Articoli

Crisi bancarie Usa: le responsabilità dei controllori

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Serve chiarezza. Dietro le recenti bancarotte negli Usa ci sono altri motivi di preoccupazione. In primo luogo il fallimento delle autorità di sorveglianza, a cominciare dalla Federal Reserve.

Il loro mancato intervento, a nostro avviso, è dovuto al fatto che esse erano pienamente consapevoli che le loro politiche monetarie altalenanti, interessi zero prima e aumento dei tassi poi, avrebbero messo sottosopra il sistema bancario. Hanno ritenuto, erroneamente, che astenersi fosse la seconda tra le peggiori possibilità. La prima sarebbe stata continuare con le politiche di poderose iniezioni di liquidità fino a far esplodere la bolla.

Il governo e le autorità bancarie, quindi, non sono stati colti di sorpresa. Erano pronti a nuovi interventi di salvataggio dell’intero sistema. Meglio intervenire dopo il fallimento di una banca regionale che di una too big to fail. C’è stato, infatti, un barrage di interventi. Si è creata una Bank Bailout Facility attraverso la quale il governo concede dei prestiti alle banche. La Fed ha annunciato un “discount window”, uno sportello, dove attingere a prestiti di emergenza a basso costo. Sotto la guida della Fed e del Tesoro, sei grandi banche, JP Morgan, Wells, Citi, Bank of America, Goldman Sachs e Morgan Stanley, si sono accordate per mettere a disposizione 30 miliardi di dollari per la First Republic Bank. Non sono bastati, però, a fermare il crollo. Anche la Federal Deposit Insurance Corporation, l’agenzia di protezione finanziaria, è entrata in campo per garantire i depositi fino a 250.000 dollari. Si tenga presente, però, che il suo fondo coprirebbe soltanto il 2% dei 9.600 miliardi di dollari di depositi assicurati.

E’in atto anche una narrazione che cerca di distogliere l’attenzione dalle banche too big. Si parla insistentemente dei rischi di insolvenza delle banche regionali e delle cosiddette saving and loans banks, quelle che raccolgono i risparmi e poi concedono prestiti alle imprese locali e alle famiglie. Indubbiamente non si possono negare le loro difficoltà attuali, create proprio dagli andamenti dei tassi d’interesse. Si ricorderà che una crisi simile, ma in una situazione di differente gravità sistemica, era avvenuta già negli anni ottanta, sempre per effetto della crescita vertiginosa dei tassi d’interesse da parte della Fed.

E’ comunque da ingenui ritenere che le banche regionali siano delle entità totalmente indipendenti rispetto alle 20 maggiori banche Usa, cosiddette, sistemiche. Secondo JP Morgan nell’ultimo anno le banche più piccole avrebbero perso 1.100 miliardi di dollari in depositi che sono stati trasferiti in quelle più grandi.

C’è anche un’altra narrazione che vorrebbe le banche europee, e non quelle americane, essere nell’occhio del ciclone. Certamente, dopo la crisi del Credit Suisse e le gravi fibrillazioni della Deutsche Bank (DB), non si può negare che il sistema bancario europeo sia in crescente difficoltà.

Noi non ci siamo mai stancati di denunciare i comportamenti rischiosi di DB, superstar dei derivati otc. Ma non si può nemmeno dimenticare che il sistema bancario europeo sia entrato in acque agitate proprio per aver copiato i metodi speculativi di quello americano e della City inglese.

E’ doveroso anche notare il macroscopico errore delle agenzie di rating, le note imprese americane private. Fino al giorno prima del fallimento della Silicon Valley Bank, Moody’s le garantiva il voto di A3 e Standard & Poor’s (S&P) le dava un rating un po’ inferiore di Bbb. Certamente erano lontani dalle triple A elargite a piene mani prima della bancarotta della Lehman Brothers. I titoli della Svb, però, erano considerati “investment grade”, cioè degni di investimento e perciò non speculativi.

Si noti che, anche rispetto al fallimento della First Republic Bank, le agenzie di rating S&P e Fitch hanno inserito la banca tra le imprese “junk”, spazzatura, solo dopo gli interventi di salvataggio.

Nelle prospettive bancarie globali per il 2023, la S&P afferma che il settore bancario statunitense è in buona salute e che il rischio è in calo. Per la Moody’s le prospettive sarebbero stabili, sebbene avvertisse venti contrari in un’economia in rallentamento.

Si tratta di gravi sottovalutazioni, a discapito dei risparmiatori e degli onesti investitori. Si persegue un comportamento, a dir poco incompetente e inadeguato, già emerso prepotentemente nel 2001 alla vigilia del fallimento della Enron, il gigante americano dell’energia, e poi nella Grande Crisi del 2008.

Dal 2001 il Congresso americano ha portato avanti varie iniziative di riforma che, però, non hanno indotto le agenzie di rating a un comportamento più corretto.

Si dovrebbe tenerlo presente quando esse pontificheranno sulla situazione economica e finanziaria dell’Italia. In passato, purtroppo, si è sempre tenuto un atteggiamento troppo supino.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Il sistema bancario internazionale naviga pericolosamente a vista: a quando le collisioni e gli affondamenti?

Il sistema bancario internazionale naviga pericolosamente a vista

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Di fronte alle crisi bancarie che investono di volta in volta differenti Paesi della zona euro, la cosa peggiore, e suicida, che l’Unione europea possa fare sarebbe di trattarle come mere questioni nazionali. Oggi sembra toccare all’Italia, domani chissà.

Ne è prova il fatto che le autorità preposte, a cominciare dalla Banca centrale europea, dalle banche centrali nazionali e dalla Commissione europea, navigano a vista, senza una chiara politica. Non si tratta, infatti, di tamponare gli effetti finanziari ed economici della grande crisi globale, ma di approntare misure che neutralizzino in modo definitivo la finanza della speculazione senza regole e che rimettano in moto lo sviluppo produttivo.

