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Una storiografia olistica e planetaria (I)

Oggi la storiografia è destinata a diventare planetaria, a interessarsi delle vicende di popolazioni mondiali. La stessa storia italiana ha molto più senso in una prospettiva che vede il nostro paese come parte dell’Occidente, componente del capitalismo avanzato, membro dell’Unione Europea.

Una storia dell’Italia fine a se stessa ha davvero poco senso. Tanto più che il nostro paese è da qualche tempo oggetto di forte immigrazione. Interessa poco agli stranieri che frequentano corsi di alfabetizzazione o di licenza media, le diatribe tra Cavour, Garibaldi e Mazzini, solo per fare un esempio.

Si è costretti a parlare di macro-problemi, come in geografia si è costretti a parlare di macro-aree (le singole regioni italiane si studiano solo alle Elementari). Mai come in questo momento è tornata di attualità la ripartizione schematica delle varie formazioni socio-economiche apparse nella storia dell’umanità, e cioè comunità primitiva, schiavismo, servaggio, capitalismo e socialismo.

Sulla base di queste categorie generali si può affrontare qualunque argomento di storia. Tutto il periodo delle civiltà antiche, mediterranee e non, può rientrare facilmente nella categoria economica dello schiavismo, per quanto vi sia stata una sua riproposizione in Africa e nelle Americhe dal XVI al XIX sec., a motivo del fatto che il razzismo culturale (in questo caso di matrice cattolico-protestante), tipico dei paesi euro-occidentali, può risorgere dalle ceneri come l’araba fenice, se non incontra resistenze di un certo spessore.

Anche questo comunque ci aiuta a capire che tutto va visto in maniera trasversale. Non più un prevalente ordine cronologico degli avvenimenti, ma un organico ordine tematico, in cui, pur senza tralasciare il dio Chronos, varie epoche e civiltà vengono messe costantemente a confronto, come gli esegeti fanno coi vangeli sinottici.

Lo stesso concetto di “nazione” diventa quanto mai obsoleto. I fenomeni migratori hanno spezzato i confini geografici stabiliti dalla borghesia sin al suo esordio come classe egemone. Il mondo è un villaggio globale, reso tale non solo virtualmente dagli scambi mediatici (di cui il web ne costituisce oggi la quintessenza), ma anche fisicamente dagli stessi flussi migratori, i quali, a loro volta, sono frutto della globalizzazione degli scambi commerciali del capitalismo mondiale, quegli scambi che portano progressiva ricchezza ai paesi tecnologicamente e militarmente avanzati, e progressiva miseria ai paesi del Terzo Mondo, salvo le eccezioni della cosiddetta “Cindia” (Cina+India), in cui gli enormi tassi di crescita dello sviluppo vengono fatti pagare da un lavoro massacrante il cui costo materiale, per il capitale investito, è incredibilmente irrisorio: il che provoca squilibri non solo sul versante dei diritti umani e civili ma anche su quello della perequazione socioeconomica, in quanto del cosiddetto “sviluppo a marce forzate” non si avvantaggiano certamente le popolazioni rurali o quelle poco qualificate.

Stiamo assistendo, su scala planetaria, a un fenomeno analogo a quello accaduto nel corso dello sviluppo dell’impero romano, allorché il concetto di “cittadinanza romana” doveva necessariamente estendersi a popolazioni che di “romano” o di “latino” non avevano nulla, ma che non per questo avrebbero potuto essere meno utili agli interessi di dominio e, a un certo punto, di mera sopravvivenza dell’impero.

La stessa rivoluzione tecnico-scientifica andrebbe studiata come una secante della storia socio-economica e non come un capitolo a parte, poiché in tutte le civiltà antagonistiche la scienza e la tecnica sono sempre state al servizio dei potentati economici (il profitto) e politico-militari (la guerra), e solo secondariamente o successivamente hanno riguardato il mondo del lavoro (il bisogno).

Nei manuali scolastici di storia non s’incontrano quasi mai rilievi critici sullo sviluppo della tecnologia, in grado di mettere in evidenza aspetti positivi e negativi (l’arretratezza tecnologica di un paese rispetto a un altro viene sempre vista negativamente, il che, anche alla luce della moderna ecologia, non ha alcun senso). Nei manuali che usiamo è rarissimo trovare una critica dei criteri o delle motivazioni sulla base delle quali è nata e si è sviluppata la moderna tecnologia. Questa viene considerata alla stregua di un totem da adorare. Non si mette mai in discussione (neppure quando si studia il passato) il rapporto di dominio tra uomo e natura mediato dallo strumento tecnologico: sarebbe come violare un tabù ancestrale.

Eppure abbiamo avuto e continuiamo ad avere esempi pericolosi per tutto il pianeta, disastri che si verificano lontano da noi ma che ad un certo punto ci coinvolgono come fossero successi sotto casa nostra: si pensi ai fatti di Cernobyl del 1986, ma anche agli sversamenti di petrolio nel mare, alla progressiva desertificazione dei terreni coltivati chimicamente o soggetti a deforestazione, alle piogge acide, ai devastanti test o incidenti nucleari, al buco dell’ozono.

Nonostante ciò tutti noi siamo convinti che la scienza e la tecnica siano in grado di risolvere i problemi che loro stesse contribuiscono a creare. Oggi non abbiamo dubbi nel credere che in occasione di conflitti bellici si possano tranquillamente bombardare intere città nella convinzione che la ricostruzione verrà fatta molto velocemente. Non si mette mai in discussione l’enorme spreco di risorse, anzi, si sostiene che tale spreco è un incentivo alla produzione e quindi al consumo.

Sul concetto di storia

Abbiamo parlato di come schematizzare astrattamente il significato degli eventi storici formulando delle categorie generalizzanti, sufficientemente chiare nella loro paradigmaticità e sufficientemente valide per la storia complessiva del genere umano, e, a titolo esemplificativo, abbiamo proposto una comparazione teorica tra due forme di civiltà: quella feudale e quella borghese.

Ora, se davvero vogliamo universalizzare il concetto di storia, cioè se vogliamo che nelle scuole e nella società s’impari a capire qual è la storia del genere umano, è necessario anzitutto eliminare i riferimenti privilegiati alle persone, in quanto i cosiddetti “protagonisti” della storia altro non sono che esponenti di un movimento di idee, culture o tradizioni.

La singola persona è parte di un tutto. Anche un leader politico non può essere considerato più importante della corrente di pensiero cui egli appartiene, anzi la sua importanza è direttamente proporzionale al grado di coinvolgimento personale in una causa per il bene comune.

