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Sui rapporti tra Russia e Ucraina

Putin ha ribadito concetti già espressi in precedenza.
No alla tregua di 30 giorni se serve per riorganizzare l’Ucraina, continuando a riarmarsi e a reclutare forzatamente i giovani.
Sì alla tregua se è il preludio a una pace duratura con la rimozione delle cause che hanno provocato questa guerra.
Un fronte di quasi 2.000 km non è facile da controllare quando si parla di tregua. E poi le forze russe stanno avanzando ovunque.
Inoltre molti soldati nella regione di Kursk han compiuto crimini contro l’umanità a carico dei russi. Non possono andarsene grazie alla tregua. Al massimo Kiev dovrebbe ordinare di deporre le armi e arrendersi. Invece Zelensky sta già sperando che Putin rifiuti il cessate il fuoco per poter dire al mondo: “guardate chi vuole la guerra”.
Durante i colloqui per un accordo di pace permanente l’Ucraina non si deve mobilitare né riarmarsi.
Inviare forze di peacekeeping europee in Ucraina sarebbe per la Russia come un atto di guerra diretto.
Per noi l’inizio di un dialogo sarebbe possibile se fosse il governo ucraino a chiedere agli americani un cessate il fuoco sulla base della situazione militare sul campo.
In Ucraina le forze russe stanno gettando le basi per un nuovo sistema di sicurezza indivisibile europeo e globale.
Da notare che l’inviato speciale del presidente Trump per l’Ucraina e la Russia, Keith Kellogg (ex generale americano), è stato escluso dal Cremlino per quanto riguarda i colloqui di alto livello sulla fine della guerra. Viene ritenuto troppo filo-ucraino.
Se poi Trump ha già detto di voler imporre ulteriori restrizioni ai settori energetici e bancari della Russia, limitando ulteriormente l’accesso della Russia ai sistemi di pagamento statunitensi, la trattativa è già finita prima ancora di cominciare.
Putin tuttavia non ha escluso che il Nordstream venga acquistato dagli USA per vendere agli europei il gas russo.

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Dicono che la Russia abbia perso in Ucraina più di 100.000 uomini. Difficile pensare che Putin possa accettare una tregua alle condizioni di Trump. Gli obiettivi dell’operazione speciale non sono ancora stati conseguiti tutti. La NATO deve uscire completamente dall’Ucraina, sia come mezzi bellici, istruttori, intelligence, satelliti, militari travestiti da ucraini o da mercenari. La neutralità del Paese è tassativa, come la sua smilitarizzazione (le forze armate devono diventare puramente difensive). Il governo deve denazificarsi, perché è colpevole di crimini contro l’umanità. E va assicurata l’autodeterminazione delle minoranze del Paese.
Non solo, ma le principali città come Nikolaev, Odessa e Kharkhov e persino Kiev dovrebbero essere restituite alla Russia, perché fanno parte della sua storia da molti secoli. I neonazisti, se proprio vogliono avere una città di riferimento, la cerchino a Leopoli.
I termini della pace devono essere quelli della resa incondizionata e della capitolazione completa. Difficilmente i russi accetterebbero di meno.

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La Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto le autorità ucraine colpevoli di aver violato l’art. 2 (diritto alla vita) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. La Corte cioè ha stabilito che le autorità non hanno adottato misure per prevenire la violenza e salvare vite umane durante gli eventi di Odessa del 2 maggio 2014 e non hanno avviato o condotto un’indagine efficace su tali eventi.
Come noto a Odessa, in quella data, si verificarono scontri su larga scala tra sostenitori del cosiddetti golpe Euromaidan e attivisti filorussi. Le rivolte si conclusero con un grande incendio nella Casa dei Sindacati. In seguito a quegli eventi furono assassinati 48 filorussi e più di 200 rimasero feriti.
Il Ministero degli Interni ucraino arrestò alcune persone, che dopo le indagini, oggetto di interferenze politiche, furono rilasciate.
Difficile che i russofoni dimentichino una tragedia del genere. Strano comunque che dopo un decennio la Corte europea abbia avuto un sussulto di dignità.
In ogni caso sarebbe stato meglio dire che il governo di Kiev non va considerato colpevole per non essere riuscito a impedire le gravi violenze sui manifestanti filorussi, ma proprio perché volutamente organizzò la strage, pensando di dare l’esempio e intimorire gli oppositori.
Fu proprio quella strage che convinse gli abitanti di Lugansk e Donetsk a chiedere aiuto alla Russia, poiché avevano capito che dalla giustizia neonazista non avrebbero ottenuto nulla.

