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Deutsche Bank e derivati: una vecchia storia

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Essendo la Deutsche Bank (DB) la maggiore banca tedesca, capire il perché dei suoi recenti, gravi, problemi è anche nel nostro interesse.
Il suo bilancio del 2022 era entusiasta: un utile di 5,6 miliardi di euro, il miglior risultato in 15 anni. L’utile record era stato nel 2007 di 8,7 miliardi. Ma la crisi globale del 2008 aveva lasciato profonde ferite da risanare e perdite per cinque anni consecutivi fino al 2019.
Dal 2019 il management asseriva di aver cercato di portare avanti un profondo rinnovamento del gruppo, riducendo le attività del suo investment banking, cioè il settore che cerca alti profitti con le speculazioni più rischiose. Quindi, meno business “esotici” e meno clienti hedge fund. L’idea, almeno sulla carta, era di tornare a essere una banca più europea e “per gli imprenditori”. La DB ha anche portato avanti l’integrazione della Postbank, che come il nostro BancoPosta, ha un numero altissimo di clienti, famiglie e imprese di piccole-medie dimensioni.
L’inversione sui tassi d’interesse ha fatto crescere gli attivi della banca fino a 27,2 miliardi di euro, con un aumento di oltre il 7% rispetto al 2021. Nonostante l’inflazione e i rallentamenti dell’economia, non si temevano insolvenze sui prestiti concessi. Nel 2022, contro tale rischio, la banca aveva accantonato ben 1,2 miliardi, più del doppio rispetto al 2021.

Tutto roseo il 2022 e lo sarebbe dovuto essere ancora di più il 2023. Al successo avevano contribuito anche i voti migliori delle agenzie di rating dopo i loro downgrade degli anni precedenti.

Non tutte le voci, però, erano così concordi. Il consiglio di sorveglianza interno alla banca lamentava che i miglioramenti programmati e gli obiettivi di sostenibilità non erano stati pienamente raggiunti, per cui decideva la riduzione del 5% dei bonus milionari per i dirigenti. In particolare a febbraio aveva sollevato forti preoccupazioni sulla gestione dei derivati.

La storia della banca conta e non si deve mai dimenticare. Lo scorso aprile la polizia tedesca aveva visitato il suo quartier generale di Francoforte nel corso di un’indagine sul riciclaggio di denaro. Negli anni passati il suo nome era apparso in quasi tutte le indagini su varie truffe e malversazioni finanziarie internazionali. Nel 2016, si ricordi, aveva pagato una multa di 7,2 miliardi di dollari per operazioni truffaldine con derivati legati alle ipoteche, in cambio della chiusura delle indagini.

Qualcosa non andava in DB se il costo dei suoi credit default swap, i titoli derivati che coprono il rischio di fallimento, è aumentato in modo rilevante. Dall’inizio dell’anno le sue azioni hanno perso circa un quarto del valore.

E’ vero che tutto il sistema bancario europeo e internazionale è sotto pressione ma Deutsche Bank sembra essere colpita più delle altre banche. Non si può paragonare al Credit Suisse, salvato dalla bancarotta, se non per il fatto che sono due tra le più grandi banche europee ritenute sistemiche.

La presidente della Bce Christine Lagarde e tutti i governi europei fanno a gara nell’affermare la solidità del sistema bancario europeo, “aiutato dalle riforme della regolamentazione bancaria avviate sulla scia della crisi finanziaria globale.” Forse dette riforme sono carenti.

Una di queste gravi mancanze ce la rivela proprio il bilancio di DB del 2022: il valore nozionale totale dei derivati finanziari è di 42.500 miliardi di euro, quasi tutti del tipo molto rischioso, gli over the counter (otc). Un aumento del 6% in un anno. Sono un po’ di meno rispetto al picco di 48.000 miliardi del 2018, ma la situazione non è veramente cambiata. Per quasi l’80% sono derivati stipulati sull’andamento dei tassi d’interesse.

Non solo la DB ma tutte le banche too big to fail sono coinvolte in queste operazioni speculative sui tassi d’interesse. E’ proprio il comportamento volatile delle banche centrali che li rende altamente “infiammabili”.

Anche se si ammettesse che la DB abbia provato a ridurre la sua esposizione nei derivati otc più rischiosi, occorre riconoscere che è un processo difficile in solitaria. Così come lo è per un drogato che vorrebbe liberarsi dalla dipendenza, ma continua a frequentare gli ambienti dello spaccio.

Il problema della speculazione finanziaria è globale ma, se non si affronta a livello internazionale una vera riforma, le crisi bancarie si faranno più frequenti e intense. Ci aspettiamo che le autorità e i governi europei facciano la prima mossa: eliminare la speculazione per difendere gli interessi reali dei cittadini, a cominciare dalla stabilità economica e dal benessere sociale.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Crisi bancarie Usa: le responsabilità dei controllori

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Serve chiarezza. Dietro le recenti bancarotte negli Usa ci sono altri motivi di preoccupazione. In primo luogo il fallimento delle autorità di sorveglianza, a cominciare dalla Federal Reserve.

Il loro mancato intervento, a nostro avviso, è dovuto al fatto che esse erano pienamente consapevoli che le loro politiche monetarie altalenanti, interessi zero prima e aumento dei tassi poi, avrebbero messo sottosopra il sistema bancario. Hanno ritenuto, erroneamente, che astenersi fosse la seconda tra le peggiori possibilità. La prima sarebbe stata continuare con le politiche di poderose iniezioni di liquidità fino a far esplodere la bolla.

Il governo e le autorità bancarie, quindi, non sono stati colti di sorpresa. Erano pronti a nuovi interventi di salvataggio dell’intero sistema. Meglio intervenire dopo il fallimento di una banca regionale che di una too big to fail. C’è stato, infatti, un barrage di interventi. Si è creata una Bank Bailout Facility attraverso la quale il governo concede dei prestiti alle banche. La Fed ha annunciato un “discount window”, uno sportello, dove attingere a prestiti di emergenza a basso costo. Sotto la guida della Fed e del Tesoro, sei grandi banche, JP Morgan, Wells, Citi, Bank of America, Goldman Sachs e Morgan Stanley, si sono accordate per mettere a disposizione 30 miliardi di dollari per la First Republic Bank. Non sono bastati, però, a fermare il crollo. Anche la Federal Deposit Insurance Corporation, l’agenzia di protezione finanziaria, è entrata in campo per garantire i depositi fino a 250.000 dollari. Si tenga presente, però, che il suo fondo coprirebbe soltanto il 2% dei 9.600 miliardi di dollari di depositi assicurati.

E’in atto anche una narrazione che cerca di distogliere l’attenzione dalle banche too big. Si parla insistentemente dei rischi di insolvenza delle banche regionali e delle cosiddette saving and loans banks, quelle che raccolgono i risparmi e poi concedono prestiti alle imprese locali e alle famiglie. Indubbiamente non si possono negare le loro difficoltà attuali, create proprio dagli andamenti dei tassi d’interesse. Si ricorderà che una crisi simile, ma in una situazione di differente gravità sistemica, era avvenuta già negli anni ottanta, sempre per effetto della crescita vertiginosa dei tassi d’interesse da parte della Fed.

E’ comunque da ingenui ritenere che le banche regionali siano delle entità totalmente indipendenti rispetto alle 20 maggiori banche Usa, cosiddette, sistemiche. Secondo JP Morgan nell’ultimo anno le banche più piccole avrebbero perso 1.100 miliardi di dollari in depositi che sono stati trasferiti in quelle più grandi.

C’è anche un’altra narrazione che vorrebbe le banche europee, e non quelle americane, essere nell’occhio del ciclone. Certamente, dopo la crisi del Credit Suisse e le gravi fibrillazioni della Deutsche Bank (DB), non si può negare che il sistema bancario europeo sia in crescente difficoltà.

Noi non ci siamo mai stancati di denunciare i comportamenti rischiosi di DB, superstar dei derivati otc. Ma non si può nemmeno dimenticare che il sistema bancario europeo sia entrato in acque agitate proprio per aver copiato i metodi speculativi di quello americano e della City inglese.

E’ doveroso anche notare il macroscopico errore delle agenzie di rating, le note imprese americane private. Fino al giorno prima del fallimento della Silicon Valley Bank, Moody’s le garantiva il voto di A3 e Standard & Poor’s (S&P) le dava un rating un po’ inferiore di Bbb. Certamente erano lontani dalle triple A elargite a piene mani prima della bancarotta della Lehman Brothers. I titoli della Svb, però, erano considerati “investment grade”, cioè degni di investimento e perciò non speculativi.

Si noti che, anche rispetto al fallimento della First Republic Bank, le agenzie di rating S&P e Fitch hanno inserito la banca tra le imprese “junk”, spazzatura, solo dopo gli interventi di salvataggio.

Nelle prospettive bancarie globali per il 2023, la S&P afferma che il settore bancario statunitense è in buona salute e che il rischio è in calo. Per la Moody’s le prospettive sarebbero stabili, sebbene avvertisse venti contrari in un’economia in rallentamento.

