembra essere totalmente scomparso. Eppure abbiamo ancora oggi il più grande partito comunista del mondo, quello cinese, che gestisce un sesto dell’umanità. Abbiamo Cuba che resiste imperterrita al più grande embargo della storia americana (e forse della storia in generale). Abbiamo altri paesi del sud-est asiatico che hanno chiaramente conservato tracce del più recente socialismo; per non parlare del pericoloso autoritarismo (sedicente comunista) della Corea del Nord. E che dire di quei paesi che al loro interno hanno porzioni di territorio in cui le comunità locali vivono reminiscenze di socialismo ancestrale, pur senza professarne l’ideologia?

Questo per dire che dal punto di vista mondiale non ci sarebbero tanti motivi per mettere una pietra sopra il tema suddetto.

Dai tempi del socialismo utopistico ad oggi i progressi fatti sul piano della laicità sono stati enormi: dal concetto di Stato laico alla secolarizzazione dei costumi e degli stili di vita.

Nonostante le aberrazioni del cosiddetto “socialismo reale”, l’idea di emanciparsi progressivamente dalla superstizione e dal clericalismo è andata avanti; anzi si può dire che, oltre alla scoperta dei diritti tipicamente “sociali” (lavoro, assistenza, previdenza, istruzione, sanità, sicurezza…), il maggior contributo allo sviluppo dell’umanità il socialismo l’abbia dato proprio nel campo della laicizzazione (la quale, si badi bene, non può essere confusa con l’ateizzazione gestita dallo Stato).

Col tempo abbiamo capito che “Stato laico” vuol semplicemente dire “aconfessionale”, cioè indifferente alle religioni, anche se le istituzioni non possono restare “neutrali” di fronte ai tentativi d’ingerenza clericale nelle leggi parlamentari.

Il miglior Stato che possa favorire la libertà di coscienza è appunto quello “laico”, che in Italia, come noto, non esiste, a motivo della presenza dell’art. 7 della Costituzione, che riconosce un privilegio fondamentale alla chiesa romana, in virtù del Concordato e dei Patti Lateranensi.

Il futuro socialismo democratico (perché comunque di “socialismo” dobbiamo parlare, non potendo buttar via acqua sporca e bambino) non dovrà in alcun modo creare uno “Stato ateo”, né tentare di separare la chiesa dalla società civile. Ognuno dovrà essere lasciato libero di credere nella religione che vuole, e ogni credente dovrà sforzarsi il più possibile, quando vorrà opporsi a determinate leggi statali, di farlo semplicemente in quanto cittadino, senza chiamare in causa i contenuti della propria fede.

In occidente è finito da un pezzo il periodo in cui era necessario opporsi a un’idea religiosa con un’altra idea religiosa, o quello in cui si permetteva alla religione di avere una propria presenza politica (teocrazia, ierocrazia, integralismo della fede, teologia politica ecc.). Solo in Italia si hanno ancora dubbi al riguardo.

L’umanità procede verso una sempre più grande laicizzazione della vita sociale, pur in mezzo a errori madornali, dalle conseguenze spesso spaventose. Tali errori sono stati compiuti proprio perché s’è capito che non basta la laicità per rendere migliore la vita: occorre anche la giustizia. E in questo campo, essendo gli uomini da millenni abituati all’antagonismo sociale, ovvero ai conflitti di classe, siamo ancora lontanissimi dall’aver trovato una strada davvero praticabile.

Si pensi solo al fatto che se, per l’affermazione dell’umanesimo laico oggi ci accontentiamo di un regime di separazione tra chiesa e Stato, tale separazione non è affatto sufficiente per garantire la realizzazione di un socialismo davvero democratico.

I migliori classici del socialismo hanno infatti sempre sostenuto che parlare di “Stato democratico” è una contraddizione in termini, in quanto l’obiettivo finale prevede l’autogestione delle risorse e dei bisogni collettivi.

Le inutili alternative

Il problema maggiore delle moderne civiltà è che qualunque tentativo si faccia per risolvere determinati problemi finisce sempre per produrre nuovi problemi, spesso ancora più gravi dei precedenti. Noi sembriamo destinati a ottenere il contrario di ciò che vorremmo.

Prima che le civiltà antagoniste comparissero si doveva cercare di conservare, il più possibile inalterato, tutto il passato, per poter avere delle certezze sul futuro. Oggi invece non abbiamo alcuna cognizione del passato e viviamo alla giornata, del tutto ignari di ciò che ci attende, tanto che qualunque evento, anche disastroso come un crac borsistico, ci giunge assolutamente inatteso e pensiamo che prima o poi si risolva da sé (si pensi solo a quanto furono impreviste le due guerre mondiali).

Purtroppo però non possiamo non far nulla col pretesto che, facendo qualcosa, peggioreremmo la situazione. Se non facciamo niente, le cose peggiorano lo stesso, proprio perché esse sono frutto di rapporti antagonistici, le cui contraddizioni, stante l’attuale sistema che le produce, risultano irrisolvibili.

