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Sempre pericoloso il gioco dei bitcoin

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**
Sarà un caso, ma dalla vittoria elettorale di Donald Trump a oggi il valore della più nota cripto valuta, il bitcoin, è cresciuta di quasi il 50%, raggiungendo il suo livello massimo storico di quasi 100.000 dollari. Dall’inizio dell’anno la crescita è stata del 130%!
Questo boom ha trascinato al rialzo tutte le altre criptomonete: in un mese la piattaforma ethereum è cresciuta del 40%; dogecoin, legata a Elon Musk, del 270%. Ma le fluttuazioni giornaliere restano molto grandi.
Trump si è assunto tutta la responsabilità di tale speculazione quando in campagna elettorale ha promesso di trasformare gli Usa nella “capitale delle criptovalute del pianeta”. Ha anche partecipato personalmente alla conferenza organizzata dagli operatori e dai sostenitori del bitcoin. Inoltre, la sua società “Trump Media and Technology Group” starebbe acquistando Bakkt, una delle maggiori piattaforme, dove si trattano le operazioni in criptovalute.
La cosa ancora più grave, se fosse mantenuta, è l’intenzione di Trump di accumulare una riserva nazionale di bitcoin. Se così fosse, la Federal Reserve sarebbe chiamata in causa a sostegno del valore delle criptomonete qualora esse avessero un tracollo.
Si ricordi che già nel novembre 2022 il valore del bitcoin era crollato a 16.000 dollari da 69.000 di qualche mese prima!
La propaganda presenta le criptovalute come forme di libertà monetaria anarcoide, perché fuori dal controllo di quello che chiamano il “deep state” della banca centrale e delle istituzioni governative. Esse, però, non hanno alcun valore sottostante di riferimento e nessun sistema di garanzia. Non c’è un emittente riconosciuto e, quindi, in caso di crisi finanziaria manca la copertura fornita dal cosiddetto prestatore di ultima istanza, come la Fed per il dollaro o la Bce per l’euro.
Esse funzionano come sistema di pagamento e di altre operazioni finanziarie tra i partecipanti che fanno parte del club. Non hanno le caratteristiche di una moneta legale, ma attraverso le transazioni lo diventano di fatto. Non rappresentano più solo una fetta relativamente piccola del sistema finanziario. Oggi la loro capitalizzazione è stimata in oltre 3.400 miliardi di dollari. Si calcola che soltanto negli Usa ogni giorno si muovono operazioni in criptovalute pari a 30 miliardi di dollari. Stanno assumendo, quindi, una dimensione tale da coinvolgere l’intero sistema finanziario in caso di crisi. E senza alcuna rete di protezione. Il che per gli investitori, soprattutto minori, è un azzardo.
In caso di crollo perciò il problema non si pone solo per chi vi partecipa direttamente, che perde tutto senza alcun rimborso. Preoccupa che sempre più banche tradizionali e fondi d’investimento siano coinvolti. Esse utilizzano tutti gli strumenti già in atto per le speculazioni. Le criptovalute sono usate per generare delle leve finanziarie con cui operare, per esempio, sul rischioso mercato dei derivati otc.
Recentemente, BlackRock, il più grande fondo d‘investimento americano, ha ottenuto il permesso di operare in borsa con un suo fondo Etf sul bitcoin. In questo caso l’Etf replica l’andamento dell’indice del bitcoin. I fondi Etf possono essere acquistati e venduti come se fossero delle azioni. Essi sono altamente speculativi quando operano con la leva finanziaria.
Un altro aspetto di negativa gravità è che le criptovalute non sono soggette alla vigilanza operante per sistema bancario. Non sono regolamentate, nonostante i vari tentativi di farlo. Ecco perché le varie autorità credono che siano sempre più usate per operazioni di riciclaggio e per altre transazioni illecite.
La Security Exchange Commission (Sec), l’omologa americana della nostra Consob, ha cercato di imporre dei controlli, riuscendo soltanto a introdurre piccole azioni legali su questioni secondarie senza affrontare il cuore del problema.
Con l’arrivo di Trump, però, Gary Gensler, il presidente della Sec, ha annunciato le sue dimissioni. Questo è stato visto come un segnare di futuro allentamento dei controlli e ciò ha creato una certa euforia sui mercati delle criptovalute.
Ma è possibile creare ricchezza finanziaria dal nulla? Non lo crediamo. Se fosse vero, i geni delle cripto sarebbero i nuovi dei dell’Olimpo, sarebbero i creatori di un nuovo Eden finanziario. E se fosse il contrario? Agli adepti di questo nuovo culto varrebbe l’ammonizione dantesca “Lasciate ogni speranza o voi che entrate”.
Tutto ciò oggi avviene mentre in tanti temono la bolla dei valori di Wall Street. Si ricordi, infine, che anche la Bce ha recentemente ammonito circa l’eccessiva esuberanza dei mercati e delle borse con possibili correzioni improvvise. Non è un momento per giocare con altre bolle finanziarie!

*già sottosegretario all’Economia **economista

G7: non solo guerre ma anche il debito

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

In vista del Giubileo del 2025 la Santa Sede sta sollecitando la vasta rete delle organizzazioni internazionali, politiche, sociali e culturali, a formulare e promuovere politiche per condonare o almeno ridurre il fardello dei debiti dei paesi poveri.

Pochi giorni fa, parlando al simposio “Affrontare la crisi del debito nel Sud del mondo”, organizzato dalla Pontificia Accademia delle Scienze, papa Francesco ha rinnovato la richiesta di una moratoria sui debiti. Naturalmente non si è limitato a questo appello ma ha prospettato la necessità di “una nuova architettura finanziaria internazionale audace e creativa”, cioè “ la creazione di un meccanismo multinazionale, basato sulla solidarietà e sull’armonia tra i popoli, che tenga conto del significato globale del problema e delle sue implicazioni economiche, finanziarie e sociali”, al fine di spezzare il circolo vizioso del finanziamento che diventa indebitamento.

D’altra parte è risaputo che la sola moratoria sui debiti crea un momentaneo sollievo alle economie dei paesi più poveri ma non affronta alla radice le vere cause, quali gli annosi problemi del sottoviluppo, della dipendenza e della sottomissione economica ai vecchi e nuovi colonialismi pubblici e privati.

La moratoria sui debiti nei confronti dei paesi poveri era stata sollecitata anche da papa Giovanni Paolo II per il Giubileo dell’Anno 2000. Il risultato dell’iniziativa fu la cancellazione del debito per 52 fra i paesi più poveri del mondo. Nel 2005, il G8, anche con una forte azione dell’Italia, condonò debiti per 40 miliardi di dollari e varie istituzioni finanziarie lo fecero per 130 miliardi.

Anche la cancellazione non basta. Infatti, passati meno di due decenni, la crisi del debito si presenta più minacciosa, soprattutto in Africa. Tra il 2013 e il 2022 la percentuale media del debito pubblico in Africa è raddoppiata, passando dal 30% al 60% del pil. Se paragonata con la media di oltre il 100% dei paesi cosiddetti avanzati o con il 138% dell’Italia, il livello africano potrebbe sembrare “virtuoso”. Per i paesi poveri, però, ripagare i prestiti è sempre più difficile e gli interessi crescono. Il debito di fatto diventa un sistema di colonizzazione che può considerarsi una vera e propria schiavitù.

Il pagamento degli interessi su un debito anche di dimensioni limitate può mandare in tilt il bilancio di uno Stato. Per esempio, l’Angola deve usare il 60% del suo pil per il servizio del debito. Ogni due mesi la Guinea Bissau chiede un prestito alla Banca dell’Africa occidentale non per nuovi investimenti bensì per pagare i salari dei dipendenti pubblici. Le spese correnti vengono coperte con i debiti, creando così un meccanismo perverso.
Il Papa è entrato nel merito del tipo di finanziamento finora concesso ai paesi poveri, rilevando che “ai popoli non serve un finanziamento qualsiasi, ma quello che implica una responsabilità condivisa tra chi lo riceve e chi lo concede.” Dipende dalle condizioni poste, da come viene usato e dalle specifiche situazioni in cui si trovano i singoli paesi indebitati. Infatti, troppo spesso i finanziamenti nascondono delle “trappole” mortali: condizioni di austerità insostenibili, il land grabbing, con il quale chi concede il credito si garantisce lo sfruttamento di grandi territori e delle materie prime. I finanziatori sono sempre più fondi finanziari anonimi che applicano le più ferree e dure leggi di mercato. A ciò vanno aggiunte altre perniciose tendenze interne ai paesi che chiedono e ricevono i finanziamenti, tra cui sicuramente la corruzione pervasiva, una gestione incompetente e la corsa all’acquisto di armamenti.
Come ha spesso fatto nei suoi interventi, il Pontefice afferma che “il debito ecologico e il debito estero sono le due facce di una stessa medaglia.” Al di la delle controversie circa gli studi sull’ambiente e sul cambiamento climatico è indubbio che i paesi occidentali abbiano un grande debito ecologico nei confronti dei paesi poveri, dovuto a molti decenni di sfruttamento incondizionato delle risorse. Esempi tangibili sono le miniere scavate senza alcun rispetto per l’ambiente. Per non dire della manodopera locale sfruttata e senza neanche i minimi diritti.

