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La democrazia comunale nel Medioevo

In epoca feudale non tutte le città erano dei Comuni. Per esserlo ci voleva uno Statuto, cioè una volontà politica associativa. Nel Medioevo le città sono sempre esistite, anche se la loro importanza era inferiore a quella delle campagne, ove dominava la figura del nobile proprietario terriero, che sfruttava i suoi tanti servi della gleba.

In un sistema sociale basato prevalentemente su autoconsumo e baratto, la terra aveva molto più valore della moneta, e quindi la città si trovava ad essere subordinata alle esigenze della campagna.

Generalmente nelle città si trovava la sede episcopale, che svolgeva funzioni amministrative, connesse alla gestione dei sacramenti, e culturali, per l’istruzione del clero e della nobiltà e di chiunque potesse permettersi di pagarla.

Per tutto l’alto Medioevo, cioè fino al Mille, le città, con esclusione di quelle marinare, non ebbero neanche lontanamente un ruolo paragonabile a quello che avevano avuto in epoca greco-romana. Questo perché le popolazioni germaniche e slave provenienti da oriente e penetrate nell’impero romano, non erano urbanizzate. Sicché quando, intorno al Mille, iniziarono a formarsi i primi Comuni, si ebbe la trasformazione delle città da qualcosa di meramente amministrativo, gestito dai vescovi, a qualcosa di specificatamente politico, gestito da una nuova classe sociale: la borghesia, che comprendeva i mercanti, gli artigiani e i liberi professionisti.

Da dove provenivano queste categorie sociali, visto che per tutto l’alto Medioevo dominava la figura del contadino, che insieme era artigiano (anche con l’aiuto delle donne, che filavano e tessevano) e commerciante delle proprie eccedenze alimentari, che sul mercato barattava con le eccedenze altrui? La stessa cultura era patrimonio quasi esclusivo del clero, soprattutto di quello regolare, che non la usava per giustificare pratiche di tipo commerciale. Generalmente i contadini erano analfabeti, in quanto si accontentavano della trasmissione orale di conoscenze ancestrali.

Le nuove categorie sociali si formarono in virtù dei contatti che le città marinare tenevano con l’area bizantina, la quale, a sua volta, faceva da ponte tra il mondo asiatico e quello europeo. Poi, quando l’espansione araba, una volta arrivata in Spagna, smise di essere aggressiva, forti divennero i contatti commerciali anche con questa civiltà, almeno fino al periodo delle crociate, quando s’interruppero per colpa degli ottomani e degli europei.

Bisanzio non aveva subìto le devastanti invasioni barbariche, poiché aveva saputo farvi fronte in maniera intelligente. Roma invece, che mal aveva digerito il trasferimento costantiniano della capitale dell’impero sul Bosforo, non ebbe mai la stessa lungimiranza e rinunciò a coordinare le proprie forze con quelle dei cristiani d’oriente.

I commerci col Levante erano proseguiti, senza soluzione di continuità, sin dall’epoca romana, estendendosi anche al mondo slavo. Di questi commerci si favoleggiava enormemente in Europa occidentale, e città come Amalfi, Pisa, Genova, Venezia, ma anche Bari, Brindisi, Palermo e altre ancora sapevano molto bene che l’impero bizantino era economicamente florido. Di tutte queste città Venezia fruiva di un ruolo privilegiato, di cui approfitterà notevolmente in occasione della quarta crociata (1204), tradendo la fiducia del basileus.

Furono gli scambi col mondo bizantino e quindi la possibilità di ottenere oggetti preziosi, introvabili in occidente, di ottima fattura, inizialmente alla portata di pochi privilegiati, che favorì la nascita dei ceti mercantili. Gli artigiani non erano altro che ex-contadini particolarmente abili nel fare qualcosa che poteva essere venduto sul mercato (p.es. sapevano usare bene il tornio o il fuoco). Lo stesso lavoro tessile svolto dalle donne per le esigenze domestiche, poteva essere valorizzato da qualche mercante, che, dopo aver offerto la materia prima, andava a vendere il prodotto finito in un mercato locale, che poi diventerà sempre più europeo.