Infatti, quando si ha l’impressione ch’esse siano meno pesanti da sopportare, è perché il loro carico maggiore è stato trasferito su categorie sociali più deboli. In molti si sta pagando per far contenti i pochi. E questo meccanismo si verifica a tutti i livelli territoriali: locale regionale nazionale continentale mondiale, essendo strettamente intrecciati. P.es. se in ambito nazionale esiste un’imprenditoria che sfrutta la propria componente operaia, esse, insieme, sfruttano le aree del Terzo Mondo.

Insomma non c’è solidarietà tra sfruttati: ognuno se la deve vedere da solo coi propri “padroni”. Il capitale vuole il globalismo per gli scambi commerciali e finanziari e per il mercato del lavoro, ma si opporrebbe con qualunque mezzo, anche il più devastante possibile, all’idea di un’opposizione internazionale al sistema.

Il crollo dell’impero romano (la maggiore società schiavistica del mondo antico) dovremmo vederlo come esempio emblematico, a livello territoriale (in quanto i suoi confini erano abbastanza definiti), di cosa potrebbe accadere al nostro sistema, che è capitalistico, i cui confini non esistono, essendo un fenomeno mondiale.

La differenza, tra allora e oggi, è che a quel tempo esistevano, in Asia e in Europa orientale, molte popolazioni in grado di opporre resistenza all’idea di “schiavismo”; oggi invece l’idea di “socialismo” sembra aver perduto qualunque forza propulsiva. Il motore della nave s’è spento e non possiamo sostituirlo con la vela, perché ci era stato detto che, in nome del progresso tecnologico, non ne avremmo più avuto bisogno. Siamo praticamente in balia dei venti.

Per una democrazia compiuta

E’ possibile farsi una rappresentazione della democrazia compiuta? O bisogna limitarsi a considerarla una semplice aspirazione da realizzarsi in un futuro imprecisato? Se partissimo dal presupposto che per una democrazia compiuta non ci può essere alcuna evidenza che s’imponga da sé, forse il futuro potrebbe iniziare da subito.

Dovremmo cioè partire dall’idea che non c’è nessun obbligo da rispettare se non quello della libertà di coscienza, che non è neppure un dovere ma un piacere. Se tutti amassero rispettare la coscienza, sapendo che questa è la fonte di ogni libertà, avremmo posto la pietra più importante dell’intero edificio della democrazia.

Il potere di fare le cose, di crearle o di trasformarle, dovrebbe essere messo in relazione alla capacità di rispettare la libertà di coscienza. La scienza dovrebbe essere completamente subordinata alla co-scienza, e questa non dovrebbe essere soltanto una prerogativa dell’individuo singolo, ma anche un fenomeno collettivo, come quando nel Medioevo chiedevano al popolo di confessare pubblicamente le proprie colpe, per essere assolto come popolo.

Infatti la migliore coscienza delle cose è quella che si manifesta in un collettivo, all’interno del quale ci si può confrontare. Questa è la prima regola fondamentale della democrazia: rispettare collegialmente la libertà di coscienza.

Il modo migliore per rispettare questa libertà è quello di compiere delle azioni di cui si è personalmente responsabili. Non può esistere, in campo etico e sociale, la delega di ruoli e funzioni, se non in casi eccezionali e per un tempo molto limitato. Noi dovremmo avvertire con ansia la mancanza di democrazia e non limitarci a opporre all’autoritarismo dei governi in carica il nostro anarchico individualismo.

Il singolo dovrebbe sentirsi direttamente responsabile delle proprie azioni non solo come singolo, ma anche in quanto appartenente a un collettivo. Dovrebbe diventare una nostra seconda natura il principio per il quale quando un singolo sbaglia, sbaglia l’intero collettivo, poiché il collettivo ha dimostrato di non saper prevenire gli errori. Ognuno quindi dovrebbe essere responsabile delle proprie azioni due volte: come singolo e come membro di un collettivo.

Tuttavia un collettivo è davvero responsabile solo se è in grado di autogestirsi, cioè solo se è padrone delle proprie risorse, e non dipende da risorse altrui o da altri collettivi. Se c’è dipendenza, dev’essere reciproca e non sulle cose essenziali, quelle che permettono di vivere.

Se un collettivo non è in grado di autogestirsi, va aiutato e messo nelle condizioni di poterlo fare. Non si può utilizzare la scienza per sottomettere quei collettivi che non ne dispongono allo stesso livello. In una democrazia compiuta lo sfruttamento delle risorse altrui dovrebbe essere considerato vietatissimo, proprio in quanto costituisce, immediatamente, una violazione della libertà di coscienza.

Ora, che succederà nei casi in cui risulterà poco chiaro se la coscienza è stata o no violata? Se ogni decisione viene presa da un collettivo, all’interno di questo le persone più autorevoli sono necessariamente quelle con più esperienza. Non ci sono altri criteri. Il secondo criterio infatti lo conosciamo già: “nessuno è insostituibile”.

Ma il problema più complesso è un altro. In un sistema come il nostro, dove la libertà di coscienza non può essere adeguatamente rispettata, che ruolo può giocare una formazione politica che voglia realizzare la democrazia compiuta?

Una formazione del genere dovrebbe agire soltanto nell’ambito della società civile, al fine di rispondere ai bisogni della gente comune. Non dovrebbe neppure sedere in Parlamento. Dovrebbe cioè porre le basi non per acquisire un potere prossimo venturo, quando le contraddizioni esploderanno, ma per esautorare progressivamente questo potere di tutte le sue funzioni.