Che il Papa parli di questi argomenti è molto importante. Ci auguriamo che i governi del G7 e le grandi istituzioni internazionali, che hanno proprio la responsabilità politica di affrontare queste sfide, lo ascoltino. Purtroppo, temiamo che anche il G7 di Borgo Egnazia in Puglia possa restare muto di fronte a queste emergenze. Il problema però c’è ed è di prima grandezza!

*già sottosegretario all’Economia **economista

Attenti alla bolla dei corporate bond

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Non c’è solo il debito pubblico da tenere sotto controllo. Il corporate debt, il debito delle imprese private, potrebbe rappresentare un pericolo maggiore. D’altra parte a sostegno e garanzia del debito sovrano ci sono i governi, mentre quello corporate dipende totalmente dal mercato e dagli investitori.

Il problema è evidenziato dal recente studio “Global debt report 2024: global markets in high-debt environment” dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Negli ultimi 15 anni il debito corporate globale è passato da 13.000 a 34.000 miliardi di dollari. Il 60% del totale è delle imprese non finanziarie che in media hanno più che raddoppiato la loro emissione annuale di obbligazioni.

Dal 2008 l’aumento è stato fortissimo: più del 72% nel Usa e del 51% in Europa. Ma la crescita eccezionale si è verificata in Cina, dove il debito corporate dal 2008 al 2023 è passato dall’1% al 20% dell’ammontare globale. Negli anni recenti il settore immobiliare cinese, e anche di altri paesi, ha fatto un grande utilizzo di corporate bond. La differenza è che in Cina le imprese private sono, di fatto, controllate e sostenute dallo Stato.

Lo straordinario aumento globale è stato favorito dalle politiche accomodanti dei Quantitative easing delle banche centrali con la creazione di liquidità in quantità enorme e dai tassi di interesse zero. Anche le banche centrali hanno comprato molte obbligazioni corporate gonfiando i propri bilanci che adesso devono snellire.

Ciò ha favorito anche l’estensione della durata delle obbligazioni che mediamente è passata da 5,6 anni del 2000 al 7,9 anni del 2023. Inoltre, la maggior parte delle obbligazioni è stata emessa con interessi fissi, garantendo così una certa protezione da eventuali fluttuazioni.

Nell’ultimo periodo tutto è cambiato e il rischio è cresciuto esponenzialmente. In primo luogo l’aumento del tasso d’interesse renderà incerto e pericoloso il futuro delle obbligazioni corporate. Globalmente entro il 2026 obbligazioni private per ben 12.300 mld arriveranno a scadenza e dovranno essere rinegoziate. Ovviamente saranno per lo più a tasso variabile, rendendole soggette alle fluttuazioni future.

E’ cresciuta enormemente la quota di obbligazioni che sono appena sopra la soglia del cosiddetto non investment grade, sotto il quale sono considerate junk, spazzatura. Le agenzie di rating considerano la valutazione BBB la soglia minima. Nel 2023 le obbligazioni BBB rappresentavano il 53% del totale. In grande maggioranza sono di imprese americane.

Inoltre, il 42% dei bond con rating BBB è stato emesso da imprese con un rapporto debito/EBITDA superiore a 4. Si tratta di un indicatore di redditività di un’impresa, escluse le imposte, gli ammortamenti, i deprezzamenti e gli interessi. Il rapporto sta a indicare il numero di anni necessari perché i flussi di cassa siano in grado di ripagare il debito. Dovrebbe essere tenuto sotto la soglia 3; il livello 4 sta a indicare una situazione di alto rischio.

Si tenga anche presente che molti investitori istituzionali, come le assicurazioni e i fondi pensione, sono obbligati dalla legge e dai loro regolamenti interni a tenere in bilancio soltanto titoli con un rating altamente positivo. Il che renderà difficile il rifinanziamento di molti titoli.

Negli anni si è verificata anche una rilevante diversificazione dell’intermediazione creditizia che si è spostata dal tradizionale settore bancario verso i fondi d’investimento e in particolare gli exchange-traded fund (etf) quotati in borsa, il cui capitale di rischio è formato da azioni dei partecipanti. Gli etf sono spesso speculativi e operano con l’utilizzo della leva finanziaria, cioè su un multiplo del capitale veramente a disposizione. Dal 2000 la partecipazione dei vari fondi d’investimento è cresciuta a dismisura, tanto che per molti di loro i corporate bond rappresentano il 75% del portfolio. All’inizio del 2024 l’intero settore dei fondi deteneva l’equivalente di quasi 9.000 mld di dollari di obbligazioni corporate.

Tra le 4 imprese più indebitate, tre sono americane. In testa ve ne sono due che godono della sponsorizzazione governativa, la Federal National Mortgage Association, nota come Fannie Mae, con 4.200 mld di bond e la Federal Home Loan Mortgage Corp, nota coma Freddie Mac, con 3.200 mld di bond. Entrambe comprano e garantiscono le ipoteche del settore immobiliare. Il terzo posto è detenuto dalla disastrata Pampa Energia dell’Argentina, seguita dalla banca JPMorgan Chase.

E’ evidente che si è di fronte a un mix di cambiamenti molto veloci e altrettanto pericolosi. La “pacchia” dei soldi e dei crediti facili è finita. Chi guiderà un rientro soft, senza nuove gravi crisi del debito, poiché i possibili controllori, i governi e le banche centrali, sono i massimi responsabili della passata “bonanza” di liquidità a go-go? Ci sembra che la crisi del 2008 non abbia insegnato nulla!

*già sottosegretario all’Economia **economista

L’Africa e il Brics: un rapporto strategico

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

Mentre l’Europa è timida rispetto ai futuri rapporti con i paesi dell’Africa, la collaborazione tra questo continente e il gruppo dei paesi Brics sta diventando sempre più operativa. L’ultimo summit del gruppo, tenutosi lo scorso settembre a Johannesburg, in Sud Africa, è stato dedicato proprio allo cooperazione con l’Africa e alle opportunità offerte dal nuovo mercato comune africano. Evidentemente se ne è sottovalutato le potenzialità.

Nel summit si affermò a chiare lettere che “l’Area di libero scambio continentale africana (Afcfta) crea un ambiente favorevole per il commercio e gli investimenti in Africa, in particolare nello sviluppo delle infrastrutture. I paesi del Brics sono partner affidabili per la cooperazione, il commercio e lo sviluppo.”. Ratificata nel 2019, l’Afcfta intende superare le barriere doganali tra i paesi africani e promuovere l’integrazione economica, monetaria e di sviluppo per l’intero continente. Oggi rappresenta già un mercato di quasi un miliardo e mezzo di persone e un pil di 2.600 miliardi di dollari.

Anche nel 2024 l’Africa avrà una speciale attenzione da parte del Brics. La presidenza del gruppo sarà del Brasile, che coordinerà anche le attività del G20. Si rammenti che già allo scorso vertice sul clima di Nairobi, il presidente Lula aveva sposato le posizioni dell’Unione africana sulla riduzione del debito, sulla necessità di un’architettura finanziaria globale più inclusiva e “adatta allo scopo”. Anche Celso Amorin, consigliere speciale della presidenza brasiliana per gli affari internazionali e uno degli artefici del Brics, ha affermato che l’Africa sarà al centro della politica estera del Brasile.

Non è un mistero che il 2024 sarà un anno pieno di insidie per il debito africano. Secondo la Banca dei regolamenti intenzionali di Basilea, il debito estero è già arrivato al 30% del pil, un terzo del quale è detenuto da banche commerciali. Quest’anno dovranno essere rinnovati titoli di debito in scadenza per oltre 200 miliardi di dollari. Nel 2023 l’inflazione media nell’Africa sub sahariana è stata del 18% e la svalutazione delle monete locali del 20% rispetto al dollaro. Questo è il quadro.

Dopo i fallimenti del Ghana, dello Zambia e dell’Etiopia, 9 stati africani sono in grande sofferenza, 15 ad alto rischio e altri 14 a rischio moderato. I tassi d’interesse alti e un dollaro più forte sono una miscela disastrosa per i paesi poveri.
L’Africa costituisce circa il 18% della popolazione mondiale, quota che si prevede salirà al 25% entro il 2050. Nella regione sub sahariana l’età media è di circa vent’anni. L’Africa possiede il 30% delle risorse minerarie mondiali e il 60% delle terre coltivabili inutilizzate a livello planetario.

Negli ultimi due decenni, il focus delle esportazioni africane si è spostato verso Cina e India, con quote in calo per gli Stati Uniti e l’Unione europea.
Perciò è’ in atto la cosiddetta “grande corsa verso l’Africa”, ricordando quella dell’oro dei secoli passati. In quest’ottica i summit bilaterali con i paesi dell’Africa sono in aumento. Dopo di quelli con la Cina, con la Russia e con l’Italia, altri sono in programma con l’Arabia Saudita, la Gran Bretagna, la Francia, la Germania, la Corea del sud e l’India.