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È stato presentato al parlamento ucraino un disegno di legge sul divieto assoluto dell’uso della lingua russa nelle scuole, incluse le pause da un’ora all’altra e al di fuori delle lezioni.
Siamo ai deliri. Da un lato si chiedono 30 giorni di tregua; dall’altro si fa un’altra dichiarazione di guerra.
La Costituzione ucraina tutela espressamente la lingua russa. Che razza di governo gestisce questo Paese devastato da una guerra triennale, indebitato fino al collo, incapace di qualunque forma di democrazia e profondamente corrotto?
Come si può pensare che Putin possa accettare le condizioni di pace di Trump e di Zelensky? Come si può non capire che una delle principali richieste di Mosca è proprio la protezione della lingua russa in Ucraina. I russofoni non esistono solo nel Donbass.
L’ucraino non è una lingua, ma un dialetto, è una specie di pidgin. In realtà è parlato solo nella Repubblica di Ivano-Frankivs’k, che è un oblast’, conosciuto come Voivodato di Stanisławów o Ciscarpazia. Non ha letteratura, non ha poesia, non ha nulla che lo renda un linguaggio vero e proprio.

Guerra russo ucraina: Lucio Caracciolo, direttore di Limes, ci chiarisce un po’ le idee

https://www.repubblica.it/esteri/2022/11/25/news/intervista_lucio_caracciolo_limes_geopolitica-376008334/

Fuori dai mondiali, i commissari tecnici del bar sotto casa sono diventati esperti di geopolitica: in strada, in ufficio e nei talk show, tutti a spiegare e discutere di Ucraina, di Taiwan… La scuola di Limes, la rivista fondata da Lucio Caracciolo divenuta la casa europea per capire le relazioni tra piccole o grandi potenze, ha appena aperto le iscrizioni ed è già sommersa da richieste. 

Direttore, ma la geopolitica non era un tabù? Cos’è cambiato? Da cosa nasce questa passione?

“Sì, geopolitica era un termine proscritto fino a pochi anni fa. Era considerata materia nazistoide, per ragioni note (alla fine della Seconda guerra mondiale era ritenuta la materia con cui erano state modellate le mire imperialiste che avevano sconvolto il mondo, ndr). Ma finalmente hanno capito che non è una scienza sulfurea e diabolica; che non parte con un giudizio morale ma dall’analisi dei punti di vista differenti, e degli interessi delle parti che si confrontano. Questo tipo di approccio è un esercizio sempre importante: ti aiuta a comprendere anche chi è lontano da te. Studiamo i codici negoziali e l’importanza degli stereotipi nelle culture di riferimento: sono i meccanismi per i quali tu pensi di dire “a” e l’altro capisce “b””.

Perché ci sono decine di guerre ma ne vediamo solo una?

“Per il bene della nostra salute mentale. E poi obiettivamente è sempre stato così. Ti interessano i problemi e le opportunità in aree geografiche o culturali che possono toccarti. È chiaro che un conflitto mostruoso come quello in Congo, che va avanti da un’infinità di anni provocando milioni di morti, è sottovalutato. Siamo molto più attenti ad altri conflitti con meno morti ma più vicini a noi, come quelli balcanici o arabo israeliani. La guerra in Ucraina ha assunto dimensioni mondiali perché vede coinvolte, direttamente o indirettamente, tutte le maggiori potenze”.

Quali sono i nodi per uscirne negoziando? 

“Il punto di vista degli americani non è certamente quello degli ucraini. Per l’americano medio l’Ucraina è una nebulosa, sanno a malapena dove sia; il governo Usa invece aveva due obiettivi: interrompere l’interdipendenza energetica russo-tedesca e russo-europea, ed è stato raggiunto. E indebolire la Russia separandola da Pechino, ed è in parte ottenuto. L’obiettivo ucraino invece è sopravvivere, e se possibile riprendere tutto quello che i russi gli hanno sottratto”. 

È raggiungibile?

“Lo stesso capo delle forze armate Usa lo ritiene molto improbabile. La preoccupazione Usa è che la guerra si allarghi, e hanno dato segnali molto chiari di volerlo evitare. Ma i russi non riuscendo ad avanzare più di tanto sul terreno infieriscono sulla società ucraina, per spingerla a negoziare. Se dovesse continuare questa strategia, qualche problema di tenuta del fronte ucraino penso emergerà. La guerra non sono centimetri quadrati persi o presi, ma chi dura di più”.

La Turchia colpisce i curdi e minaccia di entrare in Siria e Iraq. Erdogan si gioca la rielezione?

