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Gentile e l’integralismo cattolico

Giovanni Gentile era partito bene, col suo ateismo implicito o criptico (quello non espressamente professo), nei due saggi giovanili dedicati alla Filosofia di Marx, apprezzati in due righe dallo stesso Lenin nella bibliografia alla voce “Marx” scritta nel 1914 per l’Enciclopedia Granat: “Il libro di un idealista hegeliano…, è degno di nota. L’autore tratta alcuni aspetti importanti della dialettica materialistica di Marx che di solito sfuggono all’attenzione dei kantiani, dei positivisti, ecc.”. In effetti, bisogna ammettere che la sua rilettura, in chiave laicistica, di Rosmini e Gioberti, al fine di trovare un accordo col materialismo marxiano era stata piuttosto originale.

Tuttavia proprio Gentile fu la dimostrazione più lampante che non basta essere “atei” per essere “democratici”. Cosa che già Marx aveva detto ai compagni della Sinistra hegeliana, che volevano portare il razionalismo hegeliano alla sua espressione ateistica più logica e consequenziale, indirizzando le loro critiche verso lo Stato confessionale prussiano e verso la Chiesa di stato luterana. La soluzione proposta da Marx era chiara: bisognava affrontare in maniera politico-rivoluzionaria le contraddizioni del sistema, mettendosi dalla parte del proletariato nullatenente, l’unico titolato a realizzare quegli ideali di giustizia e libertà che la filosofia tedesca era solo riuscita a teorizzare.

Quali conclusioni invece ha saputo trarre l’integralismo cattolico di Augusto del Noce e del suo principale discepolo, Rocco Buttiglione dal fallimento dell’attualismo ateistico gentiliano, in cui l’io si fa dio? Essi hanno approfittato del crollo del fascismo, cui la filosofia gentiliana s’era vincolata, per sostenere che le filosofie ateistiche, proprio perché tali, non possono che autodistruggersi. Portato alle sue estreme conseguenze il razionalismo ateistico (iniziato in un certo senso col cogito cartesiano) è una forma di antiumanismo, un vero e proprio suicidio.

Naturalmente, invece d’esser grati al socialismo per il suddetto crollo; invece di plaudire al fatto che il socialismo, per quanto limitate possano essere le sue realizzazioni storiche, resta sempre un’ideologia che vuole tenere strettamente unite la libertà personale con la giustizia sociale, quale altra conclusione hanno tratto? Che il cattolicesimo politico costituisce la “terza via” tra capitalismo e socialismo. Lo dicono come se le forme irrazionalistiche del fascismo non fossero state usate con l’appoggio, diretto o indiretto, delle Chiese cattolica e protestante, proprio al fine di distruggere ogni esperienza di “socialismo”! Lo dicono fingendo di non sapere che il suicidio del razionalismo ateistico del nazi-fascismo non fu affatto un processo endogeno a tale sistema dittatoriale, ma solo una conseguenza del fatto che di fronte alla sconfitta militare inflitta dal socialismo russo ci si comportò nella maniera più irrazionale possibile. Se il fascismo avesse vinto, come in Spagna per un quarantennio, sarebbe forse stato abbattuto da una maggiore coscienza religiosa? I cittadini democratici avrebbero fatto trionfare una Chiesa compromessa profondamente con una dittatura fascista? L’hanno forse fatto in Spagna o nei Paesi sudamericani?

Considerando che il razionalismo nazi-fascista era alleato, tramite intese e concordati, alle due suddette Chiese, vien da pensare che anche una coscienza religiosa può tranquillamente diventare irrazionale, e che non esiste alcun modo aprioristico per scongiurare questo “suicidio”, se non quello di vivere umanamente, conformemente alle leggi della natura. D’altra parte già il padre dell’esistenzialismo religioso, Soren Kierkegaard, aveva mostrato, con la sua filosofia e con la sua stessa vita, come l’irrazionalismo possa essere un rischio per chiunque, ateo o credente che sia.

In realtà il problema dell’attualismo gentiliano era un altro. Questa filosofia è una forma di soggettivismo piuttosto ingenuo. Beninteso non alla maniera stirneriana. Ciò che avvicina l’attualismo all’anarchismo è l’idea che l’io crea l’essere e lo fa anzitutto in maniera pratica: se c’è un pensiero dev’essere “pensante”, non “pensato”. La filosofia è un processo pratico in cui l’oggetto viene posto mentre si agisce e si pensa. Era forse questo l’aspetto gentiliano che più aveva interessato Lenin, il quale infatti nei suoi Quaderni filosofici affermava che l’unità degli opposti è sempre relativa, in quanto soggetta a continui mutamenti, per cui definirla una volta per tutte non avrebbe senso. Semmai assoluto è ciò che tiene distinti gli opposti.

A differenza di Stirner, che odiava qualunque forma di istituzione, Gentile aspirava a veder incarnato questo “ego onnipotente” in una struttura adeguata, ch’egli individuò nello Stato. In questo egli assomigliava di più a Fichte o forse all’ultimo Hegel, quello della Filosofia del diritto.

Gentile era un idealista soggettivo, che voleva creare da sé la propria oggettività, incarnando la propria idea in un ente pubblico. Vi è del paradosso in tale atteggiamento. Infatti lo Stato politico, come tutte le istituzioni, è statico per definizione: è soggetto a mille burocrazie e si caratterizza per la lentezza delle decisioni. Molto più dinamica è la società civile. Non solo, ma lo Stato fascista era anche caratterizzato da una direzione autoritaria, frutto di una delega in bianco da parte dei cittadini-sudditi. Il fascismo avrebbe potuto realizzare l’attualismo nel momento rivoluzionario della conquista del potere, ma già subito dopo sarebbe stato costretto a smentirlo, dovendo allacciare con le forze più reazionarie del Paese dei compromessi conservativi del sistema.