È vero che a volte certe persone concentrano su di loro lo svolgimento di interi periodi storici, come se in un piccolo microcosmo umano fosse racchiusa l’essenza dello sviluppo di un macrocosmo storico. La storia però non ha conosciuto tante persone di questo genere, anche se quelle che ha conosciuto hanno lasciato indubbiamente un segno indelebile, tanto che può capitare, passato un certo periodo di tempo, in cui quelle persone erano state come dimenticate, un ritorno improvviso alle loro idee, dando ad esse nuove interpretazioni, che riprendono quelle precedenti aggiungendo particolari inediti e innescando così nuovi sviluppi. Si pensi solo alla riscoperta medievale dell’aristotelismo o del “Cristo povero” da parte dei movimenti pauperistici ereticali.

Questo probabilmente avviene perché l’essenza dell’uomo, in ultima istanza, è univoca: cambiano solo le forme, le circostanze, l’ambiente in cui essa deve muoversi. Dal confronto con modalità diverse nasce l’esigenza di riformulare le idee di un tempo.

Ma questo non ci esime dal compito di contestualizzare l’azione di queste singolari persone, né ci può indurre a credere ch’esse fossero per i loro contemporanei come piovute dal cielo. Ognuno di noi è rigorosamente figlio del proprio tempo ed è proprio per questa ragione che la storia va appresa per concetti generali, per categorie astratte di pensiero (politico, economico, sociale, culturale…), comprensibili da parte di chiunque, ovunque si trovi. Quanto più s’impone il senso di appartenenza globale al pianeta, cioè a una storia comune, tanto più occorre riscrivere il percorso di questa storia.

“Al centro di una storia che voglia essere ‘globale’ non sta più lo sviluppo delle singole civiltà, ma si pongono invece i loro rapporti, i loro incontri e scontri, i loro scambi, le trasformazioni che il contatto con altre civiltà induce in ognuna di esse”(1). È una prospettiva “relazionistica” non “sommativa”.

Sarebbe anzi molto interessante vedere come p.es. gli ideali di un qualunque leader rivoluzionario siano stati in realtà già formulati da parte di correnti di pensiero, movimenti di opinione di altre epoche e latitudini del tutto sconosciute a quel leader. Bisogna abituarsi all’idea di considerare l’essere umano come un soggetto universale, con bisogni e caratteristiche universali. Se un individuo si sente parte di un cosmo, di una realtà infinitamente più grande di lui, è più disposto a rinunciare al proprio personalismo.

La storia dunque va studiata in maniera trasversale. P.es., un concetto come la democrazia sociale, obiettivo di ogni vera politica, come si è sviluppato in questo o quel paese di qualsivoglia periodo storico? Nel Medioevo non si parlava di “democrazia”, ma saremmo degli sciocchi a sostenere che non ve n’era solo perché non se ne parlava (eppure tutti i manuali scolastici parlano di “secoli bui”, di grande arretratezza rispetto al mondo greco-romano ecc.). Nella Grecia classica si parlava di democrazia tutti i giorni, eppure nessuno ha mai messo in discussione l’istituto della schiavitù, neppure grandissimi filosofi come Platone e Aristotele.

Tempo e spazio diventano relativi, poiché vanno ricondotti al fatto che l’essere umano è unico in tutto il pianeta e che le differenze che ci caratterizzano sono soltanto di forma. Bisognerebbe stabilire sul piano concettuale una sorta di percorso evolutivo dell’umanità, che è passato per determinate fasi, comuni a molte civiltà: comunismo primitivo, schiavismo, servaggio, lavoro salariato, socialismo amministrato…, e cercare di vedere in che modo queste fasi sono state vissute da questo o quel paese, di questo o quel periodo.

Lo stesso concetto di “nazione”, che oggi consideriamo come “naturale”, diventerebbe molto circostanziato: meglio sarebbe parlare di “civiltà”, la cui cultura dominante è sufficientemente omogenea ma i cui confini geografici sono inevitabilmente meno definiti.

La storia non può essere studiata in maniera cronologica-lineare-sequenziale, partendo da un’arbitraria prevalenza concessa a questa o quella zona geografica o a questa o quella civiltà. È la storia del genere umano, della specie umana, che va studiata, secondo delle linee evolutive in qualche modo verificabili e dimostrabili, appunto perché costanti, ricorrenti.

Non lo sanno gli storici che la comparazione internazionale sprovincializza, rendendo meno angusti gli ambiti locali e nazionali, al punto che ci sente “cittadini del mondo”? O forse ritengono, ingenuamente, che i processi della globalizzazione non andranno mai a influenzare in maniera decisiva l’impostazione di fondo delle ricerche storiche condotte in occidente?

Nei prossimi decenni l’unica ricerca storica possibile sarà quella “comparativistica”, cioè quella che metterà a confronto, in maniera olistica, integrata, globale, soltanto i grandi eventi della storia, le grandi trasformazioni epocali, di breve e di lungo periodo, che hanno caratterizzato, in momenti diversi e con diversa gradazione e intensità, popolazioni geograficamente molto distanti tra loro. Tutta la periodizzazione storica cui noi occidentali siamo abituati, andrà abbondantemente riveduta e corretta.

Quanto più ci mondializziamo, tanto più dobbiamo rinunciare all’idea che esista un “centro” da usare come punto di riferimento per osservare la “periferia”. L’esigenza di una “storia mondiale” ci sta entrando in classe ogni giorno che passa e la vediamo nei volti dei nostri ragazzi immigrati.

La storia globale va vista come un gigantesco intreccio di fattori culturali, sociali, economici, politici, in cui la stessa nozione di civiltà, che fino ad oggi è stata usata non per unire ma per dividere, dovrà essere sostituita con quella di “macroaree geografiche tangibili”, come dice Olivella Sori, nella sua relazione al convegno “Global History” del 2004. La storia globale non è un’impossibile “storia del mondo”, che nessuno studente sarebbe mai in grado di apprendere, ma un nuovo approccio ermeneutico, una “reinterpretazione di storie particolari in prospettiva diversa”, sicuramente più sintetica, più per concetti generali che non per fatti particolari, in cui l’individuazione di una specifica identità non sarà il criterio con cui impostare preliminarmente la ricerca, ma una sorta di prodotto finale, conseguente appunto alla necessità di mettere a confronto eventi e processi di ogni tipo. Dovrà insomma essere il “tu” ad aiutare l’“io” a capire se stesso.

Non è un processo semplice, non è una metodica che si può acquisire in poco tempo. Facciamo un esempio delle difficoltà in atto. La fine del conflitto est-ovest, a partire dalla svolta gorbacioviana del 1985, seguita dal crollo del muro di Berlino quattro anni dopo, avrebbe dovuto indurre gli storici a rivedere i giudizi frettolosi, riduttivi, da sempre espressi nei confronti della cultura religiosa di tipo ortodosso dei paesi slavi ed ellenici, la cui importanza dovrebbe in teoria risultare centrale nei manuali scolastici di storia medievale e che invece viene sempre circoscritta in poche paginette.