Quanto ai liberi professionisti (avvocati, notai, medici, architetti, artisti, insegnanti, cambiavalute, banchieri o finanzieri ecc.), è evidente che la loro provenienza implicava una buona dose di cultura (che p.es. non mancava mai agli ebrei). Invece di diventare teologi o chierici o militari mercenari, i nobili di rango inferiore (quelli esclusi dall’asse ereditario, in quanto cadetti) potevano anche scegliere funzioni amministrative o di rappresentanza, di cui la borghesia aveva sempre più bisogno per svolgere i propri affari o per tenere in piedi le sorti degli stessi Comuni.

Tutte queste nuove figure sociali assumono, col tempo, una particolare veste politica, basata su una variegata attività produttiva, commerciale e amministrativa, con cui si riuscirà a trasformare la decadente città alto-medievale in un fiorente Comune di epoca basso-medievale. Infatti quando si parla di “democrazia” in epoca feudale, ci si deve necessariamente riferire a una nuova tipologia di città: i Comuni.

Si può parlare di “Comuni” in riferimento all’area bizantina? No, si può parlare soltanto di città. I Comuni sono il prodotto spontaneo di una serie di figure sociali che si sentono libere proprio in quanto hanno giurato fedeltà a uno Statuto che loro stesse si sono date. Una cosa del genere non l’avrebbero permessa né le autorità bizantine, né quelle islamiche o slave e neppure quelle cinesi o indiane. Infatti il potere politico-istituzionale poteva sì permettere l’attività commerciale (che comunque teneva sempre sotto controllo), ma non poteva permettere che sulla base di un’attività del genere si potesse formare un potere politico autonomo, potenzialmente concorrente. Ecco perché quando si parla di “Comuni” si deve intendere qualcosa di specificatamente italiano.

Questi Comuni si sentivano in rivalità coi poteri feudali della grande aristocrazia terriera e cercavano di realizzare dei rapporti reciprocamente vantaggiosi con la diocesi vescovile e il papato, anche in funzione anti-imperiale. Inizialmente la borghesia non è nemica della chiesa, ma anzi cerca di essere la sua principale alleata, scalzando il ruolo dell’aristocrazia terriera.

Quando avverrà la lotta per le investiture ecclesiastiche, la borghesia starà sempre dalla parte del papato, proprio perché sapeva bene che gli imperatori volevano sfruttare fiscalmente le città e tenere sotto controllo tutti i loro commerci. I due grandi imperatori svevi: Federico Barbarossa e suo nipote, Federico II, furono sostanzialmente sconfitti dai Comuni.

Solo quando la borghesia avrà acquisito un certo potere economico, ridimensionando di molto quello della nobiltà, essa comincerà a rivendicare un proprio potere politico, separato da quello della chiesa e anzi, per molti versi, ostile a quest’ultimo.

A questo punto però la domanda cui bisogna cercare di dare una risposta è la seguente: com’è stato possibile un tale sviluppo della borghesia comunale? E perché esso è avvenuto anzitutto in Italia? Perché uno sviluppo del genere non si è verificato nell’area bizantina, dove i commerci sono sempre stati molto fiorenti, almeno sino all’occupazione turca? La risposta è molto semplice: in Italia la corruzione della chiesa, nei suoi livelli gerarchici (soprattutto pontifici), era molto forte, a motivo del fatto ch’essa voleva porsi come chiesa politica, in competizione col potere imperiale bizantino, al punto da desiderare due cose che suscitarono non poco scandalo tra i cristiani orientali: la prima fu quella di attribuire il titolo di “imperatore” a Carlo Magno, quando a Bisanzio ne esisteva già uno; la seconda fu quella di rompere l’unità del mondo cristiano, separandosi nettamente dalla chiesa ortodossa nel 1054, dopo secoli di controversie dogmatiche risoltesi negativamente. Nel primo caso ebbe bisogno dell’alleanza nobiliare, nel secondo di quella borghese, tant’è che le crociate scoppiarono subito dopo l’affermazione della teocrazia pontificia. L’alleanza con la grande borghesia fu decisiva per affermare la propria ideologia teocratica assolutistica.