Per contrastare la crescente influenza cinese con la sua Belt and Road Initiative, la nuova Via della Seta, del valore di mille miliardi di dollari, l’Ue ha lanciato il proprio piano strategico d’investimenti, il Global Gateway, di cui la metà, pari a circa 150 miliardi di euro, è stata destinata al continente africano.
I leader africani, soprattutto quelli espressi dalla società civile, sono consapevoli che questo crescente interesse è rivolto più alle materie prime che allo sviluppo del continente. Perciò si vuole dare più importanza ai rapporti con il Brics. Sempre più paesi dell’Africa ne vogliono far parte. Oggi ci sono il Sud Africa, l’Egitto e l’Etiopia, ma vorrebbero aderire anche la Nigeria, il Senegal, l’Algeria, la Repubblica democratica del Congo ed altri.

L’Africa è consapevole che il Brics dà ai paesi del Global South la possibilità di articolare le proprie proposte e di fissare le proprie priorità, anche nei settori tecnologici. L’utilizzo delle monete locali nei commerci dovrebbe creare maggiore efficienza e risparmio. Il governo egiziano ha appena deciso l’utilizzo delle monete nazionali nei commerci come sua priorità programmatica. Una sperabile maggiore indipendenza finanziaria dovrebbe essere garantita da un sistema di pagamento panafricano che è stato sviluppato dall’Afreximbank, la banca export import nata con gli accordi Afcfta, cui le banche centrali dovrebbero aderire entro la fine del 2024 e le banche commerciali entro la fine del 2025.

Attraverso l’azione dell’Afcfta e dell’Unione africana i rapporti con il Brics diventeranno di natura collettiva, continentale. Si auspica che il Brics possa essere un efficace ombrello protettivo per i paesi africani nei confronti di chi ha eventuali intenti predatori. E’ una speranza per l’intero mondo se vero è che il nuovo ordine economico mondiale non può che essere fondato sul multilateralismo e su una nuova architettura finanziaria globale.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Gli insegnamenti di Enrico Mattei per il “Piano”

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Enrico Mattei era un uomo d’azione, visionario, concreto, non di tante parole. La sua vita ha segnato eventi rivoluzionari che hanno contribuito a cambiare un’epoca. E’ stato un leader con obiettivi e metodi operativi chiari: individuare e realizzare grandi progetti, a livello nazionale e internazionale, capaci di ispirare profondi cambiamenti economici e sociali.

Anzitutto la realizzazione di una rete nazionale di gasdotti per la distribuzione del gas metano che ha cambiato la vita della nostra gente e ha contribuito grandemente allo sviluppo industriale dell’Italia sollevandola dalle distruzioni della guerra. Mattei è stato anche all’avanguardia nel promuovere la ricerca scientifica e tecnologica, tanto che una delle prime centrali nucleari europee, con il reattore più potente di allora, fu costruita dall’Agip nel 1958 a Latina.

Ruppe gli accordi fifty-fifty sui profitti dall’estrazione di petrolio, portandoli a 75-25% a favore di numerosi paesi produttori, sfidando i comportamenti neocoloniali delle cosiddette sette sorelle, spingendo molti leader del terzo mondo a iniziare politiche di sviluppo più indipendenti e sovrane. Per questo ha pagato con la vita. I grandi accordi non si esaurivano con lo sfruttamento energetico ma affiancavano anche joint venture paritarie per la realizzazione di importanti infrastrutture, porti, strade, ecc., necessarie alla trasformazione dei paesi da semplici fornitori di materie prime a economie industrializzate, anche con la formazione professionale dei giovani del posto.

E’ per questo che pensiamo che il “Piano Mattei” non sia all’altezza del nome che porta. Al di là delle polemiche di parte, l’iniziativa è, comunque, in sé positiva perché assegna all’Italia, almeno sulla carta, un ruolo attivo e internazionale.
Secondo noi, però, il piano dovrebbe indicare pochi e grandi progetti, lavorando con i paesi africani per la loro realizzazione. Poiché tra gli obiettivi vi è opportunamente la questione dell’acqua, elemento essenziale per usi civili, agricoli e industriali e per fermare il processo di desertificazione nelle regioni del Sahel, un progetto da sostenere dovrebbe essere quello definito Transaqua. Esso prevede il trasferimento di una percentuale di acqua del fiume Congo, che altrimenti finirebbe nell’Oceano Atlantico, con un canale fino al Lago Ciad che sta per scomparire dalle cartine geografiche. A esso si legherebbero anche altri progetti nel campo agroindustriale, infrastrutturale e sociale, nonché la necessaria formazione tecnica e professionale.
Intorno alla questione del Lago Ciad esiste da decenni una Commissione che coinvolge tutti gli stati direttamente interessati come il Ciad, il Niger, la Nigeria, il Camerun, la Repubblica Centroafricana, la Libia e potenzialmente molti altri. L’Italia è direttamente coinvolta nel progetto, elaborato oltre 40 anni fa dall’impresa italiana Bonifica del Gruppo Iri e avendo, recentemente, partecipato allo studio di fattibilità. In altre parole la collaborazione paritetica è già in atto.
E’ senz’altro vero che con i suoi 5,5 miliardi di euro l’Italia da sola non potrebbe farcela. Però, dovrebbe interessare l’Unione europea e cercare di inserire tale progetto nel piano di investimenti europei, noto come Global Gateway. Il grande progetto sarebbe una sfida a quanti vorrebbero continuare con vecchie e fallimentari politiche, “predatorie o caritatevoli”, nei confronti del continente africano.
Invece, il piano del governo, per quanto riguarda la gestione dell’acqua punta alla realizzazione di pozzi, ad esempio, in qualche zona rurale del Congo. Iniziative del genere sono state fatte da decenni ma non hanno cambiato la situazione che è rimasta a livello di sopravvivenza.
L’ideologia del “piccolo è bello” spesso genera degli sprechi e Mattei ci insegna che bisogna puntare in grande. Ovviamente non si tratta nemmeno di costruire delle “cattedrali nel deserto”, bensì individuare insieme ai leader africani quei progetti portanti che servono all’Africa di oggi e di domani.
L’altra sfida è quella delle infrastrutture. Nel 2019 i paesi dell’Africa hanno ratificato l’accordo per la Zona continentale di libero scambio e nei loro progetti, previsti anche dall’Unione Africana con l’Agenda 2063, vi è una rete di trasporti ferroviari, terrestri e fluviali per migliorar e accrescere il commercio interno del continente che è soltanto il 18% di quello africano globale. Invece di arrovellarsi su piccole iniziative locali o nazionali, perché non agganciarsi ai progetti già indicati dai leader africani per l’intero continente? Sarebbe un modo serio e rispettoso, “paritetico”, per avanzare nella cooperazione. Anche così si spingerebbero gli altri paesi europei e l’Ue a sostenere una vera rivoluzione infrastrutturale e industriale in Africa.
Non si tratta affatto di negligere i fondamentali settori dell’istruzione e della sanità. Ma, come conosciamo bene anche in Italia, questi possono essere sostenuti e migliorati nel tempo soltanto attraverso la creazione di ricchezza e l’aumento del pil. Altrimenti restano schiacciati dalla povertà o dipendenti da azioni caritatevoli, spesso “pelose”. Per quanto riguarda l’energia, tanto è stato detto e già fatto. Circa le migrazioni si può solo dire che è una sfida da gestire con umanità e anche in rapporto alle necessità di mano d’opera del nostro paese e dell’Europa.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Usa: gli interessi sul debito superano le spese militari

di Mario Lettieri e Péaolo Raimondi**

Le guerre e gli scontri geopolitici in corso hanno oscurato certe preoccupanti tendenze economiche negli Usa e anche nel resto del mondo. Non hanno cancellato le realtà. Basti osservare attentamente gli andamenti finanziari di oltre oceano.

L’agenzia di stampa Bloomberg News stima che a fine ottobre 2023, il pagamento degli interessi sul debito pubblico federale, calcolato su 12 mesi, ha raggiunto circa 1.000 miliardi di dollari. Il livello annualizzato degli interessi pagati è raddoppiato rispetto alla fine di marzo 2022.

E’ l’effetto combinato del Quantitative Easing e dell’immissione di liquidità, con i quali la Federal Reserve ha sostenuto il sistema durante la crisi pandemica, e poi con i successivi aumenti del tasso di sconto per contenere l’inflazione, prodotta in parte proprio dal QE.

Il governo americano pagherà più interessi sul debito anche rispetto alle già stratosferiche spese militari!

Nell’anno fiscale 2023, che è terminato il 30 settembre, il deficit di bilancio è stato di 1.700 miliardi di dollari, un aumento di 320 miliardi, cioè il 23% in più rispetto a quello dell’anno fiscale precedente. La gran parte di quest’aumento si deve alla crescita di ben 184 miliardi per interessi sul debito. Sarebbe stato di 2.000 miliardi se la Corte Suprema non avesse bloccato il programma di cancellazione del cosiddetto “debito degli studenti”.

Il debito pubblico ha superato 26.200 miliardi, con un aumento di circa 2.000 miliardi rispetto al 2022. A ciò ha contribuito molto la diminuzione delle entrate di ben 457 miliardi, dei quali 456 sono meno tasse sui redditi dei cittadini. Altro che ripresa, è una realtà amara per la maggioranza della popolazione americana.

