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Lo studio delle civiltà (V)

Evoluzione e involuzione

Noi non possiamo attribuire il livello di progresso di una popolazione al grado di sviluppo tecnologico, di divisione del lavoro o ad altri fattori meramente materiali o economici, senza prendere in considerazione l’insieme delle condizioni sociali, culturali e politiche dell’intera popolazione. Non sono un indice sicuro di progresso i fattori cosiddetti “dominanti”, come p.es. il livello delle forze produttive, che si misura sulla capacità di riprodursi economicamente. È l’insieme della vita sociale che va preso in considerazione e non un suo singolo aspetto.

Non dobbiamo dimenticare che i guasti principali arrecati al nostro pianeta provengono esclusivamente dalle cosiddette “civiltà”, cioè da organizzazioni “avanzate” dell’economia, delle istituzioni, dell’apparato bellico… Bisogna quindi ripensare totalmente il significato della linea evolutiva che va dalle società tribali alle civiltà. Questo perché, a ben guardare, non c’è stata una vera e propria “evoluzione”, ma piuttosto un’involuzione da uno stadio di vita collettivistico a una serie di formazioni sociali individualistiche.

Se fossimo un minimo onesti con noi stessi, troveremmo alquanto difficile sostenere che gli uomini di oggi hanno una coscienza della loro umanità di molto superiore a quella che potevano avere gli uomini di mille, diecimila o un milione di anni fa. Non sono le circostanze esteriori, materiali o fenomeniche, che rendono più o meno grande tale consapevolezza, altrimenti si sarebbe costretti ad affermare che popolazioni prive di scienza e di tecnica evolute dovrebbero essere considerate dal punto di vista della consapevolezza umana, assolutamente primitive. Ma se anche solo guardassimo al modo in cui hanno vissuto il loro rapporto con la natura, dovremmo dire esattamente il contrario.

Come d’altra parte è assurdo sostenere che, solo per il fatto di non aver lasciato nulla di scritto, determinate popolazioni possono essere considerate umanamente sottosviluppate. Noi oggi siamo talmente condizionati dalla scienza e dalla tecnica che non siamo più capaci di stabilire dei parametri qualitativi con cui indicizzare e monitorare l’umanità dell’uomo, a prescindere dai mezzi tecnico-scientifici che impiega.

Per noi l’essere umano è anzitutto l’homo technologicus, oltre il quale esiste solo l’homo animalis, assolutamente primitivo, ferino, come – a partire dal mondo greco-romano – si presumeva fossero le popolazioni cosiddette “barbariche”, disprezzate anche nel modo di parlare. Facciamo molta fatica ad accettare l’idea, per molti versi incredibilmente banale, di un sano relativismo storico.

In realtà sarebbe sufficiente rinunciare a tutto ciò che contraddice le esigenze riproduttive della natura, per capire che la nostra attuale civiltà è lontanissima dal potersi definire “umana”. Infatti è soltanto la natura che può farci capire l’essenzialità della vita. E se c’è una cosa che non possiamo permetterci, anche se all’apparenza sembra non essere così, è proprio quella di essere contro-natura, cioè di usare scienza e tecnica etsi daretur non esse naturam.

Qui non è più questione di destra o sinistra, di capitalismo o socialismo; la stessa tutela ambientale rischia di diventare un mero surrogato, se non si pone il problema di come uscire da un concetto di “civiltà” in base del quale noi oggi intendiamo cose del tutto innaturali e quindi inumane.

Quando gli storici prendono in esame i seguenti venti punti, non hanno dubbi da quale parte stare, o comunque un docente sa già a quale risposta porteranno gli interrogativi che dovrà porre allo studente, nel mentre insieme useranno il libro di testo. Ma dare per scontata una risposta a questi temi significa fare un torto alla ricerca storica.

1. La scrittura di pochi singoli ha sostituito la trasmissione orale di un popolo (interessi particolari hanno prevalso su interessi generali);
2. la vita urbana ha subordinato a sé quella rurale;
3. il valore di scambio ha prevalso su quello d’uso;
4. il mercato ha rimpiazzato l’autoconsumo;
5. la specializzazione del lavoro ha sostituito la capacità di saper fare ogni cosa utile a sopravvivere;
6. il lavoro intellettuale è decisamente prevalso su quello manuale;
7. con la scienza e la tecnica si vuole “dominare” la natura o la parte più debole, meno acculturata dell’umanità;
8. all’uguaglianza dei sessi è seguita la dominanza del maschio;
9. la proprietà privata domina su quella sociale;
10. la stanzialità ha sostituito il nomadismo;
11. l’esigenza del superfluo ha prevalso sui bisogni fondamentali;
12. l’idea di progresso prevalente è stata usata soltanto in relazione alla materialità della vita, al benessere economico ed è stata portata avanti da pochi contro molti;
13. s’è fatto coincidere, in maniera automatica, il livello di produttività di un paese col benessere sociale della popolazione; indici quantitativi hanno prevalso su quelli qualitativi; l’economico ha prevalso non solo sull’ecologico ma anche sul sociale;
14. l’io prevale sul collettivo;
15. la democrazia delegata ha sostituito quella diretta;
16. le amministrazioni statali hanno paralizzato l’autogestione o l’autogoverno delle popolazioni, e in generale lo Stato domina la società civile; si è voluto far credere che una maggiore statalizzazione significasse automaticamente una maggiore socializzazione;
17. le nazioni hanno sostituito le comunità di villaggio; abbiamo posto dei confini per stare separati;
18. ci si arroga il diritto di imporre alle nazioni più deboli i propri criteri di vita: non c’è confronto alla pari, rispetto della diversità, ma imposizione di un modello;
19. tutti i valori affermati (siano essi laici o religiosi) servono solo per assicurare questo stato di cose, cioè anche se i valori sembrano umani e conformi a natura, nella pratica producono il contrario;
20. le armi che servivano per cacciare ora possono distruggere l’intero pianeta.

Lo studio delle civiltà (IV)

Barbaro e civile

Quando trattano la storia dell’impero romano, pagano o cristiano che sia, gli storici sono abituati a considerare le popolazioni cosiddette “barbariche” nemiche non solo di questa specifica civiltà, ma anche della civiltà qua talis. Non vedono mai le distruzioni e le devastazioni operate dai “barbari” come una forma di negazione delle contraddizioni antagonistiche della civiltà romana e quindi come un tentativo di ricostruzione della “civiltà” su basi nuove.

Noi sappiamo che le civiltà individualistiche (che potremmo definire anche come quelle dello “sfruttamento”) hanno fatto a pezzi quelle collettivistiche: quest’ultime oggi sopravvivono a stento in posti remoti della terra e, per definizione, non fanno la “storia”.

Noi ovviamente non possiamo sostenere che le popolazioni cosiddette “barbariche”, che distrussero il mondo romano, fossero caratterizzate da un collettivismo analogo a quello del comunismo primitivo. Però possiamo dire che vivevano una forma di collettivismo sufficiente a far fronte all’ondata individualistica della civiltà romana. Se questa forma pre-schiavistica non avesse avuto sufficiente forza, l’impero romano non sarebbe crollato o per lo meno non l’avrebbe fatto in maniera così rovinosa.

Probabilmente proprio il continuo contatto con l’individualismo dei romani aveva permesso ai “barbari” di porsi nei loro confronti in maniera non ingenua, li aveva cioè indotti a trovare delle strategie utili alla propria difesa. Cosa che non è avvenuta da parte degli africani nei confronti delle potenze occidentali o da parte degli indiani d’America nei confronti degli europei.

Solo che questo continuo contatto non solo ha permesso ai “barbari” di comprendere le astuzie dei romani, ma ha anche prodotto un condizionamento negativo: infatti, una volta penetrati nell’impero, i cosiddetti “barbari” si sono sostituiti all’individualismo romano, limitandosi a mitigarne le asprezze (vedi p.es. il passaggio dallo schiavismo al servaggio, in cui però la proprietà feudale resta una forma di individualismo, essendo contrapposta a quella comune di villaggio).

Gli storici sono abituati a vedere la “civiltà” come un qualcosa che si basa su elementi prevalentemente formali: p.es. il valore delle opere artistiche e architettoniche, le espressioni linguistiche e comunicative, i livelli economici e commerciali raggiunti ecc. Tutti questi aspetti, che pur sono “strutturali” ad ogni civiltà, vengono visti in maniera esteriore o convenzionale, in quanto non ci si preoccupa di verificare il tasso di “umanità” in essi contenuto.

Nell’esame storico di una civiltà gli storici dei nostri manuali non riescono neppure a capire che non si possono giustificare i rapporti antagonistici tra le classi, facendo leva sul fatto che anche tra le fila delle classi dirigenti vi possono essere soggetti che provano sentimenti umani o che sono capaci di gesti di umanità, ecc. Così facendo si fa un torto a milioni di persone che vivono in condizioni servili, da cui non possono sperare di uscire confidando nei buoni sentimenti di chi rappresenta l’oppressione.

Noi dobbiamo rinunciare alla pretesa di sentirci assolutamente superiori a qualunque altro tipo di civiltà, di ieri di oggi e di sempre. Non abbiamo il diritto di porre una seria ipoteca per il futuro, solo perché non sappiamo immaginare soluzioni alternative allo status quo.

È pedagogicamente un’indecenza non riuscire a trovare uno storico che accetti almeno come ipotesi l’idea di considerare più “civili” proprio quelle esperienze tribali prive di tecnologia avanzata, di urbanizzazione sviluppata, di mercati e imprese produttive ecc. Nei manuali che usiamo un’esperienza “tribale” non appare tanto più “civile” quanto più “umana”, ma solo quanto più è vicina al nostro modello di sviluppo. Infatti quanto più se ne allontana, tanto più diventa, ipso facto, “primitiva”. E per noi occidentali il concetto di “primitivo” non vuol soltanto dire “rozzo e incolto” in senso intellettuale, ma anche in senso morale: il primitivo è un essere con poca intelligenza e con scarsa profondità di sentimenti, quindi non molto diverso da una scimmia. Tale rappresentazione dei fatti è semplicemente ridicola.

Se mettessimo a confronto i livelli di istintività con cui si reagisce a determinate forme di condizionamento sociale e culturale, ci accorgeremmo che noi “individualisti” siamo molto più vicini al mondo animale di quanto non lo siano stati gli uomini primitivi, che ragionavano mettendo l’interesse del collettivo sempre al primo posto. Una reazione istintiva di fronte alle difficoltà è tipica di chi è abituato a vivere la vita sotto stress, in stato di continua tensione, ai limiti del panico, sentendo tutto il peso delle responsabilità sopra le proprie spalle, senza possibilità di avere significativi aiuti esterni.

Questo per dire che il crollo di una civiltà non andrebbe di per sé giudicato negativamente, poiché bisogna sempre vedere se da questo crollo è sorta (o può sorgere) una civiltà superiore, e se questa superiorità s’è manifestata solo sul piano meramente formale della tecnologia, della scienza, dell’arte, dell’economia, dell’organizzazione politica ecc., o non anche invece sul piano dell’esperienza dei valori umani, sociali, collettivi.

P.es. nel passaggio dal mondo romano al feudalesimo sicuramente vi è stata un’evoluzione positiva nel tasso di umanità degli individui, in quanto si riuscì a sostituire lo schiavismo col servaggio. Tuttavia questa forma specifica di evoluzione non può essere analogamente riscontrata nel passaggio dal feudalesimo al capitalismo, in quanto esigenze collettive rurali sono state qui distrutte da esigenze individualistiche urbane.

Negli ultimi settant’anni si è creduto possibile che l’individualismo urbano del capitalismo potesse essere sostituito con il collettivismo urbano del socialismo amministrato dall’alto, ma il fallimento di questo risultato è stato totale. Ciò a testimonianza dell’impossibilità di creare una civiltà autenticamente “umana” limitandosi a cambiarne alcune forme. Non si può costruire un socialismo umanistico limitandosi semplicemente a socializzare la proprietà e la gestione dei mezzi produttivi.