Si tratta di gravi sottovalutazioni, a discapito dei risparmiatori e degli onesti investitori. Si persegue un comportamento, a dir poco incompetente e inadeguato, già emerso prepotentemente nel 2001 alla vigilia del fallimento della Enron, il gigante americano dell’energia, e poi nella Grande Crisi del 2008.

Dal 2001 il Congresso americano ha portato avanti varie iniziative di riforma che, però, non hanno indotto le agenzie di rating a un comportamento più corretto.

Si dovrebbe tenerlo presente quando esse pontificheranno sulla situazione economica e finanziaria dell’Italia. In passato, purtroppo, si è sempre tenuto un atteggiamento troppo supino.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Credit Suisse e la bolla globale dei derivati

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Il credito di salvataggio di ben 54 miliardi di dollari da parte della Banca centrale svizzera non è bastato a stabilizzare il Credit Suisse. Anche la fusione con la più grande banca elvetica, l’Ubs, non sembra calmare le acque turbolente dei mercati finanziari internazionali. La ragione, di cui si tende a non parlare, è una e semplice: l’esposizione in derivati finanziari speculativi otc, quelli non regolamentati e tenuti fuori bilancio, del Credit Suisse e delle banche too big to fail. In particolare quelle americane.

L’ultimo rapporto sui derivati dell’Office of the Comptroller of the Currency, l’agenzia Usa di controllo bancario, ha rilevato che, al 30 settembre 2022, quattro banche statunitensi detenevano ben 195.000 miliardi di dollari di derivati finanziari, pari all’88,6% del valore nozionale di quelli presenti nel sistema bancario nazionale. JPMorgan Chase ne deteneva 54.300 miliardi di dollari, Goldman Sachs 50.970, Citibank 46.000 e Bank of America 21.600. Sebbene la legislazione Dodd-Frank, promulgata dopo la grande crisi del 2008, richiedesse che i derivati passassero attraverso la compensazione centrale, il 58,3% di essi non lo fa, rimanendo nella totale opacità.
Anche un recente studio della Banca dei regolamenti internazionali analizza le gravi complicazioni nella gestione dei derivati ed evidenzia che “le banche estere con sede al di fuori degli Stati Uniti hanno un debito in derivati otc di 39.000 miliardi. Più del doppio del loro debito registrato in bilancio e più di 10 volte il loro capitale”. Un’esposizione ritenuta “sbalorditiva” e foriera di nuovi sconvolgimenti.

Il Tesoro Usa sta esaminando l’esposizione delle banche statunitensi verso il Credit Suisse. Non si scopre adesso che il sistema bancario internazionale è strettamente interconnesso e che la crisi di un componente importante può diventare sistemica. Perciò, non regge la giustificazione secondo cui il problema sarebbe di origine estera, come le autorità americane hanno più volte sostenuto.
Negli Usa il quadro normativo distingue le banche con sede sul territorio nazionale da quelle con sedi estere. Queste ultime non sono sottoposte agli stessi standard, come i requisiti patrimoniali e una liquidità più stringente. Conoscendo bene i rischi, l’hanno fatto per attirare negli Usa capitali, anche speculativi, per restare, a tutti i costi, il mercato dominante.
La storia delle crisi del Credit Suisse è stata bellamente ignorata per anni e consapevolmente sottovalutata. D’altra parte, rivelava la malattia dell’interno sistema che non s’intendeva affrontare drasticamente e curare.

Nel 2021 la banca aveva perso 5,5 miliardi di dollari a seguito di derivati pericolosi con l’hedge fund speculativo americano Archegos Capital Management, poi fallito. I segnali di allarme furono ignorati da tutti, non solo dal Credit Suisse. Quest’ultimo era già stato coinvolto, con forti perdite, anche nello scandalo e nel fallimento di Greensill Capital, la società di servizi finanziari britannica, che aveva lasciato un buco di 10 miliardi. In precedenza aveva pagato una multa di 5,3 miliardi di dollari alle autorità americane per aver ingannato gli investitori sul rischio dei titoli subprime legati alle ipoteche immobiliari.
Credit Suisse, quindi, ha sempre operato sul mercato Usa. Da anni controlla la First Boston. Tra i suoi azionisti vi sono gli arabi, Arabia Saudita e Qatar, con il 20% e, poi, come sempre c’è l’onnipresente fondo americano BlackRock con circa il 5% delle azioni.
Ben sapendo che si mettono in difficoltà le banche che hanno ingenti investimenti in titoli di Stato a lunga scadenza e a basso rendimento, l’aumento dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali sembra essere una scelta obbligata. Nelle loro intenzioni mettere un freno all’inflazione resta la priorità, per evitare sconquassi economici e sociali. Per gli istituti finanziari in crisi metteranno a disposizione decine, centinaia di miliardi.
E’ chiaro, però, che simili salvataggi pubblici non sono la soluzione. A ogni crisi il problema si ripresenta in dimensioni maggiori e peggiori.
Perciò non ci si dovrebbe mai stancare di ripetere che una riforma globale della finanza è necessaria e ineludibile. Per riportare un po’ di sanità nel sistema finanziario, sarebbe opportuno ritornare alla separazione bancaria, alla legge Glass Steagall Act del presidente FD Roosevelt, e battere la speculazione attraverso l’accantonamento dei derivati otc e il divieto della cosiddetta leva finanziaria.
*già sottosegretario all’Economia **economista

A rischio il mercato dei cambi valutari

A rischio il mercato dei cambi valutari

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Il mercato dei cambi valutari, il cosiddetto foreign exchange FX, una parte importante della bolla finanziaria e dei derivati, vive una crescente fibrillazione. Il rischio di una grave crisi è grande. A dirlo è la Banca dei Regolamenti Internazionale di Basilea nel suo recente “Triennual Survey”. Il succitato mercato è caratterizzato da un’eccezionale volatilità, dovuta all’andamento dei tassi d’interesse, all’aumento dei prezzi delle materie prime, all’inflazione e alle tensioni geopolitiche.

Il turnover nei mercati FX è, infatti, in forte rialzo a livello globale. Nell’aprile 2022 il fatturato è stato, in media, pari a 7.500 miliardi di dollari al giorno, un volume 30 volte superiore al pil globale giornaliero. Il 14% in più rispetto al 2019.  Circa il 90% delle operazioni sono fatte con la valuta americana. L’euro – la seconda valuta più scambiata, anche in dollari – ha una quota del 31%, in forte calo rispetto al 39% del 2010.La valuta cinese è passata da meno dell’1% di venti anni fa a oltre il 7% di oggi.

Si osservi che il predominio del dollaro nei mercati valutari globali è dovuto al fatto che solitamente due valute diverse non sono scambiate direttamente ma tramite il dollaro.

Secondo la Bri, a rendere più difficile la gestione è la maggiore frammentazione del trading sui cambi perché si è passati a forme bilaterali di negoziazione elettronica. La Bri parla di uno spostamento da forme “visibili” ad altre più opache. E’ la stessa differenza tra i derivati finanziari gestiti su piattaforme riconosciute e gli otc, over the counter, anch’essi contratti bilaterali e tenuti fuori bilancio.

Una delle principali fonti di vulnerabilità è l’indebitamento in dollari insito nei mercati valutari. A differenza della maggior parte dei derivati, quelli sulle valute comportano lo scambio di capitale e quindi danno luogo a obblighi di pagamento (debiti) pari all’intero importo del contratto.

A metà del 2022 questo indebitamento in dollari ammontava globalmente a 85.000 miliardi. Essendo tenuto fuori bilancio, esso è perciò “mancante” nella contabilità dei bilanci. Se si aggiungono tutte le monete, i debiti arrivano a 97.000 miliardi di dollari, cioè pari al pil globale del 2021 e tre volte il commercio mondiale. Cifre enormi e preoccupanti.

Per i soggetti non bancari fuori degli Usa, per esempio i fondi d’investimento, si stimano 26.000 miliardi di obblighi di pagamento tenuti fuori bilancio, il doppio del loro debito in dollari registrato in bilancio. Nel 2016 erano 17.000 miliardi. Le banche non statunitensi, quindi con un accesso limitato al credito della Federal Reserve, hanno circa 39.000 miliardi di tali obblighi fuori bilancio, rispetto a quelli registrati nei bilanci pari a 15.000.Sono più di 10 volte il loro capitale.

Le operazioni sulle valute, quindi, creano obblighi di pagamento (debiti) in dollari a termine che non compaiono nei bilanci e mancano nelle statistiche sul debito. Gran parte di questo debito è a brevissimo termine. Di conseguenza le esigenze di rollover, cioèil processo di mantenere una posizione aperta oltre la sua scadenza,comportano una grande tensione rispetto alla reale disponibilità di finanziamenti in dollari.