Per realizzare in maniera coerente l’attualismo, Gentile avrebbe dovuto porre le condizioni per un progressivo smantellamento di tutte le istituzioni statali, a vantaggio di uno sviluppo onnilaterale e decentrato della società. Solo all’interno di una comunità locale i cittadini possono avere l’impressione, previa la proprietà sociale dei loro mezzi produttivi, che in ogni momento tutto dipende dalla loro libera volontà.

Ma perché l’ateismo teorico gentiliano, una volta realizzato nell’ideologia fascista, non servì in alcun modo a migliorare le tesi del materialismo storico-dialettico o quelle politiche del socialismo democratico? Semplicemente perché Gentile difendeva gli interessi della piccola-borghesia, da cui lui stesso proveniva. Difendeva gli interessi non degli ultimi, ma dei penultimi. Il suo attualismo, nonostante ammirasse la filosofia marxiana della prassi, era arretrato rispetto agli sviluppi teorici del marxismo avvenuti in Germania, in Francia o in Russia alla fine dell’Ottocento.

Marx fu incontrato esclusivamente sul piano filosofico, quindi solo nella sua fase giovanilistica, quando era alle prese col materialismo naturalistico di Feuerbach e con la critica ateistica dei vangeli di Strauss e Bauer. Laddove Marx inizia a interessarsi di economia, il distacco di Gentile si fa netto, proprio perché egli non sopportava l’idea che esistesse un oggetto indipendente dalla volontà umana. Sostituire Dio con la Materia significava, per lui, fare di quest’ultima un nuovo Dio. Quanto era lontano, in questo, dal Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo!

Nel contrapporre la filosofia piccolo-borghese alla politica proletaria, Gentile mostrava un lato aristocratico del suo pensiero. Infatti rifiutava il marxismo su un aspetto d’importanza vitale: la realtà da trasformarsi qualitativamente nelle sue irriducibili contraddizioni economiche. La struttura produttiva ha leggi immanenti che chiedono d’essere rispettate a prescindere da ciò che l’uomo possa pensarne, altrimenti è la stessa convivenza umana a rendersi impossibile. L’uomo deve scoprire queste leggi e adeguarvisi con la propria volontà.

Non è vero che Marx faceva dell’individuo il creatore della storia. In natura vi sono leggi che non dipendono dalla volontà umana, e queste leggi hanno un riflesso nella società civile. Quando gli uomini se ne distaccano, creando società incompatibili coi processi riproduttivi della natura, gli effetti negativi non ricadono soltanto sulla natura ma anche sulla stessa società umana.

Non si diventa disumani quando si smette d’essere religiosi, ma quando si vuole contrapporre l’umanismo al naturalismo e quando, all’interno di questo umanismo, si vuol fare della proprietà privata dei mezzi produttivi un motivo di oppressione sociale e di discriminazione. Gentile capì soltanto che la filosofia doveva concretizzarsi in una politica (e in questo rifletteva un’esigenza tipica del socialismo), e che l’istanza ateistica doveva subissare quella religiosa, ma per il resto rimase un provinciale.

Fondamentalmente l’integralismo cattolico, quando rimpiange le teorie di Rosmini e di Gioberti, non comprende che a quel tempo gli ideali erano sentiti con maggior vigore, rispetto ad oggi, proprio perché il capitalismo era ancora nella sua fase piccolo-borghese, cioè in un momento in cui la religione popolare, nella fattispecie cattolico-romana, prevalentemente contadina, giocava ancora un ruolo significativo. Cosa che continuerà a fare sino al fallimento degli ideali degli anni Settanta del Novecento, quando il trionfo del neoliberismo (oggi chiamato globalismo) spazzerà via ogni residuo di illusione terzoforzista tra capitalismo e socialismo.

Che il cattolicesimo politico oggi non conti più nulla è attestato dalla sonora sconfitta della sua variante polacca, che il pontificato di Wojtyla volle incarnare in maniera nettamente anticomunista e velatamente anticapitalista. Il crollo del muro di Berlino e la fine del cosiddetto “socialismo reale” hanno fatto capire che l’unica alternativa possibile al socialismo resta il capitalismo, mentre il cattolicesimo può svolgere soltanto una mera funzione di supporto.

In tal senso è inutile sperare in un revival del cattolicesimo europeo grazia all’apporto di continenti come quello sudamericano o africano. Se da quelle aree geografiche verrà fuori qualcosa di positivo, in senso cristiano, potrà esserlo solo in rapporto a idee socialiste o anti-imperialistiche. Cosa che, attraverso la teologia della liberazione, è già avvenuta, ma con scarsi risultati pratici, in quanto questo tipo di teologia non ha mai radicalizzato la propria opzione preferenziale per i poveri in una scelta chiaramente rivoluzionaria; inoltre è sempre stata pesantemente osteggiata dalla curia vaticana, salvo il recente incontro, piuttosto formale, tra il papa Bergoglio e Gustavo Gutiérrez, padre di quella teologia, il cui meglio di sé oggi lo dà con l’interesse maturato da Leonardo Boff per le questioni ambientali o ecologiche.

A dir il vero oggi non è più neppure il caso di limitarsi a cercare un’alternativa tra capitalismo e socialismo, in quanto è scontato che gli antagonismi sociali del globalismo neoliberista possono solo peggiore, portando l’umanità a una catastrofe di proporzioni apocalittiche. Il vero problema è diventato quello di come realizzare un socialismo davvero democratico (tutto da costruire), che sappia andare oltre le esperienze di socialismo già realizzate e drammaticamente concluse (quelle “statali” del modello sovietico) e quelle in via di realizzazione, come sta avvenendo in Cina col cosiddetto “socialismo di mercato”.