Gli alti tassi d’interesse hanno reso i prestiti più costosi, aumentando la pressione sul debito americano. Oggi i Treasury bond a 10 anni hanno un tasso di interesse di quasi 5 %, tre volte il livello di due anni fa! Nei mesi scorsi l’aumento dei tassi ha mandato a gambe all’aria parecchie banche regionali che erano piene di titoli pubblici a basso rendimento. La crescita dei tassi è andata di pari passo con l’inflazione. Adesso si afferma che quest’ultima sarebbe scesa al 3%. Molti si affidano alla smorfia napoletana per “indovinare” quali saranno i tassi futuri dei T-bond.

Questa situazione rischia di generare un permanente stato d’instabilità del bilancio federale. Il rischio di un shutdown al primo di ottobre era stato evitato all’ultimo minuto con un accordo bipartisan alla Camera dei deputati. Per legge, le agenzie federali devono far approvare dal Congresso i programmi di spesa per spendere i soldi. Il shutdown implica la sospensione di numerose operazioni del governo federale per mancanza di soldi, con effetti negativi sui lavoratori pubblici, sull’economia e sull’intera cittadinanza. Senza nuovi accordi, il 17 novembre ci potrebbe essere un nuovo shutdown. Certamente sarà ancora una volta evitato, ma queste montagne russe per il bilancio federale non sono un bel biglietto da visita per il resto del mondo.

A giugno scorso fu evitato il default con un accordo bipartisan, il “Fiscal Responsibility Act of 2023”, che sospende il fatidico tetto del debito federale fino al primo gennaio 2025. L’accordo prevede un limite di spesa discrezionale di 1.590 miliardi di dollari per due anni. In altre parole, il governo può prendere prestiti e spendere di più di quanto fissato nel bilancio federale. La ragione della crisi era dovuta al fatto che già in gennaio si era raggiunto il tetto del debito previsto per il 2023 di 31.400 miliardi. L’agonia fu protratta fino a giugno con “misure straordinarie” di carattere amministrativo-finanziario.

Persino due agenzie di rating americane, Standard &Poor’s e Fitch, da sempre molto generose nei confronti dei titoli americani, hanno dovuto ritoccare al ribasso il loro rating circa la capacità di ripagare il debito. Gli Usa hanno perso la tripla A, il massimo dei rating, e ciò potrebbe avere un effetto sia sul costo del debito sia sulla propensione degli investitori a fare prestiti al governo federale. Moody’s ha invece confermato la tripla A ma con un outlook da stabile a negativo.

Gli Usa guardano avanti e si aspettano che in dieci anni il debito federale sarà di 52.000 miliardi di dollari. Per il momento sembrano voler ignorare le cause profonde delle crisi, della finanza speculativa, delle banche too big to fail, dello shadow banking per concentrasi, invece, sul taglio delle spese sociali di bilancio e sull’aumento delle tasse. Non offrono nessuna idea nuova per affrontare i problemi succitati e i loro riverberi negativi in tutto il mondo, a partire dall’Europa.

*già sottosegretario all’Economia **economista

L’Asean per una politica multilaterale


di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi*
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Nonostante i conflitti in atto e il rischio di guerra, qualcosa di positivo si muove nel mondo. Non ci sono solo i Brics che operano per una riorganizzazione economica e politica del pianeta in senso multilaterale. Nei giorni precedenti il vertice di settembre del G20 di Nuova Delhi, l’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico (Asean) ha tenuto il suo summit annuale a Jakarta, in Indonesia, proprio sul tema del multilateralismo. Ancora una volta, purtroppo, l’Europa ha pressoché ignorato l’evento, forse considerato “esotico”.

L’Asean è un’organizzazione intergovernativa regionale fondata nel 1967. Dopo l’Ue, l’Asean è considerata uno dei modelli di cooperazione regionale di maggior successo al mondo. Con i suoi dieci membri, Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Singapore, Thailandia e Vietnam, essa rappresenta 664 milioni di persone, l’8% della popolazione mondiale e il 3,5% del PIL globale (3.300 miliardi di dollari). Nel 2007 si è data una Carta valoriale e programmatica, con la creazione di organismi operativi come il Segretariato generale. Si propone di realizzare un’unione regionale politica e di sicurezza con l’eliminazione delle barriere doganali per una completa integrazione economica regionale.
Mantenendo relazioni importanti con i suoi partner chiave come Cina, India, Stati Uniti e Russia, essa si pone come organismo di incontro e di moderazione. L’Asean teme gli eventuali conflitti nei punti caldi della regione: il Mar Cinese Meridionale, il Mar Cinese Orientale, la Penisola Coreana e la questione di Taiwan.

Infatti, negli ultimi tempi la principale preoccupazione è stata l’acuirsi della contesa strategica tra Stati Uniti e Cina. L’Asean intende, perciò, far crescere il suo peso economico e la sua collaborazione interna proprio per accrescere anche il suo ruolo politico di bilanciamento. Proprio in quest’ottica il tema principale del vertice è stato “L’Asean: epicentro della crescita”.
Nella dichiarazione finale del citato incontro si afferma di voler diventare “il centro e il motore della crescita economica nella regione e oltre”. Con un tasso di crescita più rapido rispetto a quello attuale, intende rafforzare la resilienza del gruppo in tutte le aree identificate: salute, clima, sistemi alimentari ed energetici, catene di approvvigionamento e stabilità macroeconomica e finanziaria. La sicurezza alimentare è stata posta al centro del vertice. Davvero interessante tale scelta.

Il summit di Giacarta ha incluso anche il 18° vertice onnicomprensivo dei paesi dell’Asia orientale (Eas), che riunisce l’Asean e i suoi otto principali partner (India, Australia, Nuova Zelanda, Cina, Giappone, Corea del Sud, Russia e Stati Uniti), in cui le rivalità e le tensioni della regione sono state messe a fuoco.
Joko Widodo, presidente dell’Indonesia e dell’Eas, ha avvertito che “se non saremo in grado di gestire le differenze, saremo distrutti”. E ha aggiunto: “Se ci uniamo alle correnti della rivalità, saremo distrutti”. Secondo noi, sarebbe un messaggio da recepire anche in Europa.

Il documento finale dell’Eas afferma di voler promuovere il dialogo e la soluzione pacifica di eventuali conflitti, riconoscendo il ruolo centrale di mediazione dell’Asean. Ci s’impegna anche a “promuovere un multilateralismo basato sulla legge internazionale e sui principi delle Nazioni Unite, compreso il rafforzamento dell’architettura multilaterale regionale”. L’Eas s’impegna anche a sostenere la cosiddetta “Chiang Mai Initiative Multeralization, come rete finanziaria regionale”. L’iniziativa di Chiang Mai fu la risposta alla crisi finanziaria dei paesi asiatici del 1997 e consisteva in un coordinamento tra le banche centrali contro le speculazioni. Fu rafforzata dopo la crisi finanziaria globale del 2008. Oltre all’Asean, oggi vi fanno parte anche Cina, Giappone e Corea del Sud.

Nonostante fosse impegnato nell’organizzazione del G20 in programma a Nuova Delhi pochi giorni dopo, il primo ministro indiano Narendra Modi ha colto l’occasione del summit per andare a Giacarta e presenziare il 20° vertice Asean-India. L’India ha presentato delle proposte per rafforzare la cooperazione in tutti i settori, compresi quello marittimo e della sicurezza alimentare. Modi ha così sintetizzato il suo messaggio: “Il 21° secolo è il secolo dell’Asia”.
Sul fronte monetario anche l’Asean si muove da parecchio tempo per sottrarsi al dominio del dollaro.

Mentre si teneva il summit, il governo dell’Indonesia, l’economia più forte del gruppo, annunciava una task force nazionale, formata da diversi ministri e dalla banca centrale, per la de-dollarizzazione e l’utilizzo delle monete nazionali con i propri partner commerciali. La decisione seguiva il sostegno dichiarato nell’agosto precedente dai ministri dell’economia e dai governatori delle banche centrali dell’Asean per l’utilizzo delle monete locali nelle transazioni dell’intera regione.
°già sottosegretario all’Economia **economista

La sfida dello sviluppo dei Paesi poveri

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

I paesi a basso reddito, i cosiddetti low income countries (lic), hanno un pil complessivo di circa 500 miliardi di dollari, Una goccia nell’immenso mare di 100 mila miliardi dell’economia globale. Il loro piccolo peso economico è proporzionale alla poca attenzione loro data dai paesi sviluppati. Infatti, i paesi più ricchi del mondo hanno scelto proprio il momento peggiore per diventare meno generosi con gli aiuti e l’assistenza allo sviluppo. I lic, però, rappresentano ben 700 milioni di persone che ambiscono agli stessi diritti umani e civili di un cittadino di Berlino o di Roma.

Tante sono le astratte discussioni sulle ondate migratorie e sul sottosviluppo e si riempiono tanti salotti televisivi, ignorando, però, la dura realtà sottostante. Oggi, secondo i dati della Banca Mondiale e delle Nazioni Unite, i 26 paesi più poveri del mondo si trovano ad affrontare crescenti difficoltà sociali, economiche e politiche, a causa dell’aumento del debito, della diminuzione delle prospettive di sviluppo e del cronico sottoinvestimento

Secondo i recenti criteri stabiliti dalla Banca Mondiale, i paesi più poveri sono quelli con un reddito annuale procapite inferiore a 1.135 dollari. Da 28 sono diventati 26 poiché, per una insignificante manciata di dollari, lo Zambia e la Guinea Bissau sono passati nella fascia “superiore”, quella dei paesi di reddito medio, cioè fino a 4.465 dollari procapite annui. Il valore di riferimento usato è il reddito nazionale lordo, gni l’acronimo in inglese, che al pil aggiunge i profitti realizzati all’estero da parte di cittadini del paese meno i profitti fatti da compagnie e investitori stranieri sul territorio del paese in questione.