Lontano dagli occhi, afferma la Bri, non dovrebbe tuttavia significare lontano dalla mente. Il fatto che non si vedano non vuol dire che non esistano e che non possano provocare degli sconquassi. Durante la Grande Crisi Finanziaria del 2008 e durante le turbolenze del mercato di marzo 2020, sono stati necessari interventi straordinari della Fed per evitare il peggio. In tempi di crisi, le politiche volte a ripristinare il regolare flusso di dollari a breve termine nel sistema finanziario sono incerte, avvolte nella nebbia.

La Bri afferma che ogni giorno dello scorso aprile, un terzo del fatturato FX, circa 2.200 miliardi di dollari, era a rischio. Un aumento del 16% in tre anni.

Perciò, il rischio che una delle parti coinvolte in una negoziazione di valute non riesca a consegnare la valuta dovuta, può comportare perdite rilevanti per i partecipanti al mercato, a volte con conseguenze sistemiche.

In passato ci sono stati persino casi di fallimento di alcuni attori coinvolti. In definitiva la Bri invita le banche centrali e i governi ad approntare con urgenza regole stringenti. Evidentemente ritiene che le parole e le danze degli sciamani della finanza non bastino.  Ci sembra di stare seduti su un vulcano pronto a esplodere! 

*già sottosegretario all’Economia **economista

La sfida africana alle agenzie di rating

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

L’Africa ha una sua agenzia di rating, la Sovereign Africa Ratings (Sar). E’ una novità importante nel panorama finanziario del continente africano, e non solo.

La Sar è nata in Sud Africa per iniziativa di un gruppo di imprenditori locali con l’intento di contrastare l’attività speculativa e la dipendenza dalle tre agenzie di rating americane.

Il modello di rating del credito di Sar comprende una serie di variabili classiche, quali alcuni aspetti fiscali, economici, monetari, ambientali e di governance, i cambiamenti climatici e la crescita del pil. L’elemento innovativo sta nel fatto che si attribuisce un peso rilevante alla ricchezza mineraria del territorio come indicatore di performance. Quindi, non solo le fonti energetiche ma anche le materi prime nascoste nelle viscere del continente: oro, diamanti, cobalto, rame, zinco, cobalto e le tante cosiddette terre rare.

Finora i Paesi africani sono stati vittime dei voti dati dall’oligopolio formato da Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch, che hanno il controllo del 95% del mercato del rating mondiale. Le “tre sorelle” sono delle imprese private il cui capitale azionario è controllato da grandi fondi d’investimento.

Nel 2022 dette agenzie avevano stilato dei rating di solvibilità molto negativi nei confronti dei governi, delle obbligazioni di Stato, dei titoli pubblici e privati africani. I loro giudizi si sono basati su previsioni insufficienti e molto superficiali. I governi, a cominciare da quello del Sud Africa, hanno lamentato la politica invasiva delle agenzie statunitensi.

Si ricordi che i declassamenti portano all’isolamento finanziario con un impatto devastante sulle economie africane. È, infatti, noto che un rating basso comporta il pagamento di un tasso d’interesse maggiore per ottenere dei crediti o per piazzare dei titoli sui mercati. Indebolisce anche l’offerta di capitali da parte degli investitori stranieri. Per i governi, questo implica scelte spesso impopolari come lo spostamento di fondi di bilancio dalle spese sociali verso il servizio sul debito pubblico.

Di solito i declassamenti accrescono l’esosità degli speculatori e delle multinazionali delle materie prime. Ciò significa povertà, instabilità sociale e sottosviluppo. 

Il rating creditizio di S&P per il Sud Africa è di BB- con outlook positivo. BB- equivale a junk, spazzatura. Di conseguenza, le obbligazioni sono considerate titoli speculativi. Le banche centrali, come la Bce, non accettano in garanzia titoli con tale voto. Le assicurazioni e i fondi pensione non possono acquistarli e sono tenuti a disfarsi di quelli già in possesso.

Invece, la Sar ha dato al Sud Africa il rating BBB (investment grade, degno di investimento), lo stesso che S&P concede all’Italia.

David Mosaka , chief rating officer dell’agenzia Sar, ritiene che l’economia del Sud Africa stia crescendo a un tasso dell’1,9% quest’anno e dell’1,4% nel 2023, il che certamente non favorisce l’occupazione e nuove entrate fiscali. Egli ritiene, però, che un approccio valutativo diverso rispetto al passato possa frenare le spinte speculative. Man mano che l’agenzia crescerà sui mercati internazionali, essa potrà produrre valutazioni per i Paesi africani al fine di contrastare il deprezzamento delle commodity e delle economie nazionali.

Lo scorso 15 maggio, anche Macky Sall, capo di Stato senegalese e attuale presidente dell’Unione Africana, aveva auspicato “La creazione di un’agenzia panafricana di rating finanziario”. Sall aveva affermato che il rating delle agenzie internazionali è “talvolta molto arbitrario”. Esse esagererebbero il rischio d’investimento in Africa, aumentando così il costo del credito. Secondo il presidente senegalese, almeno il 20% dei criteri di valutazione per i Paesi africani sarebbero “fattori culturali o linguistici piuttosto soggettivi, estranei ai parametri che misurano la stabilità di un’economia”.

L’iniziativa del Sud Africa si colloca all’interno dei programmi dei Brics, di cui il Paese fa parte. Tra le loro iniziative vi è proprio la creazione di un’agenzia di rating. E’ anche una lezione d’indipendenza e d’intraprendenza rispetto all’Unione europea che, dopo la grande crisi del 2008 in cui le “tre sorelle” ebbero un ruolo centrale e nefasto, aveva speso tantissime parole in merito alla creazione di un’agenzia di rating europea. Parole che sono rimaste solo sulla carta. Se ne ignora il perché.

*già sottosegretario all’Economia  **economista

Perché dopo due anni di allentamento quantitativo (QE) di straordinaria grandezza la liquidità degli stessi QE è scomparsa

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Mentre la Fed continua a innalzare il tasso d’interesse, molti economisti sollevano forti dubbi sulla sua capacità di normalizzare la politica monetaria e di influenzare positivamente i processi economici. Ciò vale per le altre banche centrali.

Dopo due anni di allentamento quantitativo (QE) di straordinaria grandezza, le banche centrali stanno restringendo i propri bilanci. Esse avevano acquistato asset back security (abs) e titoli di Stato in possesso delle banche private, emettendo riserve liquide in cambio. La liquidità creata, però, è svanita nel giro di pochi mesi.

Perché il rapido rientro dal QE ha prodotto questo risultato? La risposta è semplice: il sistema finanziario è diventato dipendente dalla liquidità facile.

Quando la banca centrale espande il proprio bilancio, il settore bancario, che deve detenere le riserve emesse dalla banca centrale per gli acquisti di asset, in genere le finanzia con depositi a vista, cioè più esigibili.

Le riserve offerte dalle banche centrali si ritengono le più sicure ma offrono rendimenti bassi. Perciò, sulla base della liquidità acquisita, le banche hanno creato altri flussi di entrate offrendo maggiori crediti. Ciò assume generalmente la forma di limiti più elevati per le carte di credito per le famiglie e linee di credito più ampie alle imprese, ai fondi d’investimento e alle società non finanziarie.

La maggiore detenzione di riserve offre alle banche la sicurezza di poter rispondere prontamente a eventuali richieste di prelievo. Le banche, però, hanno anche aumentato le operazioni più lucrative nei rapporti broker-dealer, cioè quelle che promettono di aiutare gli operatori-speculatori offrendo della liquidità per soddisfare eventuali richieste di margine, i margin call, quando si devono dare garanzie aggiuntive in contanti per coprire delle perdite sopravvenute.

Gli speculatori non sono solo gli hedge fund, ma anche i fondi pensione che, per compensare i bassi rendimenti delle obbligazioni pubbliche, hanno aumentato il profilo di rischio delle loro attività, assumendo una maggiore leva finanziaria e sottoscrivendo dei derivati per una copertura del rischio sugli interessi. L’aumento dei tassi ha generato richieste di margini sulle posizioni in derivati.

In parole semplici, la liquidità ottenuta dalla Fed è stata “impegnata” in operazioni finanziarie a più alto rischio. Di conseguenza, le banche sono molto più esposte a qualsiasi incidente nel sistema finanziario, non avendo capacità di “tappare” eventuali buchi rilevanti. Lo stress di liquidità deriva dalla relazione asimmetrica tra lo stock di crediti concessi e quello delle  riserve di liquidità. Anche il comportamento delle banche è asimmetrico rispetto a quello della Fed, più precisamente perché non riducono i crediti concessi quando la quantità delle riserve si riduce.

Questo è avvenuto recentemente in Gran Bretagna, quando il “mini budget” proposto dall’ex premier Liz Truss ha fatto emergere lo spettro dell’insostenibilità del debito sovrano, provocando un immediato aumento dei tassi di interesse delle obbligazioni statali di lungo termine. Riconoscendo l’importanza sistemica del mercato dei titoli di Stato, la Banca d’Inghilterra è subito intervenuta sospendendo il programma di vendita di parte dei titoli in suo possesso, annunciando allo stesso tempo di voler riprendere ad acquistare i bond di Stato come nei passati mesi di QE.