“La geopolitica turca non cambia molto con Erdogan o senza: c’è forte consenso sulla sua politica estera, a cominciare dalle forze armate. Sulla questione curda, è chiaro che la Turchia vuole dare un segno sia sul fronte siriano che iracheno: quella è la sua sfera di interesse, e non vuole altre potenze tra i piedi. È un segnale inviato anche agli Usa, che direttamente o meno hanno sempre appoggiato i curdi del Pkk”. 

Attaccheranno in forze?

“Bisogna capire se ne hanno i mezzi, per una penetrazione. Sia lì che in zona balcanica”.

Intanto l’Italia è lacerata: tu stesso sei stato accusato di simpatie filorusse. 

“Lo scenario ucraino è coinvolgente, ci tocca da vicino ed è un eccellente rilevatore delle faglie che attraversano il nostro mondo. Io devo essere contemporaneamente filorusso, filoucraino e italiano: non puoi non capire tutte le follie delle parti in causa, altrimenti fai propaganda. E non è il mio mestiere”.

Torniamo alla scuola di Limes: la definite una “non accademia”. Cosa significa?

“Si chiama proprio “Scuola di Limes – non accademia di geopolitica e di governo”, perché non facciamo le cose che vengono fatte normalmente nelle università. Il metodo geopolitico studia i contesti, non i modelli. Non pretendiamo di definire e applicare leggi universali e algoritmi, ma studiamo i fenomeni nel loro specifico; nel loro ambiente geografico, socio economico e storico. Andiamo in profondità, facciamo archeologia del potere”. 

Chi si iscrive alla scuola di Limes?

“Ci sono due gruppi: giovani appassionati e persone con competenze. Si viene per passione ai temi geopolitici, ma può servire a procedere meglio nella carriera. Il nostro approccio è sempre più richiesto dai decisori, soprattutto economici. Non facciamo politologia, non pretendiamo che il diritto internazionale regoli il mondo. Qui si impara a dirigere e a decidere sporcandosi le mani”.

 

Impariamo da Glenn Greenwald, giornalista, scrittore e avvocato statunitense

Copincollo dal profilo Facebook del mio amico e collega Gianfranco Modolo. 

 

Dice Glenn Greenwald, giornalista, scrittore e avvocato statunitense:

se guardi la storia delle guerre americane, negli ultimi decenni, sono incredibilmente simili. Il modo in cui convincono gli americani a sostenere Il coinvolgimento degli Stati Uniti in una guerra, consiste nel focalizzarsi sulla persona di un particolare leader, e portarci a odiarlo. Per esempio, Saddam Hussein in Iraq è un personaggio terribile. Bashar al Assad, in Siria, è una forza tirannica. Il Mullah Omar, in Afghanistan, è un individuo che dobbiamo eliminare. Gheddafi e la Libia. Sollecitano le nostre emozioni affinché diciamo di sì e vogliamo andare a caccia di questi tiranni. E poi dopo aver speso centinaia di miliardi e aver sacrificato moltissime vite, i sondaggi mostrano invariabilmente che gli americani arrivano a rendersi conto che quelle guerre sono state un errore. E la ragione è che si rendono conto che il coinvolgimento degli Stati Uniti in quelle guerre non ha portato nessun beneficio agli Stati Uniti e tanto meno ai cittadini americani. Quindi esaminiamo l’attuale situazione seguendo tale impostazione. La maggior parte delle persone che operano a Washington sono concordi nel ritenere che siamo più vicini all’uso delle armi nucleari che in qualsiasi altro momento, dopo la crisi dei missili cubani di 60 anni fa. C’è una minaccia molto reale di uno scambio nucleare o addirittura di un confronto diretto tra Russia e Stati Uniti.
E per che cosa? La questione è su chi governa e comanda nemmeno su tutta l’Ucraina, ma nel Donbass, la regione orientale dell’Ucraina, dove la maggioranza delle persone in realtà si considera parte dell’etnia russa e vuole far parte della Russia. Eppure non c’è quasi nessun dibattito sul fatto che dovremo spendere enormi quantità di denaro in Ucraina e rischiare la vita dei nostri concittadini americani fino ad arrivare alla possibilità di una guerra nucleare. Perché tutti sanno che nel momento in cui esci dal coro, c’è un’orda di persone pronte a definirti antipatriottico oppure traditore oppure ammiratore di Vladimir Putin, come so che stanno facendo in questo preciso momento con questa nostra trasmissione. E mi riferisco allo staff di Media Matters ed altre persone online. Quindi siamo in un’atmosfera davvero repressiva, che sta sopprimendo un dibattito che invece dovremmo assolutamente avere’.
Ma in Italia non avviene più o meno lo stesso fenomeno? Pacifinti, filoputiniani, traditori, questi gli epiteti rivolti a chi si oppone al mainstream e sollecità la trattativa per la pace. Non lo dicono al Papa, ma poco ci manca.

