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Insegnamento e concezione della storia

Forse è giusto sostenere che tutta la storia che facciamo studiare, soprattutto quella dei manuali scolastici, è la storia del “senno del poi”, cioè una storia scritta per dimostrare che le cose si sono svolte in una certa maniera proprio perché questa maniera era quella “giusta”, anche se nel concreto i fatti si sono manifestati secondo ragioni e modalità tutt’altro che nobili.

Gli storici dei manuali scolastici sanno bene che non si può insegnare la storia dicendo ai ragazzi che gli avvenimenti sono accaduti per il gioco politico delle forze in campo, che ha spesso reso inevitabili eventi la cui eticità era prossima allo zero. In questo sono pedagogicamente unanimi, “politicamente corretti”: non vogliono far portare sulle spalle dei ragazzi un peso superiore alle loro forze. Sanno cioè che la storia è fatta da “adulti” e che si rivolge, sul piano cognitivo, agli stessi adulti, per cui pensano che ai ragazzi, al massimo, sia sufficiente acquisire le coordinate spazio-temporali in cui collocare i fenomeni e quelle di causa-effetto per interpretarli (ridotte, quest’ultime, a una sorta di semplice operazione aritmetica).

Questo atteggiamento – lasciatemelo dire – è abbastanza curioso. Da un lato infatti essi sostengono che la storia, o meglio la storiografia, non si fa coi “se” e i “ma”, dall’altro invece non possono non sapere che proprio nel momento in cui si è protagonisti della storia (specie nei momenti di transizione o nelle occasioni rivoluzionarie) i “se” e i “ma” sono più fastidiosi delle zanzare.

Perché ci piace così tanto avere delle interpretazioni univoche della realtà? Pigrizia del pensiero? Timori di attività didattiche antipedagogiche? O forse si è convinti, inconsciamente, che l’unico modo di affrontare una realtà sempre più contraddittoria sia quello d’aggrapparsi a certezze meramente teoriche o virtuali? Non è anche questa una forma illusoria del razionalismo occidentale e forse del razionalismo qua talis?

Per quale motivo il passaggio dal feudalesimo al capitalismo viene sempre visto come una sorta di riscossa, di riscatto, di liberazione dal duro prezzo che s’è dovuto pagare alle invasioni barbariche, al punto che quando si fanno “concessioni” al Medioevo (Capitani, Le Goff, Sestan…) è sempre e solo in riferimento al periodo che più somiglia al nostro, cioè quello che parte dalla rivoluzione comunale?

È difficile incontrare un manuale scolastico di storia che preferisca far capire allo studente che nel mentre si prendevano decisioni epocali per le sorti di un determinato paese o territorio, esistevano tesi contrapposte; di regola si preferisce sostenere che la tesi vincente meritava di vincere.

In realtà la storia, come disciplina, andrebbe fatta esattamente come viene vissuta nella vita, cioè ponendo le fonti o le versioni dei fatti in modo parallelo, un po’ come fanno gli esegeti quando devono esaminare la questione sinottica, onde verificare concordanze e discordanze. Lo studente diverrebbe così contemporaneo ai fatti studiati e noi smetteremmo di costringerlo a leggerli come se di un giallo si sapesse già il finale.

E i fatti da studiare dovrebbero essere pochi, quelli paradigmatici dei destini dell’umanità. In tal senso mi piacerebbe elaborare una storia universale per grandi categorie di pensiero, in cui quella dell’area euroccidentale non è più il faro antinebbia di tutte le altre. Scrive a tale proposito Aurora Delmonaco: “tra i prerequisiti fondamentali per uscire dall’eurocentrismo vi è quello di assumere come campo di analisi il locale, perché permette di espandere lo sguardo fin dove vogliamo, fino alla mondialità… dal micro al macro, per poi compiere il cammino inverso, dal macro al micro”(1).

I manuali di storia, questi golem contronatura, sono ancora impostati, se vogliamo, in maniera mitologica, come al tempo del fascismo, poiché ci vogliono far credere, con tutto l’illusionismo possibile, che la storia sia “maestra di vita”. Ma se non riusciamo a sapere la verità delle cose che ci sono più vicine, come possiamo pretendere di sapere quella delle cose più lontane? Nel migliore dei casi veniamo a sapere la verità delle cose quando lo scenario è già da tempo completamente cambiato e il fatto di saperla è ormai diventato del tutto inutile (come accadde con la falsa Donazione di Costantino).

È lo stesso discorso che facevano Croce e Gentile quando dicevano che “non possiamo non dirci cristiani”. Cioè per quale motivo dovremmo insegnare ai giovani che chi nella storia ha ragione ne esce quasi sempre sconfitto? Per quale motivo dovremmo dir loro che chi nella storia s’è imposto con la forza, ha poi dato della propria vittoria un’interpretazione falsata al 100%? Forse è meglio dire che la ragione stava, alla resa dei conti, proprio dalla parte di chi ha vinto, a prescindere dai mezzi e modi usati e dai veri scopi che s’era prefisso.

In questa maniera i ragazzi non si demotiveranno, non avranno a schifo troppo presto il mondo degli adulti: vivranno in un mondo di sogni, che gli verrà infranto solo in età adulta, quando si sforzeranno inutilmente di capire qualcosa delle vicende loro contemporanee, e ad un certo punto si limiteranno a costatare che dalla violenza che regge e governa i destini dell’umanità dovranno difendersi usando, nel loro piccolo, tutte le astuzie possibili, prendendo come modello il mitico Odisseo.

Ma piuttosto che agire così, preferirei rinunciare del tutto alla Storia con la esse maiuscola, e mi limiterei a organizzare ricerche su scala locale, su personaggi, stili di vita, metodi di lavoro, abitudini alimentari… che nel territorio dei miei studenti esistevano nei decenni scorsi, ancora visibili qua e là nelle campagne, nei ruderi del passato, nei musei della civiltà contadina, nei monumenti, epigrafi, tombe, nelle monete antiche, nelle fotografie… e da qui li inviterei a fare interviste agli anziani, riprese con la videocamera, ricerche in biblioteca, comparazioni di ogni tipo tra passato e presente.

(1) Dove si costruisce la memoria. Il Laboratorio di storia, in “Quaderno n. 5”, Roma, MPI Dir Classica, 1994.