In fondo Eduard Bernstein aveva visto giusto: con l’imperialismo la classe operaia non aveva bisogno di compiere la rivoluzione; la ricchezza aumentava per tutti e, con essa, la democrazia; si poteva arrivare al socialismo anche per via parlamentare, senza alcuna rivoluzione violenta. L’acutizzazione dei rapporti sociali, cioè la radicale polarizzazione delle classi antagonistiche, prefigurata nel Manifesto del 1848, non era avvenuta: dunque occorreva un mutamento significativo di strategia politica. La sinistra doveva diventare riformista. E in Europa occidentale lo divenne, prima con Bernstein, poi con Kautsky, infine con tutti gli altri.
Solo i bolscevichi non li seguirono. E loro fecero una rivoluzione radicale, così come l’avrebbero voluta Marx ed Engels, che però, col tempo, si rivelò fallimentare. Non meno drammatico fu il destino dei socialisti riformisti, che finirono col perdere completamente la loro natura socialista.
In che cosa il socialismo ha sbagliato?
Anzitutto non ha capito che il miglioramento delle condizioni di vita, in Europa occidentale, non dipendeva affatto dall’industrializzazione capitalistica, bensì dall’imperialismo, cioè dallo sfruttamento delle colonie. Era in virtù di questo sfruttamento che si poteva corrompere la classe operaia, aumentandole i salari o comunque offrendole migliori condizioni di lavoro, in cambio di un proprio silenzio sul sistema in generale.
Se la classe operaia preferisce le rivendicazioni sindacali alla lotta politica rivoluzionaria, i suoi dirigenti, ad un certo punto, l’asseconderanno. La lotta rivoluzionaria richiede infatti molti rischi e sacrifici, senza i quali non è possibile perseguire ideali elevati. Se poi sono gli stessi dirigenti a non credere più nella lotta rivoluzionaria, la classe operaia, che non ha lo stesso livello culturale e non è capace di avere una veduta d’insieme delle cose, se ne farà una ragione ancor prima.
Qui infatti era Lenin a brillare per intelligenza: la classe operaia, lasciata a se stessa, matura soltanto una coscienza sindacale; per averne una di tipo rivoluzionario, bisogna infondergliela dall’esterno, e questo è un compito che può fare solo l’intellettuale, poiché solo lui può vedere che la contraddizione tra capitale e lavoro è sempre assoluta e mai relativa a circostanze di tempo e luogo. Può essere variegata la strategia con cui la si affronta, ma l’obiettivo finale deve restare integro: quello della conquista del potere politico per il ribaltamento del sistema.
Ma come si può pensare di ribaltare il sistema in presenza dell’imperialismo? A questa domanda Lenin rispose dicendo che bisogna saper approfittare del momento favorevole, quello più critico, quello che produce infinite sofferenze, assolutamente insopportabili, che, ai suoi tempi, erano determinate dalla guerra mondiale. Egli lanciò una parola d’ordine molto chiara, anche se per realizzarla ci voleva molto coraggio e non poca organizzazione: trasformare la guerra mondiale contro un nemico esterno in una guerra civile contro il nemico interno. La classe operaia russa doveva abbattere il capitalismo interno attraverso una rivoluzione, dopodiché si sarebbe tirata fuori dalla guerra mondiale. E così fece.
Riuscirono i socialisti euro-occidentali a fare altrettanto? Nessuno. La guerra mondiale fu vista come guerra tra nazioni, quando invece doveva essere vista come guerra tra capitalisti di nazioni imperialistiche, che mandavano a morire, per i loro sporchi interessi, i rispettivi lavoratori (operai o contadini che fossero). Non ci furono ribellioni di massa a questa carneficina. E alla fine il socialismo non si realizzò da nessuna parte, a testimonianza che un affronto meramente parlamentare, cioè riformistico, delle contraddizioni strutturali del capitalismo, conduce soltanto a una forma di opportunismo e di tradimento degli ideali originari. Per un piatto di lenticchie, concesso dai loro rispettivi governi, i socialisti persero la primogenitura degli ideali rivoluzionari.
Tuttavia il socialismo mostrò ovunque un altro grave difetto, a fronte del quale persino la Russia si trovò del tutto impreparata. Fu un difetto così grande che nel 1991 la Russia decise di chiudere l’esperienza del socialismo statale, quello gestito in maniera burocratica. E, con questa realizzazione piena di manchevolezze, si buttò via anche la necessità di un socialismo democratico. Si finì col far tornare in auge il capitalismo, più o meno corretto da esigenze di tipo statale.
Quale fu il macroscopico difetto del cosiddetto “socialismo reale”? Fu il fatto di non aver capito che la classe operaia era totalmente priva di cultura e socialmente sradicata, mentre quella rurale aveva per tradizione un senso storico della collettività e si trasmetteva la propria cultura ancestrale oralmente di generazione in generazione. Fu il fatto di non aver capito che la produzione industriale in serie è una pura e semplice mostruosità, che può andar bene per esigenze specifiche in un lasso di tempo determinato, ma che non ha alcun senso in una condizione di vita normale. Non è da una produzione del genere che può dipendere il benessere di un paese, anche perché con essa vengono messe in subordine tutte le preoccupazioni di tipo ambientalistico.