Ora, quando a livello politico-istituzionale s’impone una corruzione così marcata, diventa poi molto difficile, da parte delle istituzioni, impedire un’autonoma gestione dell’economia, in cui il criterio del profitto privato risulta essere la regola dell’agire comune. Con questo non si vuol dire che l’impero bizantino e tutte le altre compagini governative del periodo medievale fossero esenti da corruzione. Si vuol semplicemente dire che solo in Europa occidentale si era formata una chiesa che voleva svolgere un ruolo direttamente politico, considerando lo Stato (impersonato dagli imperatori) un proprio braccio secolare.

Questa incapacità di distinguere gli aspetti laici da quelli ecclesiastici, l’uso della ragione da quello della fede, l’etica dalla religione è stata la causa principale del sorgere della borghesia, la quale ha potuto svolgere i propri traffici individualistici proprio perché sapeva bene che la chiesa, nel proprio assoluto integralismo, era sommamente corrotta e quindi non titolata a “giudicare” una pratica che lo era altrettanto sul piano sociale. Una volta acquisito il necessario potere economico, la stessa borghesia ha poi potuto esigere che sul piano politico si tornasse a fare differenza tra sacro e profano, relegando il sacro in un ambito sempre più privato o comunque trasformandolo in una pratica sempre meno significativa. Di qui la trasformazione della chiesa da cattolica a protestante.

La borghesia non è nata direttamente dalla chiesa romana, ma è stata un suo involontario prodotto derivato, che, ad un certo punto, le è sfuggito di mano, sicché la stessa chiesa si è sentita indotta a darsi una veste meno esigente sul piano politico e ideologico, più conciliante con l’attività affaristica, anche perché il tentativo di frenare questo processo con la strategia della Controriforma si rivelerà del tutto fallimentare nell’Europa del Nord.

Solo quando nascerà il proletariato industriale, principale nemico della borghesia imprenditoriale, quest’ultima avvertirà il bisogno di ritrovare anche nella chiesa romana l’alleata di un tempo; e il papato, con lo strumento del Concordato e soprattutto con la svolta del Concilio Vaticano II, accetterà il nuovo “patto d’acciaio”, anche per far fronte alla dilagante indifferenza verso le questioni religiose.

Il rapporto di dipendenza personale

Che cosa voleva dire nel Medioevo avere un rapporto di dipendenza di tipo “personale”? Un rapporto personale era quello che intercorreva fra colui che concedeva un feudo (simbolo principale della ricchezza medievale) e colui che lo riceveva, in virtù del quale quest’ultimo dichiarava la propria sottomissione (omaggio di tipo vassallatico), offrendo la propria fedeltà fino a quando restava salda la concessione. (Se non era un feudo, era comunque un titolo o una funzione che dava diritto a un qualche privilegio o a una rendita).

Cioè chi disponeva di proprietà privata, che nell’alto Medioevo i barbari avevano ottenuto eliminando o sottomettendo militarmente i latifondisti romani, la metteva in parte a disposizione, a mo’ d’usufrutto temporaneo o anche vitalizio, a favore di chi era in grado di farla fruttare. I benefici ottenuti da questa proprietà tornavano comodo, indirettamente, alla stessa persona che l’aveva concessa (senior). La proprietà o la carica onorifica poteva essere concessa anche come forma di riconoscimento di un valore militare o per qualche opera compiuta di particolare significato: spesso il beneficiario era un parente del signore che concedeva il feudo o il titolo, ma non necessariamente.

Una parte della proprietà privata veniva alienata, cioè concessa in comodato d’uso, chiedendo in cambio determinati favori: p. es. tasse, rendite, uomini armati, servizi giuridici o logistici… Era appunto il fatto di possedere una proprietà privata (in genere quella della terra) che permetteva, nel Medioevo, di realizzare dei rapporti di dipendenza personale. Non c’era un vero contratto, con diritti e doveri da parte di entrambi i contraenti, come accade oggi a livello aziendale o sindacale, ma anche notarile, giuspolitico ecc., dove è prevalente l’aspetto funzionale o strutturale su quello psicologico-esistenziale.