Il malfunzionamento del mercato dei titoli di Stato in un’economia sviluppata è un segnale di una potenziale instabilità finanziaria.

Uno studio presentato da un gruppo di economisti americani all’incontro di Jackson Hole, rileva che, nel caso degli Stati Uniti, il rientro dal QE ha reso le condizioni molto difficili. E’ provato che, quando la Fed vuole riprendere le riserve emesse, il settore finanziario non riduce rapidamente i crediti concessi sulla base della liquidità generata. Questo rende il sistema vulnerabile agli shock o semplicemente a un qualche incidente. Era già successo a settembre 2019 e la Fed aveva ripreso le sue iniezioni di liquidità.

In altre parole, maggiori sono le dimensioni e la durata del QE, maggiore è la liquidità cui i mercati finanziari si abituano. Di conseguenza, per le banche centrali sarà più difficile normalizzare i propri bilanci. Gli shock finanziari non rispettano i tempi delle banche centrali e potrebbero costringerle a nuovi interventi di sostegno.

I responsabili delle politiche monetarie si trovano quindi in una posizione molto difficile: aumentare i tassi per ridurre l’inflazione e contemporaneamente fornire liquidità per stabilizzare i mercati dei titoli di Stato. E’ un processo infernale dal quale non si può uscire con gli strumenti tradizionali.

*già sottosegretario all’Economia
**economista

La contraddizione tra i prezzi del gas in Europa e la caduta di quelli delle commodity

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

La guerra in Ucraina andava bene per spiegare l’aumento dei prezzi, ma diventa quasi un “imbarazzo” quando essi scendono. Quindi, nella narrazione dominante circa la crescente e galoppante inflazione odierna c’è qualcosa che non torna. Come mai gli indici internazionali delle commodity registrano delle diminuzioni dei prezzi negli ultimi mesi?

Aiutano i dati forniti dal rapporto “Commodity Market Outlook”, pubblicato lo scorso aprile dalla Banca Mondiale, che analizza globalmente gli indici dei prezzi per tre maxi categorie: energia, prodotti agricoli e metalli in generale. Un indice è una sorta di paniere ponderato dei prezzi delle varie materie prime che ne fanno parte. Posto a 100 gli indici al primo gennaio 2020, cioè prima della pandemia, essi scendono per tutte e tre le categorie fino a luglio-agosto di quell’anno. Poi, durante il 2020, essi iniziano una progressiva salita fino a raggiungere al primo marzo 2022, quindi all’inizio della guerra in Ucraina, il livello di 216 per l’indice dei prodotti energetici, di 150 per quelli agricoli e 182 per i metalli.

Se la discesa dei prezzi nei primi mesi del 2020 potrebbe essere spiegata con la restrizione della domanda dovuta ai lockdown produttiLvi e alle riduzioni dei consumi, diventa, però, molto difficile sostenere la stessa spiegazione per la seconda metà di quell’anno e per l’inizio del 2021 quando, invece, i prezzi salgono. Infatti, anche in quei mesi produzioni e consumi erano in ritirata.

La ripresa degli ultimi mesi del 2021 e dei primi del 2022 non è sufficiente a spiegare l’aumento dei valori degli indici in questione. Gli scostamenti sono troppo grandi rispetto ai modesti cambiamenti nelle produzioni e nei consumi.   

Il rapporto della Banca Mondiale di aprile affermava che “la guerra in Ucraina ha causato gravi interruzioni dell’approvvigionamento e prezzi storicamente più elevati per una serie di materie prime. Per la maggior parte di esse, i prezzi dovrebbero essere significativamente più elevati nel 2022 rispetto al 2021. I prezzi non energetici dovrebbero aumentare di circa il 20% nel 2022″.

Non è stato così. Il 2 agosto la Banca Mondiale ha riportato i dati più recenti sui prezzi delle commodity. A luglio, rispetto al mese precedente, i prezzi dell’energia in generale erano scesi di 1,3%, (quelli del petrolio del 10%, mentre quelli del gas in Europa erano saliti del 50%). I prezzi dei prodotti agricoli erano diminuiti del 7,4%, quelli del cibo di 8,5% e quelli dei metalli del 13,4%, in specifico lo stagno del 19,5%, il ferro del 17%, il rame e nichel ciascuno del 16%. Dai massimi di marzo il pezzo del rame è sceso del 30%. Un altro esempio: il Bloomberg Commodity Spot Index, che prende in considerazione contratti future per 23 commodity, lo scorso luglio è diminuito del 20% rispetto al mese precedente.

L’andamento anomalo dei prezzi, sia in salita sia in discesa, può essere spiegato soltanto attraverso il ruolo negativo giocato dalla speculazione, in particolare dei future. Quando i mercati percepiscono un possibile futuro aumento dei prezzi, i futurespeculativi operano come dei moltiplicatori. Lo stesso avviene per le attese di riduzione dei prezzi. 

Chi acquista un future su un indice assume una posizione lunga (long), rialzista, e crede che i prezzi saliranno oltre quello di acquisto. Chi vende un future assume una posizione corta (short), ribassista, e ritiene che il prezzo di mercato dell’indice in scadenza sia più basso. Entrambi guadagnerebbero sulla differenza di prezzo.

Il volume dei future può determinare le attese di crescita o di ribasso e di conseguenza gli andamenti del mercato. Com’è noto, i future speculativi non comportano la reale transazione delle merci trattate. Solo il 2% lo fa! Alla scadenza del contratto, o prima se è rinegoziato, è pagata soltanto la differenza.  Nel frattempo, però, l’effetto della speculazione si è trasferito sui prezzi delle reali operazioni di compravendita. 

L’ultimo rapporto della Banca dei regolamenti internazionali di Basilea rileva che anche i derivati otc ( non regolamentati e altamente speculativi) sulle commodity sono cresciuti di quasi il 30% durante il 2021.

Nelle ultime settimane, i future hanno giocato al ribasso poiché ci si aspetta una  recessione, con la diminuzione dei consumi e delle produzioni a livello globale. Il contratto fatto oggi prevede che domani la merce avrà un prezzo più basso. Mentre quasi tutti i future sugli indici delle commodity sono oggi ribassisti, quelli sul gas europeo negoziati a Amsterdam sono grandemente rialzisti.

E’ l’eterna altalena che arricchisce pochi grandi speculatori e impoverisce le fasce della società e i Paesi più deboli.

*già sottosegretario all’Economia  **economista

BRICS: creare una nuova moneta per dare l’addio al dollaro

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

In occasione del 14.mo Summit dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa), organizzato a Pechino a fine giugno, il presidente russo Vladimir Putin ha annunciato che i Paesi membri si stanno preparando a creare una valuta di riserva internazionale.

Parlando in via telematica al BRICS Business Forum, egli ha affermato: “Il sistema di messaggistica finanziaria russa è aperto per la connessione con le banche, proiettando così la necessità di una valuta di riserva BRICS. Il sistema di pagamento MIR russo sta ampliando la sua presenza. Stiamo esplorando la possibilità di creare una valuta di riserva internazionale basata sul paniere di valute dei Paesi BRICS.”.

Dopo le sanzioni imposte dall’Occidente contro la Russia a seguito della guerra in Ucraina, è una mossa quasi inevitabile, attesa da chi analizza i processi politici con un approccio scientifico e realistico senza dettami ideologici o pregiudizi di sorta.  

Tra le varie misure sanzionatorie, le banche russe sono state escluse dal sistema SWIFT dei pagamenti internazionali. Esistono, però, altri sistemi di regolamento globale bilaterale o multilaterale per i servizi finanziari transfrontalieri, come il sistema cinese CIPS. Nel 2021 il CIPS ha elaborato circa 80 trilioni di yuan (11,91 trilioni di dollari), con un aumento di oltre il 75% su base annua. Secondo i dati di SWIFT, ad aprile lo yuan ha mantenuto la sua posizione di quinta valuta più attiva per i pagamenti globali, con una quota del 2,14% del totale.

Da parecchio tempo i BRICS stanno intensificando la cooperazione negli investimenti e nel finanziamento dei principali settori come le industrie strategiche emergenti e l’innovazione digitale nel tentativo di aumentare l’uso delle valute locali nel commercio e nei pagamenti, così da bypassare il dollaro.

Si tenga presente che le sanzioni contro la Russia non sono state sostenute dagli altri Paesi BRICS che hanno, invece, interpretato come la trasformazione del dollaro in un’arma da guerra.

L’Europa continua a sottovalutare il ruolo economico e politico dei BRICS, a ignorarli come potenziale sistema coordinato e considerarli, invece, solo singolarmente. Il blocco di tali Paesi, però, rappresenta il 18% del commercio di merci e il 25% degli investimenti esteri a livello globale. Nonostante l’impatto della pandemia, nel 2021 il volume totale degli scambi di merci dei BRICS ha raggiunto quasi 8.550 miliardi di dollari, con un aumento del 33,4% su base annua.