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Il senso della storia

Qual è il senso della storia? Di sicuro non quello di Nikolaj Berdjaev, che vedeva nella storia terrena una ripetizione di qualcosa già avvenuto nei cieli. Diciamo che se una qualche “ripetizione” deve esserci o, per dirla con Nietzsche, un qualche “eterno ritorno”, allora potremmo dire che il senso della storia sta nel tornare all’esistenza dell’uomo primitivo, ovviamente con la consapevolezza di tutti gli errori compiuti. È una specie di “ritorno alla terra” – per restare alla terminologia nicciana -, con un movimento però non lineare, che sarebbe troppo ottimistico, troppo illusorio: il movimento è a spirale, dove i cerchi concentrici si restringono sempre più, fino a diventare un punto solo. Nel suo Anti-Dühring, a proposito di questi cerchi, F. Engels diceva ch’essi avrebbero raggiunto la loro fine collidendo col centro.

L’essere umano e naturale è soltanto quello preistorico. La storia, infatti, è una successione di eventi che di umano e naturale hanno ben poco. Gli unici aspetti meritevoli d’essere ricordati sono quelli in cui gli uomini han fatto il possibile, anche sacrificando la loro vita, per recuperare ciò che hanno perduto, di cui la prima cosa in assoluto è l’innocenza, quella condizione che si viveva quando non esistevano rapporti antagonistici irriducibili, quando le contraddizioni non erano insormontabili.

Il senso della storia è tutto racchiuso nella parabola lucana del figliol prodigo, salvo in un punto: l’atteggiamento invidioso o addirittura rancoroso dell’altro figlio, che sembra essere rimasto col padre solo per interesse o perché non aveva il coraggio di vivere una propria vita, non aveva sufficiente “spirito imprenditoriale”.

Perché si possa giungere a una condizione innocente di vita, valida per tutto il pianeta, oggi occorrerebbe un evento catastrofico, apocalittico, che rendesse equivalenti i diversi livelli di consapevolezza, che dipendono dalle diverse tipologie di vita. Ci vorrebbe però un evento epocale, che azzerasse quasi tutta l’umanità, lasciando in vita una sorta di “piccolo resto d’Israele”. Questo perché il capitalismo ha infettato il mondo intero, ha corrotto anche gli angoli più remoti della Terra. Persino quando si crea il socialismo di stato, se ne resta profondamente condizionati.

Certo, queste son cose che non si dovrebbero dire, ma purtroppo è la stessa storia – questo mattatoio a cielo aperto – che ci costringe a farlo. Si deve fare eticamente di tutto per scongiurare i cataclismi, ma se sarà del tutto vano, s’imporranno da soli altri mezzi e metodi. La stessa natura non ci sarà sempre benigna, come vuole il Pascoli. E, in ogni caso, già oggi si dispongono di armi nucleari in grado di distruggere l’umanità non una ma più volte.

È probabile che tutti gli esseri umani che hanno già lasciato questo pianeta e che si trovano a vivere in qualche luogo dell’universo (che – ci piace ricordarlo – è eterno nel tempo e infinito nello spazio), siano impegnati nel rendere uniformi o allineati gli eterogenei livelli di consapevolezza storica, che riguardano l’etica e la democrazia. “La discesa di Cristo agli inferi”, così come viene raffigurata nelle icone bizantine, non può non avere questo significato. L’omogeneità assiologica dovrebbe essere facilitata dal fatto che un’esistenza secondo natura è più democratica, più egualitaria, più umana.

Su questa Terra i livelli di consapevolezza sono tra i più vari proprio perché ci siamo allontanati tantissimo, in tempi e modi diversi, dall’esistenza naturale dell’uomo primitivo. È vero che oggi il globalismo del capitale tende a omogeneizzare le menti a livello mondiale. Ma lo fa con la forzatura dei mercati, che impongono i loro valori di scambio, a prescindere da quelli d’uso. Il risultato è che non sappiamo più chi siamo e facciamo cose senza senso, senza volerlo, pur sapendo che non dovremmo farle.

Negli stessi vangeli i redattori han messo in bocca al Gesù crocifisso le parole: “Padre, perdona loro perché non sanno quel che fanno”. Peccato però che anche i redattori non sapessero quel che scrivevano: Gesù Cristo, infatti, era ateo. Per lui non c’era nessun “Padre” dai poteri sovrumani. Lo disse chiaramente agli ebrei nel quarto vangelo: “Voi siete dèi”.

Ritornare al punto di partenza con la consapevolezza di tutto il male compiuto significa, sul piano scientifico, che la materia deve tornare allo stato energetico iniziale, come se non vi fosse stata alcuna vera dissipazione. Nella storia la materia si è sviluppata in varie forme, prendendo strade diverse, ma l’energia è rimasta intatta, poiché non può essere violata al punto da mutare la propria natura. La coscienza, su cui si basano le intenzioni, può sempre tornare ad essere quel che era. E la nostra vera “energia” è l’autoconsapevolezza di sé.