Gli attuali grandi problemi del sistema bancario italiano hanno due nomi: crediti inesigibili per oltre 200 miliardi di euro e gravissime responsabilità degli amministratori delle banche e degli organi di controllo della Banca d’Italia.

Il primo problema, ovviamente, è in gran parte dovuto agli effetti della crisi globale, che ha portato ad una drastica diminuzione nelle produzioni, nei commerci e nei consumi. Ciò ha messo molti imprenditori in ginocchio, rendendoli impossibilitati a mantenere la regolarità dei pagamenti e dei rimborsi per i prestiti precedentemente chiesti ed ottenuti.

Per il secondo problema si dovrebbe invece mettere sotto i riflettori le banche e soprattutto la Centrale Rischi della Banca di’Italia. Come è noto, le banche e le società finanziarie devono comunicare mensilmente alla Banca d’Italia il totale dei crediti verso i propri clienti, sia i crediti superiori a 30.000 euro che i crediti in sofferenza di qualunque importo. Il compito primario della Centrale Rischi è quello di valutare i crediti concessi per rafforzare la stabilità del sistema bancario. Si sottolinea inoltre che dal 2010 essa scambia queste informazioni con le altre banche centrali europee e con la Bce.

Come è possibile, dunque, che, sia a livello nazionale che a livello europeo, siano stati permessi e tollerati prestiti e altre operazioni finanziarie che, stranamente solo oggi, scopriamo essere ad altissimo rischio?

Comunque nel sistema europeo vi sono molte altre anomalie che meritano attenzione ed interventi correttivi. L’Autorità bancaria europea, per esempio, oggi giustamente analizza criticamente i crediti concessi dalle banche ma, nel contempo, permette un leverage altissimo per le banche. Permette cioè che siano sufficienti tre (3) euro di capitale per creare finanza per 100. Permette anche che certe attività finanziarie, come i cosiddetti asset di terza categoria, che sono in gran parte derivati asset backed security, trattati e tenuti fuori mercato e quindi con un valore altamente incerto, vengano contabilizzati dalle banche secondo criteri interni molto convenienti alle stesse.

Dopo il 2008 dovrebbe essere ovvio tener conto del fatto che l’intero sistema bancario internazionale è profondamente interconnesso e perciò pericolosamente esposto al contagio e a crisi sistemiche. Eppure Bruxelles, Francoforte, e spesso anche Berlino e Parigi, preferiscono, sbagliando, l’approccio nazionale a quello europeo. In questo modo si rischia di giocare al massacro.

Ce lo ricorda anche l’Office of Financial Research (OFR), l’agenzia del ministero del Tesoro americano, creata nel 2010 dalla legge di riforma finanziaria, la Dodd-Frank, con il compito di studiare i lati oscuri del sistema finanziario allo scopo di ridurne i rischi.

Nell’ultimo rapporto dello scorso dicembre l’OFR ammonisce che le banche americane di importanza sistemica si sono esposte per oltre 2 trilioni di dollari nei confronti dell’Europa, di cui circa la metà in derivati otc tenuti fuori bilancio.

Quando Wall Street e le banche americane vendono derivati lo fanno per proteggersi da eventuali fallimenti; quando invece li acquistano esse offrono una copertura a eventuali crisi di altre banche. In questo caso di quelle europee.

Consapevoli delle difficoltà bancarie in Europa, gli Usa hanno lanciato questo allarme. L’OFR ne ne lancia anche un altro tutto interno al sistema di Wall Street. Avvisa che già alla fine del 2015 anche le assicurazioni americane sulla vita hanno abbondantemente superato i 2 trilioni di dollari in derivati finanziari. Il 60% di tale “montagna” sarebbe stato sottoscritto soltanto dalle 9 maggiori banche americane ed europee, quelle too big to fail: Goldman Sachs, Deutsche Bank, Bank of America, Citigroup, Credit Suisse, Morgan Stanley, Barclays, JPMorgan Chase e Wells Fargo.

L’allarme non è da sottovalutare, si ricordi che soltanto l’AIG, il gigante delle assicurazioni, a suo tempo dovette essere salvato con 182 miliardi di soldi pubblici!

Anche in questo caso si evince la urgenza di rispondere alla globalizzazione dei mercati finanziari e del sistema bancario con regole globali e condivise.

*già sottosegretario all’Economia **economista

 

LE AUTORITA’ MONETARIE DEGLI USA E DELL’EUROPA CORRONO IN DIREZIONI OPPOSTE: SPERIAMO DI NON ROMPERCI LE OSSA…

Fed e Bce corrono in direzioni opposte

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Prepariamoci a salire ancora sull’ottovolante finanziario e speculativo! Non vogliamo essere troppo pessimisti ma pensiamo che ciò possa accadere. Infatti la Federal Reserve americana ha appena annunciato che considera la possibilità di aumentare il tasso di interesse a dicembre. La Bce di Mario Draghi ha invece rilanciato in grande la politica del Quantitative easing: ha ribadito che “ intende acquistare titoli pubblici e privati fino a settembre 2016 e oltre, se necessario”. In ogni caso fino a che il tasso di inflazione annuo non si assesti intorno al 2%.

Draghi ha aggiunto che, “alla luce dei nuovi rischi emersi in relazione ai recenti sviluppi nei mercati globali e in quelli finanziari e delle commodity”, si è pronti ad aggiustare la dimensione, la composizione e la durata del programma del Qe.

Altro che “coordinamento stellare” tra le due massime banche centrali del pianeta! Esse si stanno movendo in direzioni diametralmente opposte, con il rischio di scontrarsi quando il circuito inevitabilmente li metterà di fronte. Una vuole iniziare una politica monetaria restrittiva mentre l’altra vuole proseguire con l’espansione della liquidità.

