Articoli

Parmenide, Eraclito e l’occupazione delle fabbriche

Che la filosofia sia cosa astratta e quindi inutile ai fini pratici, è dimostrato anche dal fatto che un’affermazione del genere: “L’essere è e non può non essere e il non essere non è e non può essere” (che, come noto, è di Parmenide), pur essendo altamente dogmatica e quindi povera di contenuto, può anche pescare nel vero se si fa coincidere l’essere con la realtà e il non essere col desiderio. Le parole della filosofia son come la sabbia che, quando scende da un pugno chiuso, va dove tira il vento.

Parmenide era un fanatico (oggi diremmo “talebano”) che credeva nell’autoevidenza della verità e che quindi rifiutava l’unità degli opposti che si attraggono e si respingono. La verità, per lui, non può essere data da un libero e democratico confronto tra opinioni diverse, ma può essere solo imposta da chi pensa di avere più ragione degli altri. È una verità aristocratica. Solo i credenti si mettono dalla parte di Parmenide, ovviamente non prima d’aver equiparato la sua concezione di “essere” con quella di “dio”.

Nondimeno se Parmenide avesse fatto coincidere l’essere con la realtà (sociale, umana) e quindi con l’esistenza, inevitabilmente carica di problemi da risolvere, gli si sarebbe anche potuto dar ragione quando diceva che il non essere non esiste. In tal caso infatti il non essere sarebbero i sogni, i desideri astratti, la confusione che uno fa tra la realtà e i propri desideri.

Dunque, in tal caso, sarebbe stato vero: solo l’essere è, con tutte le sue contraddizioni, mentre il non essere, con tutte le sue fantasie, non è, non ha sostanza e chi lo predica s’illude di poter cambiare le cose. Il non essere rappresenterebbe la visione onirica, utopistica, quella di chi vorrebbe cambiare tutto e subito, senza rendersi conto delle vere contraddizioni sociali, per il cui affronto occorre un consenso di massa. Cosa di cui i filosofi non si preoccupano affatto, poiché in genere sono degli individualisti, tant’è che quando si mettono a fare politica in senso vero e proprio, tutta la loro filosofia non vale assolutamente nulla. I filosofi sono degli idealisti che non amano sporcarsi le mani.

Resta comunque difficile spezzare una lancia a favore di Parmenide, proprio perché egli vedeva la realtà come qualcosa da superare grazie appunto alla sua concezione astratta dell’essere, con cui rifiutava l’idea dell’opposizione, cioè appunto l’idea del non essere, che quell’idea meravigliosa per cui, davanti agli orrori dell’essere, bisogna sempre essere capaci di offrire all’uomo una nuova possibilità. Dobbiamo infatti esser grati al non essere se riusciamo ancora oggi a credere nella possibilità di cambiare l’esistente.

Questa cosa era già stata capita dall’avversario n. 1 di Parmenide: Eraclito, per il quale l’opposizione di contrari costituiva il senso della vita. Tuttavia, siccome anche lui era un filosofo astratto, quel che di buono aveva detto rischia sempre di trasformarsi nel suo contrario. Nel senso che se da un lato è vero che essere e non essere devono perennemente coesistere, è anche vero che non tutte le opposizioni meritano di sopravvivere.

Tutti noi ricordiamo, dai banchi di scuola, il famoso apologo di Menenio Agrippa, quando, per convincere i plebei a tornare alle loro case, rinunciando alla lotta di classe, disse che un giorno tutte le membra del corpo s’erano rifiutate di lavorare per non ingrassare lo stomaco, che, a parere loro, non faceva nulla. Ma, dopo qualche tempo, le membra s’erano accorte che anche loro illanguidivano, proprio come lo stomaco; ed allora compresero che, se non avessero nutrito lo stomaco, si sarebbero indebolite sempre di più, fino a morire.

Ecco a cosa può portare un’interpretazione sbagliata della filosofia dialettica di Eraclito: a credere che il capitale sia necessario al lavoro. Imprenditori privati, che dispongono di capitali e non lavorano, e operai salariati, che lavorano senza avere mai dei profitti, non sono due poli opposti che devono cercare di coesistere pacificamente. Essi rappresentano la contraddizione irriducibile di questo sistema, che all’interno di esso non può in alcun modo essere risolta.

Gli operai devono prendere coscienza che quando le aziende chiudono, per un motivo o per un altro, esse vanno occupate ed eventualmente riconvertite. I lavoratori devono iniziare a chiedersi non come fare per sopportare la crisi del sistema, ma come cercare un’alternativa radicale, che anzitutto vuol dire riprendersi il proprio territorio, recuperandone le risorse naturali e le radici culturali. Vuol dire sondare ciò di cui i suoi abitanti possono aver bisogno e iniziare quindi a produrre per soddisfare finalmente le necessità concrete e non le mere esigenze di profitto.

Se la proprietà dei mezzi produttivi non passa dalle mani di chi gestisce i capitali a quelle di chi gestisce il lavoro, si continuerà a parlare di crisi del sistema in eterno. Il non essere non è tenuto a convivere con un essere che di umano e di naturale non ha proprio nulla.