Tema: chi è l’aggressore e chi l’aggredito? Svolgimento: l’aggredita è la Russia, l’aggressore gli USA.

L’HO RIPRESO DA FACEBOOK

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Maurizio Ulisse Murelli

Tema: chi è l’aggressore e chi l’aggredito?
Svolgimento: L’aggredita è la Russia, l’aggressore gli USA.
Fine svolgimento tema.
Gli ottusi possono continuare con la filastrocca a premessa di ogni loro dire su quanto accade in Ucraina. La potremmo dunque chiudere qui che tanto l’esposizione di fatti oggettivi non fa mutare di posizione a nessuno. Per gli ottusi infatti tutto parte il 24 febbraio di quest’anno. Per i moderati tutto parte con il golpe atlantista di Maidan nel 2014. Per quelli come me tutto parte nel 1823 con la “dottrina Monroe” in seguito riveduta, corretta e ampliata. Se agli inizi il succo era che gli Stati Uniti non avrebbero tollerato che una nazione europea colonizzasse una nazione indipendente nel Nord o nel Sud America considerando un eventuale intervento in tal senso nell’emisfero occidentale un atto ostile, in seguito, a partire dalla fine della Prima Guerra Mondiale, è diventato atto ostile l’ostacolare il loro espansionismo imperialista in ogni luogo del pianeta dove loro ritengano avere un qualsiasi interesse.
Sì la prendo alla lunga e alla larga, mettendo sul piatto quel che i vermilingui dell’informazione e gli zerbini degli USA, in pratica tutti gli ascari dell’ambaradan politico-economico-finanziari occidentale non vogliono sia messo sul piatto. Per costoro un dittatore russo il 24 febbraio si è svegliato con la luna storta e, messo piede giù dal letto, ha dato ordine di invadere la pacifica e democratica Ucraina. Così non è, non lo è oggettivamente che gli ottusi lo vogliano capire oppure no. Non capendolo e facendo finta di non capirlo stanno suicidando l’embrione europeo che sopravvive nonostante la UE e i mezzadri del potere USA che albergano nei palazzi di Bruxelles.
La “dottrina Monroe” riveduta e corretta riceve altro imput all’indomani della Seconda Guerra Mondiale e compie un ulteriore passo avanti a partire dal 1990.
Implosa l’URSS si ritrova con le mani libere. Da una parte, non rispettando i patti, attraverso la Legione Straniera altrimenti chiamata NATO, gli USA inglobano gli ex Stati che facevano parte del Patto di Varsavia, dall’altra attaccano con le più inverosimili e ridicole giustificazioni gli Stati che erano sotto l’ombrello protettivo Russo: in Europa la Serbia, in Medio Oriente l’Iraq per poi destabilizzare con le “rivoluzioni colorate” vari paesi africani e medio-orientali, a cominciare dalla Siria (dove per inciso la Russia ha l’unica base navale fuori dal suo territorio a fronte del centinaio statunitensi sparse nel globo terraqueo) provandoci in Georgia e Biellorussia per finire con l’Ucraina. La quale Ucraina viene fatta grazia di un golpe atlantista, salvata dalla bancarotta con l’immissione di miliardi di dollari ottenendo in cambio di trasformarla in un “hub militare” per il traffico illegale (stante le disposizioni ONU) di armi verso l’Africa e non solo. Inciucciano con gli “oligarchi” (vedi il figlio di Biden) per i traffici più indicibili e fomentano/sostengono la deriva russofobica. Russofobia che i Russi interpretano come nazificazione richiamandosi all’idelogia razzista anti-slava presente nel complesso ideologico Nazionalsocialista e della quale tengono conto al pari delle altre ragioni, da quella geopolitica/espansionistica, economica etc.
A partire dal 2014 in Ucraina prende il via la guerra civile che non si svolge solo in Donbass. In tutto il paese i russofoni e russofili sono perseguitati e, mentre gli occidentali frignano sulla supposta persecuzione dei giornalisti anti-putiniani, in Ucraina ne fanno secchi un’ottantina. Propibiscono l’uso della lingua russa, mettono fuori legge i partiti filorussi e per sovra mercato anche quelli che semplicemente sono anti zeleskyani. Per otto anni i Russi tentano di ridurre a più miti consigli il regime ucraino, richiamando gli occidentali agli accordi di Minsk e quant’altro. Ma più i russi richiamano gli ucraini e gli occidentali, più gli americani con gli ascari inglesi imbottiscono di armi l’Ucraina e la spingono all’intrassigenza verso la Russia.
L’obiettivo degli USA è liquidare la Russia, isolare la Cina, domare India e Pakistan. Riaffermare l’Ordine Mondiale Unipolare che il blocco orientale sta mettendo a repentaglio. Per liquidare la Russia vale la dottrina di Brzezinski che come è notorio sostiene proprio che l’Ucraina non solo non deve far parte della Federazione russa, ma deve essere sottratta dalla sua influenza. Gli USA di Biden vanno oltre: la trasformano in una “bomba sporca” contro la Russia. Alla Russia altro non è rimasto che difendersi da questa articolata aggressione.
Che si doveva arrivare a questo gli analisti occidentali ne erano ben consapevoli. Vale, a titolo di esempio, questo articolo di Lucio Caracciolo pubblicato su un giornale ticinese il 12 aprile 2021.
Non voglio fare un post troppo lungo. Per ora mi fermo qui. Ma poi “rinciccio” il tema con altri post per uno svolgimento che le carognette atlantiste non vorrebbero fosse fatto, a cominciare da certa camerateria e certa compagneria. Per loro conto di riservare il meglio…