La situazione dei paesi a basso reddito è peggiorata dal 2000. Ad esempio, la mortalità materna è ora più alta del 25% e la quota della popolazione con accesso all’elettricità è scesa dal 52% ad appena il 40%. L’aspettativa di vita media è oggi di soli 62 anni, tra i tassi più bassi del mondo. A peggiorare le cose, le probabilità che questi paesi ricevano aiuti dall’estero sono diminuite. I paesi più ricchi stanno reindirizzando una parte maggiore dei loro bilanci, destinati agli aiuti esteri, per coprire le spese generate dall’arrivo di rifugiati.

Ben 22 dei 26 suddetti paesi sono nell’Africa sub sahariana. Tutti ricchissimi di materie prime. Alcuni, come l’Etiopia, la Repubblica democratica del Congo e il Sudan hanno una ragguardevole popolazione.

Non ci sono solo negligenza e sfruttamento da parte delle economie avanzate e delle grandi multinazionali, ma anche i governi non si curano veramente delle loro popolazioni. Hanno altre priorità. Ad esempio, spendono circa il 50% in più per la guerra e la difesa rispetto alla sanità. Quasi la metà dei loro budget è destinata agli stipendi del settore pubblico e al pagamento degli interessi sul debito, mentre solo il 3% della spesa pubblica è per il sostegno dei cittadini più vulnerabili. Si tratta di un decimo della media nelle economie in via di sviluppo.

Entro la fine del 2024 il reddito medio delle persone nei paesi più poveri sarà ancora inferiore di quasi il 13% rispetto a quanto previsto prima della pandemia. Tra il 2011 e il 2015, le sovvenzioni hanno rappresentato circa un terzo delle entrate pubbliche nei paesi più poveri. Da allora tale quota è scesa a meno di un quinto! I governi dei paesi poveri hanno colmato la differenza indebitandosi ulteriormente, penalizzati anche dagli alti tassi d’interesse. Il rapporto debito pubblico/pil in queste economie è salito dal 36% del 2011 al 67% dello scorso anno. E’ il livello più alto dal 2005. Quattordici di questi paesi a basso reddito, il doppio di appena otto anni fa, sono ora in grande difficoltà debitoria o corrono il rischio di esserlo.

Secondo il World development report 2023 della Banca mondiale vi sono 184 milioni di migranti a livello globale, 37 milioni dei quali richiedenti asilo. Il 40%, circa 74 milioni, sono andati nei paesi più avanzati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Questa cifra comprende anche gli 11 milioni di cittadini europei che lavorano in altri paesi dell‘Ue.

Il 17% dei migranti globali è andato nei Paesi del Golfo e il resto, il 43%, una maggioranza di circa 80 milioni, è emigrato in altri paesi a basso e medio reddito del settore in via di sviluppo.

Queste sono le realtà che dovrebbero indurre a un approccio corretto se si vuole vincere la sfida globale per uno sviluppo equo e solidale, partendo dai paesi più poveri.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Piano Mattei per l’Africa: il progetto Transaqua

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

In una recente intervista, citata in un articolo della rivista “Analisi Difesa”, l’ex primo ministro ed ex presidente della Commissione europea Romano Prodi affronta in modo concreto, lungimirante, anche giustamente polemico, lo sviluppo economico, infrastrutturale e sociale del continente africano. Lo fa da statista e non come uomo di parte.

Una delle aree più colpite dalla mancanza di sviluppo è quella del Lago Ciad, nel Sahel, la regione sub sahariana. Il lago sta scomparendo con l’avanzata del deserto. Dagli anni ’60 si è ridotto del 90% mentre la popolazione circostante è passata da 5 a 60 milioni. L’esistenza di intere comunità di agricoltori, di allevatori e di pescatori è minacciata. Secondo l’Onu, 34 milioni di persone sopravvivono grazie all’assistenza umanitaria La crisi ha provocato conflitti locali e ha favorito la penetrazione del terrorismo. La gente è in fuga verso tutte le direttrici dell’emigrazione.

La crisi non è inevitabile. Da più di quarant’anni c’è il progetto “Transaqua” che prevede un canale di 2.400 km con il trasferimento idrico per gravità dal bacino del fiume Congo verso il Lago Ciad. Ne abbiamo più volte scritto su questo giornale.

“Transaqua potrebbe essere una meravigliosa proposta, afferma Prodi, e l’Italia, che oggi lavora a un Piano Mattei per l’Africa, potrebbe fare da capofila, perché da sola non può farcela. Occorre una forte azione di sano lobbying, facendo appello all’Europa, alle Nazioni Unite, all’Unione Africana, agli Stati Uniti e anche alla Cina se serve. Occorrono la collaborazione di tutti e un cambio di paradigma. È ora di finirla con gli approcci separati in Africa, per i quali, ed è ormai sotto gli occhi di tutti, la Francia sta pagando un prezzo altissimo”.

Prodi ha parlato più volte di Transaqua negli anni passati, in particolare in qualità di inviato speciale Onu per il Sahel e di presidente della “Fondazione per la collaborazione tra i popoli”.

Il progetto fu presentato nel 1980 dalla società Bonifica, del Gruppo IRI, proprio quando Prodi ne era presidente. Esso permetterebbe la creazione di una vasta area di sviluppo agricolo e anche la produzione di corrente idroelettrica. Un volano di crescita che coinvolgerebbe direttamente i paesi che si affacciano sul bacino: Nigeria, Ciad, Camerun e Niger e, indirettamente, altri. Quarant’anni fa sarebbe costato 4 miliardi di dollari, oggi ne servirebbero circa 50. Sembra una somma enorme, ma non lo è se la paragoniamo alle decine di miliardi spesi in Africa per interventi tappabuchi, o al costo di un anno della guerra in Ucraina. Il G20 dovrebbe farlo suo, dando così concretezza ai tanti discorsi sul cambiamento climatico e alle tante promesse per lo sviluppo e per l’ambiente in Africa.

Nonostante esista una Commissione del Bacino del Lago Ciad (LCBC) che da decenni lavora per risolvere i problemi inerenti al prosciugamento del lago e nonostante che essa nel 2018 abbia identificato in Transaqua l’unica soluzione possibile, il progetto è sempre stato osteggiato, boicottato, a livello internazionale. Per esempio, Analisi Difesa cita un rapporto del 2020 finanziato dal Commonwealth britannico e da istituzioni del governo francese, “Soft Power, Discourse Coalitions and the Proposed Inter-Basin Water Transfer Between Lake Chad and the Congo River”, che sostiene che lo scopo di Transaqua, collocando l’idrovia al centro di un sistema più vasto di trasporti pan-africano, sarebbe “in linea con i precedenti sogni espansionistici dell’Italia nel Sahel”. Un’Italia neocoloniale nell’Africa sub sahariana? Assurdità. Che lo dicano poi inglesi e francesi…

“Quelle francesi, dice Prodi, sono obiezioni piuttosto curiose, come se in Africa non si debbano fare degli interventi infrastrutturali. Qui si tratta di aiutare la natura a recuperare una situazione di equilibrio interno a vantaggio dei popoli africani. E per capire l’importanza di Transaqua basta considerare che il bacino del Lago Ciad copre un ottavo del continente africano”.

Purtroppo la comunità internazionale sembra volersi ancora focalizzare più sugli interventi umanitari e ambientali di breve o medio termine che su interventi radicali e risolutori a lungo termine. Forse, tra non molto, la voce delle giovani generazioni africane si farà sentire più forte e il resto del mondo, soprattutto l’occidente, non potrà più ignorarla. In merito sarebbe bello se anche i giovani europei facessero sentire la loro voce.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Usa: debito, interessi e titoli pubblici


di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi*
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Quando all’inizio di agosto l’agenzia di rating Fitch ha declassato gli Usa da AAA a AA+ il governo americano ha subito risposto duramente. Janet Yellen ha dichiarato il suo totale disaccordo e definito “arbitraria” la decisione. Nel 2011 Obama reagì ancora più violentemente quando Standard & Poor’s fece lo stesso declassamento. Lo ricordino i governi europei quando le agenzie americane pontificheranno sull’andamento delle loro economie.
La ragione data da Fitch è troppo generica e non va al nocciolo del problema. Essa afferma che negli ultimi 20 anni c’è stato un continuo deterioramento negli standard di governance dell’economia anche rispetto alle questioni fiscali e debitorie”.
In verità, sarebbe stato opportuno entrare nel merito. Il debito pubblico americano totale (federale e regionale) è oggi di oltre 32.000 miliardi di dollari, era di circa10.000 miliardi quando esplose la grande crisi finanziaria del 2008. Si stima che entro la fine del decennio raggiungerà i 50.000 miliardi.