Troppo spesso e troppo astrattamente si parla di globalizzazione finanziaria, ma quando la Fed decide le sue più importanti politiche monetarie lo fa nel suo interesse nazionale e del sistema del dollaro. La Bce ha imparato ad imitarla. Non si considera affatto se ciò possa avere un effetto destabilizzante nell’intero sistema economico-finanziario globale, in particolare nelle economie emergenti. Ciò è già accaduto. Prima o poi il conto si presenterà anche in casa americana ed europea.

Finora la grande disponibilità di liquidità in dollari a basso costo ha generato il cosiddetto “carry trade”, cioè il prendere a man bassa prestiti in dollari per poi usarli, anche per speculazioni, ovunque nel mondo.

Escludendo il settore bancario, a marzo 2015 il debito in dollari fuori dagli Stati Uniti, soprattutto quello delle imprese, ha raggiunto i 9,6 trilioni di dollari, di cui un terzo nei Paesi emergenti. Dal 2009 vi è stato un aumento del 50%.

Il debito delle economie emergenti in valuta estera è quindi aumentato di molto. Tanta liquidità globale ha generato la crescita dei bond e di altri titoli di debito tanto da creare instabilità.

Negli ultimi mesi, a seguito delle svalutazioni delle monete locali, molti Paesi hanno risposto attingendo alle proprie riserve e vendendo le obbligazioni di stato denominate in dollari. La Banca dei Regolamenti Internazionali stima che il loro ammontare potrebbe superare quello dei titoli acquistati dalla Bce. Ciò ovviamente può determinare una competizione sul mercato globale delle obbligazioni in dollari e in euro con effetti non secondari anche sui cambi, neutralizzando l’ipotizzato effetto positivo del Qe europeo.

Ciò dato non sorprende che anche l’Economist sottolinei che l’”offshore dollar system” si sia allargato senza freni. Esso ricorda che immediatamente dopo la crisi del 2008 la Fed intervenne con 1.000 miliardi di dollari a sostegno di banche private e di banche centrali estere. Oggi in caso di una nuova crisi finanziaria l’intervento richiesto alla Fed potrebbe essere di dimensioni molto maggiori rispetto al passato. Si calcola che entro il 2020 la quantità di dollari fuori dai confini degli Usa potrebbe superare tutti gli attivi dell’intero settore bancario americano.

Anche la rivista Forbes scrive che se una grossa banca, come la Goldman Sachs o la Morgan Stanley, dovesse affrontare una crisi simile a quella della Glencore, la multinazionale delle materie prime i cui titoli sono crollati dell’85% dal loro debutto in borsa del 2011, ci sarebbero sufficienti ragioni per temere una Lehman Brothers 2.0. Questo perché le “too big to fail” hanno operazioni in derivati otc che, come noto, variano tra i 600 e i 700 trilioni di dollari. Quello di Forbes non è un avviso velato in quanto le banche menzionate sono grandemente coinvolte nei derivati speculativi sulle commodity.

La mancanza di regole e la mancanza di un effettivo raccordo tra i maggiori attori internazionali dell’economia e della politica mantengono il mondo sotto la minaccia di nuove crisi e di nuove instabilità, non meno preoccupanti di quelle determinate dagli attuali conflitti regionali.

Di ciò purtroppo si parla poco ignorando che spesso alla radice delle varie tensioni territoriali e dei fenomeni migratori vi sono anche regioni economiche e culturali.

*già sottosegretario all’Economia ** economista

Le Borse sono ostaggio dei computer speculatori mentre la Cina impone nuove sfide all’Europa

LE BORSE OSTAGGIO DI COMPUTER-SPECULATORI

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Si stima che le operazioni “high frequency trading”, le transazioni ad alta frequenza, rappresentino il 70% di tutte le transazioni borsistiche negli Usa e circa il 40% di quelle effettuate in Europa. In Italia la Consob nel 2012 le quantificava intorno al 14% di tutte le contrattazioni. Tali operazioni avvengono tramite sofisticatissimi software ultra veloci, guidati da complicati algoritmi matematici, e con l’intento di lucrare su piccolissime variazioni di valore.

Gli speculatori operano sui mercati di azioni, obbligazioni, strumenti derivati e commodities generando enormi quantità di transazioni giornaliere e utilizzano la strategia HFT per trasformare anche margini minimi in forti guadagni.

Il metodo più frequente è quello di utilizzare supercomputer che operano in micro secondi piazzando i propri ordini in anticipo rispetto alle grosse transazioni con un evidente e notevole vantaggio sui grandi investitori istituzionali come i fondi comuni, i fondi pensione o le stesse banche. Ciò permette di conoscere e anticipare la direzione della domanda, dell’offerta e dei prezzi. Sarebbe una sorta di “insider trading automatico”, contrattazioni fatte sfruttando sistemi accessibili solo ad operatori privilegiati.

E’ ciò che accadeva lo scorso venerdì 2 ottobre. Alle 14.30 l’euro si cambiava a 1,115 verso il dollaro, mezz’ora dopo arrivava a 1,27. L’oro, da 1.109 dollari l’oncia, un’ora dopo saliva a 1.140. In meno di un’ora quindi i mercati erano stati colpiti da scosse improvvise e da modificazioni profonde.

Era successo che il governo americano aveva semplicemente dichiarato che l’aumento dell’occupazione nel mese di settembre era stato inferiore alle aspettative. Tale annuncio ha fatto temere che l’aumento del costo del denaro da parte della Fed, di cui si stava parlando, sarebbe potuto slittare. Teoricamente, quindi, il dollaro si sarebbe indebolito nei confronti dell’euro e la domanda di oro sarebbe cresciuta.