Infatti, se anche una tale formazione operasse nel solo ambito della società civile, lavorando per risolvere le contraddizioni sociali, il giorno in cui andasse al potere, stante l’attuale sistema, inevitabilmente si corromperebbe. Gli uomini hanno creato un sistema che corrompe a prescindere dal livello di eticità della loro coscienza.

Questo mostruoso Moloch si chiama “delega istituzionalizzata”. Un partito per la transizione, che voglia realizzare la democrazia compiuta, è meglio che stia fuori dal Parlamento, proprio per dimostrare che la politica del sistema non solo non risolve alcun problema ma addirittura li crea.

Andare o non andare a votare, in tal senso, conta assai poco. La democrazia rappresentativa o delegata è un altro di quei problemi da risolvere, per il quale la medicina è una sola: la democrazia diretta o autogestita.

Abolire le province e ripensare il federalismo

Si sta discutendo se abolire o ridurre le Province. Io penso che vadano abolite in toto, perché sono una vergogna del nostro paese e di qualunque paese che voglia dirsi democratico. Sono un’emanazione dello Stato centralista. I Savoia le hanno prese dai francesi allo scopo di controllare i Comuni.

Sono i Comuni che devono avere più potere. Sono loro che devono decidere cosa fare a livello locale, con chi consorziarsi per gestire i problemi intercomunali e come utilizzare le tasse che devono restare in loco.

Il vero potere democratico è solo quello locale ed è il Comune che, al massimo, dovrebbe, a seconda della necessità contingente, concederlo temporaneamente allo Stato. Quanto più la delega dei poteri viene gestita lontana dal Comune tanto meno forti dovrebbero essere i poteri che si concedono, a meno che non vi siano urgenze particolari e momentanee (come quando le tribù cosiddette “barbare” affidavano, in caso di guerra, tutti i poteri a un sovrano eletto per il tempo necessario).

I Comuni fanno parte di una società civile che è il vero soggetto della democrazia. Oggi tutto questo viene vissuto in maniera rovesciata e il federalismo della Lega Nord non ha fatto che accentuare il centralismo.

Oggi però il vero problema è che la sinistra non ha nessun progetto alternativo allo Stato sociale che la destra vuole smantellare per favorire i monopoli privati. Ancora non riesce a capire che più importante dello Stato è la società civile e che bisogna progressivamente aumentare i poteri di questa società diminuendo quelli dello Stato. Se avesse capito questo, da tempo sarebbe riuscita a togliere alla Lega Nord il monopolio del discorso sul federalismo.

Un federalismo pensato in maniera davvero democratica deve prevedere l’autogestione collettiva (in ambito comunale) di tutte le risorse locali, contro il globalismo delle multinazionali, fino al ripristino dell’autoconsumo, per potersi emancipare, almeno nelle cose essenziali, dalle logiche dei mercati, che sfuggono, come le borse, ad ogni controllo politico.