E’ certamente vero che essi non sono paragonabili all’Unione europea, ma pensare che siano un gruppo senza futuro è una miopia politica, una visione per niente realistica e sicuramente non intelligente. Basterebbe prendere nota che al recente Summit “Plus” sono state invitate altre 14 nazioni: Algeria, Argentina, Cambogia, Egitto,Etiopia, Fiji, Indonesia, Iran, Kazakhstan, Malaysia, Nigeria, Senegal, Thailandia e Uzbekistan. Prendiamo atto che c’è una parte del mondo, la maggioranza dei Paesi del pianeta, che spesso non è in sintonia con l’Occidente e che ha interessi, priorità e progetti differenti. Ignorarli potrebbe essere l’interesse di qualcuno, ma non dell’Europa!  

Si tenga anche presente che la New Development Bank, la banca dei BRICS, che opera molto efficientemente per finanziare concreti progetti di sviluppo e promuovere l’utilizzo delle monete locali nei commerci, ha recentemente incluso tra i suoi membri altri 4 Paesi, l’Egitto, il Bangladesh, gli Emirati Arabi Uniti e l’Uruguay.    

La dichiarazione finale del Summit di Pechino, oltre a dettagliare i vari aspetti del programma dei BRICS per una Partenership di Sviluppo Globale, ha annunciato l’intenzione di includere altri Paesi. Insieme alla prospettiva cinese di una Global Development Initiative, ciò è stato un punto centrale dell’intervento del presidente Xi Jinping.

Anche se il “paniere di monete alternativo non appare nella dichiarazione finale, esso sarà certamente uno degli aspetti cruciali dei lavori futuri. Lo si comprende vedendo l’enfasi posta sull’importanza del Payments Task Force, la piattaforma per la cooperazione nei pagamenti tra le banche centrali, sulla realizzazione del Trade in Services Network, l’uso di strumenti finanziari innovativi nel commercio, e sul rafforzamento e miglioramento del meccanismo noto come Contingent Reserve Arrangement, cioè la rete BRICS di sicurezza finanziaria e monetaria globale.  

*già sottosegretario all’Economia  * economista  

James K. Galbraith: “Riusciranno gli Stati Uniti a sopravvivere all’ascesa di un mondo multipolare?”

L’analisi di James Galbraith

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

“Riusciranno gli Stati Uniti a sopravvivere all’ascesa di un mondo multipolare?” Questa domanda d’importanza strategica non è posta da qualche oppositore della politica Usa, bensì da un importante economista americano, James K. Galbraith. Riflette un dibattito molto ampio in corso negli Usa. E non solo.

Galbraith è l’economista dell’Università di Austin in Texas, noto per aver redatto il primo piano legislativo per salvare New York City dalla bancarotta nel 1975. E’ il figlio di John Kenneth Galbraith, stretto collaboratore di molti presidenti americani, a cominciare da F. D. Roosevelt, per il quale durante la seconda guerra mondiale realizzò la politica del controllo dei prezzi. Argomento di cui tanto si discute anche oggi!

Alla domanda, formulata in un suo articolo pubblicato dall’Institute for New Economic Thinking, James Galbraith risponde positivamente ma aggiunge, “non senza uno sconvolgimento politico, stimolato da inflazione e recessione e da un mercato azionario in calo nel breve termine e, infine, da richieste di una strategia realistica in sintonia con l’attuale equilibrio di potere globale”.

Egli afferma che “finora l’ordine basato sul dollaro è stato sostenuto principalmente dall’instabilità altrove e dalla mancanza di un’alternativa credibile.” Ecco perché i titoli del Tesoro americano sono sempre rimasti il bene rifugio primario, anche nella crisi dei mutui subprime.

Oggi il motore economico cinese, sempre più legato alla Russia e all’attrazione gravitazionale della più grande regione demografica, produttiva e commerciale del mondo, rappresentata dall’Unione economica eurasiatica e dall’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, potrebbe diventare la sfida all’ordine internazionale basato sul dollaro. Per Galbraith non è ancora così. Nonostante la Cina sia la più grande nazione commerciale, essa “non svolge né il ruolo finanziario globale né quello di sicurezza e non ha evidenti ambizioni in tal senso”. 

Egli si aspetta che la Cina lavori per “predisporre meccanismi di pagamento bilaterali o multilaterali, con partner disponibili, che aggirino il mezzo convenzionale del dollaro”. Sarà, però, inevitabile che verrà posta la questione di un’alternativa alla riserva in dollari. Oltre al ruolo dell’oro, emergerà “un asset finanziario internazionale, composto di un insieme ponderato di titoli dei Paesi partecipanti, come per l’Eurobond…  Nella realtà dell’Eurasia, ciò significa un’obbligazione basata prevalentemente sulla moneta cinese.”

Secondo Galbraith gli esperti Usa hanno una visione della Russia non corretta, ancorata ai tempi di Yeltsin. Egli afferma, con una certa ironia, che “con il sostegno di Cina, Iran, Bielorussia, Kazakistan e la studiata neutralità dell’India, è in fase di creazione un nuovo sistema finanziario internazionale. È la creazione in un certo senso, non della Russia stessa, ma dei principali responsabili politici e dei pensatoi strategici negli Stati Uniti.”.

La sua previsione è che “il sistema finanziario basato sul dollaro, con l’euro che funge da junior partner, è probabile che per ora sopravviva. Ma ci sarà una rilevante zona no dollaro, no euro, ritagliata per quei Paesi, che Usa e Ue considerano avversari, in primis la Russia, e per i loro partner commerciali. La Cina fungerà da ponte tra i due sistemi: sarà il punto fermo della multipolarità.“.

Se dovessero essere prese dure decisioni nei confronti della Cina, allora una vera e propria divisione del mondo in blocchi isolati, come nella Guerra Fredda, diventerebbe una possibilità.

Galbratih conclude la sua analisi avvertendo che “la prossima svolta della stretta finanziaria globale avverrà in Europa, in particolare in Germania, quando le implicazioni degli alti prezzi dell’energia e delle forniture perennemente scarse diventeranno evidenti. La competitività della Germania è legata alle materie prime russe e ai mercati cinesi; i suoi legami politici e finanziari sono con l’Alleanza atlantica. E’ difficile credere che la Germania subordini in modo permanente la sua industria, la sua tecnologia, il suo commercio e il suo benessere generale a Washington e Wall Street. La tensione tra le forze economiche e politiche non può che crescere nel tempo, portandola o verso la deindustrializzazione o verso un nuovo rapporto con l’Est eurasiatico: una nuova Ostpolitik.”

Riteniamo che le questioni poste da Galbraith dovrebbero, in verità, sollecitare anzitutto l’Onu in quanto rappresentante di ben 192 Paesi nell’affrontare i problemi, non solo finanziari, che riguardano un nuovo assetto complessivo multipolare.

*già sottosegretario all’Economia  **economista

Inflazione crescente: il dilemma delle banche centrali

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

La politica dei soldi facili ha “drogato” la finanza e l’economia, facendo aumentare i debiti e la propensione per maggiori rischi, e ha determinato la crescita dell’inflazione. Dopo molto tempo anche la Federal Reserve ha ammesso di aver sottovalutato l’impennata inflazionistica, che è più ampia e persistente delle previsioni. Ora, per tutte le grandi economie, la sfida è come correggere le azioni “dettate” dall’inflazione interpretata come “transitoria”.

Le banche centrali da anni, in merito all’inflazione, si basano su tre principi molto “soggettivi” e poco scientifici. Il primo è il target arbitrario del 2% annuo. Il secondo riguarda le “aspettative di inflazione”. I banchieri affermano che sono le aspettative a muovere l’inflazione e che le banche centrali guidano le aspettative. Perciò tutto, secondo loro, sarebbe sotto controllo. Il terzo è il cosiddetto “forward guidance”, una guida anticipata attraverso, per esempio, il controllo della curva dei rendimenti dei titoli pubblici.

Con la Grande Crisi Finanziaria prima e con la pandemia poi, le banche centrali bene hanno fatto ad aprire i rubinetti della liquidità con salvataggi immediati e necessari per il sistema. A lungo andare, però,  i rischi di inflazione sono inevitabili. Infatti, già la scorsa estate, sarebbe stato opportuno riconoscere che i fattori cosiddetti “transitori” erano accompagnati da problemi strutturali. Non si può giustificare tutto con gli effetti della pandemia. Oltre le irrisolte speculazioni sulle commodities, le aziende, in verità, descrivevano la natura persistente delle interruzioni nelle loro catene di approvvigionamento e la mancanza di manodopera specializzata. Gli imprenditori, a differenza di molti economisti accademici, affermavano che questi problemi non sarebbero stati risolti in tempi brevi.