Qualche secondo prima dell’annuncio governativo relativo al dato occupazionale si erano messi in moto i grandi operatori finanziari, tra cui la Goldman Sachs e la Morgan Stanley, che intervengono sui mercati con le suddette operazioni HFT.

Operazioni HFT sono fatte ogni minuto, ma si mettono in azione in modo più sistematico e potenzialmente devastante ogni qualvolta si presenti una decisione o una valutazione con importanti conseguenze di politica economica.

Ci sono anche transazioni HFT molto complicate, spesso nemmeno controllate dagli stessi speculatori. Come avvenne il 6 maggio 2010 quando i programmi HFT impazzirono e i computer, in automatico, provocarono in pochi minuti il tracollo di 700 punti dell’indice Dow Jones.

Quel giorno il mondo venne a conoscenza che i mercati finanziari e monetari non erano più quelli delle contrattazioni “alle grida” visti centinaia di volte nei film di Hollywood ma erano passati sotto il controllo del “grande fratello” informatico, quello dei super computer programmati ad operare in automatico.

Ovviamente anche in questo campo mancano le regole, nonostante in molti Paesi vengano applicate sanzioni e multe e vengano fatte indagini per insider trading o per manipolazione dei prezzi.

Non mancano i fautori del nuovo corso. Essi sostengono che la stragrande maggioranza delle transazioni sono perfettamente legittime, difendono l’HFT come un fattore di efficienza dei mercati, che li rende più liquidi abbassando i costi del singolo investimento. Si afferma che gli operatori del mercato sono i primi interessati alla regolarità e all’autodisciplina. Anche Alan Greenspan, l’ex governatore della Fed, lo diceva a proposito dei banchieri fino al 2007.

Secondo noi non si possono lasciare i mercati finanziari ancora una volta in ostaggio di speculatori e di computer con il “pilota automatico”. E’ anche comprensibile che le economie sottoposte alla spada di Damocle di una finanza senza regole non garantiscono il futuro di sicurezza e di sviluppo cui legittimamente tutti aspiriamo.

LA CINA E LE NUOVE SFIDE ECONOMICHE ER L’EUROPA

L’11 dicembre 2016 tutti i Paesi membri dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) dovrebbero ufficialmente garantire alla Cina il cosiddetto “market economy status” (MES). Dovrebbero cioè riconoscerle di essere diventata a tutti gli effetti una economia di mercato. E’ la stessa “qualifica” che hanno gli Usa e i Paesi dell’Unione Europea. In verità dovrebbe essere un riconoscimento automatico per ogni Paese aderente all’OMC.

Fino a quella data la Cina è considerata una “non market economy” . Di conseguenza i Paesi importatori di semilavorati o di prodotti industriali cinesi possono imporre dei dazi e delle tariffe protettive contro eventuali azioni di dumping. Di fatto, per abbattere i prezzi di vendita e vincere la concorrenza, la Cina ha spesso sfruttato una serie di condizioni speciali, quali il basso costo del lavoro, la mancanza di controlli stringenti sulla qualità, varie forme di sussidi di stato e altre importanti agevolazioni statali. Ciò ha determinato la chiusura di numerose aziende europee, alcune anche italiane, in quanto non più in grado di competere con i prezzi “super cheap” della Cina.

Perciò attualmente in Europa è in corso un grande dibattito sulla convenienza del riconoscimento MES alla Cina. Al riguardo vi sono anche posizioni estreme. Però nel frattempo si susseguono ricerche e analisi per valutarne le conseguenze sull’occupazione e sull’industria europea.

In uno studio preparato dall’Economic Policy Institute di Washington si fanno delle proiezioni, in verità un po’ troppo semplici e lineari, basate sulla ipotesi di un aumento di importazioni europee dalla Cina del 25% e del 50%. Se tali percentuali astratte diventassero realtà, si stima che nel giro di 3-5 anni l’Unione europea potrebbe perdere tra 1,7 e 3,5 milioni di posti di lavoro e veder diminuire la sua produzione annuale tra 114 e 228 miliardi di euro, rispettivamente pari all’1 e al 2% del Pil dell’Ue. In ordine, i Paesi più colpiti sarebbero Germania, Italia, Gran Bretagna e Francia.

Come è noto, il commercio tra l’Unione Europea e la Cina è cresciuto in modo esponenziale negli ultimi 15 anni. Le importazioni europee sono aumentate di 5 volte passando da 74,6 a 359,6 miliardi di euro. Anche le esportazioni verso la Cina sono cresciute ad un tasso molto significativo. Ciò nondimeno a fine 2015 il deficit commerciale europeo con la Cina dovrebbe essere di 182,8 miliardi di euro.

E’ interessante notare che la pressione più forte sull’Europa a non concedere il MES alla Cina venga dagli USA. Da chi, per anni, ha agevolato grandi importazioni e permesso stratosferici deficit commerciali in cambio di acquisti di grandi quote di debito pubblico americano da parte della Cina.

Il Wall Street Journal ammonisce l’Europa: rischiate di restare senza protezioni. Si rammenti che, quando si garantisce il MES ad una economia, le autorità anti dumping degli altri Paesi possono iniziare delle indagini soltanto partendo dal presupposto che i prezzi e i costi di quella economia sono determinati dal mercato e non in altro modo.

Noi crediamo che l’Europa possa e debba affrontare questa sfida senza doversi chiudere a riccio. Del resto rifiutare il MES alla Cina equivarrebbe a far ritornare indietro le lancette della storia. In verità è da tempo che occorre una grande riforma dell’OMC piuttosto che il suo blocco. Temiamo che, oltre alla guerra monetaria in corso, vi sia anche chi auspica una anacronistica guerra commerciale.