Altri aspetti, generalmente dati per scontati, vanno riconsiderati: p.es. il primato della città sulla campagna, dell’industria sull’agricoltura, del lavoro intellettuale su quello manuale, della cultura sulla natura, dell’uomo sulla donna, della scienza sulla coscienza ecc.

Lo studio delle civiltà (III)

Civiltà e inciviltà

È singolare che ogniqualvolta i manuali di storia cominciano a trattare l’argomento delle “civiltà” partano da quelle “mediterranee”, come se l’intero pianeta ruotasse attorno a questo mare. Ma è ancora più singolare che quando trattano delle società pre-schiavistiche, anteriori quindi alle suddette “civiltà”, usino sempre il termine dispregiativo di “primitive” per definirle. Il concetto di “primitivo” non viene inteso tanto nel senso di “primordiale” quanto piuttosto nel senso di “rozzo”, “barbaro”, “incivile”… Non indica un tempo storico ma una condizione dell’esistere.

Per come lo usiamo noi occidentali, esso non è mai neutro o tecnico, ma esprime un concetto di valore vero e proprio, che a sua volta rappresenta un inequivocabile stato di fatto: in tal senso non è molto diverso da quello di “feudale” o “medievale”. “Primitivo” non è anzitutto “colui che viene prima”, quanto piuttosto “colui che non è civile”, e per “civile” noi occidentali, normalmente, intendiamo le civiltà che conoscevano la scrittura, il progresso tecnico-scientifico, un’organizzazione politica di tipo monarchico o repubblicano, fondata sulla separazione delle classi, un apparato amministrativo e militare molto sviluppato, una netta divisione dei lavori e delle proprietà… in una parola tutte quelle che conoscevano e praticavano lo schiavismo. “Civile” per noi è Ulisse, che mente, ruba e uccide; “primitivo” invece è Polifemo, che pascola tranquillamente le proprie capre.

I manuali di storia non hanno neppure il termine di “civiltà primitive”, proprio perché lo considerano un controsenso. Una popolazione pre-schiavistica non ha dato origine ad alcuna “civiltà”, proprio perché non ne aveva gli strumenti, le possibilità. Non a caso tutte le popolazioni nomadi vengono definite “tribù primitive”, mentre le popolazioni sedentarie vengono messe a capo della nascita delle “civiltà”. Quando i nomadi sconfiggono i sedentari, allora gli storici dicono che si ha un regresso nello sviluppo sociale, politico, culturale ecc.

Da questo punto di vista sarebbe meglio usare il termine “primitivo” come sinonimo di “rozzo”, “incivile” ecc., in riferimento a qualunque atteggiamento, di ogni epoca e latitudine, che risulti nocivo o agli interessi delle masse popolari o alla natura nel suo complesso. Per il nostro modo di saccheggiare le risorse naturali o di sfruttare il lavoro altrui noi occidentali siamo molto più “primitivi” degli uomini vissuti milioni di anni fa.

Al posto di “primitivo” o di “selvaggio”, per indicare le popolazioni più antiche, noi dovremmo usare termini come “originario”, “primordiale” o “ancestrale”. Sono “prime” non “primitive” quelle popolazioni esistite prima di noi, agli albori della nascita dell’uomo in generale e non tanto delle civiltà in particolare. Per indicare una popolazione noi non dovremmo usare dei termini che di per sé esprimono già dei giudizi valutativi.

Le popolazioni potrebbero anche essere suddivise in “stanziali” (o “sedentarie”) e “nomadi” (o “itineranti”), in “agricole” e “allevatrici”, senza che per questo ci si debba sentire in diritto di esprimere giudizi di valore su questa o quella forma di conduzione sociale della vita. I confronti sono sempre relativi.

Una popolazione che usa la scrittura non può essere considerata, solo per questo, più “civile” di quella che si basava sulla trasmissione orale delle conoscenze. Quando i legami tribali sono molto forti, la tradizione orale è più che sufficiente. Per milioni di anni gli uomini non hanno conosciuto la scrittura, ma non per questo la storia si è fermata.

La trasmissione orale delle conoscenze e delle esperienze offriva un certo senso della storia, utile alla conservazione e riproduzione del genere umano e dei suoi valori, secondo leggi di natura, anche se questa trasmissione era infarcita di elementi mitologici, favolistici, che costituivano la cornice fantasiosa di un quadro sostanzialmente realistico.

Non ha senso definire “barbare” le popolazioni che non si riconoscevano nella civiltà greco-romana: lo schiavismo è nato nella polys e non tra i barbari, che anche quando l’hanno praticato, non sono mai arrivati ad adottarlo come “sistema di vita”. Diamo dunque un nome alle popolazioni sulla base della loro provenienza geografica o sulla base delle caratteristiche linguistiche o religiose, ma non usiamo una terminologia comparativa che a priori considera più avanzato solo quanto tradizionalmente ci appartiene: oggi peraltro non sappiamo neppure quanto sia tipicamente “nostro” e quanto no.

Ogni popolazione può avere aspetti di grandezza e di miseria, quindi forme di civiltà e di primitivismo. Le forme di civiltà sono il tentativo di superare il proprio primitivismo. E in questi tentativi si compiono passi avanti ma anche passi indietro, poiché questo andirivieni fa parte della natura umana. Non esiste un vero progresso all’infinito, ma solo il fatto che si compiono scelte diverse, che impongono diverse consapevolezze, diverse forme di responsabilità. Non dimentichiamo che i peggiori crimini contro l’umanità noi li abbiamo compiuti nel XX secolo.

Lo studio delle civiltà (II)

Coscienza e materia come pilastri della storia

Di regola i manuali di storia valutano il livello di civiltà di una determinata formazione sociale dal tasso di tecnologia applicato alle sue opere di edificazione. È molto difficile trovare uno storico che accetti l’idea che una civiltà avanzatissima sul piano tecnologico possa essere particolarmente arretrata sul piano dello sviluppo etico.

Eppure da tempo sappiamo che coscienza e materia sono due concetti che, pur dovendo coesistere, dispongono di una relativa e reciproca autonomia. Ci siamo serviti di questa verità lapalissiana anche per dimostrare che il marxismo, privilegiando la struttura economica, era finito in un cul-de-sac. Anzi, oggi dovremmo sostenere, guardando i fatti del nostro tempo, che un forte sviluppo della tecnologia raramente comporta un elevato sviluppo della coscienza.

L’essere umano, per restare “umano”, ha un bisogno relativo di tecnologia e un bisogno assoluto di coscienza. Sicché là dove le civiltà hanno puntato maggiormente l’attenzione sulla tecnologia, lì bisogna porre il dubbio riguardo al loro livello di autoconsapevolezza.

Le civiltà dotate di un certo livello di sviluppo tecnologico sembra – agli occhi degli storici – che abbiano lasciato all’umanità grandi conquiste storiche semplicemente perché la civiltà odierna (quella occidentale) punta allo stesso modo di quelle tutti i propri sforzi allo sviluppo della tecnologia. Leggiamo il passato così come noi leggiamo noi stessi e come vorremmo che il passato e il futuro leggessero noi.

In realtà queste civiltà tecnologiche (di ieri e di oggi) il più delle volte hanno assai poco da trasmettere alla coscienza degli uomini; sono civiltà malate di individualismo e socialmente pericolose, proprio perché a motivo della loro forza materiale, che è impiegata soprattutto per scopi militari, esse minacciano l’esistenza di altre civiltà e anche quella della natura.

Sarebbe interessante far capire ai ragazzi un possibile nesso tra “bullismo” e “civiltà”. Come comportarsi quando qualcuno vuole emergere sugli altri utilizzando modi illeciti? La storia sarebbe forse potuta andare diversamente se si fosse impedito a queste forme di “bullismo storico” di nuocere al di fuori dei propri confini geografici, ovvero di cercare oltre questi confini una soluzione alle proprie interne contraddizioni.

È infatti sintomatico che nonostante la loro vantata tecnologia, queste civiltà, basate sull’antagonismo sociale, riescono a sopravvivere solo a condizione di poter depredare le civiltà meno evolute sul piano tecnologico, saccheggiando altresì ogni risorsa naturale disponibile.

L’uomo è un ente di natura e sono anzitutto le leggi di natura che vanno rispettate. Queste leggi non prevedono un impiego massiccio della tecnologia, ma anzitutto il rispetto della coscienza e della libertà degli esseri umani.

Si dovrebbe considerare il fatto, nell’analisi storica delle civiltà, che quando la maggioranza della popolazione di una civiltà arriva ad accettare, o per convinzione o per rassegnazione, la modalità immorale o antidemocratica di gestione del potere politico, il destino della civiltà è praticamente segnato. Cioè non vi sono più possibilità di vero sviluppo.

La popolazione che vive in periferia tenderà a chiedere aiuto alle popolazioni limitrofe (come facevano i romani più indigenti nei confronti dei barbari), e saranno loro che porranno le basi (morali e di un diverso uso della tecnologia) del futuro sviluppo, e i criteri di questo sviluppo saranno sicuramente diversi da quelli precedenti.

Civiltà immorali e antidemocratiche tendono a distruggere i popoli confinanti, per spogliarli dei loro beni, ma tendono anche a creare delle contraddizioni sempre più acute al loro interno. La gestione del potere diventa molto difficoltosa, poiché tende a dominare l’egoismo delle classi e degli individui. Si perde la consapevolezza del bene comune.

Queste civiltà, anche se apparentemente sembrano molto forti, in realtà finiscono coll’autodistruggersi, poiché scatenano conflitti irriducibili non solo al loro esterno ma anche al loro interno. Sono civiltà che, se incontrano una qualche forma di resistenza, inevitabilmente si indeboliscono, proprio perché tutta la loro forza materiale, tecnologica, non è supportata da alcuna risorsa morale; senza peraltro considerare che il loro stesso sviluppo tecnologico può innescare dei meccanismi automatici che ad un certo punto sfuggono al controllo razionale degli uomini (oggi, in tal senso, è facile pensare a situazioni ove è presente il nucleare bellico, ma gli storici farebbero bene a mettere in relazione anche la desertificazione con la deforestazione praticata su vasta scala al tempo dello schiavismo).

È davvero così grave permettere che uno storico faccia politica quando sostiene che, poiché l’uomo è un ente di natura, se la sua tecnologia distrugge l’ambiente, sarà minacciata la sua stessa sopravvivenza come specie? La tecnologia non dovrebbe forse essere composta di materiali facilmente riciclabili dalla natura stessa? Non bisogna forse trovare un criterio umano di usabilità della tecnologia?

La tecnologia deve permettere uno sviluppo sostenibile, cioè equilibrato, delle società democratiche e una riproduzione garantita dei processi naturali. Non può essere usata la tecnologia per sfruttare il lavoro altrui, per saccheggiare risorse naturali, specie se queste non sono rinnovabili. Il criterio di usabilità della tecnologia deve essere, allo stesso tempo, quello dell’utilità sociale e quello della tutela ambientale. Questi due aspetti devono coesistere uno a fianco dell’altro.

Lo studio delle civiltà (I)

Premessa

Forse a questo punto si è capito che un manuale di storia dovrebbe essere impostato non solo come occasione per fare ricerche sul campo, ma anche come stimolo a capire che lo studio delle forme di civiltà è il terminus a quo e ad quem di ogni indagine storica. Oggetto particolare d’interesse dovrebbero essere le trasformazioni di una civiltà in un’altra.

La nostra stessa civiltà – che è quella borghese o capitalistica (anche se la borghesia la definisce con altri termini: p.es. “democratica”, “liberale”, “industriale” o addirittura “post-industriale”, “tecnologica”, “mediatica”, “terziaria”, sino a quelli più generici come “avanzata”, “complessa” ecc.) – andrebbe studiata in rapporto a ciò che l’ha preceduta e anche in rapporto a ciò che potrebbe superarla o sostituirla. In tal modo se ne capirebbero meglio i pregi e i difetti.

Invece gli storici fanno il processo inverso: considerano la nostra civiltà come il metro di paragone di tutte le altre, le quali inevitabilmente vengono viste in maniera distorta. È vero che lo storico non è un politico, ma è singolare che non riesca a vedere i limiti del nostro presente, né sia in grado di proporre alcuna soluzione di carattere generale per le sue gravi contraddizioni.