Quali alternative aveva Putin?

Supponendo che la Russia abbia ragione quando sostiene che se non fosse intervenuta militarmente, prima o poi l’avrebbe fatto la NATO, una volta insediatasi in Ucraina. Che alternative c’erano a una soluzione del genere?

È chiaro infatti che l’esercito di Kiev stava per attaccare il Donbass e riprendersi la Crimea. È altresì evidente che se la Russia l’avesse lasciato fare, ci sarebbe stato un bagno di sangue, oltre che una vittoria degli ucraini e un sicuro ingresso nella NATO. A quel punto la situazione per la Russia sarebbe stata drammatica. Mosca è troppo vicina al confine ucraino per restare indifferente.

Dunque perché Putin sostiene che non avevano altra scelta? Il motivo sta nel fatto che l’Europa occidentale (prima ancora che diventasse UE) non si è mai opposta, neanche una volta, all’espansione della NATO verso est. Putin sapeva che se anche avesse lanciato l’allarme, nessuno l’avrebbe ascoltato. Ha temuto una riedizione di quella situazione anteriore alla II guerra mondiale, quando la Russia di Stalin, non trovando alcun Paese europeo disposto a stipulare un’alleanza per fermare l’espansione del nazismo, fu indotta a firmare il trattato di non belligeranza Ribbentrop-Molotov, che ancora oggi, ipocritamente, viene considerato dalla storiografia occidentale come il lasciapassare per l’occupazione tedesca della Polonia.

La Russia non si sentiva pronta da sola a fronteggiare la Germania. Poi Stalin, facendo uno dei suoi soliti calcoli sbagliati, si convinse che Hitler, avendo firmato quel trattato, non avrebbe mai attaccato la Russia.

Ecco, probabilmente, vedendo che la NATO, nonostante tutte le promesse di non farlo, era col tempo arrivata a insediarsi in ben 30 Paesi europei (invece di sciogliersi come il Patto di Varsavia), Putin ha avuto paura che la parte occidentale dell’Europa, tradizionalmente bellicosa, e ancor più pericolosa proprio in forza della NATO, avrebbe potuto sferrare un nuovo attacco, e questa volta letale.

La Russia è un impero: di fronte ai grandi pericoli che han messo in forse la sua esistenza ha sempre reagito con lentezza. E ne è sempre uscita a testa alta. Ora per la prima volta con Putin ha giocato d’anticipo, prendendo in contropiede i suoi storici avversari: USA e UE. I quali hanno avuto una reazione scomposta, compiendo un atto illegale dietro l’altro, sul piano economico e finanziario, e minacciandola continuamente di voler portare l’umanità alle soglie d’un conflitto nucleare mondiale.

Gran parte del mondo s’è lasciato convincere dalla narrativa occidentale, maestra nello stravolgere la realtà dei fatti, secondo cui l’attacco russo all’Ucraina non aveva alcuna giustificazione. Questo dimostra che dal 1991 (anno dell’implosione dell’URSS) ad oggi, le preoccupazioni della Russia nei confronti della NATO non sono mai state prese in considerazione. Addirittura all’Europa occidentale non è mai interessato né che col golpe del 2014 si sia insediato a Kiev un governo filonazista, né che questo governo abbia scatenato contro il Donbass una guerra civile durata 8 anni che ha comportato 14.000 morti. Né all’ONU sono mai interessati i report allarmanti dell’OSCE sulla situazione del Donbass. Né Francia e Germania si sono mai preoccupate di verificare i motivi per cui gli accordi di Minsk non venivano rispettati da Kiev.