Né si può ignorare che la Cina sta entrando in una fase di grandi cambiamenti interni relativi al lavoro, ai diritti civili, alla qualità della vita, all’ambiente, al crescente ruolo del settore privato e alla trasformazione del ruolo dello Stato. Sono evoluzioni inevitabili che abbiamo vissuto anche noi in Europa nei decenni passati. Ovviamente tutto ciò porterà a dei profondi mutamenti, oltre che nella società, anche sui suoi costi economici e sugli standard produttivi.

L’Europa poi non è lasciata senza una rete di protezione. Diventare un Paese MES vuol dire anche sottoporsi progressivamente agli stessi parametri di garanzia e di sicurezza usati in Europa. Si rammenti che il mercato europeo è accessibile soltanto a chi risponde agli standard europei richiesti per legge. Standard che devono essere rispettati sia da produttori europei che da quelli stranieri.

In questa prospettiva l’Europa potrà meglio definire il proprio protagonismo nella realizzazione, insieme ai cinesi e non solo, delle grandi opere infrastrutturali nel continente euroasiatico, a partire dalla Nuova Via della Seta di cui si parla.

*già sottosegretario all’Economia

**economista

Perché si tace sull’importantissimo processo a Trani contro le agenzie di rating che hanno provocato all’Italia un enorme danno finanziario?

Di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi** 

I responsabili politici e governativi e anche i media italiani stanno trattando con troppa sufficienza, se non con ostilità, il processo in corso presso il Tribunale di Trani nei confronti delle agenzie di rating, la Standard and Poors’ e la Fitch. Tra maggio 2001 e gennaio 2012 esse resero pubbliche delle analisi che declassavano drasticamente l’Italia e il suo debito pubblico, provocando un terremoto economico e finanziario. Ciò, come è noto, fece schizzare lo spread, la differenza tra i tassi di interesse dei bond italiani e di quelli tedeschi, fino a 575 punti.

 Il comportamento delle suddette agenzie di rating era consapevolmente viziato e, attraverso un’informazione falsa e una tempistica manovrata, mirava a mettere in ginocchio l’Italia e a destabilizzare l’intera Europa. Secondo noi erano proprio l’Unione europea e l’euro i veri bersagli economici e geopolitici degli attacchi speculativi.

 Chi cerca di denigrare il sostituto procuratore di Trani, Michele Ruggiero, come un esagerato complottista dovrebbe rileggere i dossier preparati dalle varie commissioni americane sul ruolo nefasto delle agenzie di rating nel favorire prima la crisi finanziaria globale più devastante della storia e poi nel detonarla.

 Il rapporto del 2011 della bipartisan “Financial Crisis Inquiry Commission” di Phil Angelides, al termine di centinaia di pagine piene di dettagli comprovanti le varie responsabilità degli attori coinvolti, dice: “Sosteniamo che i comportamenti fallimentari delle agenzie di rating siano stati le componenti essenziali nel meccanismo della distruzione finanziaria. Le tre agenzie sono state gli attori chiave del meltdown finanziario. I derivati emessi sulle ipoteche, che sono al centro della crisi, non potevano essere piazzati né venduti senza il loro bollino di approvazione. Senza le agenzie di rating la crisi non ci sarebbe stata.“

 Anche la Commissione d’indagine del Senato americano, guidata da Carl Levin e Tom Coburn, nel rapporto “Wall Street and the Financial Crisis: The Role of Credit Rating Agencies” del 2010 scriveva:” La Commissione ha provato che le suddette agenzie di rating hanno permesso a Wall Street di influenzare le loro analisi, la loro indipendenza, la loro reputazione e la loro credibilità. E lo hanno fatto per soldi.. Esse hanno operato con un inerente conflitto di interesse in quanto venivano pagate dagli stessi istituti che emettevano i titoli a cui loro davano il rating.”

 Secondo noi è rilevante il fatto che a Trani anche la banca americana Morgan Stanley, uno dei colossi della speculazione in derivati otc, sia stata messa sul banco degli imputati. Essa era azionista della S&P e, proprio nel mezzo dello sconquasso provocato dal declassamento del rating dell’Italia, mise all’incasso un derivato sottoscritto con il Tesoro italiano nel 1994. Si trattava di un classico derivato capestro che, a seguito dell’impennata dei tassi di interesse, era arrivato fino a 2 miliardi e mezzo di euro. Nel corso del 2012 il governo italiano pagò senza fiatare. Quei dirigenti che sollevarono dubbi e richieste di ulteriori valutazioni vennero zittiti. La Morgan Stanley avrebbe portato, a giustificazione della repentina richiesta di monetizzazione del derivato, supposte pressioni fatte dalle autorità di vigilanza americane e inglesi che avrebbero ritenuto inaccettabile l’esposizione della banca con l’Italia.

 Anche in questo caso emerge chiaramente il conflitto di interesse tra l’agenzia di rating e la banca in questione. Era una cosa risaputa e generalizzata. Perciò si rende ridicolo, se non peggio, chi sostiene di non aver saputo di una tale commistione di interessi!

Già nel 2006 analizzammo e pubblicammo le strutture di controllo delle agenzie di rating per evidenziare, ancora prima del fallimento delle Lehman Brothers, come le “tre sorelle” fossero compenetrate e teleguidate dalla grande finanza globale.

 Non era certamente proibito, ma era sorprendente trovare nei direttivi delle agenzie di rating uomini che provenivano dalle grandi banche impegnate nella speculazione con derivati finanziari ad altissimo rischio.

 Ad esempio, la Standard & Poor’s (S&P) è una controllata della multinazionale McGraw-Hill Companies, il colosso delle comunicazioni, dell’editoria, delle costruzioni che è presente in quasi tutti i settori economici. Allora era guidata dal presidente della Citigroup Europa, dal presidente della Coca Cola, della BP, ecc., nonché partecipata anche dalla citata Morgan Stanley.