Nel 1966 uscì a Parigi il libro di J. Maquet, Les civilisations noires, in cui si faceva chiaramente capire che il termine “civiltà” andava usato sensu lato, come sinonimo di “cultura avanzata”, donde le nozioni di “civiltà neolitica”, “civiltà pastorale” ecc. Ebbene, nonostante sia passato un quarantennio, ancora oggi i manuali scolastici di storia usano il termine di “civiltà” per indicare tutto ciò che è “storico”, in contrapposizione alla “preistoria”. Il prefisso “pre” non sta semplicemente ad indicare una precedenza temporale, ma una limitatezza semantica.

Infatti, fa parte della “civilizzazione” quanto soprattutto ha contribuito, anche indirettamente, allo sviluppo della odierna “civiltà borghese”, unanimemente considerata dai redattori di questi manuali al vertice di tutte le civiltà.

D’altra parte anche molti storici stranieri delle civiltà la pensano così: p.es. R. McCormick Adams, The Evolution of Urban Society (Chicago 1966); C. Renfrew, The Emergence of Civilization (London 1972); K. V. Flannery, The Cultural Evolution of Civilization in “Annual Review of Ecology and Systematics” (n. 3/72); G. Daniel, The First Civilizations (London 1968); Ch. L. Redman, The Rise of Civilizations (San Francisco 1978). Tutti questi storici, chi più chi meno, collegano la civiltà alla società classista, cioè al sistema di stratificazione sociale dei ceti e delle classi, a una delimitazione precisa del territorio, a un’organizzazione statale sufficientemente sviluppata, alla divisione avanzata del lavoro ecc. E tutti ritengono la “nostra civiltà” la migliore in assoluto.

È così difficile accettare l’idea di considerare “relative” le civiltà? Cioè pensarle nei loro aspetti positivi e negativi, aventi in sé elementi di successo e di sconfitta? È strano che gli storici, abituati come sono a studiare l’evoluzione delle cose, non siano capaci di applicare il concetto di “relativismo” alla stessa civiltà in cui vivono.

Certo, nel momento in cui si è contemporanei a una determinata civiltà, si pensa inevitabilmente ch’essa sia la migliore o che debba durare il più a lungo possibile; tuttavia, è proprio lo studio della storia che dovrebbe risparmiarci queste pie illusioni.

Le civiltà nascono, si sviluppano e muoiono – e così sarà anche per la nostra. Ecco perché bisognerebbe cercare di porre sin da adesso le fondamenta della civiltà prossima a venire. Se gli uomini si sentissero parte della storia di un popolo, che vive attraverso varie civiltà, forse non attribuirebbero a se stessi delle qualità che non hanno e che non possono avere.

Le costanti nello studio della storia

Uno storico dovrebbe trovare delle costanti nelle vicende storiche mondiali, tali per cui una persona qualunque sia indotta a credere nella possibilità di una lettura obiettiva a prescindere dall’analisi dettagliata dei particolari della singola vicenda; o, se vogliamo, l’analisi delle vicende storiche dovrebbe poter servire, fatta salva l’individuazione delle costanti, come concreta dimostrazione paradigmatica della fondatezza di quest’ultime.

È possibile trasformare la storia in una sorta di “scienza esatta”? No, non è possibile, poiché qui si ha a che fare con gli esseri umani, che sono infinitamente più complicati di Deep Blue, il primo computer della storia a vincere una partita a scacchi contro il campione del mondo in carica. Tuttavia, se è possibile dimostrare che esistono delle costanti nello sviluppo degli avvenimenti di qualunque luogo e tempo, lo studio di questi avvenimenti può in un certo senso essere decontestualizzato, e finalmente si può affrontare uno studio della storia per concetti, dove la contestualizzazione serve solo per giustificare la diversità delle forme e dei modi.

L’idea in sostanza è quella di permettere che l’astrazione vada oltre la realtà contingente, affinché si possa avere una visione d’insieme, olistica, di un intero periodo storico o di una o più civiltà. In tal modo, aumentando il livello di astrazione, è possibile elaborare le linee di un’interpretazione della storia mondiale dell’uomo.

Per arrivare a definire le leggi scientifiche degli avvenimenti storici, cioè le costanti che si diversificano solo negli aspetti di forma e non di sostanza, occorre stabilire una visione sinottica o comparativistica delle civiltà ed estrapolare dalle vicende le linee di tendenza che nell’essenza si ripetono. Se arriviamo ad elaborare delle leggi scientifiche, oggettive, che tengano in considerazione non solo la categoria della necessitàma anche quella della libertà, che è tipica dell’essere umano, non ci sarà avvenimento storico che non potrà non essere adeguatamente interpretato.

È difficile però accettare l’idea che la scientificità possa basarsi sulla categoria della libertà. La mutevolezza delle scelte umane sembra escludere a priori un esame scientifico degli avvenimenti; eppure bisogna convincersi che la legge scientifica della corrispondenza tra azione e reazione si può in qualche modo applicare anche ai comportamenti umani. Il problema semmai è definire che cosa è “umano” e che cosa non lo è.

In una storia del genere le responsabilità dello svolgersi degli avvenimenti ricadono su intere popolazioni e non esclusivamente sui loro rappresentanti istituzionali o ufficiali. Il singolo rientra nel concetto di comunità. Questo non significa “una storia senza soggetto” (come voleva Althusser), ma semplicemente che la storia viene fatta non tanto da individui singoli, quanto dalle masse, con differenti livelli di responsabilità.

Il problema comunque è sempre quello di come uscire dal nozionismo e di come fare ricerca storica o, se si vuole, di come sfruttare la cognizione delle leggi storiche per fare opera di riflessione culturale e politica, utile per il presente. È fuor di dubbio infatti che lo studio olistico della storia ha senso solo se aiuta a vivere meglio il presente o a meglio comprenderlo.

Noi possiamo eliminare lo studio nozionistico dei dettagli di ogni singola civiltà, per concentrarci sulle costanti, sulle linee di fondo trasversali a tutte le civiltà, o meglio, a tutte le formazioni sociali, di cui le civiltà sono una, non l’unica, espressione (a meno che non si voglia intendere col concetto di “civiltà” una qualunque formazione sociale, anche primitiva o comunque non basata sullo schiavismo o sul servaggio: resta curioso infatti che tutti gli storici non usino il concetto di “civiltà” per descrivere l’uomo primitivo).

Possiamo insomma eliminare lo studio dei dettagli per concentrarci sullo studio dei fondamenti strategici di una civiltà, ma resta sempre il problema di come trasformare la conoscenza di questi fondamenti in uno stimolo per la crescita personale e per lo sviluppo della società in cui si vive.

Facciamo un esempio molto concreto. Con due semplici categorie: libertà di coscienza e proprietà (pubblica e privata) noi siamo in grado d’interpretare tutta la storia del genere umano. Le varie combinazioni di questi due elementi (ognuno dei quali è di una certa complessità), possono essere un’occasione ghiotta per gli storici che vogliono rinunciare alle forme tradizionali dell’interpretazione storiografica occidentale.

Praticamente le uniche condizioni metodologiche da rispettare, per affrontare un’indagine storica partendo soltanto da questi due elementi, sarebbero le seguenti:

1. non parteggiare per alcuna religione in particolare;
2. non avere pregiudizi nei confronti delle idee del socialismo;
3. tenere i due elementi in questione (libertà di coscienza e proprietà) sempre interconnessi, dando per scontata la loro reciproca influenza;
4. escludere a priori che all’aumento o al diminuire dell’uno corrisponda in maniera meccanica l’aumento o il diminuire dell’altro: ciò in quanto esiste fra loro una relativa autonomia;
5. escludere a priori che l’affermazione di uno dei due elementi porti automaticamente all’affermazione dell’altro: ciò in quanto ognuno dei due elementi, per poter essere affermato, presuppone determinati aspetti teorici e pratici, ovvero un certo percorso culturale e un certo impegno sociale e politico, entrambi sia in forma individuale che collettiva;
6. i due elementi (proprietà e libertà di coscienza) vanno collegati alla concezione che gli uomini hanno del loro rapporto con la natura. Cioè non è detto che la migliore realizzazione dei due elementi non possa risultare in contraddizione con le esigenze riproduttive della natura. L’effettiva compatibilità tra uomo e natura non può essere dimostrata solo dal punto di vista “umano”. Francesco d’Assisi, p.es., per diventare “uomo di natura” si sentì in dovere di diventare “nudo come Cristo nudo”.

Insomma ormai non è più importante sapere tutto di tutto. Se proprio ne abbiamo bisogno, possiamo usare i cd enciclopedici o il web. In una società o civiltà ove viene richiesta una particolare specializzazione per sopravvivere dignitosamente, la “tuttologia” è una scienza del tutto inutile. Semmai abbiamo bisogno di flessibilità, cioè di passare velocemente da una competenza all’altra, per poter svolgere mansioni diversificate, e a tale scopo la padronanza delle metodiche, delle strategie è di fondamentale importanza per acquisire nuove conoscenze e abilità.

Una storiografia olistica e planetaria (III)

La mondializzazione della storia

Il concetto di “storia olistica” è diventato tanto più importante quanto più è venuto imponendosi, in questi ultimi anni, quello di “storia mondiale”, a seguito della pressante globalizzazione dei mercati, cui ha fatto seguito, a livello scolastico nazionale, un massiccio flusso migratorio di studenti stranieri, provenienti da ogni parte del pianeta.

Forse alcuni di noi ricordano ancora le polemiche emerse dalla proposta che fece la Commissione De Mauro (2002) di voler introdurre l’insegnamento della storia mondiale, riprendendo i temi dibattuti in occasione del convegno di Oslo 2000 organizzato dal Comitato Internazionale delle Scienze storiche. Oggi, a fronte di una presenza straniera di studenti nella scuola del primo ciclo d’istruzione superiore al 10%, quelle polemiche come minimo apparirebbero pretestuose.

Eppure, nonostante questo, non si può certo dire che la globalizzazione abbia indotto gli storici e i pedagogisti nazionali a perorare con forza la causa di un affronto della storia con criteri sempre più globali, olistici e sostanzialmente per grandi categorie interpretative. Come al tempo della Commissione De Mauro “quasi tutti gli storici che hanno accesso ai mass media si schierarono contro quel curricolo, criticandone soprattutto l’impostazione mondiale, che a loro avviso tradiva la funzione primaria dell’insegnamento della storia, che doveva essere quella di far conoscere l’identità della propria civiltà, della nazione e della comunità civile alle quali si appartiene”, così, al tempo delle “Indicazioni nazionali” della Moratti i medesimi storici non ebbero nulla da dire sul marcato eurocentrismo giudaico-cristiano ch’esse esprimevano”. Così si esprime Luigi Cajani in una lunga intervista apparsa nel sito www.storiairreer.it, dal titolo Dalle storie alla storia e dalla storia alle storielle.

Il fatto di non riuscire a tener conto dei tempi che mutano è sintomatico di due gravi difetti, tipici del nostro paese: uno riguarda la società civile nel suo complesso ed è la miopia politica, che non ci fa vedere quanto tutti noi siamo immersi in processi di mondializzazione che rendono culture e civiltà tra loro alquanto relative; l’altro invece riguarda il mondo degli intellettuali, dei formatori in generale e della scuola in particolare, ed è la pigrizia mentale, che non ci aiuta, p.es., a riscrivere i manuali di storia usando impostazioni di metodo generale non etnocentriche, non caratterizzate da una netta prevalenza di primati nazionali, europei e occidentali in genere.

Se i nostri manuali di storia, in riferimento al tema di una storiografia mondializzata, fossero soltanto “lacunosi”, a motivo di una mancanza di conoscenze approfondite e didatticamente mediate, il gap sarebbe umanamente comprensibile, ancorché sempre meno culturalmente giustificabile. Il fatto è invece che detti manuali spesso associano la lacuna al “pregiudizio”, in quanto non si astengono dal giudicare negativamente quelle realtà il cui sviluppo non proviene direttamente dalla nostra civiltà tecno-scientifica e mercantile.