A questo punto appare del tutto comprensibile che Putin abbia deciso d’intervenire militarmente. Non gli era stata data alcuna alternativa. La Russia peraltro sapeva benissimo dell’esistenza di infrastrutture militari clandestine in Ucraina, gestite dalla NATO, con cui venivano addestrati i neonazisti, e che gli USA stavano aiutando quel Paese nella ricerca di armi biologiche e nucleari. E soprattutto sapeva bene che gli USA, non avendo mai accettato l’idea di non utilizzare per prima l’arma nucleare (esattamente come è disposta a fare la Russia), sono in grado d’impedire un colpo di ritorsione.

Ora è evidente che se non si accettano queste premesse per capire il conflitto ucraino, non si esce dal mero ambito della propaganda. In un certo senso si potrebbe dire che è stato proprio questo intervento preventivo a porre un freno all’espansione del neonazismo in Europa e all’escalation della NATO verso una guerra mondiale. Certo è che se l’intero occidente continua a inviare armi ai neonazisti, mirando altresì a far entrare nella NATO anche Svezia e Finlandia, il rischio di una catastrofe nucleare resta elevatissimo.

Ho amato e odiato la Russia

Ho amato la Russia quando Mosca disse, vedendo il tradimento teologico della Roma cattolica (con la sua idea di “primato petrino”) e di quello politico della Roma bizantina (che cercava appoggi antiturchi a Roma invece che in Russia), che lei era diventata la “terza Roma”.

Poi ho odiato lo zarismo perché opprimeva i contadini e le popolazioni tribali della Siberia.

Ho amato la Russia quando fece fuori l’autocrazia zarista e creò il primo Stato socialista della storia, esaltando il ruolo degli operai e dei contadini.

Ma poi l’ho odiata quando ha trasformato questa vittoria in un mostruoso socialismo statale, in mano a un’intellighenzia politica, amministrativa e ideologica.

Ho amato il popolo russo quando ha resistito alle orde barbariche dei Mongoli, degli Svedesi, dei Teutonici, dei Polacchi-Lituani e dei nazisti. E ho sempre pensato che Napoleone, per quanto espressione di una cultura più avanzata di quella zarista, non avesse il diritto d’imporla con la forza degli eserciti, per cui fui contento della sua sconfitta.

Ho amato la Russia quando si è liberata da sola dello stalinismo e della successiva stagnazione.

Ma poi l’ho di nuovo odiata quando ha rinunciato all’idea di socialismo democratico che voleva realizzare Gorbačëv. La Russia di El’cin, di Putin e degli oligarchi, privati e statali, non mi è mai piaciuta. Passare dal socialismo statale al capitalismo privato e statale è stato un grave errore.

La Russia ha tradito se stessa, anche se è stata grande nel non far pagare ad altri il peso delle sue contraddizioni, cioè le conseguenze della sua dissoluzione.

Ha sciolto il Patto di Varsavia, sopportando il vergognoso ampliarsi della NATO. Ha permesso alle Repubbliche federate della ex URSS di scegliere liberamente il loro destino. Si è limitata a soccorrere militarmente le comunità russe perseguitate nelle ex Repubbliche sovietiche. In ciò ha dato l’impressione di voler ricostituire il passato impero zarista. Ma non ha alcun bisogno di farlo, poiché, rispetto alla sua enorme estensione, ha ben pochi abitanti. Chiede solo maggiore sicurezza ai propri confini.

Oggi il capitalismo mondiale la vuole morta. Non gli è bastato che diventasse capitalistica. La vogliono smembrare e privarla dei suoi beni. È infatti evidente che il vero problema non è Putin. Non è certo per colpa sua che gli USA han deciso di circondarla con le loro basi militari.

Con le sanzioni economiche che le hanno imposto, la Russia rischia di diventare un Paese autarchico, obbligato a basarsi unicamente sulle proprie risorse. Il che non sarà un male. In fondo la vera alternativa al capitalismo qual è? L’autoconsumo, cioè la fine della dipendenza dai mercati.

A Sochi il primo summit economico tra Russia e Africa

A Sochi il primo summit economico tra Russia e Africa

Mario Lettieri*  Paolo Raimondi**

Dopo la Cina, anche la Russia ha organizzato alla fine di ottobre a Sochi il primo summit economico con tutti i 54 paesi dell’Africa e le sue più importanti organizzazioni regionali. Nel corso di due giorni di discussioni e di intensi negoziati tra le varie delegazioni e i ben 40 capi di Stato, sono stati siglati più di 500 importanti documenti, tra accordi, memorandum e contratti veri e propri per un ammontare di oltre 20 miliardi di euro.

