I due problemi che una qualunque transizione al socialismo si deve porre sono i seguenti:
- fino a che punto la tecnologia è compatibile con l’ambiente?
- in che maniera staccarsi dalla dipendenza nei confronti del mercato?
Questi due aspetti sono strettamente correlati, nel senso che – a differenza di quello che pensava il marxismo – non è possibile affrontarli separatamente. La rivoluzione russa affrontò solo il secondo problema, dando per scontato che sotto il socialismo si potesse usare la stessa tecnologia del capitalismo o comunque gli stessi metodi scientifici per ottenerla, pensando che la differenza stesse soltanto nelle forme di applicazione. Fu – come noto – un errore macroscopico, che comportò, come concausa, il crollo dell’intero sistema.
Il primo problema da affrontare è di tipo culturale, mentre il secondo è di tipo sociale e, per poterli affrontare insieme, per una transizione al socialismo umano e democratico, ci vuole un’organizzazione di tipo politico, che preveda anche aspetti di tipo militare (difensivo).
Il capitalismo si serve della tecnologia per dominare il pianeta. La tecnologia viene usata non solo per produrre beni materiali, ma anche per sfruttare le risorse naturali, amministrare i capitali, assicurare la formazione, divulgare le informazioni, gestire i conflitti. Quindi si tratta di capire quale tecnologia è idonea a una concezione di vita in cui il “dominio” sia escluso.
La natura non va “dominata” ma “gestita” come fonte di vita. La natura non può essere “sfruttata”; al massimo può essere “utilizzata”, e dentro la parola “uso” ci deve essere quella di “rispetto”, “tutela”. Nei suoi confronti bisogna stare attenti alle parole che si usano. Gli antichi lo facevano per un’entità che oggi abbiamo capito essere inesistente (dio); a maggior ragione dobbiamo farlo per ciò che ci caratterizza ogni giorno in maniera evidente, sia nel senso che sappiamo vivere secondo natura, sia nel senso che, non sapendo vivere in questa maniera, ci comportiamo come esseri alienati.
L’essere umano deve pensarsi come ente di natura e non come qualcosa al di sopra di essa. E’ vero che in noi vi è una sorta di autoconsapevolezza della natura, come se in noi essa avesse trovato il suo compimento, come se le sue leggi oggettive avessero potuto trovare in noi la sintesi suprema della più grande legge dell’universo: quella della libertà di coscienza. Ma è anche vero che noi, come prodotto finito, non possiamo sussistere senza fare continuamente riferimento agli elementi primordiali che ci costituiscono.
La riproduzione della specie umana deve essere strettamente compatibile con la riproduzione della natura. Se non vi è questo adeguamento libero e consapevole, non è la natura che va cambiata ma l’uomo.
Dunque nei confronti del capitalismo va fatta un’operazione culturale che ne rovesci i suoi presupposti di fondo. La natura è al servizio dell’uomo fintantoché l’uomo si comporta in maniera naturale. La natura infatti ha proprie leggi, le quali, se non vengono rispettate, non permetteranno la sopravvivenza del genere umano. Quanto più l’uomo, con la propria attività, incide sulla natura, tanto più finirà col mettere a repentaglio la propria stessa esistenza.
L’aspetto sociale è interconnesso a questo: infatti se si permette alla natura di autoriprodursi agevolmente, significa che si è capita l’importanza dell’autoconsumo. Se si rispetta l’autonomia della natura, non si può tollerare che la propria sopravvivenza dipenda da fattori indipendenti dalla propria volontà. E’ stato un grossolano errore quello di credere che l’uso della scienza avrebbe potuto liberarci dalla dipendenza nei confronti della natura. Una liberazione di questo genere è stata la nostra condanna.
Una comunità non può essere definita “di vita” se dipende dal mercato, cioè dalle forniture di cibo che altri soggetti economici mettono a disposizione. Il consumatore non può essere nelle mani del produttore, soggetto continuamente a ricatto sulla qualità del prodotto, sul suo prezzo, sulla sua reperibilità.
Una comunità del genere è, nell’ambito del mercato capitalistico, una sorta di colonia da sfruttare, un luogo di lavoro servile, che vive secondo esigenze che non le appartengono. Chiunque sostenga che una comunità, per diventare autonoma e progredire, deve puntare sull’export, inevitabilmente vuole che quella comunità resti per sempre dipendente nei confronti di altri soggetti economicamente più forti.
Qui tuttavia il problema diventa più serio di quello culturale, poiché, mentre il capitale può anche tollerare che una comunità resti all’età della pietra, non può tollerare che in questo primitivismo essa non sia funzionale alle esigenze del mercato.
Cioè anche se una comunità può rinunciare, per motivi di principio, a una certa tecnologia, non può rinunciare di mettere al servizio la tecnologia di cui dispone alle esigenze del capitale, se questo è penetrato nella sua struttura economica. Anzi, quanto più una comunità è dipendente dal mercato, tanto più sarà indotta, se vuole un minimo sopravvivere, a rinunciare ai propri principi e a utilizzare tecnologie più avanzate. Tutta la storia del colonialismo e dell’imperialismo può essere letta in questa maniera.
Come liberarsi di questo fardello? Come tornare all’autoconsumo? Qui vale un vecchio detto: “l’unione fa la forza”. La strategia politica è tutta da inventare ed è difficile, in tal senso, che dei contributi significativi possano venire dall’Europa o dagli Usa o dall’occidente in generale o dai paesi capitalistici sparsi nel mondo.