Un contratto può sempre essere rescisso, senza che ciò comporti delle limitazioni alla libertà giuridica, che ognuno formalmente gode. Nel Medioevo si riteneva il giuramento o la parola data o la promessa fatta infinitamente superiore a qualunque contratto: era una sorta di patto di fedeltà in cui veniva messa in gioco la coscienza o comunque l’etica. Di qui la sua sacralità. Cosa che invece non si poteva riscontrare negli statuti dei Comuni borghesi, dove si aveva la pretesa di affermare una certa uguaglianza formale, almeno nel momento della costituzione del Comune.

La persona libera si sottoponevano volontariamente a un rapporto di tipo vassallatico. Non era costretta a farlo, ma gli serviva per ottenere un certo potere o anche solo una certa protezione militare o politica. Era una forma di umiliazione personale, in quanto si giurava d’essere fedele a una persona, a prescindere da quello che in futuro essa avrebbe potuto fare o chiedere di fare.

Non succedeva mai che il vassallo restituisse il feudo dopo aver giudicato di indegnità il sovrano o il signore che glielo aveva concesso. La tendenza semmai era un’altra: fare in modo di poter trasformare il feudo da “concesso temporaneamente” a “definitivamente acquisito”. La tendenza cioè era quella di sottrarsi a un rapporto di dipendenza giudicato stressante, fagocitante, oneroso.

Un rapporto personale basato sul potere della proprietà privata era quasi una forma di schiavitù, nel senso che la persona libera, anche se diventava relativamente potente o comunque temuta, stimata…, in virtù della concessione ottenuta si trasformava in un servo di qualcuno, “un uomo di un altro uomo”, come allora si diceva.

Un rapporto di dipendenza personale di questo genere avrebbe potuto trovare un proprio senso etico soltanto a due condizioni: 1) che il concessionario non disponesse di proprietà privata o comunque che il beneficiario non fosse un nullatenente, 2) che il rapporto fosse finalizzato a uno scopo preciso temporaneo.

P.es. se la terra appartiene a una collettività e questa decide di entrare in guerra, si può accettare l’idea che qualcuno dichiari la propria dipendenza personale nei confronti di un altro. Raggiunto tuttavia lo scopo, tutti tornano ad essere liberi come prima. Là dove esiste proprietà privata della terra, non può esistere alcuna vera reciprocità nel rapporto di dipendenza personale, poiché chi fruisce del feudo in concessione è costantemente ricattabile, almeno finché la concessione non si trasformi in proprietà privata. Cosa che in Europa occidentale e avvenuta, nel Medioevo, due volte: col Capitolare di Quierzy, nell’877, per i feudi maggiori, e nel 1037 con la Constitutio de feudis, per i feudi minori. In entrambi i casi gli imperatori si illusero che, facendolo, avrebbero potuto trarne un beneficio, ma non fu così.

Infatti, ogniqualvolta gli imperatori ricevevano una scomunica, i feudatari, che disponevano della proprietà dei loro feudi, si mettevano dalla parte del papa, proprio allo scopo di poter svolgere il ruolo del “piccolo imperatore” nei loro stessi feudi, senza dover rendere conto più a nessuno. Fu in questa maniera che l’idea d’impero venne scardinata dall’anarchia feudale, la quale, a sua volta, rese anche molto difficoltosa la realizzazione delle nazioni.

Oggi rapporti di questo genere, che implicano l’assenza dello Stato o comunque della sua consapevolezza, in quanto lo si avverte come inutile o addirittura come un nemico, sono presenti in Italia negli ambienti della criminalità organizzata, dove si sono conservati persino certi rituali simbolici medievali. Ed è difficile pensare che in assenza di uno Stato o in presenza di uno Stato inefficiente, incapace di far valere la propria autorità, e in presenza, contestualmente, di una forte proprietà privata dei fondamentali mezzi produttivi e di sostentamento, non si arrivi a riproporre e a generalizzare la prassi medievale della dipendenza personale.

Le alternative non sono molte: o si elimina la proprietà privata, e allora il patto tra i proprietari comuni, collettivi, diventa per così dire implicito, nel senso che tutti sono dipendenti da tutti; oppure si rende talmente forte il potere dello Stato da impedire che la sfera politica sia determinata da vincoli di tipo personalistico. Tuttavia, in questo secondo caso resta sempre da chiedersi se un siffatto Stato sia davvero in grado di garantire libertà e democrazia per tutti, in quanto è notorio che un ente esterno, avente pretese del genere, finisce con l’imporre una sorta di dittatura.