 La ragione vera degli attacchi contro il lavoro del sostituto procuratore Ruggiero, secondo noi, è dovuta al fatto che a Trani si sta celebrando il primo, e finora unico, vero processo a livello internazionale nei confronti delle agenzie di rating. Nemmeno negli Stati Uniti si sono tenuti dei validi processi contro di loro. Anche per questa considerazione sarebbe stato opportuno che il governo italiano si fosse costituito parte civile nel processo di Trani.

 Se a Trani le agenzie di rating dovessero essere condannate allora si potrebbe avere ovunque un’ondata di casi legali contro le stesse. Le richieste di risarcimento sarebbero di proporzioni gigantesche. Probabilmente emergerebbero anche tante verità sui giochi e sulle manipolazioni delle grandi banche. Ecco perché la finanza mondiale sta facendo di tutto per far passare sotto silenzio il processo in questione.

* già sottosegretario all’Economia **economista

E PER I DERIVATI DI STATO GARANZIE MILIARDARIE DATE DAL GOVERNO QUASI DI NASCOSTO

[Non intendo certo rinunciare a dire la mia sulla strage di Parigi. Ho però preferito evitare di scriverne a botta calda, sotto la violenta spinta del dolore e dell’orrore priva però di qualche dato in più. Sull’accaduto scriverò prossimamente. Intanto pubblico questo intervento dei nostri due economisti su tutt’altro argomento]

 

Garanzie miliardarie per i derivati di Stato

 Mario Lettieri* Paolo Raimondi**  

Le polemiche roventi causate dal decreto legge in materia di fisco adottato lo scorso 24 dicembre dal governo hanno indotto Renzi a rinviare il testo al Consiglio dei Ministri del 20 febbraio per trasmetterlo poi alle competenti commissioni parlamentari. Purtroppo le polemiche sul famoso 3% di franchigia dalle sanzioni penali delle evasioni fiscali, rischiano di coprire altri aspetti e provvedimenti della legge di Stabilità che, ignorati dalla grande stampa, potrebbero passare nella più totale indifferenza. In essa “il Tesoro è autorizzato a stipulare accordi di garanzia bilaterale in relazione alle operazioni in strumenti derivati»fatte con le banche”.

Il governo giustifica tale decisione affermando che trattasi di una facoltà, non di un obbligo. Ma, come è già avvenuto in Irlanda e in Portogallo, lo Stato italiano potrebbe essere chiamato ad accantonare e bloccare somme molto consistenti a garanzia dei suoi derivati su cui le banche potrebbero valersi in caso di rischio default. Si tratta di un vero favore alle banche perché si modifica, sostanzialmente, il contratto a suo tempo sottoscritto. Ciò non avviene per nessun altro accordo bancario.

Secondo le stime ufficiali del governo, gli strumenti derivati per la gestione del debito pubblico emesso dalla Repubblica Italiana ammontano a circa 161 mld di euro di valore nozionale. In gran parte, sono swap su tassi di interesse accesi per garantirsi contro possibili loro variazioni. Tale cifra non comprende i derivati degli enti locali.

Secondo l’ultimo bollettino della Banca d’Italia del 6 novembre 2014 il loro valore di mercato, aggiornato al secondo trimestre 2014, è negativo per 34,428 mld . In altre parole, se detti derivati dovessero essere liquidati oggi, lo Stato italiano dovrebbe sborsare oltre 34 mld di euro! Si ricordi che nel 2013 le operazioni in derivati hanno già generato un esborso netto superiore a 3 mld. Nel 2012, invece, la ristrutturazione di un singolo derivato fatto con l’americana Morgan Stanley è costata all’erario ben 2 mld e mezzo di dollari.

Naturalmente i cantori della «bellezza dei derivati»ci dicono che però tutto è momentaneo e dipende dall’attuale andamento dei tassi di interesse che sono scesi vicino alla zero. Domani potrebbe andare diversamente. Potrebbero ritornare a salire anche se, dicono sedicenti esperti e approssimativi governanti, ciò non è auspicabile in quanto sarebbe deleterio per la creazione del credito e per la stessa ripresa economica.

È davvero stupefacente constatare che nelle leggi finanziarie Usa e di tutti i paesi Ue, Italia compresa, non vi sia stata una puntuale riflessione sulla pericolosità dei derivati. Eppure la bancarotta del sistema bancario del 2007-8 e le crisi di molti paesi sono state causate proprio dai derivati finanziari altamente speculativi.

È evidente che il debito pubblico non si può risolvere con trucchi contabili e con giochi finanziari. Lo si riduce soltanto attraverso la crescita economica e il taglio drastico delle spese correnti, spesso inutili. L’esposizione creditizia delle Stato non è, di per sé, negativa purché sia finalizzata allo sviluppo e alla creazione di ricchezza reale e di occupazione.

Non vi è quindi una finanza magica né vi sono derivati che possano rendere comunque roseo il futuro. Purtroppo i derivati vengono sempre presentati come se fossero dei toccasana, un guadagno sicuro, per i sottoscrittori e per le banche. Non è stato e non è così. A rimetterci sono quasi sempre gli stati e gli enti pubblici. Se a perdere sono le banche, allora gli stati intervengono con operazioni di salvataggio a spese di tutti i contribuenti.

 

*Sottosegretario all’Economia del governo Prodi ** Economista

Nuova indagine sulle banche USA padrone delle commodity

Nuova indagine sulle banche USA padrone delle commodity

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

Le grandi banche sono state pizzicate a speculare alla grande sulle commodity, sulle materie prime, sui cereali e su altri prodotti alimentari.

La Commissione d’Indagine del Senato americano, diretta dal democratico Carl Levin e dal repubblicano John McCain, ha pubblicato un dossier di 400 pagine dal titolo “Wall Street bank involvement with physical commodities” per denunciare con dovizia di dettagli come le “too big to fail” stiano manipolando, ovviamente a loro vantaggio, i mercati delle commodity. Naturalmente tutto ciò con riverberi sui mercati internazionali.