Attualmente l’interscambio commerciale tra Russia e Africa è di circa 20 miliardi di dollari, con un aumento del 17% nell’ultimo anno. Ancora molto lontano dai 170 miliardi dei commerci tra Cina e il continente africano. Il presidente Putin, però, ha annunciato l’intenzione di raddoppiare gli scambi entro 4-5 anni. Ha ricordato che in passato la Russia ha cancellato più di 20 miliardi di dollari di debiti che i paesi africani avevano accumulato durante il periodo sovietico. “Non solo per una ragione di generosità, ma anche come una manifestazione di pragmatismo, in quanto molti paesi africani non erano in grado di pagare gli interessi sui prestiti”, ha ricordato, e anche per dare inizio ad una nuova fase di fattiva cooperazione economica e politica basata sul principio dello “scambio del debito con lo sviluppo”.

A differenza della Cina, che è in grado di offrire enormi prestiti a condizioni favorevoli in cambio, però, dell’accesso alle materie prime africane e alla costruzione e gestione delle grandi infrastrutture, come ferrovie, strade, porti e dighe, la Russia non ha grande bisogno di quelle materie prime poiché anch’essa ne possiede in grande abbondanza. Ciò vale anche per l’energia e le tante ambite “terre rare”, i materiali di importanza strategica per i delicati settori militari, delle comunicazioni e delle tecnologie più avanzate.

Mosca intende rafforzare e valorizzare soprattutto i legami scientifici e culturali con il continente che, secondo le valutazioni di molti, promette di diventare un nuovo centro di opportunità e crescita dell’economia mondiale. Cosa che, purtroppo, spesso l’Europa preferisce ignorare.

Una vecchia analisi dei rapporti in essere vorrebbe la Russia semplicemente come un grande fornitore di armi. In verità, molti armamenti provengono ancora da Mosca e personale qualificato riceve un training militare in Russia, ma la Russia è anche tra i primi 10 fornitori di cibo al mercato africano.

Ci sembra che l’intenzione russa sia strategica più che economica. S’intende creare un nuovo meccanismo per il dialogo e la partnership tra Russia e Africa, anche nell’ottica di un ordine politico internazionale multipolare. Quello di Sochi è stato il primo forum dei capi di Stato che dovrebbe ripetersi ogni tre anni, preparato con più frequenti incontri a livello ministeriale secondo le tematiche congiuntamente decise.

Putin, ovviamente, ha ricordato il sostegno russo alla lotta dei popoli africani contro il colonialismo, il razzismo e l’apartheid e ha rinnovato l’impegno per il rispetto e la difesa della loro indipendenza e della loro sovranità. Al riguardo oggi, oltre alla partecipazione nella costruzione delle infrastrutture, Mosca intende continuare l’impegno per il training professionale e scientifico di migliaia di giovani africani presso le università russe, dove già studiano 17.000 studenti africani, ma anche presso i nuovi centri di cultura e di qualificazione professionale che la Russia intende creare in molti paesi dell’Africa.

E’ importante notare le nuove aree di cooperazione discusse a Sochi: oltre alle infrastrutture, le risorse energetiche rinnovabili e il nucleare per scopi pacifici, le tecnologie digitali, la sanità, l’information security, e le nuove frontiere dell’ingegneria.

Un aspetto non secondario del Forum è stato l’impegno di favorire il rapporto tra l’Unione Economica Eurasiatica e gli stati africani, soprattutto con le sue organizzazioni, come l’Unione Africana. Ciò è ancora più importante se si considera che soltanto pochi mesi fa è stato siglato a Niamey, in Niger, l’accordo per un mercato africano libero dai dazi.

Il presidente russo naturalmente ha polemizzato con “certi stati occidentali che stanno esercitando pressioni, intimidazioni e ricatti” nei confronti dell’Africa, dichiarando di volersi opporre a qualsiasi “gioco geopolitico” che coinvolga il continente.

Come riportato nella dichiarazione finale, il Forum si è anche espressamente impegnato a “promuovere un rapporto più stretto e profondo di cooperazione e di partnership tra i paesi BRICS e l’Africa per rafforzare i meccanismi collettivi della governance globale all’interno di un sistema multipolare di relazioni internazionali”.

Tutto ciò ci induce a chiedere:”Quando l’Unione europea, come istituzione, promuoverà incontri regolari con l’Unione Africana e tutti i capi di Stato dell’Africa per programmare insieme una continua e proficua iniziativa di cooperazione e di sviluppo tra i due continenti?” L’alternativa sono forme striscianti di neo colonialismo, come recentemente è stato stigmatizzato anche dal Presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte.