Tutto purtroppo è rimasto come prima. I bizantini restano “cesaropapisti” e il loro Stato “fiscalmente esoso”, gli ortodossi restano “scismatici” e i loro teologi “cavillosi”. Ancora oggi appare del tutto normale intitolare il capitolo dedicato a Carlo Magno: “Il sacro romano impero”, senza fare cenno alcuno al fatto che un impero del genere esisteva già, ed era a Bisanzio, anzi a Costantinopoli, gestito dal legittimo basileus, secondo una discendenza che partiva da Costantino, sicché quello carolingio fu in realtà un abuso giuspolitico a tutti gli effetti, tanto che dovette essere legittimato da quel falso patentato, elaborato in qualche monastero benedettino, che passò alla storia col nome di Donazione di Costantino.

Una realtà millenaria come quella bizantina, che ha diffuso il cristianesimo presso tutte le popolazioni slave, e che mantenne in vita gli scambi commerciali e culturali tra paesi slavi, indo-cinesi e islamici, viene sempre liquidata in un unico capitolo dedicato a Giustiniano (482-565), come se dopo il tentativo, abortito, della renovatio imperii, un intero impero, al pari di Atlantide, fosse scomparso nel nulla, salvo ripescarlo, con poche righe, in occasione dell’iconoclastia, dello scisma del 1054 e della IV crociata.

(1) Pietro Rossi, Verso una storia globale, in “Rivista storica italiana”, CXIII, n. 3/2001

Che cosa s’intende per “metodo storiografico”?

Bisognerebbe cercare di capire il motivo per cui nell’ambito delle civiltà ogni azione compiuta per un fine di bene, che prevalentemente è quello di superare i limiti dell’antagonismo sociale, finisce spesso coll’ottenere l’effetto contrario a quello voluto, creando nuove forme d’antagonismo. Bisognerebbe cioè cercare di capire se nel momento in cui si decide di porre in atto tali azioni non vi sia un elemento imprescindibile di cui bisogna tener conto sul piano metodologico, onde evitare spiacevoli conseguenze.

Infatti, considerando ch’esiste uno sviluppo storico del genere umano e che quindi, inevitabilmente, le varie azioni positive sono sempre caratterizzate da contenuti culturali assai diversi, sarebbe importante poter trovare un qualche elemento connettivo ad esse trasversale, in grado di tenerle unite almeno negli aspetti essenziali. Questo elemento non può essere trovato che sul terreno del metodo.

Si tratta di stabilire, sul piano storiografico, un criterio metodologico sufficientemente scientifico, in grado d’interpretare obiettivamente le azioni positive compiute dagli uomini, individuando, di esse, il fondamentale punto debole, in forza del quale ad un certo punto s’è determinata una tale situazione contraddittoria da rendere inevitabile nuove istanze di mutamento. Si tratta in particolare di capire quanto queste contraddizioni facevano parte del naturale processo evolutivo del genere umano o quanto invece costituivano un freno a tale processo, rendendo necessarie soluzioni inedite se non addirittura rivoluzionarie. In altre parole, gli uomini davvero ebbero bisogno della ribellione prometeica per ottenere il fuoco, o dobbiamo pensare che ci sarebbero arrivati lo stesso?

Sul piano del metodo operativo il punctum dolens è sempre un’eccessiva concessione fatta agli interessi individualistici dell’antagonismo, che ovviamente vengono difesi dai detentori del potere politico o economico o da coloro che vogliono acquisirlo, senza tener conto del bene comune.

Lo studio della storia, in tal senso, non dovrebbe essere basato su fatti già interpretati (come generalmente avviene nei manuali scolastici), cioè sulle decisioni prese dagli uomini e sulle conseguenze ch’esse hanno determinato, ma dovrebbe essere basato sui problemi in gioco, sugli interessi che hanno stimolato, sulle diverse istanze e proposte risolutive. Uno storico, nel momento della disamina dei fatti (o delle fonti che li illustrano), dovrebbe sempre porsi il seguente interrogativo: “prendendo questa decisione in questa maniera sono stati prodotti determinati risultati, ma se la stessa decisione fosse stata presa in altra maniera o se si fosse addirittura presa un’altra decisione, si sarebbero comunque ottenuti gli stessi risultati oppure avremmo avuto risultati opposti o comunque diversi?”.

Lo storico deve abituare il lettore (o, se insegnante, l’allievo) non tanto a sentirsi un intellettuale curioso che legge le vicende storiche come fossero un romanzo, quanto piuttosto a sentirsi un cittadino attivo, che, guardando il passato, si sente in dovere di prendere delle decisioni per il presente. Lo storico deve abituare il lettore ad acquisire un metodo non solo per interpretare il passato, ma anche per intervenire sul presente.

Ecco perché più che di “nozioni” storiche è preferibile parlare di “competenze” storiche. Le competenze sono quel complesso di formule o di regole ermeneutiche che permettono d’interpretare i fatti nella loro complessità, riconducendoli a una fondamentale essenzialità. Non è importante “sapere molto”, è importante sapere bene le cose importanti. Sembra una tautologia, ma decifrare esattamente i termini di questa tautologia richiede una notevole competenza.

Qui infatti non si tratta semplicemente d’individuare i “momenti forti” di un determinato percorso storico (di carattere locale, nazionale o mondiale), quanto piuttosto di stabilire un criterio obiettivo con cui poter interpretare qualunque evento, anche quello meno significativo. E la difficoltà principale sta proprio nel fatto che, avendo lo storico a che fare con gli esseri umani, il criterio non può essere “scientifico” in maniera astratta. La storia non è la matematica, anche perché persino la matematica ha una propria “storia”, i cui processi evolutivi non sono stati affatto così univoci. Nella storia anzi vi sono state molte “matematiche”, dove assai differenti erano i modi per fare operazioni di calcolo.

Dobbiamo, è vero, trovare delle formule rigorose per interpretare la storia, ma nella consapevolezza che l’oggetto da trattare è quanto mai sfuggente e ambiguo. Sarebbe assurdo pensare di poter interpretare i processi storici usando soltanto la categoria della necessità, anche se, non per averlo fatto in maniera preponderante, dobbiamo squalificare in toto sistemi filosofici come l’idealismo hegeliano e il materialismo storico-dialettico.

La storiografia (di destra o di sinistra non fa differenza) tende ad opporsi ai “se” e ai “ma”, preferendo di regola un approccio deterministico, in cui ad ogni azione corrisponde una sorta di reazione uguale e contraria.

Tuttavia tale approccio, se può dare sicurezze sul piano psicologico e intellettuale, non è di alcuna utilità su quello pedagogico e propriamente cognitivo. Chi studia storia deve essere messo in grado di capire come le cose sarebbero potute andare se si fossero rispettati determinati requisiti. Cioè chi studia storia deve poter essere allenato a capire che le cose sarebbero potute andare diversamente se si fosse agito diversamente. Tale allenamento va considerato come una sorta di incentivo pedagogico (e a scuola dovrebbe far parte della didattica di qualunque disciplina) utile per il presente, proprio per non prendere le cose con fatalismo e rassegnazione.