Armi e Mercato. Uscire dal globalismo

Le armi che abbiamo creato sfuggono al nostro controllo nella stessa misura in cui ci sfugge il controllo del mercato. Abbiamo creato un sistema totalmente in mano ai poteri forti, autoritari, che non solo non sono controllati da nessuno, ma non sono neppure in grado di controllare se stessi.
Chiunque presume di non dover essere controllato, è potenzialmente un nemico pericoloso per la società, anzi, considerando l’attuale consistenza del globalismo economico e militare, per l’intera umanità.
La stessa tipologia di armi di cui questi potentati sono in grado di disporre si presta all’impossibilità di un controllo effettivo del loro impiego, come già dimostrato sin dalla prima guerra mondiale con l’uso dei gas, benché si parli oggi di “obiettivi chirurgici”. Il valore personale dei militari è diventato inversamente proporzionale alla potenza delle loro armi.
La reazione che questi poteri possono avere a quel che ritengono una minaccia per la loro sicurezza o per la loro autorità, reale o presunta che la minaccia sia, può anche esprimersi secondo criteri estranei a qualunque ragionevolezza umana. Infatti l’abitudine reiterata a gestire un potere assoluto, può indurre a compiere azioni il cui effetto può diventare inconsulto, imprevedibile, del tutto sproporzionato rispetto al rischio effettivo che si crede di subire o a qualunque intenzione o volontà di difesa si voglia manifestare. Tant’è che lo scoppio delle due ultime guerre mondiali è avvenuto cogliendo di sorpresa il mondo intero.
L’esercizio del potere assoluto deforma la percezione della realtà, esaspera i problemi, ingigantisce i pericoli, sottovaluta le conseguenze delle proprie azioni, rende incapaci di mediazioni. La tragedia del mondo contemporaneo è che la mancanza di esercizio della vera democrazia si verifica proprio nel momento in cui si crede di usarla (come quando p.es. si va a votare). L’occidente considera addirittura la propria esperienza di democrazia un prodotto di esportazione, da far valere anche con l’uso delle armi, legittimato da risoluzioni di organismi internazionali, in cui solo le cinque nazioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu dispongono di effettivi poteri.
Oggi la dittatura più pericolosa non è quella del terrorismo internazionale, ma quella che porta a compiere dei crimini contro l’umanità proprio in nome di un’idea distorta di democrazia: un’idea che l’economia borghese divulga attraverso la democrazia delegata e questa la trasmette alla società attraverso il monopolio dell’informazione.
L’economia di mercato ha fatto perdere il controllo sulla produzione, la quale produzione implica anche quella delle armi di distruzione di massa, che, nonostante la fine della guerra fredda, non sono state smantellate, ma, anzi, tendono sempre più a diffondersi. E tutto ciò è avvenuto proprio in nome della formale democrazia borghese, che non è sociale ma semplicemente parlamentare, e si vanta di rappresentare la volontà popolare anche quando i governi in carica sono votati da una minoranza, rispetto a tutti gli elettori aventi diritto di voto (come succede p.es. negli Usa, definiti la più grande democrazia del mondo, dove solo la metà dell’elettorato si reca alle urne).
Se non recuperiamo il concetto di autoproduzione, se non ci liberiamo dal dominio del mercato, dagli indici quantitativi del prodotto interno lordo, da uno sviluppo meramente economico e non sociale, se la democrazia non smette d’essere delegata e non diventa diretta, non solo non saremo mai in grado di controllare le azioni dei poteri forti, economici e militari, ma rischieremo anche di dover ripetere i meccanismi della stessa formale democrazia borghese persino dopo aver subito catastrofi mondiali, belliche o ambientali che siano.
Se non comprendiamo la necessità vitale dell’autogestione delle risorse produttive, rischiamo soltanto di perfezionare gli strumenti e gli inganni per una successiva catastrofe mondiale. Dobbiamo uscire da questo tragico destino e perverso circolo vizioso, riducendo al minimo la forza del mercato, puntando decisamente sulla decrescita e tornando progressivamente all’autoconsumo.
E in questo ritorno dovremmo paradossalmente difenderci con le armi da chi vorrà impedircelo: armi proporzionate a un uso meramente difensivo. Nell’ambito del mercato non c’è alcuna possibilità di sopravvivenza per chi non dispone di potere d’acquisto, meno che mai in maniera dignitosa, proprio perché chi è abituato al potere assoluto, non vuole perderlo, non vuole vederlo diminuire, anzi, lavora ogni giorno per aumentarlo, costruendo monopoli sempre più vasti e complessi, in grado di dominare la scena internazionale.
L’unico modo per poter controllare la gestione delle armi è quello di usarle per difendere il proprio territorio, in cui i cittadini decidono liberamente di praticare la gestione collettiva dei mezzi produttivi. Non abbiamo bisogno di un mercato mondiale per sentirci parte di uno stesso pianeta. Non ha alcun senso democratico uniformare i consumi per far sentire l’umanità una cosa sola.
Nel capitalismo non c’è alcuna possibilità che la politica controlli l’economia. E là dove si è tentato di farlo, usando gli stessi strumenti che la borghesia, sin dal suo nascere, si è data (lo Stato, la burocrazia, il parlamento, il partito politico ecc.), come nel cosiddetto “socialismo reale”, il fallimento è stato totale. Qualunque idea di socialismo che non preveda l’autoconsumo, è destinata a trasformarsi in una dittatura. Qualunque idea di socialismo che non preveda l’uso della democrazia diretta a livello locale, è destinata a svolgersi in maniera opposta ai propri fini, e quindi a porsi contro gli interessi di esistenza del genere umano.
Le comunità locali potranno sentirsi parte di un unico pianeta soltanto quando non ci sarà nessuno che farà loro perdere l’autonomia.