Per due anni la Commissione ha indagato sui casi più eclatanti che evidenziano come “il massiccio coinvolgimento di Wall Street nelle commodity mette a rischio la nostra economia, le nostre imprese e l’integrità dei nostri mercati. Bisogna reintrodurre – continua la Commissione – la separazione tra banca e commercio per prevenire che Wall Street utilizzi informazioni non di pubblico dominio a suo profitto e a spese dell’industria e quindi dei cittadini”. Ciò non vale soltanto per gli Stati Uniti ma per il mondo intero.

La Commissione sta procedendo con delle audizioni pubbliche per dimostrare come alcune banche abbiano fatto aumentare artificialmente i prezzi delle materie prime e speculato in derivati sulle stesse, sfruttando gli “effetti provocati” dalle manipolazioni. Il senatore Levin avverte anche di possibili futuri rischi sistemici per l’economia dovuti al fatto che le banche sono coinvolte in imprese esposte ad alti rischi di catastrofi ambientali.

Sono state analizzate in particolare le attività delle solite maggiori banche americane, tra cui la Goldman Sachs, la JP Morgan Chase, la Morgan Stanley e la Bank of America.

La Goldman avrebbe “assunto” il controllo del mercato dell’alluminio. Nel 2010 ha acquistato la Metro International Trade Services di Detroit, che gestisce lo stoccaggio certificato dalla London Metal Exchange, la principale borsa mondiale dei metalli. Nei suoi magazzini ci sarebbe l’85% di tutto l’alluminio contrattato alla borsa di Londra per il mercato americano. Trattasi di 1,6 milioni di metri cubi di alluminio pari al 25% dell’interno consumo annuale in Nord America. La banca ha aumentato la sua proprietà diretta di alluminio passando da una quantità pari a 100 milioni di dollari a 3 miliardi. Possiede, tra l’altro, anche un’impresa che commercia uranio e due grandi miniere di carbone in Colombia!

Il meccanismo messo in atto sembra piuttosto semplice. Attraverso varie manipolazioni e fittizi spostamenti di ingenti quantità da un magazzino all’altro la Goldman Sachs sarebbe riuscita a determinare ritardi nelle consegne del metallo alle industrie acquirenti. Invece dei 40 giorni necessari nel 2010, lo scorso settembre il tempo di consegna è stato di ben 600 giorni! Ovviamente ciò ha prodotto un aumento sul costo dello stoccaggio, la cui percentuale su quello totale è passata dal 6% del 2010 al 20% di oggi. Naturalmente tutto a beneficio di Metro-Goldman. La conseguenza è stata un’impennata dei prezzi dell’alluminio tanto che molte imprese colpite hanno denunciato la manipolazione, tra cui la Coca Cola. Sembra che al “giochetto degli spostamenti” abbiano partecipato anche altre banche come la Deutsche Bank e l’hedge fund inglese Red Kite,

I profitti realizzati con l’aumento dei prezzi di stoccaggio per la Goldman sono stati soltanto una piccola parte del guadagno. Il vero business lo hanno fatto con le speculazioni sui future dell’alluminio e con altri derivati costruiti in base alla manipolazione dei prezzi e alla posizione di monopolio dello stoccaggio.

Da parte sua la JP Morgan Chase ha ammassato grandi quantità di materie prime per un valore di mercato di 17,4 miliardi di dollari pari al 12% del suo capitale di base, il cosiddetto Tier 1. Poiché sono stati superati abbondantemente i limiti permessi, la banca furbescamente ha sottostimato di quasi due terzi tale valore prima di rendicontarlo alla Federal Reserve. E’ arrivata anche a possedere fino al 60% di tutto il rame negoziato sui mercati mondiali. Nel campo energetico possiede 25 milioni di barili di petrolio e controlla 19 centri di immagazzinamento di gas.

La Morgan Stanley invece controlla 58 milioni di barili di petrolio. Possiede 100 petroliere e circa 8.000 km di oleodotti. E’ padrona di 18 centri di immagazzinamento di gas. Contemporaneamente sta costruendo la propria centrale di compressione del gas ed è la fornitrice privilegiata di carburante per alcune grandi compagnie aeree.

La Bank of America ha 35 centri di stoccaggio di petrolio e 54 di gas.

In altre parole, all’ombra di una troppo abusata “globalizzazione” che tutto giustifica, le banche fanno sempre meno gli istituti di credito e, forti anche dei capitali ottenuti a tassi di favore dal governo, si mettono in diretta competizione con le imprese che operano nei settori dell’industria, dell’agricoltura, del commercio, della lavorazione e dello sfruttamento delle materie prime fino a determinarne i comportamenti e la stessa sopravvivenza.

Appare chiaro l’intreccio perverso tra banche e organismi di controllo che evidentemente non hanno fatto il loro dovere.

Avviata l’indagine senatoriale, la Goldman Sachs si è affrettata a licenziare due suoi importanti operatori coinvolti nelle manipolazione. Si è scoperto però che prima essi avevano lavorato per la Federal Reserve di New York. Del resto è noto che l’attuale capo della Fed di New York, William Dudley, è stato un alto dirigente della Goldman fino al 2005

E’ certamente importante che la Commissione d’Indagine del Senato lavori su questi casi specifici. In passato la stessa Commissione in verità aveva denunciato le responsabilità delle grandi banche americane nella crisi finanziaria globale dei mutui subprime, dei derivati Otc e dei titoli tossici. Il fatto che, a distanza di anni, si debba ancora denunciare simili gravi comportamenti, dovrebbe suonare come un vero allarme sui rischi sistemici di una finanza che purtroppo continua a ritenersi l’ agnello d’oro” da adorare sempre.

Ci saremmo aspettati che a Brisbane si fosse parlato anche di ciò.