Dunque, oltre la categoria della necessità, bisogna acquisire quella della possibilità, che è poi quella che ci permette di capire quali potevano essere le opzioni da scegliere. La necessità subentra dopo che si son prese delle decisioni, ma il momento della discussione preliminare, della trattativa, del confronto delle idee, della mediazione tra interessi opposti o contrastanti, risulta per certi versi più importante delle decisioni stesse, poiché è lì che si può misurare il tasso di democrazia di una società, di una civiltà: è proprio lì infatti che si vanno a cercare compromessi vantaggiosi per tutte le parti in causa, oppure si cerca di far prevalere con la forza un’opzione sulle altre.

Chiarito questo, si può passare ad affrontare il secondo problema: quello della lettura delle fonti, la cui complessità spesso è davvero disarmante. Gli storici infatti, pur con tutti i loro faticosi lavori di ricerca, non sempre sortiscono gli effetti sperati. Il motivo di questo sta nel fatto che le fonti a nostra disposizione sono in genere piuttosto tendenziose, in quanto elaborate da quei ceti sociali espressione degli interessi prevalenti, delle decisioni dominanti. Tutta la storia scritta rischia di apparire come una gigantesca storia di documenti parziali se non addirittura inaffidabili ai fini della verità storica, proprio perché i ceti dominanti non hanno dato possibilità alle minoranze di esprimersi adeguatamente in piena libertà. La stragrande maggioranza degli abitanti del nostro pianeta, di ieri e di oggi, anche quando mostra d’aver precise istanze da far valere, non è mai stata in grado di produrre alcuna fonte.

Gli stessi storici, influenzati dalla loro cultura o ideologia, anche quando hanno a che fare con una serie di fonti dai contenuti opposti, spesso tendono a privilegiare le une sulle altre. Cioè anche quando hanno la fortuna di sentire due o più campane, preferiscono ascoltarne soltanto una, determinando così una reazione a catena nell’ambito della loro categoria, al punto che i manuali scolastici di storia altro non sono che una riedizione a mo’ di Bignami dei grandi manuali classici in uso nel mondo universitario.

Oggi è pacifico, in ambito storiografico, che col concetto di “fonte storica” non si debba intendere soltanto un trattato ufficiale, un documento governativo, una legge statale, ma anche cose molto più semplici, come p.es. un registro parrocchiale (utilissimo per individuare le strategie matrimoniali), le lettere, i diari personali, persino gli oggetti di uso quotidiano. Per raffigurarsi una “storia globale” tutto diventa “fonte”. Come dice Riccardo Neri, Il mestiere dello storico (Rcs, Milano 2004), “oggetto della ricerca storica è sempre più spesso divenuto il fenomeno e non l’evento, e l’histoire événementielle ha perso rilievo a favore di una visione storica più attenta al quadro d’insieme”.

Questo modo di procedere ha permesso di produrre a scuola un impatto emotivo forte sugli adolescenti. Quando si dice loro: “Non buttate via niente di quello che fate, perché farà piacere ai vostri figli mettere a confronto la loro storia con la vostra, e farà piacere anche a voi stessi, quando da grandi andrete a rivedere com’eravate da adolescenti”, forse per un momento riescono anche a capire che non è il caso di fare le cose solo per prendere un voto o solo perché qualcuno le chiede.

Le cose infatti è importante farle per conservare una memoria di sé, da poter trasmettere ad altri. In fondo è bello abituarsi all’idea che ogni cosa che si fa può rientrare nella categoria storica del fenomeno, che – come dice sempre il Neri – non riguarda il “breve periodo”, come l’evento, ma un periodo così lungo che può coprire decenni, secoli o anche millenni.

Non è forse entusiasmante l’idea di sapere che il fenomeno, all’interno del quale noi siamo protagonisti e che in virtù del quale si fa la “storia”, è un processo molto terreno, molto prosaico, caratterizzato da tradizioni popolari da noi assimilate spesso inconsciamente? La storia non è più, come fino a ieri, soltanto la storia delle classi sociali superiori, ma è la storia del popolo, per la cui conoscenza vanno considerate “fonti” anche la semplice filastrocca, la fiaba, il proverbio, la festa, gli usi e i costumi più antichi, la parlata dialettale…

Se ci abituiamo a considerare la gente comune come soggetto attivo di storia e non come oggetto passivo di storie altrui, ci diventerà facile prestare attenzione alle condizioni di vita delle diverse classi sociali, alle fondamentali differenze di genere, alle cosiddette “civiltà altre”, cioè a tutte quelle civiltà non europee, non occidentali, da sempre condannate al silenzio.

Ma può davvero la scuola insegnare la storia se essa stessa non riesce a tenere un archivio delle proprie realizzazioni? La scuola ha forse una memoria storica del proprio sapere, a disposizione di chiunque voglia consultarla? Perché quando entra in una classe, il docente ha sempre l’impressione di dover iniziare le cose da capo, come se nel suo istituto non ci sia alcun pregresso cui poter attingere? Perché dobbiamo sempre sentirci così soli quando già decine, centinaia di colleghi hanno fatto prima di noi un cammino didattico e culturale?

Didattica della storia (VI)

6. Saper declinare

Se nella storia di un giovane non vi sono elementi almeno sufficienti per poter comprendere le vicende del mondo degli adulti, la storia, né come disciplina a se stante, né come background trasversale a tutte le aree di sapere, può essere insegnata. Qui parliamo di “elementi almeno sufficienti”, dando per scontato che la storia degli adulti, proprio a motivo delle ambiguità di cui essi sono capaci, sfugge, nella sua complessità, a una comprensione adeguata da parte del giovane.

Un educatore dovrebbe comunque preferire sempre a una ripetizione meccanica di contenuti prestabiliti e spesso complicati, un confronto dialettico su contenuti più semplici. Il giovane in fondo non deve fare altro che abituarsi all’idea di poter esercitare la libertà di scelta per rendere la vita più umana. E deve essere messo in grado di capire dove nella storia si è più esercitata questa facoltà e quali ne sono state le conseguenze.

Compito dell’educatore, proprio perché qui si ha a che fare con dei “giovani”, è quello di mediare la comprensione delle azioni degli uomini col vissuto e con le capacità interpretative del giovane. Quindi si tratta d’impostare una forma di didattica i cui contenuti devono emergere da continue domande di senso, in cui gli aspetti psico-pedagogici della relazione giovane-adulto risultano, ai fini della motivazione iniziale e della rimotivazione in itinere, di fondamentale importanza. Per non parlare del fatto che sono proprio questi aspetti che aiutano l’educatore a declinare anche il contenuto in sé della disciplina.

Se un giovane comprendesse adeguatamente tutta la doppiezza o l’ambiguità di cui un adulto è capace (nel senso che spesso l’adulto fa esattamente il contrario di ciò che dice), diremmo che siamo di fronte a un’anomalia. In fondo a noi i giovani piacciono proprio per la loro carica idealistica, per l’aspettativa che hanno di vedere realizzata l’unità di teoria e prassi, di metodo e contenuto.