Infatti, non solo va messa in discussione l’utilità della scienza e della tecnica in uso sotto il capitalismo, ma, in via del tutto generale e quindi astratta, va considerata anche ogni merce come rispondente a un falso bisogno. Occorre cioè guardare con sospetto ogni merce e negare l’identità che il mercato pone tra valore di scambio e valore d’uso.
I valori d’uso non possono mai essere decisi dal mercato ma solo dalla comunità di appartenenza. Di ogni merce bisogna imparare a chiedersi se sia davvero indispensabile e non sostituibile con qualcos’altro. Il problema non è soltanto quello che si pone il “consumo critico” (riduzione, riutilizzo, riciclo, rispetto), ma è anche quello di fare di queste regole un motivo per uscire dal mercato.
Le comunità basate sull’autoconsumo da quali Stati potrebbero essere difese se non da se stesse? Gli Stati, per definizione, difendono solo i poteri più forti, cioè proprio quei poteri che meno ne avrebbero bisogno.
Generalmente oggi le comunità autosussistenti non avvertono neppure d’essere l’unica alternativa praticabile al capitalismo. Cercano soltanto di resistere il più possibile, attendendo rassegnate la loro assimilazione progressiva. Si lotta per conservare un passato ancestrale, non per costruire un nuovo futuro per l’intera umanità.
Per noi occidentali le comunità autarchiche sono solo – nel migliore dei casi – oggetto di studio etno-antropologico. Non ci sfiora neanche lontanamente l’idea ch’esse possano costituire un’alternativa praticabile al nostro sistema di vita alienato, dipendente del tutto da fattori esogeni. Le vediamo troppo lontane da noi. Preferiamo pensare d’essere tutto sommato un sistema senza alternative realistiche, che durerà per un tempo indefinito e che quando scomparirà si porterà con sé l’intera umanità.
Quando pensiamo di aiutare le realtà più povere del mondo, p.es. col commercio equo-solidale o col microcredito, lo facciamo sempre col proposito d’inserirle in un sistema illusorio, che da un momento all’altro potrebbe distruggerle definitivamente. Ci interessa che entrino in questo sistema solo perché il lavoro che impiegano nel costruire determinati manufatti costa pochissimo. Ma non le mettiamo mai in condizione di potersi autogestire senza aver bisogno di un mercato. Noi diamo sussidi, aiuti estemporanei allo scopo di mettere tutti in condizione di dover dipendere da qualcosa che li sovrasta: tutti devono diventare come noi, adoratori del valore di scambio.
Per settant’anni abbiamo creduto che il socialismo reale avrebbe potuto costituire un’alternativa al sistema borghese, pur con tutti gli evidenti limiti di quel modello. Ma oggi solo l’idea di riproporre un “socialismo statale” ci appare pura follia. Lo stesso socialismo cinese, che pur sul piano politico resta autoritario e sul piano culturale alquanto limitato e ideologico (specie nel campo dei diritti umani), sul piano sociale ha preferito accettare la logica del mercato.
Ci vorranno probabilmente ancora alcuni secoli prima di capire che l’unico socialismo possibile, alternativo al capitalismo, è quello precedente alla formazione delle civiltà antagonistiche. Tale forma antichissima di socialismo sussiste nelle regioni più remote del pianeta, in attesa di essere colonizzate da qualche monopolio.
Queste regioni dovremmo tutelarle come si fa con la biodiversità, come si proteggono le specie animali in via di estinzione. Ma lo faremo? Riusciranno queste comunità a far valere il loro diritto a vivere in un mondo che tende a negarglielo? Possono esse sperare che l’esplosione degli antagonismi risulti più doloroso a chi le opprime che non a loro stesse? Ha senso avere questa speranza quando di fatto un qualunque disastro (ambientale, finanziario, bellico…) che avvenga in una qualunque regione del mondo ha ripercussioni sull’intero pianeta, a causa delle strette dipendenze che si sono volute creare?
I momenti migliori per fare le rivoluzioni sono quelli in cui gli antagonismi creano situazioni invivibili, ma sono anche quelli in cui si scatenano gli elementi peggiori dell’umanità, proprio perché l’interesse, quando si è abituati ad agire in maniera individualistica, è sempre superiore alla ragione. Chi detiene il potere non vuole cederlo ed è anzi disposto a tutto. Chi vuole acquisirlo, rischia di comportarsi anche peggio, proprio perché da tempo ci si è disabituati a vivere rapporti umani. Quando scoppiano le crisi e le popolazioni non sono abituate a provvedere a se stesse, essendo schiave dei mercati, l’ira diventa davvero “funesta”.
Fare le rivoluzioni politiche senza prima aver chiaro che del sistema che si vuole abbattere non si può riutilizzare quasi nulla, o almeno non lo si può fare nei modi ch’erano divenuti tradizionali, è un’impresa praticamente impossibile, anche perché, proprio nel momento in cui si preparano le rivoluzioni, si organizzano e materialmente si fanno, non si può in alcuna maniera lavorare per l’autoconsumo, cioè per la vera alternativa. La politica, di per sé, senza l’aiuto della cultura e del sociale, è come un guscio vuoto, che quando cade dall’albero non si sa dove va a finire.
Forse più che compiere delle rivoluzioni, bisognerebbe attrezzarsi per affrontare il peggio, cioè bisognerebbe iniziare da subito a organizzarsi in senso autoconsumistico, ristrutturando quegli ambienti che il capitale considera poco appetibili. Di sicuro però bisognerà prevedere delle opere di tipo difensivo, a tutela del proprio vissuto, poiché là dove non c’è un minimo di sicurezza, non si riesce a costruire nulla.