Spezzare il cerchio della soluzione finale

L’etica economica di derivazione cattolica ha fatto moralmente bancarotta, in Italia, con l’omicidio di stato del parlamentare Aldo Moro, ma anche con l’omicidio di tutti quei politici e magistrati meridionali che hanno lottato contro la mafia in nome dello Stato. Sono morti ben sapendo che tutte le mafie meridionali altro non rappresentano che la faccia corrotta dello Stato e nella speranza, rivelatasi fino ad oggi illusoria, che all’interno di questo Stato vi potessero essere dei corpi sani, in grado di avviare una controtendenza.
Alla fine degli anni Settanta s’era capito che i cattolici non avevano più niente da dire, sul piano etico, all’economia borghese e che questa poteva marciare per conto proprio. D’altra parte uno Stato che fa fuori i propri statisti, un partito che elimina fisicamente i propri attivisti di spicco, pur di non realizzare alcun compromesso coi comunisti, pur di non farsi moralmente giudicare dalla sinistra, non merita di sopravvivere, almeno non restando uguale a se stesso.
Infatti una prima trasformazione della Dc e dello Stato ch’essa rappresentava avvenne con la stagione del craxismo, che volle dare allo Stato una maggiore laicità e, contemporaneamente, una minore istanza etica (anche se nella fase della trattativa per il rilascio di Moro il Ps si dimostrò possibilista e non intransigente come i democristiani e i comunisti, preoccupati solo di difendere la ragion di stato, benché per motivi assai diversi).
Si voleva una maggiore coerenza fra teoria e prassi: ecco perché col socialismo craxiano nasce una corruzione non più cristiana, cioè tardo-feudale, ma laica, cioè neo-borghese. Il capitalismo non ha più bisogno di farsi largo tra le maglie, a volte troppo strette, dell’etica cattolica, ma semmai è questa che, per sopravvivere, deve cercare di adeguarsi a una mentalità sempre più secolarizzata.
Col craxismo l’Italia ha sperimentato una sorta di riforma protestante laicizzata, attraverso cui il potere poteva essere gestito pienamente da politici “socialisti”. Il ruolo dei vecchi democristiani era piuttosto subordinato. Sembrava una ventata di novità: si revisionò il Concordato, in politica estera si assunse un atteggiamento meno prono alla volontà americana.
Tuttavia anche il socialismo craxiano fu un fallimento totale. Da un lato ci s’illudeva di poter sussistere a tempo indefinito sfruttando il crollo del socialismo sovietico; dall’altro si finiva col rappresentare soltanto il volto borghese della vecchia Dc. Anzi, la corruzione non aveva neppure i freni della medievale etica economica.
L’operazione “Mani pulite” piovve come un fulmine a ciel sereno: per un momento si credette che nello Stato ci fossero pezzi istituzionali eticamente sani. Si fece in poco tempo piazza pulita della corruzione socialista e democristiana, ivi inclusi le altre forze minori, gretti eredi e decadenti del Risorgimento.
Si scoprì chiaramente che tutti sfruttavano lo Stato per arricchirsi e per pagarsi i costi delle campagne politiche, delle proprie clientele: tra politica ed economia dominava il do ut des. Non c’era alcuna differenza tra etica borghese ed etica cristiana.
Sulla scia di questo ripulisti della prima Repubblica (che comunque non aveva toccato i gangli vitali del sistema, essendo impossibile che potesse farlo la sola magistratura), il centro-sinistra ha cercato di convogliare in un unico progetto il meglio della vecchia Dc (la parte più onesta) col meglio della sinistra parlamentare, nella convinzione di poter rimediare a una situazione di sfacelo morale.
Ma anche quest’operazione è fallita, com’era naturale che fosse quando non si vogliono rimettere in discussione i criteri di vivibilità del nostro sistema, i suoi criteri di sostenibilità. E’ stata un’operazione inutile, l’ennesima illusione di poter gestire democraticamente dei processi che di democratico non hanno mai avuto nulla, sin da quando s’è formato lo Stato sabaudo centralista e anti-contadino.
Ecco perché ha trionfato il berlusconismo, che rappresenta il peggio del craxismo, con l’appoggio del peggio della vecchia Dc (Comunione e liberazione) e della vecchia destra fascista (che non ha accettato lo sdoganamento istituzionale di Fini) e della nuova destra razzista rappresentata dalla Lega Nord, che ha fatto di un’istanza giusta (il federalismo) un motivo per far nascere nuovi egoismi locali e regionali.
Rispetto al craxismo si è persino venuti meno a quella parvenza di laicismo che aveva inaugurato la stagione degli anni Ottanta. Il centro-destra, sostenuto dagli elementi più retrivi del Vaticano, è quanto mai clericale. E’ l’espressione più adeguata di un capitalismo che prende del cattolicesimo gli aspetti più amorali e individualistici, più ipocriti e faziosi, al punto che lotta strenuamente per l’abolizione dello Stato sociale.
Questa compagine governativa sta portando il paese alla bancarotta etica ed economica, alla guerra civile tra le generazioni, all’impoverimento di massa delle famiglie, alla dittatura presidenzialista, alla scissione geografica tra macro-regioni. Non è possibile opporsi a una tale “soluzione finale” senza ripensare i criteri di gestione della produzione e della distribuzione dei beni, della ricchezza materiale, dei rapporti con la natura, dei rapporti di genere…
Non servirà a nulla mandare al governo un centro-sinistra o addirittura una sinistra integrale solo dopo aver visto che la destra avrà fatto collassare il sistema. Bisogna da subito ripensare i criteri fondamentali della nostra stessa sopravvivenza. Bisogna uscire dal globalismo delle multinazionali, dal mercato finalizzato al profitto, dallo sfruttamento del lavoro altrui, dalle rendite parassitarie e persino dalla proprietà privata dei mezzi produttivi. Se non si esce da tutto questo il cerchio non si spezza o, prima o poi, si richiude.

Macchinismo, natura e guerre

Se ci sono soltanto macchine avanzate che possono sostituirsi agli operai, che possono cioè fare a meno di molti operai manuali, pur non potendo fare a meno di operai intellettuali, in grado di far lavorare queste macchine attraverso un computer, il capitalismo non funziona. Un capitalismo del genere produce merci che costano di più rispetto a quel capitalismo che ha macchine meno avanzate ma più operai da sfruttare.

Marx aveva già individuato che esiste una caduta tendenziale del saggio di profitto dovuta al rinnovo periodico del capitale fisso. L’impresa guadagna all’inizio, appena ha introdotto le nuove macchine, e a condizione di poter vendere in maniera costante, ma poi le macchine vengono acquisite da altre aziende concorrenti e le stesse macchine diventano col tempo obsolete, proprio perché la produzione ha ritmi frenetici nel sistema capitalistico.