Tuttavia un giovane può essere aiutato a capire che nella storia sono stati fatti tentativi per rendere la vita più coerente con gli ideali professati. In via di principio potremmo sostenere che quanto più una formazione sociale tende ad allontanarsi dalla naturalità dei rapporti umani o, se si preferisce, dall’umanità dei rapporti naturali, tanto più essa cerca di giustificare se stessa con l’inganno, la propaganda, la demagogia, le guerre ecc.

Con ciò però non si vuole sostenere che quanto più ci si allontana dalla primitiva innocenza dell’umanità, tanto meno si sarà in grado di recuperarla; certo, questo recupero sta diventando sempre più difficile, ma non possiamo sostenere che l’odierna civiltà ha meno possibilità di farlo rispetto a quella medievale o schiavile, altrimenti le attuali generazioni si sentiranno senza speranza. Anzi, dovremmo dire il contrario, e cioè che quanto più ci si allontana da quella innocenza primordiale, tanto più se ne avverte la mancanza e si è disposti a lottare per riaverla, nella consapevolezza di non poterne fare a meno.

Ma qui s’è già introdotto un elemento interpretativo decisivo che sbagliamo a dare per scontato. Fino a che punto un educatore è disposto ad accettare il postulato che l’epoca del comunismo primitivo sia stata quella più umana e democratica? Accettare una cosa del genere, quando si deve impostare un lavoro collegiale tra adulti, è la cosa più difficile in assoluto, poiché lo stesso educatore è soggetto a condizionamenti culturali da parte dei mezzi di comunicazione della società in cui vive (ivi inclusi gli stessi libri di testo).

Senonché questo è per noi un presupposto irrinunciabile, che riguarda l’interpretazione generale da dare alla storia. Gli educatori, prima di impostare un qualunque lavoro didattico collegiale, sarebbe bene che partissero da questo terminus a quo, chiarendosi reciprocamente le idee su che tipo di lettura fanno della storia.

In sintesi

Dunque che tipo di approccio didattico possiamo immaginare quando c’è di mezzo una disciplina complicata come la “storia”? Proviamo a delinearlo sinteticamente in cinque punti:

1. partiamo dall’esperienza del giovane, chiarendogli l’importanza di avere un pregresso oggettivo da cui in alcun modo egli può prescindere (relazioni parentali, sociali, ambientali…), e che costituisce la memoria storica, di lui e di chi gli sta accanto, il suo “esserci”;

2. formuliamo domande di senso per mostrare al giovane l’uso ch’egli può fare della libertà di scelta, ovviamente in contesti determinati, da esemplificare nello spazio e nel tempo;

3. ipotizziamo i possibili, diversi, percorsi della sua libertà e le possibili, diverse, conseguenze relative alle scelte che vengono prese e che si potevano prendere;

4. trasferiamo questa dinamica psico-pedagogica alla comprensione dei fatti storici, facendo emergere una possibile interpretazione di tali fatti e soprattutto dei processi storici, usando una tecnica modulare, a difficoltà crescente, adeguandola alla capacità di comprensione e di rielaborazione dell’alunno;

5. basiamo l’interpretazione su una precomprensione relativa alla formazione e allo sviluppo delle cinque fondamentali tappe storiche: comunità primitiva, schiavismo, servaggio, capitalismo e socialismo, di cui la prima viene ritenuta come quella più umana e democratica, essendo l’unica non soggetta a conflitti di classe e a rapporti di sfruttamento uomo-natura (tale precomprensione non necessariamente deve essere esplicitata sin dall’inizio del lavoro didattico; può essere anche una conclusione ottenuta a fine lavoro).

Didattica della storia (V)

5. La questione del come

Compito di un qualunque formatore è quello di far capire al giovane come può contribuire, nel suo piccolo, alla modificazione della realtà in cui vive. Quindi il lavoro da fare è anzitutto di tipo psicopedagogico: comprendere il giovane nei suoi bisogni, nelle sue capacità e attitudini, nella sua realtà pregressa, individuando gli aspetti su cui far leva per suscitare la motivazione.

I docenti sanno bene che questo, a scuola, è il compito più difficile: non solo perché l’università non è stata, fino a ieri, in grado di abilitarli didatticamente all’insegnamento (a ciò s’è cercato di rimediare con l’istituzione della SSIS, rimessa in discussione dall’attuale ministra Gelmini), ma anche perché spesso hanno la percezione di essere considerati dalla pubblica opinione come semplici impiegati statali, cioè rappresentanti di uno Stato che non sa dimostrare di credere davvero nell’importanza della formazione.

A scuola non esiste quasi nulla che predisponga ad una vera azione educativa e formativa. Lo impedisce la rigidità dei criteri fondamentali su cui si regge tutta l’organizzazione scolastica, che, in tal senso, non è molto diversa da una di tipo carcerario o militare: la classe ben definita nei suoi componenti, l’orario rigidissimo, il burocratico registro, le scadenze improrogabili, gli ansiosi voti, i pedanti programmi ministeriali, i libri di testo supponenti, ecc. L’odierna scuola è esattamente l’opposto di ciò che aveva preventivato un qualunque pedagogista classico, quando poi non si ha a che fare con le ben note esperienze di bullismo, di assenteismo, di dequalificazione degli studi, di promozioni assicurate ecc.

Nonostante questo noi dobbiamo comunque realizzare un’attività didattica che ci dia soddisfazione e che permetta ai giovani di avere fiducia nelle loro risorse. Lo studio della storia ha senso soltanto se serve per fare questo tipo di lavoro, così come devono servire la geografia, la lingua italiana e tutte le altre discipline.

A noi interessa far crescere il giovane secondo caratteristiche umane e democratiche, in cui la conoscenza dei contenuti delle varie aree di sapere appaia soltanto come l’aspetto “intellettuale” di una crescita a tutto tondo.

Attenzione in tal senso a non confondere “intellettuale” con “culturale”. La “cultura” è un complesso di cose che va ben oltre la semplice conoscenza dei contenuti: la cultura è esperienza condivisa, basata su valori sociali comuni, tradizioni usi e costumi trasmessi a livello generazionale, linguaggi e credenze popolari che appartengono a una collettività storica, è anche “resistenza” a un colonialismo ideologico che passa attraverso i media dominanti. Tutto ciò oggi esiste sempre meno.

Forse, prima di fare un qualunque lavoro storiografico, bisognerebbe chiarire entro quali confini ci si potrà muovere, i limiti epistemologici entro cui le nostre definizioni troveranno il loro senso; quei limiti che sono appunto determinati dalla società borghese, dalla civiltà occidentale, dal sistema capitalistico ecc. Noi infatti possiamo soltanto ipotizzare una società, una civiltà, un sistema diversi da quelli in cui viviamo, ma non possiamo certo prescindere dal nostro presente, dall’hic et nunc.