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Un’anticipazione di questo fenomeno possiamo constatarlo nella Sindone: lì un corpo in carne ed ossa s’è trasformato in energia, rendendosi invisibile all’occhio umano. Come ciò sia potuto accadere è impossibile saperlo. Di sicuro sappiamo che su questa strana trasformazione o trasmutazione non si doveva costruire una nuova religione. Interpretare la tomba vuota come resurrezione è stata una forzatura, del tutto arbitraria, di Pietro, in quanto il concetto di “resurrezione” presume che un corpo ricompaia integro dopo morto e che sia facilmente riconoscibile. Il che non è mai avvenuto: tutti i racconti evangelici di riapparizione del Cristo sono stati chiaramente inventati. Né la cosa sarebbe potuta avvenire senza violare la libertà di coscienza degli uomini, che vanno appunto lasciati liberi di credere nelle condizioni spazio-temporali del loro pianeta.

Finché restò in vita, Gesù non mostrò d’aver nulla che non fosse “umano”. Un sospetto subentrò quando si trovò il sepolcro vuoto. Ma nessuno era in grado di dire che cosa era cambiato, e tanto meno in che maniera. La materia era tornata ad essere energia, ma senza poterlo far vedere agli uomini, ai quali è interdetta la possibilità d’aver di fronte a loro, sulle questioni cosiddette “sensibili” (quelle implicanti una decisione di coscienza), un’evidenza che s’imponga da sé. La verità autoevidente è un’ingenuità degli antichi filosofi greci e dei teologi medievali, una pigrizia del pensiero.

Ognuno di noi, tuttavia, è destinato a sperimentare su di sé lo stesso fenomeno. Per entrare su questa Terra siamo usciti da un tunnel e non senza fatica; per entrare in una nuova dimensione, dovremo uscire da un altro tunnel, e con una fatica ancora più grande, poiché ci porteremo dietro tutti i nostri pregiudizi.

Poiché la morte è solo una forma di passaggio da una condizione di vita a un’altra (come il bruco e la farfalla o il seme e il frutto), noi ci vedremo trasformati in una sostanza energetica, la cui natura ci sfugge. Paolo di Tarso parlava di “corpo glorioso”, ma lo diceva come se gli interessasse la lotta contro “le potenze dell’aria” e non contro “la carne e il sangue”. Il suo era solo un delirio mistico.

Dove sta la differenza tra noi e il Cristo sepolto? Nel corpo. Il nostro imputridisce. Noi non vorremmo che fosse così. I ricchi Egizi imbalsamavano i loro corpi nella convinzione che quello era il modo migliore per giungere nell’aldilà: avevano bisogno delle fattezze del loro corpo, al quale però dovevano togliere gli organi interni. Era anche questa una forma d’ingenuità, peraltro abbastanza classista, in quanto i poveri non si potevano permettere un trattamento così costoso e meno ancora una piramide.

Anche oggi riusciamo a imbalsamare perfettamente i cadaveri: i russi l’han fatto col rivoluzionario Lenin, i cinesi con Mao Zedong, i vietnamiti con Ho Chi Minh. È un modo, un po’ patetico, di trasformare gli eroi in icone. Negli Stati Uniti, pagando cifre astronomiche, ci si può far ibernare, anche se ancora non esiste una tecnica per farsi “risvegliare”.

Si vuol far durare la vita in eterno, fingendo di non sapere che su questa Terra non è possibile farlo in alcuna maniera. A dir il vero la Bibbia dice che Adamo ed Eva, prima del peccato, non conoscevano la morte, e che Dio, a causa dell’iniquità degli uomini, si vide costretto ad accorciare di molto la durata della loro vita. Forse per questo siamo convinti che la morte non sia la fine di tutto.

Solo le idee di una persona possono sopravvivere al suo corpo. Ma occorre che siano conosciute e che qualcuno le erediti e le sviluppi, in base alle nuove condizioni di vita che la storia ci obbliga a vivere. Non c’è niente di peggio di un’idea statica, sempre uguale a se stessa. Eraclito diceva che non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume.

Può anche sopravvivere qualcosa nell’immaginario popolare, a prescindere dalle idee del proprio mito. La persona viene eternizzata per qualcosa che ha fatto. Ci ricordiamo, p.es., di Che Guevara perché morì in un agguato in Bolivia, dopo aver fatto la rivoluzione cubana; ma chi si ricorda di cosa egli abbia mai detto?

Tutto ciò lascia pensare che la morte ci stia stretta, cioè che non faccia parte del nostro senso della vita. Infatti, anche quando diciamo che è naturale morire, la morte l’avvertiamo sempre con dolore, come se qualcosa d’importante venisse meno o ci venisse a mancare. Non siamo affatto contenti quando muore qualcosa o qualcuno che ci piace o che amiamo o che stimiamo e ammiriamo. Anche quando abbiamo a che fare con soggetti particolarmente sgradevoli, speriamo sempre che cambino carattere o atteggiamento. Non ci piace augurare la morte a qualcuno. I sentimenti negativi ci fanno star male.

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Ma torniamo alla domanda di prima: perché il nostro corpo imputridisce, mentre quello del Cristo non ha conosciuto corruzione? Cosa c’è che ci differenzia da lui?

La sua morte è stata reale, non apparente: l’attesta il colpo di lancia che gli trafisse il cuore. E nella trasformazione l’energia non ha abbandonato il proprio corpo, ma se l’è ripreso integralmente e immediatamente. Sepolto di venerdì pomeriggio, sarà scomparso la notte stessa, quando nessuno poteva vederlo. Poi la Chiesa s’è inventata la storia dei tre giorni. Per uscire dal sepolcro ha dovuto spostare la pietra che lo chiudeva. Quindi il suo corpo aveva mantenuto le caratteristiche della fisicità.

Nel racconto inventato sull’apostolo Tommaso che non crede in ciò che non vede, i redattori fanno dire a Gesù: “Metti il dito nelle mie piaghe”. Pur mentendo poeticamente, avevano capito che non si poteva parlare di “puro spirito” (cosa che nessun ebreo, peraltro, avrebbe mai fatto per tutto l’oro del mondo).