Con rare eccezioni finora, purtroppo, la Francia preferisce un rapporto diretto e solitario con i paesi francofoni, l’Inghilterra fa lo steso con quelli anglofoni e gli altri paesi europei, come l’Italia, cercano di infilarsi nelle “fessure” lasciate ancora aperte e inserire le proprie imprese nei vari progetti di sviluppo.

Spesso, però, tale comportamento crea soltanto tensioni e liti tra gli europei che minano ancora di più la credibilità dell’Unione europea.

*già sottosegretario all’Economia **economista

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La guerra idiota di Trump contro Putin a base di sanzioni ha effetto opposto a quello voluto

Sanzioni finanziarie: risposte inattese dalla Russia

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

A marzo si vota anche in Russia, non solo in Italia. A Mosca le cose non sembrano così incerte come a Roma: la rielezione di Vladimir Putin a presidente della Federazione Russa sembra scontata. Ma, dopo le mosse dei grandi attori mondiali a Davos sul commercio internazionale, sul protezionismo e sui futuri scenari finanziari internazionali, ciò che avviene in Russia merita una più attenta disamina che vada oltre i soliti argomenti ideologici e mediatici.   C’è l’ala cosiddetta liberale, o meglio dire liberista, guidata dall’ex ministro delle Finanze, Alexey Kudrin, che fa affidamento sulle sanzioni economiche votate dal Congresso americano lo scorso luglio per indebolire Putin. Si ricordi che il dato più rilevante delle sanzioni è quello finanziario che sarà reso operativo prima delle elezioni russe.

A seguito all’ordine presidenziale di Trump, il Tesoro americano ha stilato un “Rapporto sul Cremlino” mettendo nel “mirino” oltre 200 alti funzionari ed uomini d’affari russi. Il Ministero del Tesoro ha il potere di blocco e di sequestro dei fondi detenuti all’estero dai grandi magnati russi. Fondi che si calcolano in circa mille miliardi di dollari. Le sanzioni americane sono molto mirate su ben determinati personaggi e su certi settori economici. L’idea è di intimorirli, con la minaccia del sequestro dei beni, per spingerli ad abbandonare Putin e la Russia. Questa strategia dovrebbe mettere in presidente russo in un angolo, isolarlo dai detentori del potere economico, per poi politicamente sconfiggerlo.

Come reazione alle sanzioni economiche, invece, è nato un movimento chiamato “Ryvok – Ripartenza” che si sta muovendo per far rimpatriare in vari modi i soldi russi portati o lasciati nelle banche internazionali o nei paradisi fiscali. Sembra che questo movimento abbia il sostegno di Putin e di molti potenti manager delle grandi corporation russe pubblico-private. I leader politici di “Ripartenza” sono membri del partito “Russia Unita” (il partito di Putin), come il deputato della Duma, Denis Kravchenko. Tra gli ispiratori di questo movimento vi sono noti economisti e uomini di cultura, tra cui il prof. Yury Gromiko e il prof. Yury Krupnov, che sono stati gli ideatori del grande progetto di sviluppo infrastrutturale euroasiatico conosciuto come “Razvitie”. Si rammenti che tale progetto sarebbe il parallelo russo della “Belt and Road Initiative”, la nuova via della seta cinese relativa alle grandi infrastrutture continentali.

Le sanzioni contro la Russia, purtroppo, stanno mettendo in discussione la sicurezza economica e quindi la tolleranza verso gli evasori. Di ciò risente anche l’elite russa. Il manifesto di “Ripartenza” contiene un ultimatum: riportare i soldi offshore a casa per investimenti produttivi nell’economia oppure lasciare le posizioni di potere detenute in Russia. Il movimento popolare chiede anche il carcere per chi, illegalmente e contro gli interessi del paese, vuole continuare a mantenere o portare i soldi all’estero. Inoltre si punterebbe a correggere anche l’intero processo di privatizzazioni dell’industria di Stato fatto ai tempi di Yeltsin.

Per accelerare il rientro dei capitali, transitoriamente si permetterebbe che essi vengano depositati nelle banche svizzere con la condizione che siano trasformati in fondi di investimento e di sviluppo da destinare all’economia russa. Tali fondi dovrebbero finanziare dei project bond per investimenti nei vari settori del sistema produttivo russo, con l’esclusione del petrolio e del gas perché ritenuti da “Ripartenza” una “droga” dell’economia.   In conclusione, le sanzioni finanziarie stanno provocando all’interno della Federazione Russa non un danno ma un effetto boomerang non previsto da coloro che le hanno volute.

*già sottosegretario all’Economia **economista