Le banche centrali certamente non hanno tutti gli strumenti per sbloccare le catene di approvvigionamento e il reperimento della forza lavoro. Ma rimanere nella “mentalità inflazionistica transitoria”, rischia di mettere in moto quelle “aspettative” con tassi di inflazione non facilmente tollerabili dall’economia. Anche i crescenti risparmi dei mesi passati, erosi da un’inflazione del 6% o più, potrebbero essere spinti con forza verso l’acquisto di beni, ma troppo velocemente per trasformarsi in nuovi investimenti e in maggiori produzioni, alimentando così la stessa inflazione.

Non si può aspettare. Si rischia una più marcata recessione. E’ un modello conosciuto: dentro la trappola della curva dell’inflazione c’è il rischio di inasprire la politica monetaria in modo brusco, colpendo duramente la domanda e l’occupazione e mettendo fuori gioco le imprese già in difficoltà. Per i mercati si prospetterebbero situazioni d’illiquidità destabilizzante. In verità, già a novembre, il governatore della Fed, Jerome Powell, ha fatto un improvviso cambiamento di politica monetaria, annunciando una riduzione degli acquisti mensili di attività, quello che si chiama in gergo il “tapering” del quantitative easing.

Da parte sua, la Banca centrale europea ha ancora una posizione attendista, credendo fermamente nella “transitorietà” dell’inflazione, che alla fine dovrebbe ritornare al fatidico 2%. Se le pressioni inflazionistiche dovessero, però, diventare generalizzate, non si può escludere una qualche “frenata” disordinata nella politica monetaria.  In questa situazione, secondo noi, le principali banche centrali dovrebbero comunicare con puntualità le proprie azioni politiche in modo da non innescare confusione o una overreaction dei mercati. A differenza del positivo sincronismo pre pandemico, l’attuale disallineamento tra la Fed e la Bce non è di buon auspicio. D’altra parte, se l’inflazione diventasse più alta rispetto alle previsioni, si ridurrebbero anche i redditi reali, innescando un inevitabile scontro sociale, in particolare sui salari e le pensioni.

Indubbiamente, non vi sono facili soluzioni. Però, se nei passati 15 anni le banche centrali sono state super interventiste, non possono adesso diventare troppo attendiste. In questa situazione sono i governi e i parlamenti a dover entrare in gioco con decisione e definire le priorità degli interventi. Sono chiamati a favorire attivamente l’economia reale, le imprese produttive, l’occupazione e i redditi dei cittadini e svincolarsi dalla “presa” prolungata e soffocante della grande finanza.

*già sottosegretario all’Economia **economista

 

 

L’appello di papa Francesco per regolamentare la finanza

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

 Che di fronte al dilagare incontrollato della finanza speculativa sia necessario “rivolgersi alla preghiera”, è uno schiaffo morale ai governi e alle istituzioni economiche internazionali preposte al controllo e alla regolamentazione dell’economia, della moneta e dei settori finanziari. E’, però, l’ammissione della loro incapacità d’intervento e della sottomissione al “mercato senza leggi” e al laissez faire più spregiudicato. Dinanzi all’intollerabilità della situazione, papa Francesco si è sentito in dovere di richiamare i credenti e i laici con un video dedicato alla preghiera per una “finanza giusta, inclusiva e sostenibile”.

 Egli afferma che “mentre l’economia reale, quella che crea lavoro, è in crisi – quanta gente è senza lavoro! – i mercati finanziari non sono mai stati così ipertrofici come sono ora. Quanto è lontano il mondo della grande finanza dalla vita della maggior parte delle persone! La finanza, se non viene regolamentata, diventa pura speculazione animata da politiche monetarie. Questa situazione è insostenibile. È pericolosa. Per evitare che i poveri tornino a pagarne le conseguenze, bisogna regolamentare in modo rigido la speculazione finanziaria.”.

 Ricorda che la finanza deve essere uno strumento per servire le persone e per prendersi cura della casa comune e fa un appello “perché i responsabili della finanza collaborino con i governi, per regolamentare i mercati finanziari e proteggere i cittadini in pericolo.”

 In pratica riprende il discorso avviato nel 2015 con l’enciclica” Laudato sii” in cui si afferma che “la finanza soffoca l’economia reale. Non si è imparata la lezione della crisi finanziaria mondiale”. Secondo Francesco non è una questione di teorie economiche ma della loro applicazione fattuale nell’economia. Il mercato da solo non può garantire lo sviluppo umano integrale e l’inclusione sociale, né la protezione dell’ambiente e dei diritti delle generazioni future.  

 Nell’enciclica citata si sostiene: “La politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia… Il salvataggio ad ogni costo delle banche, facendo pagare il prezzo alla popolazione, senza la ferma decisione di rivedere e riformare l’intero sistema, riafferma un dominio assoluto della finanza che non ha futuro e che potrà solo generare nuove crisi dopo una lunga, costosa e apparente cura”.

 Secondo noi la crisi finanziaria del 2007-2008 ne è la prova: sarebbe stata l’occasione per sviluppare una nuova economia, non solo più attenta ai principi etici, ma, soprattutto, per regolamentare l’attività finanziaria speculativa e la ricchezza virtuale. Purtroppo non è stato così.

 Certo, sono concetti che papa Francesco ripete ormai costantemente. Lo ha fatto anche recentemente nell’enciclica “Fratelli tutti” e con molto coraggio anche nella lettera inviata al meeting della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, svoltosi lo scorso aprile. Egli afferma che “è ora di riconoscere che i mercati — specialmente quelli finanziari — non si governano da soli. I mercati devono essere sorretti da leggi e regolamentazioni che assicurino che operano per il bene comune, garantendo che la finanza – invece di essere meramente speculativa o finanziare solo sé stessa – operi per gli obiettivi sociali tanto necessari nel contesto dell’attuale emergenza sanitaria globale”.

 Ci preme sottolineare che la preghiera del papa ha avuto anche qualche orecchio attento. La Federcasse, la Federazione italiana delle Banche di Credito Cooperativo, una rete di 250 banche cooperative di comunità con un milione e 350 mila soci, l’ha fatta sua. Del resto essa fa della vicinanza al territorio, alle famiglie e ai piccoli imprenditori e artigiani la sua mission. In merito, il direttore generale Sergio Galli ha ribadito che “occorre elaborare nuove forme di economia e finanza realmente orientate al bene comune e rispettose della dignità umana”.

 Naturalmente le tematiche affrontate da papa Francesco sono tali che oggettivamente impongono ai governi decisioni rapide e stringenti. In questi giorni da più parti si sollecita il superamento dei brevetti sui vaccini. Tema che va affrontato. Si consideri che, mentre nei paesi industrializzati una persona su 4 ha già ricevuto almeno una dose di vaccino, nei paesi poveri, invece, l’ha avuta una su 500. Il caso più odioso è sicuramente quello dell’India, dove si produce il 70% dei vaccini mondiali, ma non per i propri cittadini, bensì per l’export.

 *già sottosegretario all’Economia  **economista

Archegos: la bancarotta di un altro fondo speculativo

Mario Lettieri * e Paolo Raimondi**

 

La morte in carcere dello speculatore americano Bernie Madoff non chiude un ciclo. Anzi, il susseguirsi di continui fallimenti e di sconquassi finanziari dimostra che dopo la Grande Crisi non sia cambiato proprio niente Aveva orchestrato il più grande “schema Ponzi”, la piramide finanziaria truffaldina, che pagava i primi investitori con i nuovi capitali raccolti. Un’operazione di almeno 50-60 miliardi di dollari! La vicenda di Madoff, con la sua condanna a 150 anni di prigione, sembra la classica esagerazione americana: punire un singolo, con il massimo della pena e della pubblicità mediatica, e lasciare i meccanismi e il potere della finanza pressoché intatti.

Il più recente caso è quello del fondo hedge  Archegos, fondato dallo speculatore Bill Hwang. Com’è noto, i fondi hedge gestiscono i capitali degli investitori con l’intento di evitare loro rischi e volatilità dei titoli. Il problema, però, è come lo fanno. Il suo primo fondo, il Tiger Asia Management, fu investito dal crollo della Lehman Brothers. In seguito, fu accusato dalla Security Exchange Commission di insider trading in operazioni di vendita allo scoperto, anche con titoli cinesi. Se la cavò con una multa soft di 44 milioni di dollari. Però, per quattro anni non poté operare sul mercato di Hong Kong. Nel 2014 creò l’Archegos Capital Management. Si tratta di un fondo hedge ancora più ristretto e selezionato, un family fund, con cui gestisce i suoi capitali e quelli di pochi altri privilegiati. In questo modo sfugge ai controlli e alla vigilanza delle agenzie preposte. Fa parte, appunto, del cosiddetto shadow banking.