Gli investimenti per ristrutturare (resi sempre più necessari dalla competizione globale) non sortiscono gli effetti sperati, anche perché: 1. gli operai dei paesi occidentali non possono essere pagati come quelli dei paesi che iniziano adesso a industrializzarsi; 2. se, in forza dell’innovazione tecnologica, vi sono meno operai che producono e che quindi acquistano meno merci, queste rischiano di restare invendute.

La conseguenza inevitabile è, paradossalmente, che quanto più si rinnova il capitale fisso, tanto più si rischia la sovrapproduzione. Alla faccia della cosiddetta “qualità totale”. Se non fosse crollato il socialismo reale, sarebbe crollato il capitalismo, ovvero sarebbe scoppiata una nuova guerra mondiale per ripristinare le regole dell’imperialismo delle due guerre precedenti.

Tuttavia è impossibile, in presenza di una competizione mondiale, non innovare il macchinario. Se il capitale non si autovalorizza costantemente, s’impoverisce: non riesce a rimanere invariato, proprio perché esiste competizione. L’alternativa, se non si vuole delocalizzare l’impresa, è quella di chiuderla, investendo finanziariamente i propri capitali.

Volendo crescere a tutti i costi, il capitale preferisce il settore finanziario, che è meno esposto ai rischi della competizione, meno stressato dall’esigenze di rinnovare gli impianti e di collocare le merci, di contrattare con la forza-lavoro. Nei paesi avanzati la ricchezza tende a smaterializzarsi completamente.

I paesi che una volta definivamo del “Terzo Mondo” ci stanno facendo capire, a nostre spese, che, sotto il capitalismo, la capacità di fare profitto non dipende affatto dal grado di perfezione delle macchine. Quando gli imprenditori occidentali dicono che, per competere sulla scena mondiale, dobbiamo produrre cose di più alta qualità, lo dicono solo perché in questa maniera possono ricattare i loro lavoratori, ma essi sanno bene che lo sviluppo ineguale del capitalismo permette loro di ottenere più alti profitti anche con macchinari obsoleti, a condizione che la manodopera sia molto meno costosa.

Al capitale interessa vendere, non tanto produrre cose di alta qualità, e per vendere ci vogliono ampi mercati. Quelli occidentali sono mercati saturi, anche se con la pubblicità si fa di tutto per indurre l’acquirente a cambiare elettrodomestici, mezzi di trasporto e mezzi di comunicazione con molta frequenza.

Quando si delocalizza in un paese che fino a ieri era povero perché colonizzato o perché comunista, dove i salari mensili sono, rispetto ai nostri, incredibilmente bassi, non ha senso produrre cose di alta qualità, che nessuno, peraltro, sarebbe in grado di acquistare. E’ sufficiente produrre cose di media qualità, alla portata di un mercato significativo, che escluda soprattutto il rischio della sovrapproduzione, vera bestia nera del capitale.

E’ noto che l’imprenditore usa la macchina contro l’operaio, per poter avere meno operai possibili, ma poi la macchina si rivolta contro lo stesso imprenditore, poiché lo obbliga a vendere più di quanto vendeva prima. Per poter sopravvivere sfruttandola al massimo, il capitalista deve porre condizioni ricattatorie ai propri operai o minacciare di delocalizzare gli impianti in aree geografiche dove sicuramente non avrebbe problemi sindacali con la manodopera, anzi, avrebbe incentivi fiscali da parte degli Stati che vogliono modernizzarsi in senso borghese.

In occidente il capitalismo è destinato a morire, a meno che i lavoratori non vengano ridotti in schiavitù (pur conservando le formali libertà giuridiche), non venga smantellato lo Stato sociale (e quindi privatizzata la scuola, la sanità, la previdenza ecc.) e non vi sia concorrenza tra imprenditori. Tutte condizioni che non hanno senso sotto il capitalismo cosiddetto “avanzato”, che è quello delle società uscite dalla seconda guerra mondiale.

Condizioni del genere potrebbero verificarsi se invece di società “democratiche” avessimo società “autoritarie”, dittatoriali, che facessero esclusivamente gli interessi degli imprenditori, i quali non avrebbero bisogno di competere tra loro, in quanto sarebbero protetti dalle istituzioni. Ma uno Stato del genere non può esistere in un paese occidentale (Europa, Usa, Canada…), dove una qualunque istituzione viene sempre vista in funzione dell’interesse privato dell’imprenditore.

Da noi gli Stati sono in funzione dei singoli imprenditori privati, materialmente (nel senso che ricevono benefit da parte degli Stati) e anche come logica di sistema (nel senso che lo Stato, pur vigendo l’idea formale dell’equidistanza delle istituzioni rispetto agli interessi in gioco, non si pone mai contro gli imprenditori). Sono semmai i lavoratori che cercano di strappare diritti sia allo Stato che all’imprenditoria privata.

Il capitalismo euroamericano deve per forza lasciare il testimone ad altre nazioni, dove la politica abbia un peso maggiore rispetto a quello che ha da noi, e dove l’economia produttiva abbia la sua ragion d’essere e la ricchezza non sia solo finanziaria.