In quell’uomo materia ed energia potevano tranquillamente coesistere anche dopo morto. Per dimostrare la fondatezza di tale asserzione, la Chiesa arrivò a escogitare il sacramento dell’eucaristia, in cui si consuma una sorta di pasto totemico simbolizzato. Si era trasformata l’idea di comunismo primordiale in qualcosa di assolutamente fantastico.

Come mai in noi materia ed energia sono disgiunte? Per quale motivo la Chiesa parla di “resurrezione dei corpi” solo al momento del cosiddetto “giudizio universale”? E come mai sentiamo il desiderio di una loro indissolubile unità? Noi non vorremmo morire mai. O meglio, vorremmo poter rivivere, dopo morti, con un corpo perfetto, privo di difetti, sempre giovane e forte.

Chi davvero desidera morire è perché è disperato. Ha una visione falsata della realtà, con cui p.es. s’immagina di poter ottenere un premio nell’aldilà. A meno che uno non desideri liberarsi di una sofferenza assolutamente insopportabile, o che comunque giudica tale. Non dobbiamo infatti dimenticare che per un altro la medesima sofferenza potrebbe essere giudicata “relativamente” sopportabile. La soglia della sofferenza varia da persona a persona. Variano anche le motivazioni con cui si giustifica la sofferenza. Siamo animali molto complessi.

In ogni caso è da ottusi non capire che la morte può anche essere vista come liberazione da un male incurabile o da sofferenze indicibili. Dire che non possiamo toglierci la vita perché ce l’ha data Dio, significa essere “ideologici”, cioè schematici. Uno deve essere padrone del proprio corpo, se vogliamo che eserciti una responsabilità personale. Dobbiamo smetterla di sentirci sotto tutela di qualcuno.

Il suicidio può essere visto anche come una forma di protesta. A dir il vero ci si può uccidere per tanti motivi: una delusione d’amore o un senso di abbandono, un tradimento subìto o una clamorosa sconfitta, un atto vergognoso che s’è compiuto… Non ci sono solo le malattie incurabili e le sofferenze indicibili.

Catone lo fece perché non tollerava il passaggio dalla Repubblica all’Impero; Jan Palach perché rifiutava la presenza dei sovietici a Praga; i monaci tibetani si bruciano perché non sopportano l’occupazione cinese… Kierkegaard volle far credere che il suo suicidio era stato una sorta di “omicidio” da parte della Chiesa di stato danese.

Oggi non pochi fanatici musulmani si fanno saltare in aria come forma di protesta contro l’Occidente. Non sanno che anche il capitalismo potrebbe comportarsi nella stessa maniera se si sentisse profondamente minacciato nella propria incolumità. Cosa si saranno detti i Romani quando a Masada videro che oltre novecento ebrei si erano suicidati pur di non essere schiavizzati? Abbiamo sentito parlare di suicidi di massa anche in talune sette religiose fanatiche, come segno di devozione (o di plagio?), da parte degli adepti, nei confronti dei loro leader.

Hitler l’ha fatto perché non voleva essere giudicato dalla storia: tanto coraggioso quanto vigliacco. È che quando il coraggio si esprime nelle forme della spietatezza, l’etica scompare. Il suicidio, in tal caso, appare come una forma di ingiustificata debolezza. Si capisce di più chi si uccide perché, posto sotto tortura, teme di tradire i compagni.

Tuttavia uno dovrebbe mettere alla prova se stesso. “Fin dove siamo in grado di resistere?” – questo dovremmo chiederci. Non si può aspirare all’eroismo senza dimostrare un minimo di coraggio. In fondo le sofferenze, oltre un certo limite, non possono andare: il corpo non le regge.

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Ma torniamo alla domanda di partenza: perché in Cristo materia ed energia non potevano restare separate? Nell’universo le stelle sono energia che si trasforma in materia, e questa, a sua volta, si ritrasforma in energia. Il processo può durare miliardi di anni, anche se prima o poi finirà, poiché tutto ciò che ha un inizio ha anche una fine, come disse il giudice G. Falcone in riferimento al destino della mafia (avrebbe però dovuto aggiungere che solo il popolo potrà eliminarla: certamente non lo Stato, di cui lui si sentiva un fedele servitore).

Con sicurezza possiamo dire che anche il nostro pianeta è destinato a finire, e non in concomitanza alla fine del Sole, ma molto prima. Anzi, se andiamo avanti con questa devastazione ambientale, il tempo che ci resta è davvero poco. Con le nostre capacità autodistruttive possiamo soltanto affrettarne il decesso.

La Terra è figlia del Sole: nell’Universo siamo tutti “figli delle stelle”, come diceva quella bella canzone di Alan Sorrenti. Ma se le stelle prima o poi esplodono o implodono, davvero noi umani siamo destinati all’eternità? Oppure dobbiamo soltanto accontentarci di vivere qualche miliardo di anni? Perché diciamo che l’universo è eterno e infinito quando al suo interno tutte le cose hanno, almeno all’apparenza, un tempo limitato? Più che le cose in sé, sembra essere eterno il processo rigenerativo, quello che le riproduce. Le cose muoiono, ma per rinascere in forme diverse. La dialettica hegeliana di tesi – antitesi – sintesi, con la sua negazione della negazione, pare davvero essere la legge dell’intero universo.