Una collettività è davvero libera soltanto quando si autogoverna, senza alcuno Stato. Non a caso anche gli Stati che arrivano a nazionalizzare la proprietà dei fondamentali mezzi produttivi, riproducono, nei loro centri di potere, gli stessi meccanismi feudali di dipendenza personale, nel senso che l’unico vero merito che viene premiato è la capacità di assicurare la propria assoluta fedeltà al potere dominante, alla ragione di Stato, all’ideologia del partito di governo, e altre cose che abbiamo già visto nelle dittature staliniste e maoiste.

Prospettive di ricerca

Una divisione del lavoro ha senso quando non esiste divisione tra lavoro e capitale, cioè quando i legami sociali dei produttori sono molto forti, altrimenti essa si trasformerà, inevitabilmente, in una fonte interminabile di soprusi: sfruttamento del lavoro altrui, abuso delle risorse naturali, sovrapproduzione di merci, impiego della scienza e della tecnica per perpetuare l’alienazione dominante (anche quando si pensa di attenuarne gli effetti) ecc.

Nel capitalismo la divisione del lavoro arricchisce pochi a svantaggio dei molti (all’interno di una stessa nazione e fra nazioni diverse). Guardando cosa essa ha prodotto in questa formazione sociale, vien da rimpiangere il Medioevo, in cui dominava l’autonomia del produttore diretto, che era polivalente, cioè indipendente dal mercato per le cose essenziali.

Solo che tale modo di produzione di per sé non può essere sufficiente per costituire un’alternativa efficace al capitalismo. Poteva costituire un’alternativa quando il capitalismo era in fieri, e naturalmente solo a condizione che il sistema dell’autoconsumo fosse in grado di eliminare la piaga del servaggio.

Oggi, perché l’autoconsumo possa costituire un’alternativa, occorrerebbe che il capitalismo subisse un crollo totale per motivi endogeni, ma è dubbio che ciò avvenga in tempi brevi. Il capitalismo si regge sullo sfruttamento del Terzo Mondo: finché le colonie e le neocolonie non si emancipano anche economicamente, il capitalismo non si accorgerà mai di non poter autosussistere.

Quando una formazione sociale si regge sullo sfruttamento del lavoro altrui, si autoriproduce solo fino a quando i lavoratori si lasciano sfruttare: il fatto che ad un certo punto sia nata l’esigenza del colonialismo sta appunto a dimostrare che i lavoratori europei non avevano intenzione di lasciarsi sfruttare in eterno. Ora tale decisione devono prenderla anche i lavoratori del Terzo Mondo, e auguriamoci che, quando la prenderanno, i lavoratori dei Paesi occidentali capiscano che quello sarà il momento buono per realizzare l’internazionalismo proletario contro il capitalismo mondiale.

Va comunque assolutamente escluso che il lavoro polivalente del produttore autonomo possa costituire un’alternativa quando esso viene sottoposto a un qualsivoglia regime di servaggio. “Autonomia” non può solo voler dire “indipendenza dal mercato”, ma deve anche voler dire “libertà” da qualunque forma di schiavitù. Si badi: non da qualunque forma di “dipendenza”, ma da qualunque forma di “dipendenza” in cui esista un “padrone” e un “servo”, una posizione precostituita di dominio e una di subordinazione.

E’ stata un’illusione della borghesia quella di credere che la libertà di un individuo potesse realizzarsi emancipandosi da qualunque dipendenza dal collettivo. Gli uomini devono dipendere dalle leggi che loro stessi, democraticamente, si danno, e devono altresì dipendere da molte leggi della natura, affinché sia salvaguardato l’equilibrio dell’ecosistema.

Se nel Medioevo non ci fosse stato il duro servaggio e l’oppressione culturale del clericalismo, forse il capitalismo non avrebbe trionfato così facilmente. Gli storici, in tal senso, dovrebbero verificare la tesi secondo cui l’edificazione del capitalismo è avvenuta in maniera relativamente facile nell’Europa occidentale, proprio perché qui il servaggio era molto più opprimente che nell’Europa orientale.