Non solo, ma i pregiudizi riferiti alle aree geografiche non occidentali o non europee, finiscono con l’estendersi a quelle stesse epoche dell’Europa non espressamente vocate alle attività dello scambio commerciale (il Medioevo, p.es., continua a restare “buio”; termini come “illetterato” e “barbaro” si possono tranquillamente interscambiare; il cacciatore-raccoglitore resta un “primitivo” e il nomade è sicuramente molto più indietro del sedentario).

Sicché persino di tutta la storia europea pre-moderna, gli storici dei manuali scolastici tendono a salvare in toto soltanto il periodo greco e soprattutto romano, in quanto – viene detto – incredibilmente somigliante al nostro, che è quello che va dalla scoperta dell’America ad oggi, cui – se si prende in esame la sola Italia – occorre aggiungere altri 500 anni, in relazione alla nascita dei Comuni borghesi.

È molto difficile pensare, in condizioni del genere, che possa emergere dagli autori dei manuali scolastici una lettura obiettiva, equilibrata, dei processi storici mondiali, i quali, in maniera sintomatica, vengono fatti iniziare soltanto a partire dal momento in cui l’homo sapiens (che “sapiens” era anche prima che noi lo chiamassimo così) ha fatto la sua comparsa sulla terra.

Finché si guarda il passato con gli occhi del presente, o il diverso da noi con quelli dell’imprenditore industriale o del commerciante affarista, sarà impossibile che gli studenti stranieri delle nostre classi possano trovare soddisfazione alle loro identità (prevalentemente di origine rurale) o possano anche soltanto vagamente capire i motivi non contingenti che li hanno indotti a trasferirsi da noi.

La visione della realtà oggi non può privilegiare alcun aspetto particolare: occorre un affronto “globale” delle cose, capace di “integrare” tutti i settori della vita sociale, culturale e politica, da considerarsi in maniera “paritetica”. “Storia globale” non vuol dire “sapere di tutto un po’“, cioè conoscere qualcosa anche di quelle realtà lontane da noi mille miglia, nello spazio e nel tempo. Significa in realtà dover pensare i processi come se appartenessero a uno svolgimento mondiale.

Oggi i processi sono mondiali perché esiste una “globalizzazione” imposta dall’occidente, che ha fatto diventare “capitalistica” la parte più significativa del pianeta. Ma erano mondiali anche al tempo dell’uomo cosiddetto “primitivo”, allorquando nei confronti della natura e dello stesso genere umano si sperimentavano esperienze di vita sostanzialmente analoghe, senza per questo che le varie tribù, etnie, popolazioni fossero tra loro in contatto.

Bisogna dunque stabilire quali sono stati i processi sviluppatisi a livello mondiale in modo spontaneo o indotto dalla forza degli eventi, quali hanno maggiormente contribuito alla mondializzazione della storia umana, alla consapevolezza di appartenere con dignità a un percorso comune, e quali invece hanno ostacolato questa forma di consapevolezza.

Se guardiamo lo schiavismo, non possiamo dire con sicurezza che questo fenomeno sociale, benché presente su latitudini e longitudini molto diverse tra loro, abbia riguardato l’intero pianeta. Probabilmente il servaggio, implicando meno guerre sanguinose tra le popolazioni per ottenere schiavi da sfruttare, ha potuto diffondersi più facilmente nel mondo.

Ma è stato incomparabilmente il lavoro salariato, creato dal capitalismo con l’avallo del cristianesimo, a diffondersi in maniera planetaria, subordinando a sé le altre forme di sfruttamento del lavoro. È impossibile fare “storia globale” senza sapere che la principale civiltà antagonistica della storia del genere umano è anche quella che impedisce alla stragrande maggioranza della popolazione di sentirsi parte attiva di un processo comune.

Una storiografia olistica e planetaria (II)

Storia e Tecnologia

Approfittiamo dell’occasione per aprire una piccola parentesi dedicata ai rapporti tra storia e tecnologia. Se ci facciamo caso, nei nostri manuali di storia quasi neppure esiste una “tecnologia medievale”. Una vera e propria “storia della tecnologia” nasce solo in epoca moderna, soprattutto a partire dal torchio per la stampa.

Se si vuole avere una conoscenza dello sviluppo storico della tecnologia bisogna andarsi a leggere i manuali di educazione tecnica, dove si viene p.es. a scoprire che nel Medioevo furono introdotte due innovazioni fondamentali per quella che diventerà la moderna meccanizzazione della filatura: la conocchia lunga e soprattutto la ruota per filare. Quando, intorno al 1770, furono inventate le prime macchine inglesi per filare: la “jenny” di Hargreaves, la “water frame” di Arkwright e la “mula” di Crompton, tutte imitavano i filatoi intermittenti e continui del Medioevo, moltiplicandone soltanto il numero dei fusi.

Il telaio orizzontale, di derivazione egizia, usato in Europa sino alla fine del Settecento, era già perfettamente funzionante nel Medioevo e soddisfaceva in pieno le esigenze di un’intera famiglia.

Eppure nei libri di storia la “modernità” non viene associata al fatto che il singolo tessitore era in grado di fare tutto ciò che gli serviva al telaio, ma viene associata al fatto che con l’invenzione del telaio meccanico si poteva ottenere molto di più in molto meno tempo, il che permetteva di arricchirsi facilmente vendendo i prodotti sul mercato: negli anni ’20 dell’Ottocento una bambina che controllava due telai meccanici poteva produrre fino a 15 volte di più di un abile artigiano casalingo.

Peccato che in questa analisi non si sottolinei mai con la giusta enfasi che l’unico soggetto veramente in grado di arricchirsi era non il lavoratore diretto ma il proprietario del mezzo di produzione.

E se si passa dai tessuti al legno il discorso non cambia. Stando ai manuali di storia medievale si ha un’impressione alquanto negativa sul modo di usare il legno da parte della civiltà che trattano: tutte le popolazioni infatti non facevano altro che tagliare e tagliare, costringendo poi la modernità a passare al carbone (quelle di origine “barbarica”, essendo prevalentemente nomadi, addirittura “tagliavano e bruciavano”).

Ora, se è vero che il legno nel Medioevo era la base di tutto (esattamente come oggi in buona parte della bioedilizia), è anche vero che nella produzione di mattoni, ceramica, vetro e nell’uso della pietra naturale si erano ereditate tradizioni antichissime, perfezionandole ulteriormente, al punto che non si aveva affatto bisogno di utilizzare materiali che non fossero naturali.

Acciaio, cemento armato, materie plastiche…: per millenni s’è andati avanti senza l’uso di queste false comodità e false sicurezze e soprattutto senza la necessità di dover far pagare interamente il loro prezzo alla natura.

Che poi non è neppure esatto dire che nell’antichità pre-industriale gli uomini non fossero capaci d’inventarsi materiali non naturali: quello che mancava era l’esigenza di farli diventare il perno attorno a cui far ruotare tutto il progresso (come oggi alcuni vorrebbero fare col nucleare in sostituzione del petrolio). L’acciaio, p.es., era già conosciuto dai fabbri ferrai della tribù armena dei Chalybi nel 1400 “avanti Cristo”.

Ma perché meravigliarsi di questo quando anche in tutti i manuali di storia dell’arte si associa l’idea di “modernità artistica” all’uso della prospettiva, facendo di quest’ultima un’invenzione della mentalità razionale dell’occidente borghese? È da tempo che si sa che la prospettiva geometrica era già conosciuta nel mondo bizantino, che però si rifiutava di adottarla come canone stilistico, in quanto riteneva spiritualmente più profonda la cosiddetta “prospettiva inversa”, con cui si mettevano in risalto le qualità interiori dei soggetti rappresentati.

Ma viene addirittura da sorridere quando i manuali medievali sono costretti ad ammettere che la bardatura moderna del cavallo, quella col collare rigido di spalla, in uso ancora oggi, non fu inventata nell’evoluto mondo greco-romano, che usava il cavallo più che altro nelle battaglie, ma nel Medioevo, che aveva bisogno d’usarlo come potenza di traino nei trasporti e nei lavori agricoli. Viene da sorridere, amaramente, perché, dicendo questo, evitano poi di aggiungere che tale progresso tecnico fu causato non semplicemente da un’esigenza astratta o generica di produttività ma proprio dalla trasformazione dello schiavo in servo (gli schiavi non avevano alcun interesse a migliorare la tecnologia che usavano, anzi gli stessi proprietari romani ne ostacolavano lo sviluppo, temendo ch’esso potesse abbassare il valore della forza-lavoro acquistata a caro prezzo sui mercati).

In ogni caso, se proprio si vuole considerare la meccanica o la metallurgia una scienza fondamentale per lo sviluppo dell’idea di “progresso”, ebbene si dica anche, contestualmente, ch’essa venne messa al servizio di esigenze tutt’altro che naturali, come p.es. le guerre di conquista. È forse un caso che l’idea di “imperialismo” trovò il suo compimento solo dopo che, intorno al 1850, era stata inventata la maggior parte delle macchine utensili moderne? Ed è forse un caso che si possa parlare soltanto di “colonialismo” almeno sino al 1770, periodo in cui le macchine per lavorare i metalli erano molto simili a quelle usate nel Medioevo?

Tutti i libri di storia, invece di chiedersi se nell’uso naturalissimo della forza umana (che tale è rimasto sino al 1800) non ci fossero elementi innaturali che si dovevano rimuovere senza per questo rinunciare a quella tipologia di lavoro (che al massimo si serviva dell’aiuto degli animali) – e questi elementi innaturali sappiamo benissimo ch’erano quelli dello sfruttamento indebito del lavoro altrui -, preferiscono sostenere la tesi della necessità di passare dalla forza muscolare e animale a quella meccanica e industriale, proprio perché in questo passaggio estrinseco, di forme esteriori, si è realizzato, sic et simpliciter, un progresso “qualitativo” nella condizione di vita dei lavoratori.

Gli stessi manuali di educazione tecnica, quando analizzano l’evoluzione della tecnologia nella storia, danno per scontata la medesima necessità, che è poi quella che ha portato alla odierna meccanizzazione; sicché la storia dello sviluppo della tecnologia che presentano, appare come dettata da una semplice esigenza di maggiore produttività o di maggiore comodità, oppure dall’esigenza di passare a fonti energetiche più convenienti, perché più facilmente reperibili.

Non viene mai collegato tale sviluppo con la necessità di trasformare i rapporti di sfruttamento del lavoro. Lo sviluppo della tecnologia viene evidenziato come un merito specifico dell’Europa occidentale, la quale, se anche in taluni casi, adottò scoperte, invenzioni, sistemi di lavorazione elaborati in oriente, fu comunque la prima a universalizzarli, implementando la produzione in serie di merci vendibili sul mercato.

È in questo senso incredibile che, pur essendo passati ormai due secoli dalle primissime analisi del socialismo utopistico, nei nostri manuali scolastici ancora non si riesca a connettere in maniera organica e strutturale le storie dei due sviluppi fondamentali della nostra epoca: quello tecnologico e quello capitalistico.

Una storiografia olistica e planetaria (I)

Oggi la storiografia è destinata a diventare planetaria, a interessarsi delle vicende di popolazioni mondiali. La stessa storia italiana ha molto più senso in una prospettiva che vede il nostro paese come parte dell’Occidente, componente del capitalismo avanzato, membro dell’Unione Europea.

Una storia dell’Italia fine a se stessa ha davvero poco senso. Tanto più che il nostro paese è da qualche tempo oggetto di forte immigrazione. Interessa poco agli stranieri che frequentano corsi di alfabetizzazione o di licenza media, le diatribe tra Cavour, Garibaldi e Mazzini, solo per fare un esempio.

Si è costretti a parlare di macro-problemi, come in geografia si è costretti a parlare di macro-aree (le singole regioni italiane si studiano solo alle Elementari). Mai come in questo momento è tornata di attualità la ripartizione schematica delle varie formazioni socio-economiche apparse nella storia dell’umanità, e cioè comunità primitiva, schiavismo, servaggio, capitalismo e socialismo.