Forse i cosiddetti “buchi neri” sono in qualche modo responsabili di questa perenne trasfigurazione della materia, in cui nulla si crea e nulla si distrugge in maniera irreversibile. Esiste una sorta di “antimateria” che ci è del tutto ignota. Non ci è però ignoto il fatto che dentro di noi esiste qualcosa che sfugge a una nostra esaustiva comprensione: è la coscienza. La coscienza è qualcosa di così vasto e profondo che sembra essere il contenuto più adeguato dell’universo che la contiene.

Nella nostra coscienza vi è qualcosa di eterno e di infinito che fa sembrare gli esseri umani più grandi di qualsiasi altra cosa dell’universo. In un certo senso siamo o possiamo diventare l’autoconsapevolezza dell’universo. Sembriamo essere destinati a popolarlo in lungo e in largo. La Terra è come un banco di prova delle nostre possibilità. È una specie di esperimento in laboratorio per saggiare le nostre capacità umane e naturali. E finché non abbiamo imparato a comportarci in maniera degna, non possiamo pensare di meritarci l’universo.

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Sì, ma la domanda resta: perché nel Cristo materia ed energia coincidono perfettamente, mentre in noi non avviene? Se siamo stati creati “a immagine e somiglianza” della divinità, anche noi dovremmo avere questa straordinaria caratteristica.

Qui è difficile rispondere. Non riusciamo infatti a capire se questa dicotomia è avvenuta in un particolare momento della storia o se sia invece una nostra caratteristica naturale. Siamo un prodotto malriuscito della divinità, che potrebbe farci fuori in qualunque momento, come ai tempi di Noè; oppure, una volta creati, godiamo del privilegio dell’immortalità?

È indubbio che se noi siamo la copia di un modello originario, cioè il prodotto derivato di un prototipo ancestrale, non fatto da mano umana, qualcosa ci deve mancare, altrimenti non esisterebbe un “prima” e un “dopo”. Un qualche primato ontologico dovrà pur esserci nell’universo. Non siamo “divini” per “essenza” ma solo per “partecipazione”, diceva l’Aquinate. I figli che mettiamo al mondo sono un nostro prodotto, ma non sono copie identiche di noi, non foss’altro perché sono il risultato di un rapporto di coppia.

Se il Cristo è il modello originario dell’umanità, qualcosa di diverso deve averlo. E poi di quale umanità sarebbe il modello? Certamente non di quella femminile. Devono per forza esistere due modelli eterni, divisi per genere. Lo si intuisce in quel “facciamo l’uomo” (cioè l’essere umano bisessuato) nel racconto della creazione. In principio era il due, non l’uno solitario. C’è una relazione che fa l’identità: non c’è prima l’identità e poi la relazione, ma il contrario.

La differenza tra il modello e la copia non è però così grande da metterci in imbarazzo. Non esiste alcun dio che non abbia caratteristiche umane, per cui possiamo star tranquilli che nessuno ci leggerà mai nel pensiero, né sarà in grado di anticipare le nostre mosse o di prevedere le decisioni che prenderemo. Noi siamo destinati a esistere, che lo si voglia o no, ma nelle forme che riterremo opportune, e senza poter violare la libertà di coscienza degli altri. Non potrai fare lo schiavista se nessuno vorrà fare lo schiavo.

Il suicidio non sarà altro che una forma di disperazione, un non voler essere se stessi, umani e naturali. Ma avremo tutto il tempo per pentirci delle nostre colpe. E per essere perdonati. Il problema infatti non sarà soltanto quello di pentirsi del male che si è fatto, direttamente o indirettamente, ma anche quello di convincere chi l’ha subìto che il pentimento è sincero. E quando vi sono di mezzo le questioni sensibili della coscienza, tutto è maledettamente complicato. Dicono che il tempo sia la migliore medicina, ma occorre anche una certa disposizione d’animo.

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E con ciò non abbiamo affatto risposto alla domanda iniziale: se nel Cristo materia ed energia coincidono strettamente, dobbiamo considerarlo davvero umano? O era una specie di extraterrestre di cui ci sfugge la vera identità? Finché è rimasto vivo, nessuno ha potuto dubitare della sua umanità (evitiamo qui di considerare le amenità dei vangeli, i cui redattori mirano a presentare come reali cose assolutamente fantastiche).

Le falsificazioni e le mistificazioni su di lui sono subentrate subito dopo la sua morte. Certo, lo misconoscevano anche quando era vivo, ma nessuno pensava che fosse una divinità. La fantasia poetica a sfondo religioso subentrò solo dopo aver visto vuota la tomba, che poi tanto vuota non era, visto che trovarono la Sindone, il lenzuolo di lino che aveva avvolto frettolosamente il cadavere. Il fatto che fosse stata ripiegata e posta da una parte, escludeva l’ipotesi del trafugamento della salma. Fu così che cominciarono ad attribuirgli cose che non aveva mai detto e mai fatto. Ecco perché se la Sindone è vera, tutto il resto, nel Nuovo Testamento, è falso.

La stranezza tuttavia rimaneva. Se la sua morte era stata reale e nessuno aveva rubato il corpo, seppellendolo da qualche altra parte (magari per far credere ch’era risorto), come aveva fatto a scomparire? L’aveva fatto da solo o era stato aiutato da un’entità esterna? Per i credenti ciò è del tutto irrilevante. Invece noi pensiamo che l’ha fatto da solo proprio perché non esiste alcun dio che non sia umano. E questo dio è fatto di materia ed energia, legate indissolubilmente, altrimenti avrebbe potuto lasciare il suo corpo e andarsene con la sua anima.

Finché rimase in vita, il suo messaggio, nettamente travisato dai vangeli, era chiaro: liberare la Palestina dall’occupante romano e dalla classe sacerdotale corrotta e collusa col nemico. L’obiettivo finale era quello di tornare al comunismo primordiale, quello abbandonato col peccato originale.

