Sulla cinematografia americana
I
In una società d’ispirazione calvinista – e ogni società capitalistica lo è e quella americana in particolare – il trovarsi dalla parte del “bene” o del “male” è una condizione data dal destino, con un lieve margine di possibilità di scelta. Questo è molto evidente nei film americani.
Naturalmente sono possibili varie gradazioni di bene e di male, ma quello che è quasi impossibile è il passaggio dal male al bene, in quanto è molto più facile il contrario.
Chiunque passi dal male al bene resta un soggetto a rischio, che sicuramente non farà mai nulla di particolarmente significativo, o, in ogni caso, resta un personaggio che se anche può compiere, in una certa sequenza del film, un gesto positivo, normalmente muore nel momento stesso in cui lo compie, oppure viene fatto morire prima che lo scherno o la derisione di qualcuno del suo passato possa farlo ricadere negli errori di sempre.
Nei confronti di chi invece dal bene passa al male, si avrà un occhio di riguardo, sempre che il male non sia stato troppo grande e soprattutto che non si ripeta, e comunque il regista potrà sempre ricorrere alla soluzione della morte come rimedio alla colpa.
In una società calvinista è solo una questione di ruoli, di gioco delle parti, in quanto non c’è vera differenza tra bene e male: lo dimostra il fatto che spesso i mezzi e i metodi usati, dai “buoni” e dai “cattivi”, sono gli stessi.
Il bene che si vive nei film americani è quello di una vita agiata, convenzionale, individualistica e solo formalmente socializzata; anche quando l’eroe sembra rifiutare questo tipo di vita, alla fine, se il rifiuto è radicale, è lui a rimetterci.
Si è così convinti di questo che si è persino disposti a transigere nei confronti di chi cerca con mezzi illegali di acquisire una ricchezza personale, sempre che ovviamente il criminale dimostri sul piano del carattere d’essere accattivante o di avere comunque una personalità interessante.
Gli americani hanno una storia troppo truce per non sapere che nella loro società il “male” non è che un modo illegale o convenzionale di fare le stesse cose del “bene”. Tant’è che nei confronti della mafia la cinematografia americana è sempre stata molto indulgente. Forse ancora di più che nei confronti di quella criminalità individualistica alla Jesse James o alla Bonnie and Clyde, che pur rispecchiava meglio la natura individualistica degli americani.
La mafia, pur costituendo un prodotto d’importazione, è sempre stata trattata con molta circospezione nella cinematografia americana, perché comunque essa rappresentava, nella consapevolezza degli americani, il tentativo di dare una veste organizzata e ufficiale, soggetta a regole, all’esigenza di benessere da parte di strati marginali.
La criminalità individualistica invece è, per definizione, priva di regole e quindi ingestibile nell’immaginario collettivo. Il piccolo criminale, non affiliato ad alcuna organizzazione, è un perdente per sua natura ed è sempre destinato ad essere catturato.
II
Nella cinematografia americana l’individualismo è ben visibile là dove si cerca di esprimere dei valori positivi nelle situazioni più critiche. Nella tragedia vien fuori l’eroe, cioè colui che soffre ma non si dispera, che affronta con coraggio le proprie angosce, spesso in condizioni tali da non poter contare neppure sulle forze dell’ordine.
L’eroe americano deve sbrigarsela da sé. La polizia interviene all’ultimo momento, per legittimare una vittoria personale. E se l’eroe è proprio un poliziotto, allora immancabilmente i suoi metodi non piaceranno a chi lo comanda, ai suoi superiori, i quali però sanno di aver bisogno di lui.
I film americani, in fondo, essendo fatti in serie, rispecchiano determinati cliché (uno dei più usati è quello del poliziotto burbero ma bonario). La cultura americana è facile vederla nei film, poiché lì viene rappresentato quel che si vorrebbe essere e non si è.
Cultura individualistica vuol dire che nella prosaicità della vita quotidiana ci si sente schiavi dell’interesse, del denaro, dell’apparenza, dei poteri forti e si riesce a essere “umani” solo nelle situazioni-limite, dove il male è così evidente che basta poco per apparire umani, anche se per dimostrare di esserlo, ci vuole molto coraggio, spirito di sacrificio, coerenza coi propri ideali, attenzione per i più deboli, capacità di discernimento… Tutte cose che possono essere scritte in un libro o proiettate su uno schermo, ma che nella vita quotidiana risultano essere molto difficili da viversi.
La cinematografia, sotto questo aspetto, essendo una fabbrica di sogni e di miti, svolge un ruolo molto simile a quello della religione. I nuovi sacerdoti sono gli attori e il regista fa la parte del deus ex-machina, che fa recitare gli attori nella maniera più convincente possibile, al punto che lo spettatore deve arrivare a confondere fantasia con realtà.
Nei film americani c’è molto teatro greco, molto ritualismo cattolico laicizzato, molta predestinazione calvinista. Gli americani, per poter sopportare la loro società profondamente individualista, hanno bisogno di vedersi rappresentati all’opposto di quel che sono. Sanno bene che nella vita domina la legge del dollaro, ma nei film amano gli eroi che possono vivere senza pensarci, sapendo che di tanto in tanto ricevono lauti compensi per aver compiuto coraggiose missioni.