Inoltre, da molto tempo ogni anno i governi Usa non riescono a mantenere le spese entro i limiti di bilancio e, ritualmente, devono sfondare il tetto del debito per evitare la bancarotta dello Stato! Questa volta un accordo bipartisan ha deciso di sospendere il limite del debito federale fino a gennaio 2025, cioè per opportunità politica fino all’insediamento del nuovo presidente dopo le elezioni di novembre 2024. A seguito dello “sfondamento” del debito, si stima che quest’anno il deficit di bilancio salirà al 6,3% del pil. L’anno scorso era stato del 3,7%.

Il declassamento del rating inevitabilmente farà crescere il livello di interessi da pagare per le obbligazioni pubbliche, per i noti Treasury bond. Questo si andrà ad aggiungere all’aumento prodotto dagli alti tassi d’interesse imposti dalla Federal Reserve e giustificati come mossa indispensabile per contenere l’inflazione. A ciò occorre aggiungere che la Fed da mesi sta cercando di “smontare” il quantitative easing, evitando anche di comprare nuovi titoli di Stato o di rinnovare parte di quelli in scadenza.

Il risultato è che i titoli pubblici sono in una fase di grande fibrillazione. Il che non rivela soltanto un problema di gestione del debito pubblico. Come abbiamo visto nelle settimane passate, l’aumento del tasso d’interesse sui bond ha avuto pericolosissime ripercussioni sulla tenuta di alcune banche regionali, anche con dei veri e propri fallimenti.
Si noti che recentemente Moody’s ha declassato alcune banche regionali.
Infatti, il sistema bancario americano è pieno di titoli pubblici che, rispetto ai tassi di oggi, sono in perdita. Cercare di rimpiazzarli non è un’operazione lineare. Oltre a perdite da registrare nella foga delle vendite, l’effetto generale sui loro valori di mercato potrebbe essere molto destabilizzante per la loro tenuta.

Intanto, è opportuno registrare che nel periodo ottobre 2022 – giugno 2023, a seguito degli aumenti dei tassi voluto dalla Fed il pagamento per gli interessi è stato di 652 miliardi di dollari, addirittura superiore alle spese per la Difesa. L’ammontare è maggiore del 25% rispetto alle spese per interessi dello stesso periodo dell’anno precedente. Il Congressional Budget Office (Cbo) stima in 745 miliardi di dollari gli interessi da pagare nel 2024 e a oltre 10.000 miliardi nel decennio successivo.

Il problema sta anche nel fatto che il debito pubblico americano è “circondato” da innumerevoli bolle debitorie e speculative. Il declassamento, per esempio, avrà forti riverberi anche sui tassi applicati alle ipoteche e ai mutui che i cittadini devono pagare per l’acquisto delle proprie abitazioni. La somma del debito per le ipoteche residenziali e per gli edifici commerciali è di circa 18.000 miliardi di dollari. Un altro effetto negativo si vedrà sui debiti accesi per finanziare il percorso educativo, il cosiddetto “student debt”. Detta bolla è oggi pari a oltre 1.700 miliardi di dollari. Il pagamento degli interessi e delle quote di questi debiti era stato sospeso durante il periodo del Covid, ma, per decisione del governo, ripartirà da settembre.

Si teme, perciò, che nel tentativo di contenere i debiti pubblici e i deficit di bilancio a farne le spese possano essere i servizi pubblici, a cominciare dalla sanità e dalla scuola. Una ricetta, purtroppo, ben conosciuta anche in Italia.
I gravissimi problemi finanziari di Evergrande, il colosso cinese delle costruzioni e della finanza privata, oltre a creare seri problemi a Pechino, rischia di impattare l’incerto andamento finanziario e debitorio anche negli Usa e altrove.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Summit di Pietroburgo: l’Africa fa sentire la sua voce

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

Il 28 luglio scorso è terminato a San Pietroburgo il secondo summit Russia – Africa. Vi hanno partecipato 49 Stati africani, rappresentati in alcuni casi da capi di governo, in altri da ministri degli esteri o da ambasciatori. Il primo summit fu organizzato a Sochi nell’ottobre del 2019. Nel frattempo il mondo è stato profondamente cambiato dal Covid e dalla guerra in Ucraina.

Molta stampa ha cercato di presentare il summit come un fallimento, poiché, rispetto a quello di Sochi, a San Pietroburgo sarebbe stato presente un numero inferiore di capi di Stato e di governo. Il fatto è vero, si è passati da 43 capi di Stato a 17, frutto di grandi pressioni occidentali. Anche se questa volta sono venuti altri capi di Stato importanti, come quello del Camerun, che non erano stati a Sochi.

A nostro avviso sarebbe un grave errore di calcolo geopolitico se l’Occidente, e in particolare l’Unione europea, valutasse il summit semplicemente come un atto di propaganda di Mosca o come un cedimento dell’Africa alle pressioni e alle supposte “manipolazioni” della Russia.

Sarebbe invece opportuno leggere la Dichiarazione finale non come un compromesso di posizioni ma come una dichiarazione programmatica e d’intenti dei paesi dell’Africa nei confronti del mondo intero. Ovviamente, la mano del Cremlino c’è stata ma si è limitata a far si che la parola “Ucraina” non fosse mai menzionata nella Dichiarazione.

L’Africa riafferma la necessità di opporsi al neocolonialismo, che impone condizioni e doppi standard, e di non permettere che queste pratiche privino gli Stati e i popoli del diritto di compiere scelte sovrane nei loro percorsi di sviluppo. Chiede di “contrastare l’imposizione nelle organizzazioni internazionali, principalmente nelle Nazioni Unite, di linee di divisione che ostacolano l’effettiva ricerca di soluzioni a questioni urgenti nell’agenda dell’Onu, comprese quelle che riguardano interessi vitali degli Stati africani… L’Africa vuole contribuire alla creazione di un ordine mondiale multipolare più giusto, equilibrato e stabile”. Ciò non è cosa da poco anche rispetto alle chiusure degli Usa e dell’Occidente in genere rispetto a tale necessità.

Nel campo economico e programmatico le posizioni dell’Africa sono anche più precise. Si afferma “l’opposizione all’applicazione di misure restrittive unilaterali illegittime, anche secondarie, e alla pratica del congelamento delle riserve valutarie sovrane.” Ovviamente è un’affermazione anche nell’interesse della Russia, per via delle sanzioni imposte dall’Occidente, ma riflette soprattutto la crescente preoccupazione, più volte espressa da tutti i Paesi emergenti, sull’utilizzo generalizzato delle sanzioni come arma di guerra.

Il sostegno dell’Africa a un processo politico multilaterale è manifestato chiaramente quando si dichiara di voler contribuire a una crescita economica sostenibile e globale e a un sistema più rappresentativo di governance economica internazionale per rispondere efficacemente alle sfide economiche e finanziarie globali e regionali. E anche quando si vuole “facilitare la ristrutturazione dell’architettura finanziaria globale per affrontare meglio le crescenti esigenze di sviluppo e riflettere gli interessi e la crescente influenza dei paesi in via di sviluppo e per superare l’impatto negativo delle condizioni loro imposte in relazione al pieno ed effettivo godimento dei diritti umani.”

Naturalmente si esprime profonda preoccupazione per le sfide legate alla sicurezza alimentare globale, compreso l’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari e dei fertilizzanti, e l’interruzione delle catene di approvvigionamento internazionali, che hanno un impatto sproporzionato sul continente africano. Si sostiene, inoltre, la necessità di misure finanziarie multilaterali inclusive che alleggeriscano l’onere del debito per i paesi a basso e medio reddito.

Decisivo per l’Africa è “il rispetto dei principi e degli scopi fondamentali della Carta delle Nazioni Unite per promuovere il ruolo centrale di coordinamento dell’Onu come il principale meccanismo multilaterale globale.” L’adesione dell’Unione africana (Ua) al G20 sarebbe un passo importante nella giusta direzione, così come l’auspicata partnership dell’Ua con i Brics.

Particolarmente rilevante è proprio la centralità data all’Onu rispetto al ruolo assegnatole dai 193 paesi aderenti. Purtroppo, nonostante la drammaticità di questo delicato momento, i paesi europei hanno scelto di svolgere un ruolo subalterno.

*già sottosegretario all’Economia ** economista

L’Unione Africana nel G20

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Il primo ministro indiano Narendra Modi ha preso l’iniziativa di invitare l’Unione africana (UA) a entrare nel G20. Lo ha fatto contattando al riguardo tutti i governi dei Paesi membri, anche in forza del fatto che nel 2023 l’India ne detiene la presidenza. A tal proposito, si ricordi che il prossimo summit si terrà il 9 settembre a Nuova Delhi. L’India si pone così come leader dei paesi in via di sviluppo e del cosiddetto Global South. Fa anche un passo in avanti nella sua aspirazione di diventare un membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

Si tratta di una mossa di grande rilevanza rispetto al progressivo e necessario multilateralismo della politica globale, allo spostamento in corso dell’asse geopolitico dal Nord verso il Sud del mondo e al cambiamento delle istituzioni di Bretton Woods. D’altra parte, se è vero che l’Africa è il continente del futuro, è inconcepibile tenerla ai margini, mantenendo nei suoi confronti un atteggiamento di vetusto sapore colonialista.