Volendo, si può anche fare il percorso inverso (quello di tutti i manuali scolastici di storia): partire cioè dall’esperienza primitiva, per poi giungere alla nostra. Ma in tal caso sarebbe bene non lasciar sottintendere l’inevitabilità di un percorso evolutivo, progressivo, che porta necessariamente alla considerazione che la nostra epoca è la migliore di tutte.

Ogni formazione socio-economica andrebbe affrontata come un unicum, chiarendo bene che nelle fasi di transizione verso una diversa formazione sono state compiute determinate scelte, consapevoli o indotte dalle circostanze, che hanno comportato determinate conseguenze, positive o negative.

Didattica della storia (IV)

4. Domande di senso

Dalla delineazione delle varie tipologie di relazioni umane che il docente dovrà esemplificare in rapporto al contesto scolastico, devono emergere le domande di senso, in virtù delle quali sia possibile comprendere le categorie fondamentali del processo storico: possibilità e necessità, che sono quelle in cui si muove la libertà di scelta.

Poiché svolgere un lavoro di ricerca storica è come svolgere un lavoro psicopedagogico sul singolo individuo e sulle relazioni sociali che lo caratterizzano, il docente deve stare molto attento a non dare per scontato nulla, se non appunto il fatto che l’essere umano è dotato, a differenza del mondo animale, della facoltà di scelta.

La storia, sia essa del singolo studente nella sua classe, sia quella degli uomini di tutti i tempi e luoghi, non è determinata univocamente dalla categoria della necessità.

Il compito dell’educatore-formatore è appunto quello di far capire al giovane che, pur essendo egli nato in un contesto che non dipende da lui, e che quindi gli è oggettivo, soggettivamente può contribuire a modificarlo, sia in senso positivo che in senso negativo.

Inutile qui dire che si possono fare mille esempi sul contesto urbano o rurale in cui si vive, sulle relazioni parentali che ci determinano, sulla cultura che assorbiamo attraverso i media, su tutta quella serie di condizionamenti indipendenti dalla nostra volontà.

I giovani, più degli adulti, tendono a considerare questi condizionamenti come molto oggettivi, cioè tali per cui uno sforzo al cambiamento sarebbe vano, ma si esaltano anche in maniera fanatica quando vedono che qualcuno dimostra, in qualche modo, che è possibile unire teoria e prassi. Non a caso le rivoluzioni, nella storia, non vengono fatte da persone “anziane”.

Bisogna dunque insegnare loro che i cambiamenti sono possibili (l’evoluzione della storia sta appunto lì a dimostrarlo), ch’essi avvengono il più delle volte in maniera graduale, su aspetti concreti della vita reale, e che quando scoppiano dei rivolgimenti sociali è perché una parte della società rifiuta di condividere la necessità di talune forme dell’agire e ne propone altre.

La storia non è altro che un immenso teatro i cui attori recitano delle parti sempre diverse. Noi non siamo solo spettatori di queste scene (volgendo lo sguardo verso il passato) ma anche protagonisti (vivendo il presente), e dobbiamo cercare di capire quando i cambiamenti sono stati giusti, cioè quando hanno fatto realmente progredire il senso di umanità degli uomini e delle donne, e quando invece l’hanno fatto regredire, non rispettando le condizioni della libertà di scelta.

Didattica della storia (III)

3. Esempi concreti

Per poter capire il significato delle formazioni socio-economiche della storia, e soprattutto le fasi di passaggio dall’una all’altra, occorre fare degli esempi concreti, presi dalla vita stessa dei giovani o da quella delle persone a loro più prossime.

Indicativamente sarebbe bene non partire mai da definizioni astratte da dimostrare, ma da esempi di vita da interpretare. La comprensione, sempre approssimata, della vita reale deve portare alla comprensione, ancora più approssimata, dei fatti e dei processi storici.

Per esperienza sappiamo che delle cinque formazioni sociali, quelle che colpiscono di più la fantasia degli alunni sono le prime due: il mondo primitivo e lo schiavismo (che ora però, coi nuovi programmi, non si fanno più alle medie).

L’epoca primitiva affascina per il rapporto diretto che l’uomo aveva con le forze della natura e degli animali. Lo schiavismo piace perché è facile stabilire chi sono i “buoni” e i “cattivi”. In particolare queste forme così palesi di oppressione e sfruttamento interessano perché i giovani, rispetto al mondo degli adulti in generale, si sentono deboli, vittime di torti o incomprensioni.

Non dovrebbe essere difficile trovare degli esempi in cui i ragazzi si sentono liberi nel loro rapporto con la natura e con gli animali e in cui invece si sentono a disagio nei loro rapporti con gli adulti o coi loro coetanei più grandi o più forti fisicamente. Le esperienze dei ragazzi devono poter avere un valore paradigmatico, nei limiti del possibile ovviamente, affinché si abbiano delle esemplificazioni non banali, in quanto sufficientemente realistiche: saranno poi queste ad aiutare a capire dei processi storici relativamente complessi.

Certo, noi non possiamo prescindere dal fatto che, trattando p.es. il problema dello schiavismo, cioè di come interpretarlo nella maniera più obiettiva possibile, siamo costretti a farlo all’interno di un preciso condizionamento storico-culturale: quello dell’ideologia borghese, che è dominante nelle nostre società capitalistiche.

E, poiché è praticamente insensato sostenere che l’epoca dello schiavismo sia stata migliore della nostra, dobbiamo altresì dare per scontato che tra lo schiavismo e il capitalismo vi sia stato un processo storico evolutivo, che ha portato l’umanità, pur soggetta a gravi contraddizioni (si pensi solo alle due guerre mondiali), ad avere oggi una maggiore consapevolezza di sé, cioè dei valori e dei diritti umani.

Dunque, quello che nella fase della motivazione bisogna fare è partire dalla comprensione delle varie tipologie di relazioni umane, per arrivare alla comprensione delle relazioni storiche tra le classi sociali delle diverse formazioni socio-economiche, rapportando il tutto all’età dei nostri alunni.

Ecco un confronto sinottici che indica come fare una comparazione teorica tra due forme di civiltà:

CONFRONTO TRA FEUDALESIMO E CAPITALISMO: MEDIOEVO E MODERNITA’

Rapporto con la società

Esistevano comunità di villaggio rurali, autonome, autosufficienti, indipendenti tra loro, con diverse leggi, monete, usi, tradizioni, lingue, pesi, misure, dazi, dogane…
Esiste la nazione, con un unico mercato, un’unica moneta, una sola legge, una sola lingua, un unico esercito, una sola burocrazia, una scuola statale…

La terra appartiene ai feudatari e i contadini (servi della gleba) la lavorano.
Il borghese è padrone di capitali o di terre o di imprese commerciali o manifatturiere e vi fa lavorare gli operai salariati, manuali e intellettuali.