* Sottosegretario all’Economia del governo Prodi **Economista

Uno strano terzetto: Matteo Renzi e i suoi consiglieri Yoram Gutgeld e Davide Rocca

Matteo Renzi sarà anche la carta vincente del Partito Democratico, ma sta dicendo qualche banalità di troppo. Giorni fa per esempio ha dichiarato: “Per me è più di sinistra pensare a chi non ha lavoro che discutere delle tutele più o meno corrette per chi invece il lavoro ce l’ha. So che non è la linea della Cgil e che parte del gruppo dirigente della Cgil mi detesta. Ma la penso così”. L’affermazione suona bene, ma è illogica di per sé per un paio di motivi.

Il primo motivo è che i sindacati si occupano giustamente degli occupati, cioè di chi ha un lavoro, oltre che dei cassintegrati e dei licenziati, cioè di chi il lavoro ce l’ha ma ne è temporaneamente sospeso e di chi il lavoro lo aveva ma non ce l’ha più. I sindacati non possono certo occuparsi dei disoccupati che un lavoro non l’hanno ancora avuto, altrimenti non sarebbero dei sindacati, bensì dei partiti o dei movimenti. E’ come dire che una banca deve preoccuparsi non solo e non soprattutto dei risparmi dei propri correntisti e di chi comunque vi ha depositato i propri quattrini, ma di chi con essa nulla ancora ha a che vedere.

Con un paragone che certo Matteo Renzi può capire al volo, è come dire che lui, sindaco di Firenze, debba occuparsi anche dei non fiorentini. Certo che può occuparsi anche dei non fiorentini, dai palermitani ai torinesi, ma cambiando mestiere: come parlamentare e non come sindaco. Per giunta, come parlamentare che, contrariamente al solito, non si limiti a curare il proprio orticello elettorale e gli interessi dei propri elettori. Continua a leggere

1) – Affondiamo nel ridicolo per il petrolio in mani poco chiare. 2) – Le grandi banche diventano corporation industriali

Per capire meglio come mai i diplomatici kazaki se la facciano quasi da padroni nel Belpaese, obbediti a bacchetta perfino dal ministero dell’Interno, è utile leggersi l’agile e documentatissimo libro “Extra virgin oil”, edito dalla casa editrice Aracne, specializzata in testi universitari, scritto dal docente universitario Aldo Ferrara e dal giornalista Filippo Bellantoni. Ferrara era tra i consulenti di Dario Fo all’epoca della sua candidatura a sindaco di Milano e aveva preparato un programma per abbattere l’inquinamento della città.  “Extra virgin oil” documenta gli intrecci  e gli enormi interessi, compresi quelli italiani, che stanno dando vita alla rete dei giganteschi oleodotti e gasdotti che trasporteranno in Europa il gas e il petrolio dell’Asia Centrale. Tra i protagonisti non mancano gli italiani, compresi Silvio Berlusconi e uomini di sua stretta fiducia.

Ferrara riassume così le odierne perplessità per il caso della signora Shalabeyeva e figlia:
” L’Eurasia è scenario di affari petroliferi. Un tempo Enrico Mattei cercava il greggio al minore costo possibile nell’interesse del consumatore, adesso numerosi imprenditori italiani, politici e dirigenti di Aziende Statali fanno affari con le nuove pipeline come South e North Stream, Nabucco etc. Questi oleodotti passano quasi tutti dal Kazakhastan. E’ possibile non esaudire le “minime” richieste” politiche di Nursultan Nazarbayev?”. Continua a leggere

La nostra solidarietà a Berlusconi colpito in faccia da uno squilibrato. Ciò non toglie però che deve smetterla di mentire e che deve dimettersi. Ecco perché, e senza bisogno né di Spatuzza né dei Graviano

Come spiegavo a una nostra forumista nel mio ultimo commento della puntata precedente, gli squilibrati esistono in tutto il mondo, ma ciò non toglie che colpire per giunta in pubblico un capo di governo, spaccandogli un labbro e rompendogli un dente, come è successo a Berlusconi, è cosa grave e inammissibile. Per fortuna non ci sono state conseguenze drammatiche o tragiche, e per fortuna il gesto è frutto di uno squilibrato anziché dell’idiozia di un gruppetto “politico”, eventualità che avrebbe precipitato il Paese nel baratro: è chiaro infatti da troppi sintomi che nelle file del partito berluscon-bossiano non aspettano altro che poter “regolare i conti”. Immagino però che gli untori di professione soffieranno sul fuoco comunque sulle prime pagine dei giornali, e del resto Berlusconi paga bene i suoi mazzieri mediatici.

E che i suoi mazzieri si metteranno alacremente all’opara è già chiaro fin dalle prime parole attribuite a Berlusconi al pronto soccorso. Leggo infatti sul sito di un quotidiano:
“Comunque Berlusconi, riferisce chi gli ha fatto visita, si è detto “amareggiato” per “questa campagna di odio nei miei confronti. Questo è il frutto – ha spiegato – di chi ha voluto seminare zizzania. Quasi me l’aspettavo…”. Berlusconi a tutti ha ripetuto di essere stato nei giorni scorsi nel mirino di una campagna di veleni. “Tutti dovrebbero capire che non è possibile oltraggiare un presidente del Consiglio, questa è la difesa delle istituzioni”. Al di là dell’amarezza, il Cavaliere ha sottolineato di non voler minimamente farsi impressionare dall’episodio. “Sono ancora qui e non mi fermeranno””.
Per parlare così ci vuole una bella dose di irresponsabilità e di faccia di bronzo. Se c’è qualcuno che conduce una campagna di odio è proprio lui, Berlusconi Silvio, che da mesi – anomalia unica nell’intero Occidente democratico –  accusa in continuazione i magistrati – fino alla Corte Costituzionale! – e ormai anche il presidente della Repubblica.
Continua a leggere