Tuttavia in quella tomba diede un messaggio ulteriore, la cui importanza fu dai cristiani esagerata proprio per trascurare l’obiettivo politico: dopo la vita terrena ne esiste un’altra, extra o ultraterrena. La Terra è solo un ovulo fecondato, da cui dobbiamo uscire per popolare l’intero universo. E dobbiamo farlo secondo natura, conformemente alla nostra natura umana.

Avere eliminato la sua proposta di vita non è servito a nulla. Abbiamo soltanto aumentata, in intensità e durata, la nostra sofferenza. Il compito che abbiamo è rimasto sempre quello: come essere se stessi. Se avessimo seguito le sue direttive, ci saremmo risparmiati le sofferenze dello schiavismo, del servaggio feudale, del capitalismo e del socialismo statale.

Vorrà dire che dovremo imparare dai nostri errori. Lui ha soltanto voluto dimostrare che per essere se stessi occorre umanità sul piano etico e democrazia su quello politico. La Chiesa, che ha preteso di rappresentarlo, non ha realizzato né l’una né l’altra: non sa proprio che cosa siano, anche se la Chiesa ortodossa appare più umana e democratica di quella cattolica e di quella protestante.

Forse, con l’ingresso nel terzo millennio, si è aperta una nuova fase per l’umanità. Ci troviamo a vivere completamente atei, ma ancora non siamo capaci di vera democrazia. Non riusciamo a superare i rapporti antagonistici che ci affliggono quotidianamente. Non siamo capaci di rivoluzionare la società, di trasformare il sistema in un qualcosa di completamente diverso. La paura ci frena. L’illusione ci condiziona. Pensiamo sempre che chi ci comanda possa attenuare le sue pretese. O che le cose si possano risolvere da sole. Abbiamo trasformato la scienza in una nuova religione e facciamo dei nostri fondamenti politici ed economici (il diritto internazionale, la democrazia parlamentare e il libero mercato) degli idoli da adorare.

Siamo ancora molto immaturi, lontani dal Sapere aude kantiano. E quando dimostriamo coraggio, non siamo capaci di coerenza. “Non faccio quello che voglio ma quello che non voglio”, diceva san Paolo duemila anni fa. Facciamo le cose a metà. Il servo della gleba non era uno schiavo, ma non era neppure libero. L’operaio salariato è giuridicamente libero, ma è socialmente schiavo. L’Occidente è ricco, ma vive sulle spalle del Terzo mondo. Le cose sono sì paradossali – come è giusto che siano -, ma al negativo. Qualcosa va sempre storto e qualcuno ci rimette sempre.

Il falso benessere su cui poggia la nostra pseudo-democrazia è in attesa di uno sconquasso internazionale che ne riveli la vera natura. E noi non siamo capaci di innescare la miccia propositiva. “Non sono venuto a portare la pace ma il fuoco, e quanto vorrei fosse già acceso”, diceva Joshua nei vangeli.

Quand’anche fossimo capaci di accendere questo fuoco purificatore, sapremo poi impedire che si ricada nel male di sempre? Il problema, infatti, non sta solo nel saper porre le premesse della transizione, ma anche nel saperle gestire “dopo” averla avviata. Gli uomini sembrano non aver mai le idee chiare. Dopo aver fatto un passo avanti, con la rivoluzione d’Ottobre, ne hanno fatti due indietro con lo stalinismo industriale e il maoismo agricolo.

Sembra che tornare al comunismo primordiale sia diventata la cosa più difficile di questo mondo. Ci siamo complicati inutilmente la vita, e ora tutto quello che ci diciamo sul piano teorico, lo smentiamo puntualmente su quello pratico. Forse prima di dimostrare che sappiamo essere coerenti, dovremmo recarci in un deserto e stare a digiuno per quaranta giorni e quaranta notti.

Quattro cose fondamentali

Probabilmente tra mezzo millennio riusciremo ad avere quattro cose di fondamentale importanza per la nostra vita, le più importanti di tutte, di cui oggi abbiamo solo una consapevolezza teorica o poco concreta. Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, dice il proverbio. Ebbene su queste quattro cose ci passa in realtà un oceano.

Le abbiamo perse circa 6000 anni fa, all’inizio in maniera lenta, poi sempre più veloce e sempre più in profondità; prima in alcuni luoghi del pianeta, poi ovunque. Subito dopo averle perdute, ci s’illudeva di poterne fare a meno; si pensava che per supplire alla loro mancanza, fosse sufficiente ricordarsele, riviverle in forme diverse, accontentarsi di qualche artificiale surrogato.

Col tempo però, siccome la memoria, priva di esperienza reale, veniva alquanto affievolendosi, e ci si rendeva sempre più conto dell’inefficacia di quei surrogati, il desiderio di riaverle andò crescendo, anche perché senza quelle quattro cose, la vita diventava poco gestibile, poco vivibile.

A forza di combattere contro i gravi problemi causati da un’esistenza priva di quelle cose, si stava, molto lentamente ma progressivamente, recuperando una memoria perduta. Le difficoltà erano davvero grandi, e lo sono ancora oggi, poiché siamo abituati a vivere senza il fondamentale aiuto di quelle cose, per cui ci comportiamo in maniera molto strana, poco comprensibile. Ci rendiamo conto che qualcosa ci manca, ma non sappiamo bene come recuperarla, né dove andarla a cercare.

Queste quattro cose sono strettamente legate tra loro, tanto che, quando abbiamo iniziato a perderle, le abbiamo perse contemporaneamente. Questo per dire che non possono essere messe in ordine cronologico o d’importanza. Se quando si lotta per averne una, si trascurano le altre, non si ottiene nulla. Quindi o si lotta per averle tutte, o è inutile illudersi.