I grandi Stati in grado di ereditare il testimone sono la Russia, per l’enorme quantità delle sue risorse, la Cina e l’India, per l’enorme quantità di manodopera disponibile a basso costo. Di questi Stati l’unico in grado di ereditare velocemente la formale democrazia borghese è la Russia, che ha radici cristiane e che già nel passato si lasciava influenzare dalla cultura europea.

Il problema è che la Russia ha un territorio assolutamente sproporzionato rispetto all’entità della propria popolazione. Quindi inevitabilmente il futuro, nell’ambito del capitalismo, non è russo ma cinese: sarà la Cina ad appropriarsi delle immense ricchezze della Siberia. Solo che la Cina deve ancora imparare l’abc della democrazia formale borghese. Anzi, sotto questo aspetto, tra i paesi asiatici è molto più avanti l’India, che però ancora non ha risolto il problema delle caste e che resta ancora troppo “religiosa” per poter diventare pienamente “borghese”.

Il capitalismo, così com’è, può solo peggiorare, può soltanto trasformarsi in una dittatura poliziesca, in cui il ruolo di un partito di governo molto disciplinato, di uno Stato centralizzato, di un numero spropositato di militari, di un vasto consenso sociale faccia la differenza tra un vecchio Stato capitalista e uno nuovo. Difficile pensare che un ruolo del genere possa essere giocato, nei secoli a venire, dall’Europa, dalla Russia o dagli Stati Uniti. Nessuno di loro possiede tutte queste cose messe insieme.

L’alternativa a tutto ciò è la costruzione di una nuova civiltà, che potrebbe mettere radici adesso, ipotizzando il proprio sviluppo nell’arco dei prossimi cinquecento anni. Una civiltà che anzitutto deve superare il concetto di “macchinismo”. L’uomo infatti nasce “artigiano” non “operaio”, anche perché se la macchina lavora per lui, lui perde interesse al lavoro, anche nel caso in cui la macchina sia di sua proprietà.

L’operaio non è “alienato” solo perché il suo lavoro è “separato” dai suoi mezzi di produzione e quindi dai beni che produce, che giuridicamente non gli appartengono, ma è “alienato” anche perché ha a che fare con una macchina che lo disumanizza, che rende il lavoro monotono e ripetitivo.

Un qualunque oggetto prodotto deve poter essere ristrutturato per scopi diversi. Oggi questo è impossibile. Gli oggetti sono così complessi che per essere riutilizzati vanno prima completamente smontati, dopodiché si riutilizzano pochissimi singoli pezzi per lo stesso scopo per cui erano nati. Di un’auto si fa un cubo pressato: non la si manda neppure in fonderia per recuperare il metallo usato. Spesso non conviene neppure disassemblare, in quanto il costo del lavoro è superiore al valore dei pezzi da riciclare.

Oggi, quando un oggetto non serve più (si pensi p.es. a una semplice penna a sfera), perché usato da molto tempo, perché ha finito il suo ciclo produttivo, perché superato dal progresso, perché non più funzionante come all’inizio, ecc., noi non cerchiamo di ripararlo, di sostituire quel pezzo che gli permette ancora all’oggetto di funzionare, ma semplicemente lo buttiamo, inquinando irreparabilmente l’ambiente. Così ci è stato insegnato: noi anzitutto dobbiamo essere “consumatori”. Un qualunque elettrodomestico non può durare più di dieci anni: lo sappiamo sin dal momento in cui lo acquistiamo.

La nostra civiltà della produzione illimitata di oggetti tecnologici sta diventando un’enorme civiltà di rifiuti, i cui costi di smaltimento o di riciclaggio sono superiori al loro stesso valore.

Ecco perché una civiltà davvero democratica dovrà limitarsi a produrre soltanto quegli oggetti che abbiamo un impatto minimo, irrisorio, sulla natura. La trasformazione delle risorse naturali ha un limite oltre il quale non è possibile andare, ed è appunto quello della riproducibilità della stessa natura, che va garantita sopra ogni cosa.

Senza inversione di rotta ci attende solo la desertificazione, anche in assenza di guerre mondiali. E in ogni caso le guerre diventano inevitabili quando nei periodi di pace non s’intravvedono i modi per risolvere i problemi sociali e ambientali. Le guerre vengono fatte proprio quando si pensa ch’esse possano costituire una soluzione estrema.

Per una transizione ad altro

Perché uno diventa “borghese”? Perché si dà così tanta importanza al denaro? Sembra una domanda banale, eppure se consideriamo che le antiche civiltà mediterranee, prima di entrare nella fase medievale, erano state caratterizzate per almeno duemila anni da una forte presenza di scambi commerciali, si rimane stupefatti al vedere che le tribù cosiddette “barbariche”, provenienti da est, non proseguirono affatto questo stile di vita, se non dopo altri cinquecento anni di contatto con ciò ch’era rimasto di quelle civiltà.

Soltanto verso il Mille gli ex-barbari, ora perfettamente latinizzati e cattolicizzati, cominciarono a diventare mercanti. E ci son voluti altri cinquecento anni prima che i commerci potessero diventare un sistema capitalistico vero e proprio, che viene fatto iniziare appunto nel XVI secolo. E ci sono voluti altri cinquecento anni prima che questo sistema s’imponesse in tutto il mondo, senza incontrare ostacoli insormontabili. Infatti tutti i tentativi compiuti per arginare questo fiume in piena sono clamorosamente falliti. Migliaia e migliaia di anni ci sono quindi voluti per rendere naturale una figura sociale che di naturale non ha nulla: il borghese.