Lo strumento più spregiudicato di Archegos è stato l’utilizzo della leva finanziaria, il leverage, per avere maggiori disponibilità finanziarie partendo da un piccolo capitale. E’ arrivato così a gestire tra 50 e 100 miliardi di dollari. Nell’operazione sono state coinvolte tutte le maggiori banche mondiali, tra cui la giapponese Nomura, le americane Goldman Sachs e Morgan Stanley, il Credit Suisse, la Deutsche Bank, ecc. Con i prestiti, Hwang ha investito, tra l’altro, in azioni americane e cinesi, dando i titoli in garanzia. L’accordo era che, qualora essi dovessero perdere di valore, le banche creditrici avrebbero potuto chiedere di reintegrare le garanzie, la cosiddetta margin call, o, in ultima istanza, vendere i titoli per contenere le perdite. E’ esattamente ciò che è successo. Il Credit Suisse, per la seconda volta in poche settimane, avrebbe perso circa 4 miliardi di euro.

Le banche conoscono perfettamente i giochi, per cui le loro “sorprese” sono insostenibili. Esse usano, appunto, detti fondi hedge, entità autonome e separate dalle stesse banche, per fare delle operazioni molto rischiose e incassare commissioni e guadagni consistenti.   In una situazione anomala di tassi bassissimi e anche negativi, quando la leva finanziaria è molto alta, basta un piccolo cambiamento della politica monetaria o uno scossone negativo dei titoli messi a garanzia per far cadere il castello di carte. E i derivati emessi su detti titoli sono, ovviamente, i primi a risentirne.

Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea nel 2019 il valore nozionale dei derivati finanziari otc ha raggiunto il picco di 640 mila miliardi di dollari. Come abbiamo più volte evidenziato, si tratta di operazioni molto rischiose che sono tenute solitamente fuori dei bilanci delle banche coinvolte e non sottoposti alle regole e alla vigilanza delle autorità preposte. Per esempio, non sono disciplinate dalle cosiddette stanze di compensazione, le clearing house, che garantiscono che le controparti siano in grado di portare a termine i contratti derivati.  Gli esperti del settore e taluni economisti, anche molto noti, si affrettano sempre ad affermare che dovrebbe essere preso in considerazione il valore lordo di mercato (gross market value), quello che evidenzia il rischio e cosa sarebbe necessario per chiudere i contratti dei derivati in essere in un determinato momento. Naturalmente, si tratta sempre di parecchie migliaia di miliardi di dollari.

Il caso del recente crac di Archegos dimostra, in verità, il contrario. Esso prova che, in caso di crisi, è il nozionale che entra in gioco. E può creare un enorme effetto valanga difficilmente arrestabile. Siamo alle solite. I grandi pescecani della finanza continuano a creare rischi sistemici. Manca, purtroppo, una legislazione stringente e globale.

*già sottosegretario all’Economia  **economista

Greensill: un altro inganno per i risparmiatori?

 Mario Lettieri*  Paolo Raimondi**

Greensill come la crisi dei subprime? Ancora una classica operazione speculativa, con possibili pericolose conseguenze sistemiche.

Nei giorni scorsi il gruppo finanziario Greensill ha portato i suoi libri contabili in tribunale a Londra e dichiarato insolvenza. Greensill Capital è un fondo londinese che porta il nome del suo fondatore.

La sua “mission” iniziale era la finanza della supply-chain: anticipare il pagamento delle fatture, emesse da clienti e fornitori minori nei confronti delle grandi corporation, garantendo loro incassi più celeri. I fornitori erano contenti di ottenere i pagamenti dovuti e, quindi, di sottrarsi ai tempi lunghi delle corporation. In seguito, la Greensill Capital portava le fatture all’incasso presso le grandi imprese, ottenendo naturalmente un certo premio. Queste ultime vedevano, con soddisfazione, allungarsi i tempi di pagamento. Purtroppo, però, non tutti i bilanci delle imprese coinvolte erano, e sono, trasparenti e solidi.

Il sistema veniva propagandato come una “democratizzazione del capitale e della finanza”.

Ovviamente, la “monetizzazione” degli asset acquisiti (le fatture da incassare) veniva trasformata in investimenti o in crediti per altre imprese. Ancora più importante era la cartolarizzazione delle fatture acquisite che venivano “impachettate” con altri prodotti finanziari e titoli vari da piazzare agli investitori, in particolare quelli istituzionali. Proprio come accadde negli Usa con i subprime prima della Grande Crisi.

Il sistema veniva internazionalizzato con una rete finanziaria, attraverso la creazione di istituti e di banche, la realizzazione di rapporti con grandi organismi finanziari e assicurativi e la partecipazione attiva in importanti operazioni di finanziamento  o di acquisizione di altre corporation. 

Ciò è avvenuto con la “benedizione” della City, del governo di Londra e persino della Casa Reale britannica. Lex Greensill è stato consulente speciale per gli affari finanziari del governo di David Cameron, il quale nel 2018 ebbe l’incarico di special adviser della Greensill Capital. A coronamento di tutto ciò, la regina Elisabetta II nel 2017 nominò Lex Greensill “Comandante dell’Ordine dell’Impero Britannico”. Il cerchio magico si era così chiuso.

Di fronte a un così promettente pedigree, gli investitori sono stati pronti a partecipare all’affaire. Prima il fondo americano di private equity, General Atlantic, poi il conglomerato industriale-finanziario giapponese, SoftBank Group. Intanto, il valore di mercato della società aumentava quotidianamente. Del resto, oggi si stima in 55.000 miliardi di dollari il mercato supply-chain.

Con la cartolarizzazione, i “titoli salsiccia”, ovviamente con rendimenti superiori a quelli delle normali obbligazioni di Stato, sono stati piazzati a importanti clienti, tra cui la Global Asset Management (GAM), società di gestione patrimoniale svizzera. Anche il Credit Suisse  ne avrebbe comprato per i propri clienti per almeno 10 miliardi di dollari.

Per rendere i titoli più attraenti era necessario che fossero coperti da importanti compagnie assicurative internazionali. E qui entrò in campo la giapponese Tokyo Marine, che l’anno scorso, verificata la mancanza di solidità della Greensill Capital, decise di non rinnovare le garanzie assicurative su 4,6 miliardi di dollari di crediti.

 Nel 2014, Greensill Capital acquistò una banca tedesca, la Nordfinanz Bank AG di Brema, poi Greensill Bank AG, usata per espandere le operazioni della casa madre in molti settori e per raccogliere fondi anche da piccoli risparmiatori.

L’iniziale affidabilità della banca ha spinto molti comuni e altri enti pubblici tedeschi a investire in questi “titoli salsiccia”. Ora, purtroppo, la banca è esposta per oltre tre miliardi di euro. Perciò la Bafin, l’equivalente della nostra Consob, è stata costretta a sospendere la licenza e a fermare tutte le operazioni finanziarie della banca.

Le conseguenze globali dell’insolvenza della Greensill Capital sono tutte da verificare. Il rischio sistemico deve essere ancora misurato. La vicenda segue altri casi simili, come quelli di Wirecard e di GameStop.

Il ripetersi di questi disastri finanziari speculativi ripropone l’urgenza di una seria riforma del sistema finanziario internazionale e, comunque, almeno di un coordinamento tra le agenzie di controllo per tutelare i risparmiatori e i settori delle economie reali.

 *già sottosegretario all’Economia
**economista

 

 

L’importanza del coordinamento internazionale contro la corruzione

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Prima di fine anno l’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, ha organizzato l’International Anti-Corruption Day per mettere la lotta contro la corruzione al centro delle varie iniziative dei governi. E’un problema spinoso e importante. E’una delle grandi priorità, perché la corruzione per tutti i Paesi rappresenta una delle maggiori minacce alla crescita economica, mina i valori della democrazia, ed è una delle cause non secondarie delle disuguaglianze sociali.

Il tutto è stato oggetto della conferenza internazionale organizzata online dal Global Forum on Trasparency and Exchange of Information for Tax Purposes, durante la quale è stato presentato il rapporto 2020 pubblicato dal Forum. Si ricordi che il Forum Globale sulla trasparenza e lo scambio di informazioni a fini fiscali fu creato dall’Ocse nel 2000 e successivamente ripreso e promosso dal G20 nel 2009, quando affermò “la fine dell’era del segreto bancario”. Oggi esso coinvolge ben 161 giurisdizioni statali, tra membri dell’Ocse e altri partecipanti.

Anche la pandemia del Covid-19 ha fatto emergere l’urgenza di affrontare la “piaga globale” della corruzione. Al riguardo è partito un nuovo programma di lavori mirato a fronteggiare le situazioni di crisi e di emergenze, chiamato “Global Law Enforcement Response to Corruption in Crisis Situation”. Contemporaneamente l’Ocse interviene a sostegno delle attività dei governi con delle Raccomandazioni per l’Integrità Pubblica, con lo scopo di trasformare eventuali azioni isolate in una strategia globale. E’ certamente positivo che il Forum abbia realizzato un training specializzato sulla materia per parecchie migliaia di dirigenti pubblici. 