E’ da diversi anni che i governi africani e l’UA, il raggruppamento panafricano che raccoglie ben 55 Stati, operano per questo obiettivo. Nel febbraio di quest’anno il vertice dell’UA ha chiesto di far parte del G20. La proposta era stata presentata da Macky Sall, presidente del Senegal e allora anche dell’UA. Il vertice ha riaffermato “la necessità che l’Africa sia maggiormente coinvolta nei processi decisionali” sui temi della governance globale. Legittimo, opportuno e vera necessità.

All’ingresso dell’UA nel G20 sarebbero favorevoli 13 membri: Stati Uniti, Cina, Russia, India, Regno Unito, Francia, Germania, Italia, Brasile, Sudafrica, Indonesia, Giappone e UE. I non convinti e gli ostili sarebbero i restanti 7 paesi: Australia, Canada, Argentina, Messico, Corea del Sud, Arabia Saudita e Turchia. Come si può notare tra i membri c’è già l’Unione europea. L’UA non sarebbe un’eccezione.

L’ingresso dell’UA renderebbe il G20 più rappresentativo, inclusivo e, quindi, più influente. Oggi il G20 rappresenta il 65% della popolazione mondiale, domani, con l’Africa, rappresenterebbe l’80% del pianeta. Già rappresenta l’85% del pil globale e il 75% dell’intero commercio mondiale.

Durante una visita in Africa lo scorso febbraio, anche Janet Yellen, segretario al Tesoro Usa, aveva osservato che le comunità africane sono “sproporzionatamente vulnerabili agli effetti delle sfide globali. Qualsiasi soluzione seria richiede leadership e voci africane”. E’ confermato che sull’agenda dell’incontro di Modi con il presidente Biden c’era anche l’adesione dell’UA al G20. Nel Summit Usa – Africa dello scorso dicembre il presidente americano si era già espresso favorevolmente.

I vantaggi per l’Africa sono evidenti. Il G20 è profondamente coinvolto nella definizione di soluzioni alle sfide globali come la crescita economica, i cambiamenti climatici, la transizione energetica, lo sviluppo sostenibile, l’onere del debito, l’emancipazione delle donne e l’economia digitale. L’Africa avrebbe finalmente voce in capitolo in tutte le deliberazioni e decisioni.

I critici all’ammissione dell’UA sostengono che ciò ridurrebbe l’efficacia del G20, mettendo in discussione la capacità dell’Africa di fornire una partecipazione rilevante. Se si prende in considerazione la lista degli attuali membri anche l’argomento, circa eventuali simili richieste da parte di altri continenti, è poco pertinente. D’altra parte oggi l’unico membro africano è il Sud Africa. Il paragone con l’Europa è stridente: con meno della metà della popolazione africana, essa conta 6 membri: Germania, Francia, Italia, Gran Bretagna, Russia e UE.

Molti, non solo gli scettici, ignorano il potenziale economico dell’Africa, della sua ricchezza mineraria, dell’espansione demografica, dell’integrazione economica attraverso l’African Continental Free Trade Area (AfCFTA) e della crescente influenza negli affari mondiali. L’intera UA oggi è soltanto al nono posto tra le maggiori economie, ma entro la metà di questo secolo coprirà il 25% della popolazione mondiale e, con il suo alto tasso di fertilità, potrebbe fornire circa la metà della forza lavoro del pianeta.

Gli esperti indiani ritengono opportuno che l’Africa sia inclusa nel G20 proprio durante la presidenza indiana. E, per rispondere a chi è fedele al marchio del G20, essi affermano che il nome può rimanere invariato. C’è già un grande precedente: anche con 134 paesi in via di sviluppo al suo interno, il G77, l’organizzazione intergovernativa delle Nazioni Unite per il disarmo e per un nuovo ordine economico internazionale, non ha cambiato nome. L’Unione europea, se parlasse con una sola voce, potrebbe subito fare la differenza a favore dell’adesione dell’UA al G20. Speriamo che ciò avvenga presto e nell’interesse generale.

*già sottosegretario all’Economia **economista

La prossima svolta dei Brics

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Il prossimo summit dei capi di Stato e di governo dei paesi Brics potrebbe segnare una svolta decisiva verso un più accentuato processo multipolare della politica e dell’economia mondiale. Si terrà il 22-24 agosto a Johannesburg, in Sud Africa, e vedrà anche la partecipazione di un folto gruppo di nazioni del Sud del mondo. Sono già 13 le nazioni che si sono ufficialmente candidate a farne parte. Altre 6 che hanno espresso il proprio interesse a parteciparvi.

Uno dei punti centrali nel programma dei lavori è la creazione di una nuova moneta allo scopo di favorire commerci e investimenti, all’interno del gruppo e con altri Paesi emergenti, senza dover utilizzare il dollaro. Senza, quindi, doversi sottoporre al controllo e all’influenza di una potenza esterna e senza dover pagare una tassa per il “servizio”.

Non si tratta di creare una moneta circolante, come l’euro. I Brics sono consapevoli che c’è molta strada da fare per tale obiettivo. Essi stanno, invece, analizzando i passi necessari per la creazione di una moneta di conto, come l’Ecu fu utilizzato in Europa negli anni che hanno preceduto l’Euro. Da parecchio tempo stanno studiando l’esperienza europea dell’Ecu. E l’Unione europea, inspiegabilmente, sembra ignorare questo passaggio storico.

Per preparare il summit nei giorni scorsi a Città del Capo si è tenuta la riunione dei ministri degli Esteri dei Brics, con la partecipazione dei rappresentanti di altri 15 paesi,. Naledi Pandor, ministro degli Esteri sudafricano ha ribadito l’intenzione del gruppo di continuare a lavorare sulla fattibilità di una moneta comune.

In un suo messaggio il presidente del Sud Africa, Cyril Ramaphosa, ha risposto a tutte le notevoli pressione esercitate dagli Usa e dalla Gran Bretagna, ribadendo che “noi vogliamo cogliere l’opportunità di promuovere gli interessi del nostro continente che è stato saccheggiato, devastato e sfruttato da altre nazioni e per questo vogliamo oggi costruire la solidarietà insieme ai Brics.”. E’ un passaggio molto importante se si mette in relazione alla creazione dell’Area di libero scambio del continente africano (Afcfta) che sta proprio discutendo della possibilità di creare una nuova unità di conto monetaria per favorire i commerci all’interno dell’Africa.

Per superare la sottomissione al dollaro e la dipendenza dalla rete dominante dello Swift, i Brics stanno studiando un loro sistema globale dei pagamenti. Non si tratta di rimpiazzarlo completamente, bensì di affiancarne uno alternativo per sottrarsi, in caso di necessità, ai condizionamenti e agli effetti delle sanzioni.

Secondo il Fmi nel 2022 i Brics hanno superato il pil del G7 del 4% se calcolato attraverso la misura del ppp, la parità del potere di acquisto, cioè tenendo conto del costo della vita e dell’inflazione. Nello stesso anno il loro surplus commerciale è stato di 387 miliardi di dollari, che ha favorito anche l’aumento delle loro riserve d’oro.

Si osservi che l’aumento dei tassi d’interesse da parte della Fed fa crescere il valore del dollaro sui mercati valutari ma svaluta le monete dei paesi del Sud del mondo e, quindi, fa aumentare il loro debito. La diversificazione delle riserve monetarie è, infatti, un altro argomento nell’agenda dei Brics. E’ una politica favorita anche dalle banche centrali del cosiddetto Global South che stanno aumentando il peso dell’oro nelle loro riserve, a scapito del dollaro. La domanda generale e gli acquisti di oro da parte delle banche centrali sono cresciuti enormemente. Ciò sta portando a un aumento della produzione di oro e a una possibile rivalutazione del valore delle riserve auree.
Da parte sua il presidente brasiliano Lula da Silva, in occasione della conferenza dell’Unasur, la comunità economica e politica latinoamericana, ha detto di “sognare che i Brics abbiano una propria valuta, come l’Unione Europea ha l’euro”. Rivolgendosi agli altri paesi dell’America latina ha affermato che “dovremmo approfondire la nostra identità sudamericana anche in ambito monetario, attraverso meccanismi di compensazione più efficienti e la creazione di una comune unità di scambio, riducendo la dipendenza dalle valute extraregionali”.

A sua volta Dilma Rousseff, la nuova presidente della New Development Bank, la banca dei Brics, ha evidenziato l’importanza dei recenti accordi petroliferi in renminbi tra Cina e Arabia Saudita. Rousseff ha detto: “Credo che nel mondo attuale ci sia una crescente tendenza a promuovere gli scambi commerciali utilizzando le valute locali. Ci sono diversi esempi importanti. Ad esempio, il mercato del petrolio è un settore rilevante rispetto al cambio di valuta. I paesi del Sud del mondo utilizzano sempre più le valute locali per i pagamenti commerciali.”.

In conclusione, è opportuno riconoscere che un mondo unipolare con una sola moneta dominante stride con un’economia reale multipolare.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Aumentano i rischi per i derivati OTC

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**


L’ultimo bollettino della Banca dei regolamenti internazionali (Bri) di Basilea, con i dati del secondo semestre del 2022, proietta ombre oscure sull’andamento dei derivati finanziari otc. Com’è noto, oltre a essere non regolamentati e tenuti fuori bilancio, essi segnano la febbre e i rischi per le banche too big to fail.