Tra contadino e feudatario c’è un rapporto personale di dipendenza. Non c’è licenziamento.
Tra borghese e operaio c’è un rapporto contrattuale libero. Ci può essere licenziamento.

Lo sfruttamento del contadino non va oltre le esigenze di consumo del feudatario.
Lo sfruttamento dell’operaio va oltre le esigenze di consumo del borghese.

Il feudatario riceve dal contadino prodotti in natura (agricoli).
Il borghese riceve dall’operaio prodotti industriali.

Il contadino non è giuridicamente libero.
L’operaio è giuridicamente libero.

Il feudatario impedisce al contadino di lasciare il feudo.
Il borghese vuole che il contadino lasci il feudo, per farlo diventare operaio nella sua azienda.

Il feudatario si trasforma col tempo in borghese (p.es. obbliga i contadini a produrre per il mercato).
Il borghese non si trasforma mai in feudatario, anche se può comprare dei titoli nobiliari. Tuttavia aspira a vivere di rendita (anche solo finanziaria, cioè non produttiva).

Il contadino fa anche l’artigiano ed è commerciante dei propri beni.
Contadino, artigiano, commerciante e operaio sono figure sociali separate.

Famiglia patriarcale (allargata)
Famiglia borghese (ristretta)

Rapporto con l’economia

Prevale la campagna sulla città e la terra sull’industria (manifattura).
Prevale la città sulla campagna e l’industria sulla terra.

Prevale l’autoconsumo sullo scambio.
Prevale lo scambio sull’autoconsumo.

Prevale la rendita dei feudatari. Scarsi investimenti nelle attività produttive. Assenza di rischi.
Prevale il profitto dei borghesi. Capitali investiti in attività produttive. Presenza del rischio.

Autoconsumo: si consuma ciò che si produce.
Mercato: ciò che si consuma deve essere comprato.

Prevale il valore d’uso sul valore di scambio.
Prevale il valore di scambio sul valore d’uso.

Valore d’uso: una cosa ha valore se è necessaria.
Valore di scambio: una cosa ha valore se può essere comprata e venduta.

Prevale il baratto sulla moneta.
Prevale la moneta sul baratto.

Baratto: si scambiano gli oggetti.
Moneta: si acquista qualunque cosa (compravendita).

Mercati e fiere: si comprano poche cose che non si riescono a produrre (p.es. spezie, sale) e si vende l’eccedenza (surplus).
Mercati, negozi, ipermercati: si vende e si compra tutto, anche il superfluo.

Produzione per il consumo.
Produzione per il mercato, per accumulare capitali.

Pubblicità: non esiste o, se esiste, è di tipo più politico che economico (è propaganda).
Pubblicità: molta, serve per far acquistare i prodotti e per vincere la concorrenza (in mass-media, fiere, cartellonistica…).

Concorrenza tra produttori: non esiste o è regolamentata dalle corporazioni.
Concorrenza tra produttori: molta.

Monopolio nella produzione: non esiste, almeno sino quando non si formano le corporazioni. Esiste comunque il latifondo.
Monopolio nella produzione: tende inevitabilmente a imporsi sulla concorrenza dei produttori, portando i più deboli alla rovina.

Tecnologia: poco sviluppata.
Tecnologia: molto sviluppata (acciaio, plastica, alluminio, biotecnologie ecc.).

Mezzi di lavoro: aiutano il contadino a lavorare.
Mezzi di lavoro: servono al borghese per sfruttare l’operaio.

Le esigenze della natura prevalgono su quelle della società.
Le esigenze della società prevalgono su quelle della natura.

Materie prime prevalenti: legno, argilla, rame, ferro…
Materie prime prevalenti: carbone, petrolio, gas, nucleare.

Fonti energetiche: acqua, vento, legno, sole…
Fonti energetiche: carbone, derivati del petrolio, energia solare, eolica, nucleare, vulcanica…

Inquinamento della natura: quasi inesistente.
Inquinamento della natura: accentuato.

Locomozione: cavallo, asino, mulo, nave a vela.
Locomozione: bici, macchina, treno, aereo, nave a motore.

Rapporto con la politica

Il contadino lotta contro il servaggio, per avere la terra che appartiene al latifondista (feudatario laico o ecclesiastico).
Il borghese, già proprietario di capitali o di terre o di imprese, lotta contro i feudatari e il clero per avere più potere politico.

Il contadino che rifiuta il servaggio può diventare operaio, oppure se ha fortuna o pochi scrupoli può diventare borghese.
L’operaio lotta contro il borghese, proprietario dei mezzi produttivi.

Le figure politiche principali sono il papa e l’imperatore e i loro vassalli. Centralismo governativo sostenuto dai ceti agrari dominanti.
Le figure politiche principali sono i re nazionali, ma soprattutto i parlamenti e le costituzioni, che devono esprimere gli interessi anche della borghesia.

La successione al trono imperiale e alle cariche politiche è ereditaria.
Nei parlamenti si vota (prima sulla base di un certo censo, poi a suffragio universale).

L’imperatore e il papa sono al di sopra delle leggi. Monarchia assoluta.
I sovrani hanno un potere limitato dalla Costituzione e dal parlamento. Monarchie costituzionali o Repubbliche parlamentari.

Politica estera: si fanno crociate per sfruttare e dominare. Pretesto: difesa e diffusione del cristianesimo.
Politica estera: si pratica il colonialismo per sfruttare risorse umane e naturali. Pretesto: difesa e diffusione della democrazia.

Rapporto con la religione

Il contadino è una persona credente e praticante, di religione cattolica. Cristiano tutti i giorni. Dio prevale sull’uomo.
Il borghese è una persona poco credente e ancor meno praticante, di religione protestante (de facto o anche de jure). Cristiano la domenica. L’uomo prevale su Dio.

Prevale l’interpretazione del clero nella lettura della Bibbia.
Prevale l’interpretazione personale della Bibbia (libero esame).

Prevale la gerarchia ecclesiastica. Clero più importante dei laici.
Prevale il sacerdozio universale dei fedeli. Tra laici e clero non vi è alcuna differenza.

Sacramenti: sette.
Sacramenti (area protestante): due (battesimo e comunione). Ma il concetto di “sacro” tende a scomparire.

Prevale teologia dogmatica, anche se la chiesa romana ha modificato alcuni dogmi della chiesa ortodossa o aggiunto in proprio nuovi dogmi.
Il libero esame della Bibbia mette in discussione i dogmi della chiesa. Prevale il dubbio e l’analisi critica.
Prevale la tradizione della chiesa (sinodi e concili).

Prevale la comunità religiosa sul singolo credente.
Prevale il singolo credente sulla comunità religiosa.

Prevalgono le opere sulla fede e la fede sulla ragione.
Prevale la fede sulle opere e la ragione sulla fede.

Pessimismo sulla possibilità di libertà e giustizia sulla terra. Speranza nell’aldilà.
Fiducia nel progresso della scienza e della tecnica e nel benessere terreno.