In verità, l’Ocse è sempre stata in prima fila in questa battaglia, fin dal 1999, quando diede inizio alla Anti-Bribery Convention, cioè al lavoro congiunto contro le frodi. Un lavoro importante, anche se, bisogna ammetterlo, ancora troppo lento: 615 individui e 203 entità legali sono stati finora scoperti e condannati per frode. Attualmente sono in corso 528 indagini in 28 Paesi.

Uno degli interventi di crescente importanza mira a disciplinare le attività di lobbying e promuoverne la trasparenza e la correttezza. Negli anni recenti le lobby hanno assunto un potere enorme. Operano con grandi mezzi finanziari, e anche con grandi competenze, per conto di interessi privati, spesso in contrapposizione con l’interesse pubblico degli Stati e delle comunità. Già prima della Grande Crisi si stimava che per ogni membro del Congresso americano vi fossero almeno tre agguerriti, e spesso molto preparati, lobbysti che lavoravano per far approvare progetti, programmi e riforme legislative fortemente desiderati dal mondo bancario, assicurativo e in generale dalla finanza. E non solo.

Più recentemente l’Ocse ha opportunamente elaborato delle linee guida per aiutare i governi nella lotta contro la corruzione che, non lo si dimentichi, da tempo sta penetrando le imprese controllate dallo Stato. I danni e i rischi sono enormi quando la corruzione e il crimine cercano di penetrare e controllare persino certe strutture pubbliche. Si metterebbe in discussione il concetto stesso di Stato e di autorità pubblica.

L’Ocse, per fortuna, è diventata particolarmente attiva anche nella lotta contro i crimini di carattere fiscale. Secondo il Global Forum report, 100 giurisdizioni statali nel 2019 si sono scambiate in modo automatico informazioni relative a 84 milioni di conti finanziari che rappresentavano asset per circa 10.000 miliardi di euro. Questo impegno dell’Ocse e del Global Forum, nel periodo 2009 -2020, ha reso possibile la “raccolta aggiuntiva” di oltre 107 miliardi di euro per il fisco, attraverso programmi di emersione volontaria, di indagini sui centri offshore e altre misure. Si noti che, di tale cifra, 29 miliardi sono stati raccolti nei Paesi in via di sviluppo.

L’Ocse ha favorito la creazione dell’Anti Corruption Working Group all’interno del G20 per promuovere la convergenza d’azione tra gli Stati membri e per sostenere l’applicazione di standard di comportamento e d’intervento. E’ un fatto importante. Lo è ancor di più perché nel 2021 la presidenza italiana del G20 intenderebbe porre come priorità la lotta internazionale contro la corruzione.

L’impegno del Global Forum e dell’Ocse per il 2021è di mantenere alto e puntuale lo scambio di informazioni tra i Paesi partecipanti, nonostante le restrizioni imposte dalla crisi sanitaria globale. Saranno apportati aggiustamenti se la pandemia dovesse creare delle situazioni difficili, perché la cooperazione internazionale nel campo fiscale non subisca rallentamenti. Allo scopo si è decisa la costituzione di una nuova Task Force on Risk per identificare preventivamente l’insorgere di rischi rispetto all’attuazione e al rispetto degli standard relativi agli scambi di informazioni.

Tutti provvedimenti opportuni che vanno nella giusta direzione. Tuttavia non si può dimenticare che la lotta alla corruzione potrà avere successo soltanto se la reputazione delle aziende, degli amministratori delegati, dei manager, dei governati pubblici sarà davvero elevata.

*già sottosegretario all’Economia **economista

LA SFIDA DELL’EURO DIGITALE

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

E’ in arrivo l’euro digitale. La Banca centrale europea da tempo sta lavorando per studiarne il metodo di emissione e di gestione, In merito ha recentemente pubblicato un rapporto preliminare. In vari paesi europei si stanno portando avanti dei test per verificare la complessità dell’operazione.

Nel vecchio continente si preparano anche i sistemi di “instant payment”, cioè di pagamenti istantanei con disponibilità immediata dei fondi trasferiti, che dovrebbe entrare in funzione entro la fine del 2021. Vari passi e consultazioni pubbliche sono stati fatti per ridefinire le regole, i controlli e tutta la relativa legislazione. Anche per attestare alla Bce il potere di sottoporre a controlli i cosiddetti “technology providers”, coloro che immettono nel sistema le nuove tecnologie fintech relative ai pagamenti e a tutte le altre operazioni finanziarie digitali.

Del resto non si può ignorare il fenomeno della digitalizzazione del sistema dei pagamenti, a cominciare da quelle degli acquisti dei privati. Nel 2019 le persone adulte della zona euro, in media, hanno compiuto due pagamenti al giorno. In un anno il mondo del retail europeo ha registrato 213 miliardi di operazioni di pagamento per un valore stimato in 164.000 miliardi di euro.

Il 73% di tutte le transazioni è stato fatto in cash, pari al 48% del valore in euro, in calo rispetto al 2016, quando i due rapporti erano rispettivamente del 79% e del 54%. Il resto, intorno al 24% del volume e al 41% del valore, è stato fatto con carte di credito.

Due grandi istituti di servizi finanziari e di emissione di carte di credito, VISA e Mastercard, entrambe con sedi negli Stati Uniti, hanno gestito due terzi di tutti i pagamenti con carte di credito nell’Ue. Le due, più la società americana PayPal, che offre servizi di pagamento digitale e di trasferimento di denaro tramite internet, dominano completamente il sistema dei pagamenti online in Europa.

Appare, perciò, doveroso per la Bce e per il Sistema europeo delle banche centrali entrare in campo direttamente nei settori dei pagamenti digitali. Stare alla finestra e guardare come il digitale sta rivoluzionando il mondo dei pagamenti e, in generale della finanza, vorrebbe dire rimanere all’ultimo posto della fila, buono soltanto a gestire eventuali danni e crisi provocate dai grandi operatori finanziari internazionali.

L’euro digitale sarebbe il primo passo, forse il più importante. Con esso l’Eurosystem assicurerebbe ai cittadini europei l’accesso a soluzioni efficienti di pagamento, garantendo al tempo stesso che le transazioni siano sicure. Esso affiancherebbe l’euro, nella forma tradizionale di moneta, mantenendo inalterata la sovranità monetaria.

Si ricordi che le banche centrali di tutti i paesi del mondo stanno creando delle proprie monete digitali, o già operano con esse, In ogni caso l’Europa ne verrebbe invasa e fortemente influenzata e destabilizzata.

Questi movimenti monetari digitali internazionali rischierebbero di rendere vani tutti gli strumenti di controllo e di regole costruiti dalla Bce. Soprattutto perché gli istituti, che dominano il sistema dei pagamenti digitali, sono i leader mondiali nello sviluppo di queste tecnologie e stanno diventando anche i primi operatori dei finanziamenti e del credito. Ciò renderebbe l’Europa vulnerabile e dipendente in un settore tecnologico chiave e sarebbe incapace di gestire moneta e credito, che fino a oggi avviene attraverso il sistema delle banche tradizionali.

Si tenga presente che oggigiorno la quantità di banconote in circolazione nell’area euro ammonta a circa €3.000 pro capite, per un totale di 1.200 miliardi. Si ipotizza una cifra simile di euro digitali che la Bce potrebbe mettere a disposizione, soltanto come mezzo di pagamento, praticamente a costo zero.

La Bce deve, però, “studiare” come evitare che esso diventi una forma d’investimento in concorrenza con altri strumenti finanziari. La Banca centrale non vorrebbe, pare, acquisire depositi in euro digitali. E’ tutto in discussione. E’ anche da definire se i pagamenti con la moneta digitale saranno fatti attraverso i conti tenuti presso la banca centrale oppure in altri modi, direttamente tra chi paga e chi riceve.

L’euro digitale potrebbe diventare accessibile anche fuori dall’eurozona. D’altra parte, si ricordi che già nel 2016 il 30% di tutto il cash in euro circolante era detenuto fuori dai confini europei.

Uno degli aspetti rilevanti dell’operazione riguarda anche il futuro delle banche e del sistema bancario europeo. Un effetto evidente sarebbe la diminuzione dei depositi dei cittadini e delle imprese e quindi la riduzione di tutta una serie di attività a essi correlate. Ci si chiede, tra l’altro, se la Bce dovrà continuare, oltre i tempi di ripresa dalla Grande Crisi e dal Covid, con le varie operazioni di quantitative easing per sopperire alla mancanza di asset da parte delle banche.

Inevitabilmente la discussione riguarda anche l’infrastruttura e i principi su cui si basano le banche centrali, come la definizione dei tassi di interesse e dei livelli di moneta in circolazione.

L’euro digitale, così come le altre monete digitali create dalle banche centrali, avrebbe un valore fisso, sarebbe accessibile universalmente e sarebbe uno strumento valido e legale in tutte le transazioni. Caratteristiche che lo rendono completamente differente rispetto alle monete virtuali create da enti privati. E, naturalmente, manterrebbe la sovranità monetaria dell’Unione europea. Tutte scelte non facili, ma il cammino sembra tracciato.

*già sottosegretario all’Economia **economista