Fu anche il fatto di non aver capito che il contadino non diviene per forza un piccolo-borghese quando possiede un pezzo di terra. Certo, il contadino vuol essere padrone in casa propria – com’è naturale che sia -, ma è disposto spontaneamente alla cooperazione, a convivere pacificamente col proprio vicino, a risolvere qualunque controversia, pur di far sopravvivere alla propria famiglia.
È piuttosto l’operaio, il quale spesso non è che un ex contadino o un ex bracciante rurale, ad aver bisogno d’essere integrato in maniera organica nella società. Anche l’intellettuale di sinistra che lo rappresenta è uno sradicato come lui, uno che non ha riferimenti culturali o sociali al mondo rurale e che si deve creare un’identità dal nulla.
Lenin era convinto, influenzato in questo dalle idee di Marx ed Engels, che la classe operaia, non avendo nulla da perdere, fosse più rivoluzionaria dei contadini, che avevano appunto la terra da difendere oppure da ottenere come obiettivo finale della loro lotta. La storia ha dimostrato che la classe operaia, non avendo una propria cultura ancestrale, è più facilmente manipolabile dei contadini, pur essendo questi tradizionalmente religiosi, mentre quella è di idee ateistiche. Infatti il socialismo staliniano, dopo averli fatti passare per dei piccolo-borghesi, sterminò milioni di contadini e non toccò gli operai, i quali, non a caso, credevano ciecamente nel socialismo amministrato dall’alto.
Certo, ci si può chiedere se i contadini russi, lasciati da soli (in mano ai populisti prima, e poi ai socialisti-rivoluzionari), avrebbero compiuto lo stesso la rivoluzione. Probabilmente non l’avrebbero fatta, ma solo per colpa dei propri dirigenti, che s’illudevano di poter ovviare pacificamente alla penetrazione del capitalismo nelle campagne.
I dirigenti russi dei contadini sono sempre stati degli ingenui, prima nei confronti dello zarismo, poi nei confronti del capitalismo. Ci volle Lenin per far capire ai contadini che se si fossero alleati con gli operai, avrebbero ottenuto subito la terra in proprietà e gratuitamente, senza dover pagare i forti indennizzi previsti dalla passata abolizione del servaggio. I contadini credettero in Lenin e si allearono con gli operai non solo per fare la rivoluzione, ma anche per uscire dalla guerra mondiale e per combattere la controrivoluzione bianca e l’interventismo straniero. Fecero enormi sacrifici (soprattutto a causa del comunismo di guerra, poi superato dalla Nep leniniana), e alla fine vinsero.
Chi distrusse il loro entusiasmo? la loro tenacia? Lo stalinismo, un’ideologia irrazionale che puntò tutto sulla industrializzazione pesante e accelerata, che doveva essere integralmente pagata dalla classe rurale, costretta peraltro a una collettivizzazione forzata. Idea, questa, che Stalin mutuò proprio dal suo irriducibile nemico, Trotsky, il quale vedeva i limiti dello stalinismo solo nella gestione burocratica e autoritaria del potere.
Questi errori molto gravi sono stati pagati in maniera drammatica. I contadini non erano contrari all’industrializzazione, ma a un primato inaccettabile, che ne faceva pagare a loro tutti i costi. Un primato che non poteva neppure essere giustificato dicendo che il socialismo russo minacciava d’essere distrutto dalle potenze occidentali. Se ci fosse stato un nuovo interventismo straniero, come quello del 1918-20, sarebbero stati nuovamente i contadini a scongiurarne il pericolo, le conseguenze. Questo perché decine di milioni di contadini, disposti a difendere la loro terra a qualsiasi prezzo, sono una forza spaventosa, di cui tutti devono aver paura.
Stalin ne eliminò una quantità sterminata, convinto che solo con l’industrializzazione si poteva tener testa ai paesi capitalistici avanzati. Ottenne esattamente l’effetto contrario: il capitalismo, infatti, non ha bisogno di usare le armi convenzionali, quelle da fuoco, per abbattere i propri nemici, e neppure quelle non convenzionali, come le armi atomiche. Per vincere gli basta la propaganda ideologica, la pubblicità commerciale, l’esibizione del benessere a oltranza, degli agi e delle comodità a tutti i livelli, del lusso sfrenato, della democrazia parlamentare, delle borse per qualunque valore e titolo, dei giganteschi mercati internazionali, degli istituti di credito finanziari, dello spionaggio e controspionaggio, della corsa alla conquista dello spazio cosmico, del peso della propria moneta negli scambi mondiali, della manipolazione degli istituti o enti internazionali, come p.es. l’Onu, l’Unesco, l’Ocse, la Fao, ecc.
E così oggi si sono tutti “imborghesiti”: gli operai rivoluzionari, i contadini attaccati alla loro terra, gli intellettuali socialcomunisti, i partiti di sinistra… Oggi, di fronte a un capitalismo che si muove molto facilmente su un piano globale (che è insieme materiale e immateriale), non si è neppure capaci di darsi degli strumenti altrettanto “globali” per difendersi.