Questa volta è il gross market value (valore lordo di mercato) degli otc a rivelare il problema. Nel semestre analizzato, è cresciuto del 13% toccando i 20.700 miliardi di dollari. Un livello mai visto nei 6 anni precedenti. Nelle poco comprensibili parole dei banchieri, questa enorme cifra sta indicare “la somma di tutti i contratti derivati otc in essere, con valori di sostituzione positivi e negativi valutati ai prezzi di mercato prevalenti alla data di riferimento”. In altre parole, se al 31 dicembre 2022 tutti i contratti otc fossero stati chiusi, quella sarebbe stata la somma necessaria per saldare le differenze.

L’enorme crescita è dovuta ai derivati stipulati sull’andamento dei tassi d’interesse (interest rate derivatives, ird) e riflette la grande incertezza provocata dall’inflazione e dagli aumenti dei tassi da parte della Fed e della Bce. E’ la stesa Bri a evidenziare il problema quando, spiegando il significato del gross market value, afferma che” i valori lordi di mercato forniscono informazioni sull’entità potenziale del rischio di mercato nelle transazioni in derivati e sul relativo trasferimento del rischio finanziario in atto”.

Il gross market value degli ird denominati in euro è aumentato del 23% nella seconda metà del 2022, dopo un aumento del 37% nella prima metà. Quello degli ird in dollari è aumentato rispettivamente del 40% e del 30%. Poiché i tassi fissati oggi dalle banche centrali sono saliti sopra quelli prevalenti al momento della stipulazione dei contratti, il loro valore lordo di mercato è, quindi, aumentato.

Ciò vuol dire che servono molti più soldi per coprire i contratti in scadenza o in difficoltà. Chi si trova in una simile situazione avrà bisogno di maggiore liquidità, per cui cercherà di far cassa vendendo degli asset in suo possesso, oppure pagherà con soldi presi in prestito a tassi molto salati. Tali comportamenti, ovviamente, influenzano negativamente i mercati.

Questo è il secondo effetto destabilizzante provocato dalla politica yo yo delle banche centrali: prima tasso zero e tanta liquidità inflattiva e poi, con l’aumento dei tassi, la repentina e continuata chiusura delle bombole di ossigeno. Il primo effetto è stato la mina posta sotto i titoli, soprattutto quelli pubblici, venduti in passato a tassi bassi e oggi, dopo il rialzo dei tassi, non più rimunerativi.

Nel secondo semestre 2022 il valore nozionale di tutti gli otc è, invece, rimasto quasi invariato, 618.000 miliardi di dollari, con un aumento di soli(!) 14.000 miliardi. Il valore nozionale è l’ammontare di tutti i derivati sottoscritti, una cifra enorme, quasi impensabile, che indica la dimensione della bolla in caso di collasso sistemico. I fautori della bontà dei derivati hanno sempre contrapposto il gross market value a quello nozionale, sostenendo che il secondo non rifletterebbe il vero rischio sottostante. Adesso, però, devono fare i conti con l’impennata del primo!

Recentemente, sull’argomento l’International Swaps and Derivatives Association (ISDA) di New York ha tenuto una conferenza a Chicago. L’ISDA è l’associazione che raccoglie tutti i partecipanti nel mercato dei derivati otc. Il resoconto ufficiale riporta che sono stati gli stessi operatori dei mercati sui derivati a dire che ci si dovrebbe preparare a nuovi eventi di stress per la mancanza di liquidità, com’era avvenuto nel marzo del 2020 e con i fallimenti bancari delle settimane passate. “Sta per succedere qualcosa: il fattore scatenante potrebbe essere diverso, ma accadrà“, ha affermato un dirigente della Bank of New York Mellon. Un’analisi condivisa da molti partecipanti il convegno di Chicago. Si aspettano anche che il deflusso dei depositi dalle banche regionali statunitensi potrebbe continuare, poiché i clienti cercano rendimenti più elevati.

E’ sconcertante il fatto che siano proprio gli operatori dei mercati a essere preoccupati sugli andamenti futuri. Purtroppo, le agenzie di controllo e le banche centrali sembrano essere rimasti sui libri di testo di economia del diciottesimo secolo! Oppure sono ammaliati dal feticcio del 2% d’inflazione annua.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Il caso della First Republic Bank

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**
La First Republic Bank di San Francisco (Frb), la quattordicesima banca americana, ha chiuso i battenti. E’ il secondo fallimento più grande della storia dopo quello della Washington Mutual nel 2008. Per evitare che potesse provocare una slavina finanziaria e per tranquillizzare, almeno momentaneamente, i mercati è stata organizzata una “special operation” pubblica – privata.
La Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic), l’agenzia di regolamentazione bancaria, in qualità di curatore fallimentare ha preso possesso della banca e contemporaneamente l’ha venduta alla JPMorgan Chase di New York, la più grande banca americana e indiscussa regina dei derivati finanziari speculativi. Quest’ultima prenderà il controllo dei 103,9 miliardi di dollari di depositi e dei 229,1 miliardi di attività della First Republic, 173 dei quali in prestiti e 30 in titoli.
Per l’acquisto la JPMorgan ha pagato 10,6 miliardi. Il fondo di garanzia della Fdic dovrebbe intervenire con 13 miliardi per coprire le perdite subite dai correntisti della banca. La Fdic, infatti, garantisce i depositi fino a 250.000 dollari. Essa dovrebbe anche aggiungere 50 miliardi di finanziamenti, di crediti. In altre parole, il grosso del salvataggio è sulle spalle pubbliche.
Si tenga presente che nei depositi citati vi sarebbero 92 miliardi di precedenti aiuti, 30 dei quali nella forma di crediti concessi dalle 11 maggiori banche statunitensi e il resto dalla Federal Reserve e da altre entità pubbliche. Sono serviti solo per guadagnare un po’ di tempo ed evitare il tracollo immediato.
Il crollo della Frb è da manuale. All’inizio di marzo, quando si annunciava il percorso di fallimento della Silicon Valley Bank, le azioni della First Republic valevano ancora 115 miliardi. Oggi pressoché niente. Già nei primi tre mesi dell’anno, ben 102 miliardi di depositi erano “scappati” dalla banca. Infatti, come le altre due banche fallite, la Silicon Valley e la Signature, la Frb è crollata sotto il peso di prestiti e investimenti in obbligazioni che hanno perso miliardi di dollari di valore a seguito della politica della Fed di alzare i tassi d’interesse per combattere l’inflazione. Di conseguenza, molti clienti, soprattutto quelli facoltosi, hanno iniziato a ritirare i loro soldi e gli investitori hanno scaricato le sue azioni, innescando anche una crisi di liquidità.

L’amministratore delegato della JPMorgan, Jamie Dillon, si augura che questa fase di alta instabilità finanziaria si possa calmare, anche se “potrebbe esserci un altro caso più piccolo”. Ma, aggiunge, gli investitori sono ancora esposti ai rischi creati dagli aumenti dei tassi d’interesse della Fed e dal loro impatto sugli asset, compresi gli immobili.

Nonostante le tante assicurazioni, si teme che le crisi bancarie da “acute” possano diventare “croniche”. Gli effetti macroeconomici dello stress bancario potrebbero essere solo nella fase iniziale.
Negli Usa vi è la convinzione che la Fed ha gestito male la politica sui tassi d’interesse, con rialzi prima tardivi e poi troppo concentrati. Infatti, in dodici messi il tasso è aumentato del 5%, uno choc secondo solo a quello degli anni ottanta. Inoltre, come ha ammesso anche il vice presidente della banca centrale Michael Barr davanti al Congresso, la Fed è mancata nella supervisione e nella regolamentazione bancaria.
I fallimenti hanno dimostrato che circa un quarto del cosiddetto portfolio bancario è fatto di titoli in perdita rispetto agli attuali tassi di’interesse. Di fatto, il rischio di una fuga generalizzata di depositi dalle banche regionali verso quelle più grandi e verso i fondi del cosiddetto sistema bancario ombra resta rilevante. Ciò comporterebbe anche una riduzione dei crediti verso l’economia. Si toccano con mano gli effetti indesiderati della liquidità creata a piene mani e a basso costo. Oggi la Fed rischia di fare lo stesso errore: sottovalutare le conseguenze sistemiche delle sue attuali politiche.
Naturalmente le banche too big to fail stanno approfittando della politica della Fed. Lo dimostra un dato sorprendente: nel primo trimestre del 2023 la JPMorgan Chase ha fatto ben 21 miliardi di profitti sui tassi di interesse, più del 50% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Poiché i tassi sui depositi dei clienti erano e restano bassi, la banca si è subito adeguata al rialzo dei tassi nelle concessioni di prestiti e negli investimenti.
I non pochi interventi di salvataggio evidenziano alcune criticità che si faranno presto sentire. Prima di tutto acuiscono la concentrazione bancaria, le grandi banche diventano più grandi e too big to manage. In secondo luogo si sta minando la fiducia nei confronti della Fdic e della sua capacità futura di essere garante di tutti i depositi. Il che è molto preoccupante.

*già sottosegretario all’Economia **economista