Sulla base di queste categorie generali si può affrontare qualunque argomento di storia. Tutto il periodo delle civiltà antiche, mediterranee e non, può rientrare facilmente nella categoria economica dello schiavismo, per quanto vi sia stata una sua riproposizione in Africa e nelle Americhe dal XVI al XIX sec., a motivo del fatto che il razzismo culturale (in questo caso di matrice cattolico-protestante), tipico dei paesi euro-occidentali, può risorgere dalle ceneri come l’araba fenice, se non incontra resistenze di un certo spessore.

Anche questo comunque ci aiuta a capire che tutto va visto in maniera trasversale. Non più un prevalente ordine cronologico degli avvenimenti, ma un organico ordine tematico, in cui, pur senza tralasciare il dio Chronos, varie epoche e civiltà vengono messe costantemente a confronto, come gli esegeti fanno coi vangeli sinottici.

Lo stesso concetto di “nazione” diventa quanto mai obsoleto. I fenomeni migratori hanno spezzato i confini geografici stabiliti dalla borghesia sin al suo esordio come classe egemone. Il mondo è un villaggio globale, reso tale non solo virtualmente dagli scambi mediatici (di cui il web ne costituisce oggi la quintessenza), ma anche fisicamente dagli stessi flussi migratori, i quali, a loro volta, sono frutto della globalizzazione degli scambi commerciali del capitalismo mondiale, quegli scambi che portano progressiva ricchezza ai paesi tecnologicamente e militarmente avanzati, e progressiva miseria ai paesi del Terzo Mondo, salvo le eccezioni della cosiddetta “Cindia” (Cina+India), in cui gli enormi tassi di crescita dello sviluppo vengono fatti pagare da un lavoro massacrante il cui costo materiale, per il capitale investito, è incredibilmente irrisorio: il che provoca squilibri non solo sul versante dei diritti umani e civili ma anche su quello della perequazione socioeconomica, in quanto del cosiddetto “sviluppo a marce forzate” non si avvantaggiano certamente le popolazioni rurali o quelle poco qualificate.

Stiamo assistendo, su scala planetaria, a un fenomeno analogo a quello accaduto nel corso dello sviluppo dell’impero romano, allorché il concetto di “cittadinanza romana” doveva necessariamente estendersi a popolazioni che di “romano” o di “latino” non avevano nulla, ma che non per questo avrebbero potuto essere meno utili agli interessi di dominio e, a un certo punto, di mera sopravvivenza dell’impero.

La stessa rivoluzione tecnico-scientifica andrebbe studiata come una secante della storia socio-economica e non come un capitolo a parte, poiché in tutte le civiltà antagonistiche la scienza e la tecnica sono sempre state al servizio dei potentati economici (il profitto) e politico-militari (la guerra), e solo secondariamente o successivamente hanno riguardato il mondo del lavoro (il bisogno).

Nei manuali scolastici di storia non s’incontrano quasi mai rilievi critici sullo sviluppo della tecnologia, in grado di mettere in evidenza aspetti positivi e negativi (l’arretratezza tecnologica di un paese rispetto a un altro viene sempre vista negativamente, il che, anche alla luce della moderna ecologia, non ha alcun senso). Nei manuali che usiamo è rarissimo trovare una critica dei criteri o delle motivazioni sulla base delle quali è nata e si è sviluppata la moderna tecnologia. Questa viene considerata alla stregua di un totem da adorare. Non si mette mai in discussione (neppure quando si studia il passato) il rapporto di dominio tra uomo e natura mediato dallo strumento tecnologico: sarebbe come violare un tabù ancestrale.

Eppure abbiamo avuto e continuiamo ad avere esempi pericolosi per tutto il pianeta, disastri che si verificano lontano da noi ma che ad un certo punto ci coinvolgono come fossero successi sotto casa nostra: si pensi ai fatti di Cernobyl del 1986, ma anche agli sversamenti di petrolio nel mare, alla progressiva desertificazione dei terreni coltivati chimicamente o soggetti a deforestazione, alle piogge acide, ai devastanti test o incidenti nucleari, al buco dell’ozono.

Nonostante ciò tutti noi siamo convinti che la scienza e la tecnica siano in grado di risolvere i problemi che loro stesse contribuiscono a creare. Oggi non abbiamo dubbi nel credere che in occasione di conflitti bellici si possano tranquillamente bombardare intere città nella convinzione che la ricostruzione verrà fatta molto velocemente. Non si mette mai in discussione l’enorme spreco di risorse, anzi, si sostiene che tale spreco è un incentivo alla produzione e quindi al consumo.

Sul concetto di storia

Abbiamo parlato di come schematizzare astrattamente il significato degli eventi storici formulando delle categorie generalizzanti, sufficientemente chiare nella loro paradigmaticità e sufficientemente valide per la storia complessiva del genere umano, e, a titolo esemplificativo, abbiamo proposto una comparazione teorica tra due forme di civiltà: quella feudale e quella borghese.

Ora, se davvero vogliamo universalizzare il concetto di storia, cioè se vogliamo che nelle scuole e nella società s’impari a capire qual è la storia del genere umano, è necessario anzitutto eliminare i riferimenti privilegiati alle persone, in quanto i cosiddetti “protagonisti” della storia altro non sono che esponenti di un movimento di idee, culture o tradizioni.

La singola persona è parte di un tutto. Anche un leader politico non può essere considerato più importante della corrente di pensiero cui egli appartiene, anzi la sua importanza è direttamente proporzionale al grado di coinvolgimento personale in una causa per il bene comune.

È vero che a volte certe persone concentrano su di loro lo svolgimento di interi periodi storici, come se in un piccolo microcosmo umano fosse racchiusa l’essenza dello sviluppo di un macrocosmo storico. La storia però non ha conosciuto tante persone di questo genere, anche se quelle che ha conosciuto hanno lasciato indubbiamente un segno indelebile, tanto che può capitare, passato un certo periodo di tempo, in cui quelle persone erano state come dimenticate, un ritorno improvviso alle loro idee, dando ad esse nuove interpretazioni, che riprendono quelle precedenti aggiungendo particolari inediti e innescando così nuovi sviluppi. Si pensi solo alla riscoperta medievale dell’aristotelismo o del “Cristo povero” da parte dei movimenti pauperistici ereticali.

Questo probabilmente avviene perché l’essenza dell’uomo, in ultima istanza, è univoca: cambiano solo le forme, le circostanze, l’ambiente in cui essa deve muoversi. Dal confronto con modalità diverse nasce l’esigenza di riformulare le idee di un tempo.

Ma questo non ci esime dal compito di contestualizzare l’azione di queste singolari persone, né ci può indurre a credere ch’esse fossero per i loro contemporanei come piovute dal cielo. Ognuno di noi è rigorosamente figlio del proprio tempo ed è proprio per questa ragione che la storia va appresa per concetti generali, per categorie astratte di pensiero (politico, economico, sociale, culturale…), comprensibili da parte di chiunque, ovunque si trovi. Quanto più s’impone il senso di appartenenza globale al pianeta, cioè a una storia comune, tanto più occorre riscrivere il percorso di questa storia.

“Al centro di una storia che voglia essere ‘globale’ non sta più lo sviluppo delle singole civiltà, ma si pongono invece i loro rapporti, i loro incontri e scontri, i loro scambi, le trasformazioni che il contatto con altre civiltà induce in ognuna di esse”(1). È una prospettiva “relazionistica” non “sommativa”.

Sarebbe anzi molto interessante vedere come p.es. gli ideali di un qualunque leader rivoluzionario siano stati in realtà già formulati da parte di correnti di pensiero, movimenti di opinione di altre epoche e latitudini del tutto sconosciute a quel leader. Bisogna abituarsi all’idea di considerare l’essere umano come un soggetto universale, con bisogni e caratteristiche universali. Se un individuo si sente parte di un cosmo, di una realtà infinitamente più grande di lui, è più disposto a rinunciare al proprio personalismo.

La storia dunque va studiata in maniera trasversale. P.es., un concetto come la democrazia sociale, obiettivo di ogni vera politica, come si è sviluppato in questo o quel paese di qualsivoglia periodo storico? Nel Medioevo non si parlava di “democrazia”, ma saremmo degli sciocchi a sostenere che non ve n’era solo perché non se ne parlava (eppure tutti i manuali scolastici parlano di “secoli bui”, di grande arretratezza rispetto al mondo greco-romano ecc.). Nella Grecia classica si parlava di democrazia tutti i giorni, eppure nessuno ha mai messo in discussione l’istituto della schiavitù, neppure grandissimi filosofi come Platone e Aristotele.

Tempo e spazio diventano relativi, poiché vanno ricondotti al fatto che l’essere umano è unico in tutto il pianeta e che le differenze che ci caratterizzano sono soltanto di forma. Bisognerebbe stabilire sul piano concettuale una sorta di percorso evolutivo dell’umanità, che è passato per determinate fasi, comuni a molte civiltà: comunismo primitivo, schiavismo, servaggio, lavoro salariato, socialismo amministrato…, e cercare di vedere in che modo queste fasi sono state vissute da questo o quel paese, di questo o quel periodo.

Lo stesso concetto di “nazione”, che oggi consideriamo come “naturale”, diventerebbe molto circostanziato: meglio sarebbe parlare di “civiltà”, la cui cultura dominante è sufficientemente omogenea ma i cui confini geografici sono inevitabilmente meno definiti.

La storia non può essere studiata in maniera cronologica-lineare-sequenziale, partendo da un’arbitraria prevalenza concessa a questa o quella zona geografica o a questa o quella civiltà. È la storia del genere umano, della specie umana, che va studiata, secondo delle linee evolutive in qualche modo verificabili e dimostrabili, appunto perché costanti, ricorrenti.

Non lo sanno gli storici che la comparazione internazionale sprovincializza, rendendo meno angusti gli ambiti locali e nazionali, al punto che ci sente “cittadini del mondo”? O forse ritengono, ingenuamente, che i processi della globalizzazione non andranno mai a influenzare in maniera decisiva l’impostazione di fondo delle ricerche storiche condotte in occidente?

Nei prossimi decenni l’unica ricerca storica possibile sarà quella “comparativistica”, cioè quella che metterà a confronto, in maniera olistica, integrata, globale, soltanto i grandi eventi della storia, le grandi trasformazioni epocali, di breve e di lungo periodo, che hanno caratterizzato, in momenti diversi e con diversa gradazione e intensità, popolazioni geograficamente molto distanti tra loro. Tutta la periodizzazione storica cui noi occidentali siamo abituati, andrà abbondantemente riveduta e corretta.

Quanto più ci mondializziamo, tanto più dobbiamo rinunciare all’idea che esista un “centro” da usare come punto di riferimento per osservare la “periferia”. L’esigenza di una “storia mondiale” ci sta entrando in classe ogni giorno che passa e la vediamo nei volti dei nostri ragazzi immigrati.

La storia globale va vista come un gigantesco intreccio di fattori culturali, sociali, economici, politici, in cui la stessa nozione di civiltà, che fino ad oggi è stata usata non per unire ma per dividere, dovrà essere sostituita con quella di “macroaree geografiche tangibili”, come dice Olivella Sori, nella sua relazione al convegno “Global History” del 2004. La storia globale non è un’impossibile “storia del mondo”, che nessuno studente sarebbe mai in grado di apprendere, ma un nuovo approccio ermeneutico, una “reinterpretazione di storie particolari in prospettiva diversa”, sicuramente più sintetica, più per concetti generali che non per fatti particolari, in cui l’individuazione di una specifica identità non sarà il criterio con cui impostare preliminarmente la ricerca, ma una sorta di prodotto finale, conseguente appunto alla necessità di mettere a confronto eventi e processi di ogni tipo. Dovrà insomma essere il “tu” ad aiutare l’“io” a capire se stesso.

Non è un processo semplice, non è una metodica che si può acquisire in poco tempo. Facciamo un esempio delle difficoltà in atto. La fine del conflitto est-ovest, a partire dalla svolta gorbacioviana del 1985, seguita dal crollo del muro di Berlino quattro anni dopo, avrebbe dovuto indurre gli storici a rivedere i giudizi frettolosi, riduttivi, da sempre espressi nei confronti della cultura religiosa di tipo ortodosso dei paesi slavi ed ellenici, la cui importanza dovrebbe in teoria risultare centrale nei manuali scolastici di storia medievale e che invece viene sempre circoscritta in poche paginette.