Una figura che ha creato imponenti apparati statali, burocratici, giudiziari, parlamentari, polizieschi e militari per difendere il proprio esclusivo interesse, fatto passare per un “bene comune”. Una figura che ha saputo sostituire qualunque valore umano e religioso con un valore materiale avente funzione di equivalente universale: il denaro. Una figura che è stata capace di far passare per “democratico” uno stile di vita basato sullo sfruttamento del lavoro altrui.

Com’è stato possibile che una figura del genere, che ha letteralmente sconvolto i rapporti umani e naturali, trasformando ogni cosa in una sorta di compravendita, non abbia incontrato, sul suo cammino, un’opposizione che la obbligasse a invertire la marcia? Che cosa ha reso gli uomini così ciechi da non far accorgere loro che anche il più piccolo cedimento nei confronti di questa mentalità avrebbe avuto conseguenze letali per la loro stessa sopravvivenza?

Lo schiavismo romano venne abbattuto da forze che provenivano, seppur in forma disgregata, da ambienti clanico-tribali. Ma dov’è oggi la forza in grado di abbattere lo schiavismo salariato? La mentalità borghese ha fatto così breccia nell’umanità che persino l’ideologia che per prima chiese l’abolizione della proprietà privata, e cioè il socialismo, non è riuscita a restare coerente con se stessa. Per quale motivo qualunque azione venga compiuta contro il capitale finisce col tradire i presupposti di partenza?

Qui le ragioni sono due:

– la prima è che manca ancora una vera alternativa laica e umanistica al cristianesimo;
– la seconda è che manca ancora una definizione autenticamente “democratica” del socialismo.

L’affronto di questi due aspetti o procede in maniera parallela, oppure rischia di non approdare a nulla di davvero significativo per una transizione ad altro. Ma se è così, le premesse per affrontarli non possono che essere due:

– sviluppare al massimo la libertà di coscienza;
– garantire al massimo la gestione collettiva delle risorse di un determinato territorio.

Se non si è padroni del proprio territorio, non si è padroni della propria coscienza. Se non si usa la propria coscienza per impadronirsi del proprio territorio, non si è padroni di nulla.

Debellare un virus mortale

Quando si parla di “comunismo superiore” – come fa p.es. la rivista “n+1″ nei numeri 27 e 28/2010), sarebbe meglio rinunciare all’idea che la “superiorità”, rispetto al “comunismo primitivo”, stia nella nostra scienza e tecnica.

Quando si affermerà il futuro comunismo, non avrà nulla dell’attuale sistema capitalistico, proprio perché di questo sistema non vi è nulla di umano e di naturale. La “superiorità” sarà solo a livello di coscienza, in quanto gli uomini saranno del tutto consapevoli dei limiti delle civiltà antagonistiche precedenti.

Quanto alle forme, esse non saranno molto diverse da quelle del comunismo primitivo, proprio perché solo quest’ultimo ha saputo rispettare integralmente la natura.

Perché una società possa dirsi davvero democratica, occorre che la sua scomparsa non lasci alcuna traccia a livello ambientale. L’uomo è ospite della natura, non è il suo padrone, non può fare quello che vuole in casa altrui. Meno fa e più rispetta le regole dell’ospitalità.

I doni che la natura offre all’uomo non devono farci pensare che siano dovuti. Sono doni offerti gratuitamente: si tratta soltanto di gestirli con parsimonia e oculatezza.

La natura non è un magazzino di risorse pienamente disponibili in forme illimitate, la cui porta può essere aperta e chiusa a nostra discrezione. La natura non è un oggetto di cui si può fare quel che si vuole. E’ un organismo vivente, che produce esseri viventi, tra cui noi stessi.

L’unica differenza tra gli esseri viventi è che l’uomo è in grado di influire così tanto sui processi naturali da rendere impossibile la loro riproduzione. Non c’è nessun animale e neppure alcun fenomeno naturale (glaciazione, eruzione vulcanica, terremoto…) che abbia la capacità di questa irreversibilità.

L’uomo delle civiltà artificiali è un virus che distrugge il sistema, è l’unico elemento patogeno che alla fine arriva a distruggere persino se stesso. Non è solo un parassita che sfrutta risorse altrui, come può essere una zecca o un tafano, ma è come un’anofele, che mentre succhia sangue, uccide di malaria. Quando ha finito di uccidere tutti in un determinato luogo, si sposta in un altro, nella convinzione che le risorse siano infinite.

Un mostro di questo genere non può essere fermato con le buone parole, anche se possiamo usare lo strumento del linguaggio per ingannarlo. Occorre la violenza organizzata dei sopravvissuti.

La resistenza armata deve essere collettiva, perché solo in questa maniera si potrà rinunciare alla violenza quando l’obiettivo sarà stato raggiunto.

Bisogna creare le condizioni – e questo è ancora più difficile che debellare il virus – perché, nel corso della lotta armata, non nascano pretesti per inoculare nuovi virus nella popolazione. Che è appunto quel che venne fatto nel passaggio dal leninismo allo stalinismo.