Nei confronti del Medioevo il marxismo ha emesso giudizi unilaterali, dettati da una sorta di pregiudizio anticlericale e antirurale. Si è condannato, col servaggio e il clericalismo, anche l’autonomia economica del produttore diretto, cioè il primato del valore d’uso sul valore di scambio, il significato sociale della comunità di villaggio, i concetti di autogestione e autoconsumo, ecc.

Il marxismo si è lasciato abbacinare dal fatto che, con l’impiego della rivoluzione tecnologica e con una forte divisione del lavoro, il capitalismo è riuscito ad aumentare a dismisura le potenzialità delle forze produttive. In effetti in quest’ultimo mezzo millennio l’umanità ha fatto passi da gigante sul piano produttivo e tecnologico.

Tuttavia, molti di questi passi, che si ritengono “in avanti”, sono stati pagati con terribili passi indietro (guerre mondiali, distruzione dell’ecosistema, morte per fame ecc.), al punto che oggi ci si chiede se davvero sia valsa la pena realizzare tanti progressi quando il risultato finale viene considerato soddisfacente solo per un’infima parte dell’umanità. Il marxismo ha avuto due torti fondamentali:

  1. quello di appoggiare un qualunque sviluppo capitalistico contro la rendita feudale, senza preoccuparsi di trovare nel sistema dell’autoconsumo le possibili alternative al servaggio;
  2. quello di tollerare i guasti provocati dal progresso tecno-scientifico, illudendosi di poterli ovviare sostituendo il profitto privato col profitto statale.

Detto altrimenti, lo storico dovrebbe chiedersi se il superamento del servaggio e del clericalismo doveva necessariamente comportare il pagamento di un prezzo così alto, ovvero se la nascita del capitalismo sia stata davvero un evento inevitabile della storia o se invece essa è dipesa dal fatto che nel corso del Medioevo gli uomini non fecero abbastanza per cercare un’alternativa alle contraddizioni antagonistiche del feudalesimo. Il capitalismo è forse diventato inevitabile a causa di questa mancata alternativa?

Se c’era la possibilità di una diversa soluzione, allora dobbiamo rimettere in discussione i giudizi negativi espressi dai teorici liberali e marxisti nei confronti del sistema economico basato sull’autoconsumo. Se vogliamo infatti creare un socialismo veramente democratico, di fronte a noi ci sono due strade (che possono anche essere seguite contemporaneamente, anche se di necessità una dovrà prevalere sull’altra):

  1. l’autoconsumo del produttore diretto, polivalente, che ha bisogno del mercato solo per cose che non può assolutamente produrre o reperire come risorsa naturale (cose di cui, in ultima istanza, può anche far meno per poter vivere). Ciò implica ch’egli sia giuridicamente e politicamente libero, non soggetto ad alcuna coercizione extra-economica. Naturalmente le sue forze produttive saranno sempre limitate (come d’altra parte i suoi bisogni), ma la stabilità di tale metodo produttivo è assicurata, a meno che essa non venga minacciata da catastrofi naturali, nel qual caso dovrebbe farsi valere la solidarietà del collettivo, cui il produttore appartiene. Ovviamente la solidarietà va coltivata per tempo, in quanto essa non può nascere automaticamente; ed è questo in un certo senso il limite di tale sistema produttivo: il produttore diretto tende a rivolgersi alla forza del collettivo solo nel momento del bisogno;
  2. una collettività o una società basata sulla divisione del lavoro, ma in cui l’uguaglianza dei lavoratori sia assicurata dalla democrazia a tutti i livelli. Quanto più è forte la divisione del lavoro, tanto più forti devono essere i legami sociali, poiché chi non rispetta le proprie funzioni incrina tutto l’apparato produttivo. Un sistema di tal genere deve puntare molto sui legami che possono realizzare i valori etico-sociali e culturali.

Ora, considerando il forte individualismo esistente in Europa occidentale (per non parlare degli USA), la seconda soluzione pare la più difficile da realizzare, poiché essa implica una certa maturità socio-culturale o comunque una certa disponibilità interiore a partecipare ai problemi comuni.

Europa occidentale e USA potrebbero adottare il socialismo democratico basato sulla divisione del lavoro, grazie all’aiuto di forze sociali straniere, provenienti da Paesi che conoscono il valore del collettivismo. Tali forze però dovrebbero essere considerate “paritetiche” e non dovrebbero essere numericamente “minoritarie”.