Crociate: conquistare per convertire. Il potere secolare e i mercanti sono usati per dominare.
Colonialismo: conquistare per dominare. La chiesa è usata per convertire.

Lo Stato, per i cattolici, è subordinato alla chiesa nelle questioni morali. Stato confessionale.
Lo Stato, per i protestanti, è separato dalla chiesa e quindi autonomo nelle questioni morali. Stato laico.

Rapporto con la cultura

Prevale la cultura orale (che è di molti) su quella scritta (che è di pochissimi). Il latino non è più parlato ma solo scritto.
Prevale la cultura scritta su quella orale (le leggi, i contratti commerciali e di lavoro, la contabilità).

Nello scritto prevale il latino sul volgare (o lingua romanza). In Italia la svolta si ha con Dante, Petrarca e Boccaccio.
Prevalgono sia nello scritto che nel parlato le lingue nazionali (italiano, inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese…).

Valori: fiducia reciproca, parola data, onore, origine aristocratica, stretti rapporti parentali…
Valori: la parola non vale niente, contano solo i contratti, firmati e vidimati. Opportunismo, il farsi da sé…

Di fronte alle contraddizioni sociali si usa la carità, l’elemosina, l’assistenza… La povertà è considerata come inevitabile.
La povertà è considerata come una condizione che va assolutamente evitata, accettando qualunque tipo di lavoro. Il povero si condanna da sé.

Analfabetismo: diffuso tra i ceti più bassi o rurali.
Analfabetismo: tende a scomparire, soprattutto nelle città.

Cultura: monopolio del clero.
Cultura: diffusa tra la borghesia.

Cultura dominante: teologia, religione, filosofia religiosa, iconografia, diritto canonico…
Cultura dominante: diritto, filosofia, letteratura, scienza… Si riscopre la cultura pre-medievale (greco-romana).

Libri: scritti a mano.
Libri: stampati.

La scuola è privata, gestita dal clero. Prevalgono le università teologiche.
La scuola è pubblica, gestita dallo Stato. Prevalgono le accademie laiche.

Il mestiere dello storico

Uno storico non è un teorico. Uno storico vuole raccontare i fatti. Li racconta collegandoli tra loro secondo un’ideologia basata sui rapporti di forza. Ciò è inevitabile, in quanto le vicende che racconta sono tutte conflittuali.

Lo storico legge prevalentemente delle fonti scritte, che gli raccontano episodi prevalentemente violenti. Se non c’è violenza non c’è storia, ma cronaca, agiografia, letteratura… Lo storico non avverte il bisogno di farsi una cultura troppo astratta, troppo teoretica. Gli basta – o crede che gli basti – quel tanto per interpretare dei fatti nudi e crudi.

È per questo motivo che ritengo i manuali di storia uno strumento antipedagogico. Secondo me uno storico dovrebbe cercare di motivare lo svolgimento dei fatti anche sulla base di idee culturali (valoriali) e non soltanto sulla base di interessi di parte, economici e politici; cioè uno storico dovrebbe già avere una posizione critica nei confronti di questi interessi, in modo che quando li incontra nella sua indagine non dà per scontato il loro svolgimento. Lo storico non dovrebbe essere come un commissario di polizia che quando s’imbatte in un omicidio comincia subito a ipotizzare i soliti moventi che la società in cui vive gli mette a disposizione: soldi, sesso, potere ecc. Lo storico dovrebbe andare al di là dei fatti, dovrebbe potersi immedesimare nella cultura in cui essi trovano la loro ragion d’essere.

La storia non è solo un intersecarsi di interessi opposti, materiali o di potere politico. Vi è anche lo sviluppo delle idee, dei valori, della cultura, che non necessariamente trova riscontro diretto in specifiche fonti. Infatti non sempre gli uomini si rendono conto che l’accettazione o l’abbandono di determinate prassi o consuetudini è in qualche modo legato all’accettazione o all’abbandono di determinati valori.

I valori sono spirituali, invisibili, impercettibili alla penna di un redattore di fonti, che può anche viverli o, al contrario, smettere di viverli in maniera inconscia, irriflessa, istintiva; meno che mai il redattore riesce, in piena consapevolezza, a collegare “logicamente”, in forma sillogistica, il sorgere o il venir meno di un dato fenomeno al sorgere o venir meno di un dato valore culturale o umano.

Anche quando le fonti hanno la pretesa di far dipendere rigorosamente determinati fatti da determinate idee, bisogna sempre che lo storico agisca con molta circospezione, poiché spesso proprio in questa stretta coincidenza di teoria e prassi si celano le falsificazioni più bieche. Tra fatti e idee esiste sempre un rapporto ambiguo, di reciproca interazione, in cui non a caso la libertà si muove su binari opposti.

Questo significa che nell’interpretazione dei fatti uno storico non dovrebbe avere la pretesa di comportarsi come un ricercatore appartenente alle discipline scientifiche. Non è importante l’esattezza con cui si raccontano i fatti, che è sempre molto relativa, ma la capacità di argomentare ipotesi interpretative con cui cercare di collegare gli eventi più significativi.

Leggendo i vangeli si fa fatica a credere che i redattori fossero degli storici, e tuttavia il loro modo di raccontare le cose – a prescindere dal carattere leggendario di molti episodi – ha convinto milioni di persone, modificandone, a volte anche radicalmente, lo stile di vita.

Questo per dire che un redattore di fonti può essere geniale nel modo di presentare le cose, ma se non incontra consensi effettivi, pratici, il suo genio non vale nulla. Ecco perché quando si raccontano le cose non è tanto importante dire tutta la verità (nessuno è in grado di farlo, e chiedere a un testimone processuale di giurare sopra la Bibbia, sperando che dica effettivamente “tutta” la verità, è semplicemente ridicolo), quanto piuttosto è importante aiutare chi ascolta (o chi legge) a immedesimarsi nei fatti narrati, come fece magistralmente il Manzoni col suo capolavoro.

Quanto più l’immedesimazione empatica è forte, tanto più lo scopo del testo (della fonte storica) è riuscito. Il testo non ha creato soltanto curiosità o interesse intellettuale, ma anche partecipazione emotiva, che può anche diventare corale, se il testo è espressione di un sentire comune (come p.es. avvenne col Libretto Rosso di Mao al tempo della rivoluzione culturale).

Questo a prescindere dal fatto che i contenuti trasmessi dalla fonte siano umani o disumani, veri o illusori, verosimili o falsificati. Non esiste un criterio oggettivo che possa stabilire a priori la differenza tra il vero e il falso. L’interpretazione è sempre un faticoso processo a posteriori, che non può riguardare, in maniera unilaterale, il solo storico, ma anche lo studente che legge una fonte e su cui deve esercitare il proprio raziocinio, lasciandosi stimolare da una batteria di domande-guida. Spesso questo atteggiamento supponente degli storici lo si nota anche nel mondo della politica e del giornalismo: ognuno è sempre convinto di avere la verità in tasca.