Tutto purtroppo è rimasto come prima. I bizantini restano “cesaropapisti” e il loro Stato “fiscalmente esoso”, gli ortodossi restano “scismatici” e i loro teologi “cavillosi”. Ancora oggi appare del tutto normale intitolare il capitolo dedicato a Carlo Magno: “Il sacro romano impero”, senza fare cenno alcuno al fatto che un impero del genere esisteva già, ed era a Bisanzio, anzi a Costantinopoli, gestito dal legittimo basileus, secondo una discendenza che partiva da Costantino, sicché quello carolingio fu in realtà un abuso giuspolitico a tutti gli effetti, tanto che dovette essere legittimato da quel falso patentato, elaborato in qualche monastero benedettino, che passò alla storia col nome di Donazione di Costantino.

Una realtà millenaria come quella bizantina, che ha diffuso il cristianesimo presso tutte le popolazioni slave, e che mantenne in vita gli scambi commerciali e culturali tra paesi slavi, indo-cinesi e islamici, viene sempre liquidata in un unico capitolo dedicato a Giustiniano (482-565), come se dopo il tentativo, abortito, della renovatio imperii, un intero impero, al pari di Atlantide, fosse scomparso nel nulla, salvo ripescarlo, con poche righe, in occasione dell’iconoclastia, dello scisma del 1054 e della IV crociata.

(1) Pietro Rossi, Verso una storia globale, in “Rivista storica italiana”, CXIII, n. 3/2001

Che cosa s’intende per “metodo storiografico”?

Bisognerebbe cercare di capire il motivo per cui nell’ambito delle civiltà ogni azione compiuta per un fine di bene, che prevalentemente è quello di superare i limiti dell’antagonismo sociale, finisce spesso coll’ottenere l’effetto contrario a quello voluto, creando nuove forme d’antagonismo. Bisognerebbe cioè cercare di capire se nel momento in cui si decide di porre in atto tali azioni non vi sia un elemento imprescindibile di cui bisogna tener conto sul piano metodologico, onde evitare spiacevoli conseguenze.

Infatti, considerando ch’esiste uno sviluppo storico del genere umano e che quindi, inevitabilmente, le varie azioni positive sono sempre caratterizzate da contenuti culturali assai diversi, sarebbe importante poter trovare un qualche elemento connettivo ad esse trasversale, in grado di tenerle unite almeno negli aspetti essenziali. Questo elemento non può essere trovato che sul terreno del metodo.

Si tratta di stabilire, sul piano storiografico, un criterio metodologico sufficientemente scientifico, in grado d’interpretare obiettivamente le azioni positive compiute dagli uomini, individuando, di esse, il fondamentale punto debole, in forza del quale ad un certo punto s’è determinata una tale situazione contraddittoria da rendere inevitabile nuove istanze di mutamento. Si tratta in particolare di capire quanto queste contraddizioni facevano parte del naturale processo evolutivo del genere umano o quanto invece costituivano un freno a tale processo, rendendo necessarie soluzioni inedite se non addirittura rivoluzionarie. In altre parole, gli uomini davvero ebbero bisogno della ribellione prometeica per ottenere il fuoco, o dobbiamo pensare che ci sarebbero arrivati lo stesso?

Sul piano del metodo operativo il punctum dolens è sempre un’eccessiva concessione fatta agli interessi individualistici dell’antagonismo, che ovviamente vengono difesi dai detentori del potere politico o economico o da coloro che vogliono acquisirlo, senza tener conto del bene comune.

Lo studio della storia, in tal senso, non dovrebbe essere basato su fatti già interpretati (come generalmente avviene nei manuali scolastici), cioè sulle decisioni prese dagli uomini e sulle conseguenze ch’esse hanno determinato, ma dovrebbe essere basato sui problemi in gioco, sugli interessi che hanno stimolato, sulle diverse istanze e proposte risolutive. Uno storico, nel momento della disamina dei fatti (o delle fonti che li illustrano), dovrebbe sempre porsi il seguente interrogativo: “prendendo questa decisione in questa maniera sono stati prodotti determinati risultati, ma se la stessa decisione fosse stata presa in altra maniera o se si fosse addirittura presa un’altra decisione, si sarebbero comunque ottenuti gli stessi risultati oppure avremmo avuto risultati opposti o comunque diversi?”.

Lo storico deve abituare il lettore (o, se insegnante, l’allievo) non tanto a sentirsi un intellettuale curioso che legge le vicende storiche come fossero un romanzo, quanto piuttosto a sentirsi un cittadino attivo, che, guardando il passato, si sente in dovere di prendere delle decisioni per il presente. Lo storico deve abituare il lettore ad acquisire un metodo non solo per interpretare il passato, ma anche per intervenire sul presente.

Ecco perché più che di “nozioni” storiche è preferibile parlare di “competenze” storiche. Le competenze sono quel complesso di formule o di regole ermeneutiche che permettono d’interpretare i fatti nella loro complessità, riconducendoli a una fondamentale essenzialità. Non è importante “sapere molto”, è importante sapere bene le cose importanti. Sembra una tautologia, ma decifrare esattamente i termini di questa tautologia richiede una notevole competenza.

Qui infatti non si tratta semplicemente d’individuare i “momenti forti” di un determinato percorso storico (di carattere locale, nazionale o mondiale), quanto piuttosto di stabilire un criterio obiettivo con cui poter interpretare qualunque evento, anche quello meno significativo. E la difficoltà principale sta proprio nel fatto che, avendo lo storico a che fare con gli esseri umani, il criterio non può essere “scientifico” in maniera astratta. La storia non è la matematica, anche perché persino la matematica ha una propria “storia”, i cui processi evolutivi non sono stati affatto così univoci. Nella storia anzi vi sono state molte “matematiche”, dove assai differenti erano i modi per fare operazioni di calcolo.

Dobbiamo, è vero, trovare delle formule rigorose per interpretare la storia, ma nella consapevolezza che l’oggetto da trattare è quanto mai sfuggente e ambiguo. Sarebbe assurdo pensare di poter interpretare i processi storici usando soltanto la categoria della necessità, anche se, non per averlo fatto in maniera preponderante, dobbiamo squalificare in toto sistemi filosofici come l’idealismo hegeliano e il materialismo storico-dialettico.

La storiografia (di destra o di sinistra non fa differenza) tende ad opporsi ai “se” e ai “ma”, preferendo di regola un approccio deterministico, in cui ad ogni azione corrisponde una sorta di reazione uguale e contraria.

Tuttavia tale approccio, se può dare sicurezze sul piano psicologico e intellettuale, non è di alcuna utilità su quello pedagogico e propriamente cognitivo. Chi studia storia deve essere messo in grado di capire come le cose sarebbero potute andare se si fossero rispettati determinati requisiti. Cioè chi studia storia deve poter essere allenato a capire che le cose sarebbero potute andare diversamente se si fosse agito diversamente. Tale allenamento va considerato come una sorta di incentivo pedagogico (e a scuola dovrebbe far parte della didattica di qualunque disciplina) utile per il presente, proprio per non prendere le cose con fatalismo e rassegnazione.

Dunque, oltre la categoria della necessità, bisogna acquisire quella della possibilità, che è poi quella che ci permette di capire quali potevano essere le opzioni da scegliere. La necessità subentra dopo che si son prese delle decisioni, ma il momento della discussione preliminare, della trattativa, del confronto delle idee, della mediazione tra interessi opposti o contrastanti, risulta per certi versi più importante delle decisioni stesse, poiché è lì che si può misurare il tasso di democrazia di una società, di una civiltà: è proprio lì infatti che si vanno a cercare compromessi vantaggiosi per tutte le parti in causa, oppure si cerca di far prevalere con la forza un’opzione sulle altre.

Chiarito questo, si può passare ad affrontare il secondo problema: quello della lettura delle fonti, la cui complessità spesso è davvero disarmante. Gli storici infatti, pur con tutti i loro faticosi lavori di ricerca, non sempre sortiscono gli effetti sperati. Il motivo di questo sta nel fatto che le fonti a nostra disposizione sono in genere piuttosto tendenziose, in quanto elaborate da quei ceti sociali espressione degli interessi prevalenti, delle decisioni dominanti. Tutta la storia scritta rischia di apparire come una gigantesca storia di documenti parziali se non addirittura inaffidabili ai fini della verità storica, proprio perché i ceti dominanti non hanno dato possibilità alle minoranze di esprimersi adeguatamente in piena libertà. La stragrande maggioranza degli abitanti del nostro pianeta, di ieri e di oggi, anche quando mostra d’aver precise istanze da far valere, non è mai stata in grado di produrre alcuna fonte.

Gli stessi storici, influenzati dalla loro cultura o ideologia, anche quando hanno a che fare con una serie di fonti dai contenuti opposti, spesso tendono a privilegiare le une sulle altre. Cioè anche quando hanno la fortuna di sentire due o più campane, preferiscono ascoltarne soltanto una, determinando così una reazione a catena nell’ambito della loro categoria, al punto che i manuali scolastici di storia altro non sono che una riedizione a mo’ di Bignami dei grandi manuali classici in uso nel mondo universitario.

Oggi è pacifico, in ambito storiografico, che col concetto di “fonte storica” non si debba intendere soltanto un trattato ufficiale, un documento governativo, una legge statale, ma anche cose molto più semplici, come p.es. un registro parrocchiale (utilissimo per individuare le strategie matrimoniali), le lettere, i diari personali, persino gli oggetti di uso quotidiano. Per raffigurarsi una “storia globale” tutto diventa “fonte”. Come dice Riccardo Neri, Il mestiere dello storico (Rcs, Milano 2004), “oggetto della ricerca storica è sempre più spesso divenuto il fenomeno e non l’evento, e l’histoire événementielle ha perso rilievo a favore di una visione storica più attenta al quadro d’insieme”.

Questo modo di procedere ha permesso di produrre a scuola un impatto emotivo forte sugli adolescenti. Quando si dice loro: “Non buttate via niente di quello che fate, perché farà piacere ai vostri figli mettere a confronto la loro storia con la vostra, e farà piacere anche a voi stessi, quando da grandi andrete a rivedere com’eravate da adolescenti”, forse per un momento riescono anche a capire che non è il caso di fare le cose solo per prendere un voto o solo perché qualcuno le chiede.

Le cose infatti è importante farle per conservare una memoria di sé, da poter trasmettere ad altri. In fondo è bello abituarsi all’idea che ogni cosa che si fa può rientrare nella categoria storica del fenomeno, che – come dice sempre il Neri – non riguarda il “breve periodo”, come l’evento, ma un periodo così lungo che può coprire decenni, secoli o anche millenni.

Non è forse entusiasmante l’idea di sapere che il fenomeno, all’interno del quale noi siamo protagonisti e che in virtù del quale si fa la “storia”, è un processo molto terreno, molto prosaico, caratterizzato da tradizioni popolari da noi assimilate spesso inconsciamente? La storia non è più, come fino a ieri, soltanto la storia delle classi sociali superiori, ma è la storia del popolo, per la cui conoscenza vanno considerate “fonti” anche la semplice filastrocca, la fiaba, il proverbio, la festa, gli usi e i costumi più antichi, la parlata dialettale…

Se ci abituiamo a considerare la gente comune come soggetto attivo di storia e non come oggetto passivo di storie altrui, ci diventerà facile prestare attenzione alle condizioni di vita delle diverse classi sociali, alle fondamentali differenze di genere, alle cosiddette “civiltà altre”, cioè a tutte quelle civiltà non europee, non occidentali, da sempre condannate al silenzio.

Ma può davvero la scuola insegnare la storia se essa stessa non riesce a tenere un archivio delle proprie realizzazioni? La scuola ha forse una memoria storica del proprio sapere, a disposizione di chiunque voglia consultarla? Perché quando entra in una classe, il docente ha sempre l’impressione di dover iniziare le cose da capo, come se nel suo istituto non ci sia alcun pregresso cui poter attingere? Perché dobbiamo sempre sentirci così soli quando già decine, centinaia di colleghi hanno fatto prima di noi un cammino didattico e culturale?