In ogni caso sarà impossibile per l’Occidente conservare gli attuali livelli di produttività, accettando il collettivismo proprio dei Paesi non-capitalistici.

Gli storici e la religione cristiana (II)

2. IL CRISTIANESIMO FEUDALE

Uno storico contemporaneo, di cultura laica, difficilmente arriva a sostenere che nel corso del periodo medievale la chiesa romana appariva su posizioni più antidemocratiche (meno “conciliari”) di quella ortodossa, proprio perché strutturata in maniera integralista, cioè politico-monarchica, con tanto di rigida gerarchia clericale, specie dopo la svolta autoritaria di papa Gregorio VII, con cui si pretendeva di subordinare alla curia pontificia la figura imperiale.

Uno storico del genere di regola ha scarsa dimestichezza con le questioni religiose, ovvero ne delega volentieri l’affronto (anche per non aver noie riguardo a pubblicazioni di tipo scolastico) agli stessi teologi e, di conseguenza, pone tutte le religioni sullo stesso piano, non facendo differenze di principio tra l’una e l’altra. E, fatto questo, si limita ad analizzare il fenomeno religioso dal punto di vista politico-istituzionale e, al massimo, socio-economico.

Ecco perché detto storico preferisce dare per scontate una serie di tesi che vanno per la maggiore, ancora oggi, nell’ambito della storiografia occidentale europea, la prima delle quali è che la chiesa ortodossa era del tutto prona, succube, secondo la pratica del “cesaropapismo”, alla volontà politica del basileus, per cui tra le due confessioni – cattolica e ortodossa – va preferita sicuramente quella cattolica, appunto perché si presentava storicamente come una potenza in grado di reggere il confronto con tutti gli imperatori, benché a volte essa abusasse dei propri poteri, come appunto è successo a partire da Gregorio VII sino a Bonifacio VIII.

È assai difficile incontrare uno storico laico che non accetti, consapevolmente o meno, tale interpretazione “cattolica” dei fatti storici. Questo però comporta conseguenze spiacevoli ai fini della ricerca della verità storica.

In primo luogo infatti si è costretti ad accettare come del tutto normale l’incoronazione di Carlo Magno in veste di imperatore del sacro romano impero, in opposizione al basileus bizantino, legittimamente costituito sin dai tempi di Costantino e Teodosio. E noi sappiamo che da quella incoronazione illegittima è poi dipeso tutto lo svolgimento politico-istituzionale dell’Europa occidentale, praticamente sino alla nascita delle moderne nazioni borghesi.

In secondo luogo si è costretti a sostenere che la rottura del 1054 fu voluta dagli ortodossi e non dai cattolici, i quali però, sin dai tempi del Filioque, avevano infranto la tradizione ecumenica e teologica della chiesa indivisa.

In terzo luogo si è indotti a considerare come legittime tutte le innovazioni, amministrative ma anche dogmatiche, introdotte dalla chiesa romana nell’ambito della cristianità mondiale.

Solo di recente lo storico medievista tende a considerare quanto meno esagerate le persecuzioni clericali ai danni dei movimenti pauperistici, da sempre ritenuti troppo settari ed estremistici per essere politicamente attendibili.

Tuttavia detto storico non può arrivare a prendere una posizione nettamente favorevole nei confronti di tali movimenti, altrimenti ciò ad un certo punto lo porterebbe a parteggiare, a seconda del movimento scelto, o per la causa protestante, oppure per un ritorno, sic et simpliciter, all’evangelismo pre-borghese.

Lo storico medievista, di cultura laica, si limiterà a dire che quelle persecuzioni erano un segno premonitore del fatto che il potere temporale della chiesa andava in qualche modo ridimensionato. Che poi questo storicamente sia avvenuto proprio a causa della riforma protestante, è un altro discorso, che non merita d’essere approfondito più di tanto. Infatti lo storico medievista italiano, se è costretto a scegliere tra ortodossia e cattolicesimo, sceglie il secondo, e se deve scegliere tra cattolicesimo e protestantesimo, sceglie il primo.