Dunque, eccole: la libertà di coscienza, la proprietà comune dei fondamentali mezzi produttivi, l’uguaglianza di genere tra uomo e donna e il primato delle esigenze riproduttive della natura su quelle produttive dell’uomo.

Chiunque è in grado di rendersi conto che oggi, sul piano pratico, siamo lontanissimi dall’aver realizzato questi obiettivi. Ecco perché è giusto ipotizzare dei tempi molto lunghi, anche in considerazione del fatto che il conseguimento di tali obiettivi dovrà comportare uno sconvolgimento radicale dell’attuale sistema sociale di vita, che non potrà avvenire in maniera indolore.

Sappiamo tuttavia con sicurezza che senza queste cose rischiamo l’autodistruzione e che con queste cose il genere umano è andato avanti per alcuni milioni di anni. È quindi relativamente da poco tempo che abbiamo deviato da un percorso standard ben collaudato. L’abbiamo fatto per colpa nostra: nessuno ci ha costretti. Di sicuro quindi nessuno potrà trarci fuori, se non noi stessi.

Su questo dobbiamo essere fiduciosi. Di fronte a noi abbiamo il compito di popolare l’intero universo e non possiamo certo farlo partendo col piede sbagliato.

Il futuro sta nella scienza o nella coscienza?

Sul nostro pianeta il genere umano dovrebbe sviluppare anzitutto la coscienza, e solo in secondo luogo la scienza. L’unica scienza che dovrebbe sviluppare è quella contestuale allo spazio-tempo che gli è appunto dato da vivere su questo pianeta: uno spazio-tempo determinato dalle condizioni di sussistenza della natura, basate su precise esigenze riproduttive.

Un qualunque sviluppo scientifico che non tenesse conto di queste esigenze sarebbe inutile o nocivo, anzitutto per la natura, ma poi anche per l’uomo. Infatti una scienza senza coscienza può far solo del male: nel migliore dei casi non serve a nulla. Noi non ci accorgiamo subito dei guasti che procuriamo alla natura né del male che facciamo a noi stessi semplicemente perché nel primo caso la natura ci appare sconfinata e nel secondo perché appunto scarichiamo su di essa tutti i nostri problemi.

Questa falsa percezione delle cose appartiene però solo ai paesi che vogliono “dominare” l’intero pianeta, i quali pensano che lo sfruttamento delle risorse naturali sia illimitato in profondità e in estensione e non si preoccupano affatto di quali conseguenze ciò possa avere sulla natura stessa, sui paesi sottomessi e persino su loro stessi: questo perché chi vive sfruttando le risorse altrui, pensa unicamente al suo interesse immediato.

I prodotti della scienza dipendono esclusivamente dalla ragione, ma se questa ragione è influenzata da interessi economici o politici o, peggio ancora, militari, non ci sarà neanche un suo risultato, grande o piccolo che sia, che servirà davvero a far progredire l’umanità. Ed è fuor di dubbio che la scienza affermatasi a partire dall’epoca moderna è altamente nociva, sotto tutti gli aspetti, sia per gli uomini che per la natura. Non perché sia scienza in sé, ma proprio perché non lo è, in quanto risponde a necessità o motivazioni che non sono naturali e quindi neppure scientifiche.

Infatti, in epoca moderna prevalgono nettamente le necessità di una determinata classe sociale, che si chiama “borghesia”, affermatasi in contrapposizione a un’altra classe sociale esistita nel Medioevo: l’aristocrazia. Là dove esistono società divise in classi sociali, un qualunque sviluppo scientifico fa gli interessi della classe dominante, che se ne serve per restare al potere.

Ogniqualvolta si gioisce per un risultato straordinario della scienza, si cade vittima di un’illusione, paragonabile a quelle che si alimentavano quando dominava la religione. Allora erano illusioni basate sulla fede, oggi sono basate sulla ragione. La scienza è la religione dell’uomo moderno: i miracoli si fanno con la matematica, la fisica, la tecnologia ecc. E che questi miracoli producano risultati opposti a quelli voluti o immaginati dipende appunto dal fatto che le motivazioni sottese al progresso scientifico sono viziate in partenza da interessi contrari alle esigenze umane e naturali.

In una situazione del genere andare avanti può soltanto voler dire “tornare indietro”. Noi, per poter davvero “progredire”, dobbiamo tornare a quel periodo della storia in cui gli esseri umani non avevano bisogno di alcuna illusione per vivere. E questo periodo può essere soltanto quello in cui non esistevano conflitti di ceti o di classi sociali, in cui non esisteva proprietà privata dei mezzi produttivi, in cui l’individuo si sentiva parte integrante di un collettivo, in cui la vita sociale era compatibile con quella naturale. Questo periodo gli storici lo chiamano, con molta supponenza, in quanto lo ritengono definitivamente superato, col nome di preistoria.

Siamo così prevenuti nei confronti di questo periodo che abbiamo sempre fatto di tutto per dimostrare che da esso bisognava necessariamente uscire, proprio perché per noi non esiste “progresso” e neppure, se vogliamo, la “storia” se anzitutto non si esce dalla preistoria.

Ecco, forse è giunto il momento di squarciare il nuovo velo che abbiamo messo nel nuovo tempio dedicato alla scienza, e dire: “Da quando siamo usciti dalla preistoria è iniziato il regresso dell’umanità”. L’unico modo per invertire la rotta è rinunciare a tutto quanto di scientifico e di tecnologico risulti dannoso per la natura, e puntare diritto verso lo sviluppo della coscienza umana.