Didattica della storia (VI)

6. Saper declinare

Se nella storia di un giovane non vi sono elementi almeno sufficienti per poter comprendere le vicende del mondo degli adulti, la storia, né come disciplina a se stante, né come background trasversale a tutte le aree di sapere, può essere insegnata. Qui parliamo di “elementi almeno sufficienti”, dando per scontato che la storia degli adulti, proprio a motivo delle ambiguità di cui essi sono capaci, sfugge, nella sua complessità, a una comprensione adeguata da parte del giovane.

Un educatore dovrebbe comunque preferire sempre a una ripetizione meccanica di contenuti prestabiliti e spesso complicati, un confronto dialettico su contenuti più semplici. Il giovane in fondo non deve fare altro che abituarsi all’idea di poter esercitare la libertà di scelta per rendere la vita più umana. E deve essere messo in grado di capire dove nella storia si è più esercitata questa facoltà e quali ne sono state le conseguenze.

Compito dell’educatore, proprio perché qui si ha a che fare con dei “giovani”, è quello di mediare la comprensione delle azioni degli uomini col vissuto e con le capacità interpretative del giovane. Quindi si tratta d’impostare una forma di didattica i cui contenuti devono emergere da continue domande di senso, in cui gli aspetti psico-pedagogici della relazione giovane-adulto risultano, ai fini della motivazione iniziale e della rimotivazione in itinere, di fondamentale importanza. Per non parlare del fatto che sono proprio questi aspetti che aiutano l’educatore a declinare anche il contenuto in sé della disciplina.

Se un giovane comprendesse adeguatamente tutta la doppiezza o l’ambiguità di cui un adulto è capace (nel senso che spesso l’adulto fa esattamente il contrario di ciò che dice), diremmo che siamo di fronte a un’anomalia. In fondo a noi i giovani piacciono proprio per la loro carica idealistica, per l’aspettativa che hanno di vedere realizzata l’unità di teoria e prassi, di metodo e contenuto.

Tuttavia un giovane può essere aiutato a capire che nella storia sono stati fatti tentativi per rendere la vita più coerente con gli ideali professati. In via di principio potremmo sostenere che quanto più una formazione sociale tende ad allontanarsi dalla naturalità dei rapporti umani o, se si preferisce, dall’umanità dei rapporti naturali, tanto più essa cerca di giustificare se stessa con l’inganno, la propaganda, la demagogia, le guerre ecc.

Con ciò però non si vuole sostenere che quanto più ci si allontana dalla primitiva innocenza dell’umanità, tanto meno si sarà in grado di recuperarla; certo, questo recupero sta diventando sempre più difficile, ma non possiamo sostenere che l’odierna civiltà ha meno possibilità di farlo rispetto a quella medievale o schiavile, altrimenti le attuali generazioni si sentiranno senza speranza. Anzi, dovremmo dire il contrario, e cioè che quanto più ci si allontana da quella innocenza primordiale, tanto più se ne avverte la mancanza e si è disposti a lottare per riaverla, nella consapevolezza di non poterne fare a meno.

Ma qui s’è già introdotto un elemento interpretativo decisivo che sbagliamo a dare per scontato. Fino a che punto un educatore è disposto ad accettare il postulato che l’epoca del comunismo primitivo sia stata quella più umana e democratica? Accettare una cosa del genere, quando si deve impostare un lavoro collegiale tra adulti, è la cosa più difficile in assoluto, poiché lo stesso educatore è soggetto a condizionamenti culturali da parte dei mezzi di comunicazione della società in cui vive (ivi inclusi gli stessi libri di testo).

Senonché questo è per noi un presupposto irrinunciabile, che riguarda l’interpretazione generale da dare alla storia. Gli educatori, prima di impostare un qualunque lavoro didattico collegiale, sarebbe bene che partissero da questo terminus a quo, chiarendosi reciprocamente le idee su che tipo di lettura fanno della storia.

In sintesi

Dunque che tipo di approccio didattico possiamo immaginare quando c’è di mezzo una disciplina complicata come la “storia”? Proviamo a delinearlo sinteticamente in cinque punti:

1. partiamo dall’esperienza del giovane, chiarendogli l’importanza di avere un pregresso oggettivo da cui in alcun modo egli può prescindere (relazioni parentali, sociali, ambientali…), e che costituisce la memoria storica, di lui e di chi gli sta accanto, il suo “esserci”;

2. formuliamo domande di senso per mostrare al giovane l’uso ch’egli può fare della libertà di scelta, ovviamente in contesti determinati, da esemplificare nello spazio e nel tempo;

3. ipotizziamo i possibili, diversi, percorsi della sua libertà e le possibili, diverse, conseguenze relative alle scelte che vengono prese e che si potevano prendere;

4. trasferiamo questa dinamica psico-pedagogica alla comprensione dei fatti storici, facendo emergere una possibile interpretazione di tali fatti e soprattutto dei processi storici, usando una tecnica modulare, a difficoltà crescente, adeguandola alla capacità di comprensione e di rielaborazione dell’alunno;

5. basiamo l’interpretazione su una precomprensione relativa alla formazione e allo sviluppo delle cinque fondamentali tappe storiche: comunità primitiva, schiavismo, servaggio, capitalismo e socialismo, di cui la prima viene ritenuta come quella più umana e democratica, essendo l’unica non soggetta a conflitti di classe e a rapporti di sfruttamento uomo-natura (tale precomprensione non necessariamente deve essere esplicitata sin dall’inizio del lavoro didattico; può essere anche una conclusione ottenuta a fine lavoro).

Didattica della storia (V)

5. La questione del come

Compito di un qualunque formatore è quello di far capire al giovane come può contribuire, nel suo piccolo, alla modificazione della realtà in cui vive. Quindi il lavoro da fare è anzitutto di tipo psicopedagogico: comprendere il giovane nei suoi bisogni, nelle sue capacità e attitudini, nella sua realtà pregressa, individuando gli aspetti su cui far leva per suscitare la motivazione.

I docenti sanno bene che questo, a scuola, è il compito più difficile: non solo perché l’università non è stata, fino a ieri, in grado di abilitarli didatticamente all’insegnamento (a ciò s’è cercato di rimediare con l’istituzione della SSIS, rimessa in discussione dall’attuale ministra Gelmini), ma anche perché spesso hanno la percezione di essere considerati dalla pubblica opinione come semplici impiegati statali, cioè rappresentanti di uno Stato che non sa dimostrare di credere davvero nell’importanza della formazione.

A scuola non esiste quasi nulla che predisponga ad una vera azione educativa e formativa. Lo impedisce la rigidità dei criteri fondamentali su cui si regge tutta l’organizzazione scolastica, che, in tal senso, non è molto diversa da una di tipo carcerario o militare: la classe ben definita nei suoi componenti, l’orario rigidissimo, il burocratico registro, le scadenze improrogabili, gli ansiosi voti, i pedanti programmi ministeriali, i libri di testo supponenti, ecc. L’odierna scuola è esattamente l’opposto di ciò che aveva preventivato un qualunque pedagogista classico, quando poi non si ha a che fare con le ben note esperienze di bullismo, di assenteismo, di dequalificazione degli studi, di promozioni assicurate ecc.

Nonostante questo noi dobbiamo comunque realizzare un’attività didattica che ci dia soddisfazione e che permetta ai giovani di avere fiducia nelle loro risorse. Lo studio della storia ha senso soltanto se serve per fare questo tipo di lavoro, così come devono servire la geografia, la lingua italiana e tutte le altre discipline.

A noi interessa far crescere il giovane secondo caratteristiche umane e democratiche, in cui la conoscenza dei contenuti delle varie aree di sapere appaia soltanto come l’aspetto “intellettuale” di una crescita a tutto tondo.

Attenzione in tal senso a non confondere “intellettuale” con “culturale”. La “cultura” è un complesso di cose che va ben oltre la semplice conoscenza dei contenuti: la cultura è esperienza condivisa, basata su valori sociali comuni, tradizioni usi e costumi trasmessi a livello generazionale, linguaggi e credenze popolari che appartengono a una collettività storica, è anche “resistenza” a un colonialismo ideologico che passa attraverso i media dominanti. Tutto ciò oggi esiste sempre meno.

Forse, prima di fare un qualunque lavoro storiografico, bisognerebbe chiarire entro quali confini ci si potrà muovere, i limiti epistemologici entro cui le nostre definizioni troveranno il loro senso; quei limiti che sono appunto determinati dalla società borghese, dalla civiltà occidentale, dal sistema capitalistico ecc. Noi infatti possiamo soltanto ipotizzare una società, una civiltà, un sistema diversi da quelli in cui viviamo, ma non possiamo certo prescindere dal nostro presente, dall’hic et nunc.

Volendo, si può anche fare il percorso inverso (quello di tutti i manuali scolastici di storia): partire cioè dall’esperienza primitiva, per poi giungere alla nostra. Ma in tal caso sarebbe bene non lasciar sottintendere l’inevitabilità di un percorso evolutivo, progressivo, che porta necessariamente alla considerazione che la nostra epoca è la migliore di tutte.

Ogni formazione socio-economica andrebbe affrontata come un unicum, chiarendo bene che nelle fasi di transizione verso una diversa formazione sono state compiute determinate scelte, consapevoli o indotte dalle circostanze, che hanno comportato determinate conseguenze, positive o negative.

Didattica della storia (IV)

4. Domande di senso

Dalla delineazione delle varie tipologie di relazioni umane che il docente dovrà esemplificare in rapporto al contesto scolastico, devono emergere le domande di senso, in virtù delle quali sia possibile comprendere le categorie fondamentali del processo storico: possibilità e necessità, che sono quelle in cui si muove la libertà di scelta.

Poiché svolgere un lavoro di ricerca storica è come svolgere un lavoro psicopedagogico sul singolo individuo e sulle relazioni sociali che lo caratterizzano, il docente deve stare molto attento a non dare per scontato nulla, se non appunto il fatto che l’essere umano è dotato, a differenza del mondo animale, della facoltà di scelta.

La storia, sia essa del singolo studente nella sua classe, sia quella degli uomini di tutti i tempi e luoghi, non è determinata univocamente dalla categoria della necessità.

Il compito dell’educatore-formatore è appunto quello di far capire al giovane che, pur essendo egli nato in un contesto che non dipende da lui, e che quindi gli è oggettivo, soggettivamente può contribuire a modificarlo, sia in senso positivo che in senso negativo.

Inutile qui dire che si possono fare mille esempi sul contesto urbano o rurale in cui si vive, sulle relazioni parentali che ci determinano, sulla cultura che assorbiamo attraverso i media, su tutta quella serie di condizionamenti indipendenti dalla nostra volontà.

I giovani, più degli adulti, tendono a considerare questi condizionamenti come molto oggettivi, cioè tali per cui uno sforzo al cambiamento sarebbe vano, ma si esaltano anche in maniera fanatica quando vedono che qualcuno dimostra, in qualche modo, che è possibile unire teoria e prassi. Non a caso le rivoluzioni, nella storia, non vengono fatte da persone “anziane”.

Bisogna dunque insegnare loro che i cambiamenti sono possibili (l’evoluzione della storia sta appunto lì a dimostrarlo), ch’essi avvengono il più delle volte in maniera graduale, su aspetti concreti della vita reale, e che quando scoppiano dei rivolgimenti sociali è perché una parte della società rifiuta di condividere la necessità di talune forme dell’agire e ne propone altre.

La storia non è altro che un immenso teatro i cui attori recitano delle parti sempre diverse. Noi non siamo solo spettatori di queste scene (volgendo lo sguardo verso il passato) ma anche protagonisti (vivendo il presente), e dobbiamo cercare di capire quando i cambiamenti sono stati giusti, cioè quando hanno fatto realmente progredire il senso di umanità degli uomini e delle donne, e quando invece l’hanno fatto regredire, non rispettando le condizioni della libertà di scelta.

Didattica della storia (III)

3. Esempi concreti

Per poter capire il significato delle formazioni socio-economiche della storia, e soprattutto le fasi di passaggio dall’una all’altra, occorre fare degli esempi concreti, presi dalla vita stessa dei giovani o da quella delle persone a loro più prossime.