La cultura individualista può funzionare (e poi soltanto relativamente) quando si è in pochi in un territorio immenso e pieno di risorse, come furono appunto gli Usa sin dalla loro nascita, i quali però dovettero prima sterminare gli indigeni che da secoli abitavano il continente.
Tuttavia, essendo una cultura della sopraffazione (il forte deve dominare il debole), essa si trasforma ben presto in una cultura distruttiva, non solo per le popolazioni interne, ma anche per quelle esterne alla nazione. E’ una cultura violenta sia nei confronti di se stessi che nei confronti degli altri. E’ distruttiva e autodistruttiva. La guerra contro un nemico esterno è vista come rimedio ai problemi interni.
Propriamente parlando, non può neppure essere una “cultura nazionale”, poiché, all’interno di una nazione, essa rappresenta una classe sociale minoritaria, la quale, detenendo il potere economico e quindi politico, impone la propria cultura al resto della popolazione, tant’è che negli Usa ci si difende dai poteri forti puntando sull’appartenenza etnica, ma l’individualismo resta così forte che anche le etnie sono le une contro le altre armate.
La cultura americana è figlia di quella europea: ha avuto quella protestante come padre e quella cattolica come nonno. La differenza è che da noi le due culture continuano a convivere, mentre da loro la più moderna ha prevalso sulla più antica, sicché la storia, nei loro manuali, è sufficiente che parta dall’epopea di Colombo.
III
La cinematografia americana è così standardizzata nei contenuti immessi nel circuito della comunicazione ideologica di massa che è possibile stabilire delle regole interpretative generali per individuare le sue invarianze.
Anzitutto gli americani non mettono mai in discussione il principio di doversi sentire migliori di chiunque altro. Anche quando fanno un film che critica la loro società, tendono a considerare questa critica la migliore possibile e la loro stessa società viene considerata come il modello per tutte le altre, per cui essi la ritengono in grado di anticipare, nel bene e nel male, il futuro delle altre società che hanno abbracciato il capitalismo.
Gli americani pensano di anticipare il futuro sia sul piano tecnico-scientifico che sul piano delle conseguenze che questa tecnologia ha sull’ambiente e sulla società in generale.
Sono convinti di essere superiori proprio per il fatto di aver dovuto accettare, sin dall’inizio della loro storia, tutte le etnie e le lingue e le culture possibili. Pensano cioè di aver creato una società capitalistica unica nel suo genere, aperta a tutti (come sta avvenendo nell’attuale Europa), quando in realtà l’integrazione è avvenuta solo in nome di valori strettamente borghesi (profitto, interesse, rendita, individualismo ecc.).
In secondo luogo tutti i registi operano una stretta identificazione tra tecnica ed etica, nel senso che il tasso di moralità viene giudicato equivalente al tasso di scientificità che loro sono in grado di esibire (scientificità non solo all’interno dei contenuti del film ma anche nel modo stesso di girarli: non a caso ancora oggi diciamo che i film americani sono i migliori del mondo).
Non c’è problema tecnico che loro non possano risolvere in maniera tecnica. Questa superiorità tecnologica viene considerata come indice fondamentale di ogni tipo di superiorità: etica, politica, culturale ecc.
In terzo luogo nei film americani il fatto di fare il militare viene utilizzato per dimostrare il proprio valore etico. Il soldato americano si propone come difensore della democrazia nel mondo, ovunque essa venga minacciata: non ha bisogno di vedere la propria nazione attaccata da qualche nemico, anche se nei film catastrofisti questa è la regola (ma questi film, pur facendo largo uso di effetti speciali, sono culturalmente poco raffinati).
Chi fa il militare è autorizzato a dire qualunque cosa, proprio perché ha accettato un grandissimo sacrificio personale. Rambo, in tal senso, rappresenta l’unica eccezione, in quanto, avendo perso la guerra contro il Vietnam, è tornato frustrato in patria e si è difeso contro quanti non l’hanno capito, dicendo continuamente che gli yankee non potevano vincere “con un braccio legato”.
Negli anni Settanta infatti la società americana protestava contro la guerra in Vietnam e non ha permesso ai soldati di vincerla (vincere per i generali voleva dire usare tutte le armi a disposizione, incluse quelle nucleari); sicché quando i militari sono rientrati in patria, non hanno potuto integrarsi, erano malvisti.
Poi i registi hanno cominciato a dire, per giustificare in qualche modo quell’assurda guerra anticomunista in cui sono morti oltre 50.000 americani, o che erano andati là soltanto perché erano stati mandati dai loro superiori (cioè senza capire le vere ragioni di quel massacro), o che, andando là, si erano comunque fatti una personalità matura, loro che erano “figli di papà”, o che, come nel caso di Rambo, sarebbero stati anche disposti a fare di più se solo la patria glielo avesse permesso, infine che, andando a riprendere i soldati catturati e mostrando le condizioni inumane in cui venivano tenuti, gli Usa, pur avendo perso quella guerra, avevano tutte le ragioni “morali” di farla.
In ogni caso in questi film non si vuole soltanto dimostrare che si vince con la forza (qualunque essa sia: militare, culturale, ideologica, economica, finanziaria, tecnica, scientifica), ma anche che la si sta usando per un fine di bene, quello di assicurare la democrazia americana in tutto il mondo.