Indicativamente sarebbe bene non partire mai da definizioni astratte da dimostrare, ma da esempi di vita da interpretare. La comprensione, sempre approssimata, della vita reale deve portare alla comprensione, ancora più approssimata, dei fatti e dei processi storici.

Per esperienza sappiamo che delle cinque formazioni sociali, quelle che colpiscono di più la fantasia degli alunni sono le prime due: il mondo primitivo e lo schiavismo (che ora però, coi nuovi programmi, non si fanno più alle medie).

L’epoca primitiva affascina per il rapporto diretto che l’uomo aveva con le forze della natura e degli animali. Lo schiavismo piace perché è facile stabilire chi sono i “buoni” e i “cattivi”. In particolare queste forme così palesi di oppressione e sfruttamento interessano perché i giovani, rispetto al mondo degli adulti in generale, si sentono deboli, vittime di torti o incomprensioni.

Non dovrebbe essere difficile trovare degli esempi in cui i ragazzi si sentono liberi nel loro rapporto con la natura e con gli animali e in cui invece si sentono a disagio nei loro rapporti con gli adulti o coi loro coetanei più grandi o più forti fisicamente. Le esperienze dei ragazzi devono poter avere un valore paradigmatico, nei limiti del possibile ovviamente, affinché si abbiano delle esemplificazioni non banali, in quanto sufficientemente realistiche: saranno poi queste ad aiutare a capire dei processi storici relativamente complessi.

Certo, noi non possiamo prescindere dal fatto che, trattando p.es. il problema dello schiavismo, cioè di come interpretarlo nella maniera più obiettiva possibile, siamo costretti a farlo all’interno di un preciso condizionamento storico-culturale: quello dell’ideologia borghese, che è dominante nelle nostre società capitalistiche.

E, poiché è praticamente insensato sostenere che l’epoca dello schiavismo sia stata migliore della nostra, dobbiamo altresì dare per scontato che tra lo schiavismo e il capitalismo vi sia stato un processo storico evolutivo, che ha portato l’umanità, pur soggetta a gravi contraddizioni (si pensi solo alle due guerre mondiali), ad avere oggi una maggiore consapevolezza di sé, cioè dei valori e dei diritti umani.

Dunque, quello che nella fase della motivazione bisogna fare è partire dalla comprensione delle varie tipologie di relazioni umane, per arrivare alla comprensione delle relazioni storiche tra le classi sociali delle diverse formazioni socio-economiche, rapportando il tutto all’età dei nostri alunni.

Ecco un confronto sinottici che indica come fare una comparazione teorica tra due forme di civiltà:

CONFRONTO TRA FEUDALESIMO E CAPITALISMO: MEDIOEVO E MODERNITA’

Rapporto con la società

Esistevano comunità di villaggio rurali, autonome, autosufficienti, indipendenti tra loro, con diverse leggi, monete, usi, tradizioni, lingue, pesi, misure, dazi, dogane…
Esiste la nazione, con un unico mercato, un’unica moneta, una sola legge, una sola lingua, un unico esercito, una sola burocrazia, una scuola statale…

La terra appartiene ai feudatari e i contadini (servi della gleba) la lavorano.
Il borghese è padrone di capitali o di terre o di imprese commerciali o manifatturiere e vi fa lavorare gli operai salariati, manuali e intellettuali.

Tra contadino e feudatario c’è un rapporto personale di dipendenza. Non c’è licenziamento.
Tra borghese e operaio c’è un rapporto contrattuale libero. Ci può essere licenziamento.

Lo sfruttamento del contadino non va oltre le esigenze di consumo del feudatario.
Lo sfruttamento dell’operaio va oltre le esigenze di consumo del borghese.

Il feudatario riceve dal contadino prodotti in natura (agricoli).
Il borghese riceve dall’operaio prodotti industriali.

Il contadino non è giuridicamente libero.
L’operaio è giuridicamente libero.

Il feudatario impedisce al contadino di lasciare il feudo.
Il borghese vuole che il contadino lasci il feudo, per farlo diventare operaio nella sua azienda.

Il feudatario si trasforma col tempo in borghese (p.es. obbliga i contadini a produrre per il mercato).
Il borghese non si trasforma mai in feudatario, anche se può comprare dei titoli nobiliari. Tuttavia aspira a vivere di rendita (anche solo finanziaria, cioè non produttiva).

Il contadino fa anche l’artigiano ed è commerciante dei propri beni.
Contadino, artigiano, commerciante e operaio sono figure sociali separate.

Famiglia patriarcale (allargata)
Famiglia borghese (ristretta)

Rapporto con l’economia

Prevale la campagna sulla città e la terra sull’industria (manifattura).
Prevale la città sulla campagna e l’industria sulla terra.

Prevale l’autoconsumo sullo scambio.
Prevale lo scambio sull’autoconsumo.

Prevale la rendita dei feudatari. Scarsi investimenti nelle attività produttive. Assenza di rischi.
Prevale il profitto dei borghesi. Capitali investiti in attività produttive. Presenza del rischio.

Autoconsumo: si consuma ciò che si produce.
Mercato: ciò che si consuma deve essere comprato.

Prevale il valore d’uso sul valore di scambio.
Prevale il valore di scambio sul valore d’uso.

Valore d’uso: una cosa ha valore se è necessaria.
Valore di scambio: una cosa ha valore se può essere comprata e venduta.

Prevale il baratto sulla moneta.
Prevale la moneta sul baratto.

Baratto: si scambiano gli oggetti.
Moneta: si acquista qualunque cosa (compravendita).

Mercati e fiere: si comprano poche cose che non si riescono a produrre (p.es. spezie, sale) e si vende l’eccedenza (surplus).
Mercati, negozi, ipermercati: si vende e si compra tutto, anche il superfluo.

Produzione per il consumo.
Produzione per il mercato, per accumulare capitali.

Pubblicità: non esiste o, se esiste, è di tipo più politico che economico (è propaganda).
Pubblicità: molta, serve per far acquistare i prodotti e per vincere la concorrenza (in mass-media, fiere, cartellonistica…).

Concorrenza tra produttori: non esiste o è regolamentata dalle corporazioni.
Concorrenza tra produttori: molta.

Monopolio nella produzione: non esiste, almeno sino quando non si formano le corporazioni. Esiste comunque il latifondo.
Monopolio nella produzione: tende inevitabilmente a imporsi sulla concorrenza dei produttori, portando i più deboli alla rovina.

Tecnologia: poco sviluppata.
Tecnologia: molto sviluppata (acciaio, plastica, alluminio, biotecnologie ecc.).

Mezzi di lavoro: aiutano il contadino a lavorare.
Mezzi di lavoro: servono al borghese per sfruttare l’operaio.

Le esigenze della natura prevalgono su quelle della società.
Le esigenze della società prevalgono su quelle della natura.

Materie prime prevalenti: legno, argilla, rame, ferro…
Materie prime prevalenti: carbone, petrolio, gas, nucleare.

Fonti energetiche: acqua, vento, legno, sole…
Fonti energetiche: carbone, derivati del petrolio, energia solare, eolica, nucleare, vulcanica…

Inquinamento della natura: quasi inesistente.
Inquinamento della natura: accentuato.

Locomozione: cavallo, asino, mulo, nave a vela.
Locomozione: bici, macchina, treno, aereo, nave a motore.

Rapporto con la politica

Il contadino lotta contro il servaggio, per avere la terra che appartiene al latifondista (feudatario laico o ecclesiastico).
Il borghese, già proprietario di capitali o di terre o di imprese, lotta contro i feudatari e il clero per avere più potere politico.

Il contadino che rifiuta il servaggio può diventare operaio, oppure se ha fortuna o pochi scrupoli può diventare borghese.
L’operaio lotta contro il borghese, proprietario dei mezzi produttivi.

Le figure politiche principali sono il papa e l’imperatore e i loro vassalli. Centralismo governativo sostenuto dai ceti agrari dominanti.
Le figure politiche principali sono i re nazionali, ma soprattutto i parlamenti e le costituzioni, che devono esprimere gli interessi anche della borghesia.

La successione al trono imperiale e alle cariche politiche è ereditaria.
Nei parlamenti si vota (prima sulla base di un certo censo, poi a suffragio universale).

L’imperatore e il papa sono al di sopra delle leggi. Monarchia assoluta.
I sovrani hanno un potere limitato dalla Costituzione e dal parlamento. Monarchie costituzionali o Repubbliche parlamentari.

Politica estera: si fanno crociate per sfruttare e dominare. Pretesto: difesa e diffusione del cristianesimo.
Politica estera: si pratica il colonialismo per sfruttare risorse umane e naturali. Pretesto: difesa e diffusione della democrazia.

Rapporto con la religione

Il contadino è una persona credente e praticante, di religione cattolica. Cristiano tutti i giorni. Dio prevale sull’uomo.
Il borghese è una persona poco credente e ancor meno praticante, di religione protestante (de facto o anche de jure). Cristiano la domenica. L’uomo prevale su Dio.

Prevale l’interpretazione del clero nella lettura della Bibbia.
Prevale l’interpretazione personale della Bibbia (libero esame).

Prevale la gerarchia ecclesiastica. Clero più importante dei laici.
Prevale il sacerdozio universale dei fedeli. Tra laici e clero non vi è alcuna differenza.

Sacramenti: sette.
Sacramenti (area protestante): due (battesimo e comunione). Ma il concetto di “sacro” tende a scomparire.

Prevale teologia dogmatica, anche se la chiesa romana ha modificato alcuni dogmi della chiesa ortodossa o aggiunto in proprio nuovi dogmi.
Il libero esame della Bibbia mette in discussione i dogmi della chiesa. Prevale il dubbio e l’analisi critica.
Prevale la tradizione della chiesa (sinodi e concili).

Prevale la comunità religiosa sul singolo credente.
Prevale il singolo credente sulla comunità religiosa.

Prevalgono le opere sulla fede e la fede sulla ragione.
Prevale la fede sulle opere e la ragione sulla fede.

Pessimismo sulla possibilità di libertà e giustizia sulla terra. Speranza nell’aldilà.
Fiducia nel progresso della scienza e della tecnica e nel benessere terreno.

Crociate: conquistare per convertire. Il potere secolare e i mercanti sono usati per dominare.
Colonialismo: conquistare per dominare. La chiesa è usata per convertire.

Lo Stato, per i cattolici, è subordinato alla chiesa nelle questioni morali. Stato confessionale.
Lo Stato, per i protestanti, è separato dalla chiesa e quindi autonomo nelle questioni morali. Stato laico.

Rapporto con la cultura

Prevale la cultura orale (che è di molti) su quella scritta (che è di pochissimi). Il latino non è più parlato ma solo scritto.
Prevale la cultura scritta su quella orale (le leggi, i contratti commerciali e di lavoro, la contabilità).

Nello scritto prevale il latino sul volgare (o lingua romanza). In Italia la svolta si ha con Dante, Petrarca e Boccaccio.
Prevalgono sia nello scritto che nel parlato le lingue nazionali (italiano, inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese…).

Valori: fiducia reciproca, parola data, onore, origine aristocratica, stretti rapporti parentali…
Valori: la parola non vale niente, contano solo i contratti, firmati e vidimati. Opportunismo, il farsi da sé…

Di fronte alle contraddizioni sociali si usa la carità, l’elemosina, l’assistenza… La povertà è considerata come inevitabile.
La povertà è considerata come una condizione che va assolutamente evitata, accettando qualunque tipo di lavoro. Il povero si condanna da sé.

Analfabetismo: diffuso tra i ceti più bassi o rurali.
Analfabetismo: tende a scomparire, soprattutto nelle città.

Cultura: monopolio del clero.
Cultura: diffusa tra la borghesia.

Cultura dominante: teologia, religione, filosofia religiosa, iconografia, diritto canonico…
Cultura dominante: diritto, filosofia, letteratura, scienza… Si riscopre la cultura pre-medievale (greco-romana).

Libri: scritti a mano.
Libri: stampati.

La scuola è privata, gestita dal clero. Prevalgono le università teologiche.
La scuola è pubblica, gestita dallo Stato. Prevalgono le accademie laiche.