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Organi sessuali e civiltà

Gli organi sessuali sono preposti a tre funzioni: biologica, erotica e riproduttiva. La natura ha concentrato in un unico organo tre funzioni molto diverse. Non può averlo fatto soltanto per motivi “economici”, anche perché la funzione biologica ripugna a quella erotica e quest’ultima guarda con timore quella riproduttiva. Ci deve essere dietro alla motivazione “economica” (che potremmo chiamare anche “fenomenologica”, essendo molto evidente), una motivazione di tipo ontologico, cioè più profonda.

Qui sembra esservi espressa un’intelligenza di tipo etico, che appare inverosimile in ciò che siamo soliti definire col termine di “natura”. Sembra cioè di avere a che fare con una natura dall’intelligenza umana, in grado di prevedere un uso sbagliato, unilaterale, di una funzione, quella erotica, e quindi in grado di aiutarci a prevenirlo senza alcuna particolare forzatura, semplicemente mettendoci di fronte alle nostre responsabilità, come ci accade quando leggiamo quegli avvisi presso le centrali elettriche: “Chi tocca i fili, muore!”.

E’ come se la natura avesse predisposto che i nostri organi sessuali non possano essere usati nelle loro funzioni separate, se non in via temporanea o transitoria. In ultima istanza le funzioni devono restare correlate, poiché, quando non lo sono, occorre chiedersi se ciò sia naturale. Facciamo degli esempi:

  1. se l’erotismo è fine a se stesso, la perversione diventa inevitabile, come p. es. nella pornografia, nella prostituzione, ecc.;
  2. se il biologismo esclude per principio la riproduzione, diventa una forzatura, come p. es. nel celibato dei preti, negli eunuchi, ecc.;
  3. se la riproduzione viene resa obbligatoria, diventa un’ideologia, come quando la chiesa chiede una piena disponibilità a procreare ogni volta che si hanno rapporti sessuali, oppure quando si costringe la donna al solo ruolo di madre.

Questi sono tutti atteggiamenti contronatura. Quindi dovremmo ammettere che la natura ha previsto una coesistenza equilibrata di aspetti etici ed estetici, oltre che fisiologici. Ora quand’è che viene meno questo equilibrio? Viene meno quanto più l’umano si allontana dal naturale, cioè quanto più frappone tra sé e il naturale qualcosa di artificiale. L’essere umano è l’unico ente di natura in grado di farlo. L’artificio, ovvero il mezzo meccanico, gli permette di vivere un erotismo fine a se stesso o comunque non finalizzato alla riproduzione.

Per certa ideologia religiosa questo è peccato, ma i diretti interessati sanno bene che in una società conflittuale, dove il naturale è quasi del tutto scomparso, la riproduzione può avere costi proibitivi. Non voler rendersi conto di questo “handicap”, significa appunto essere schematici, farisei.

Dunque che possibilità abbiamo di ripristinare le funzioni naturali degli organi sessuali? Al momento nessuna. Anzi, la vita è così artificiale e complicata che persino la riproduzione si sta meccanizzando sempre di più, proprio in quanto le coppie sono sempre più restie a riprodursi e quelle infertili e sterili aumentano progressivamente, senza sosta.

Questo è un sintomo abbastanza eloquente e non possiamo certo minimizzarlo scegliendo come alternativa l’adozione di bambini abbandonati. Se nella riproduzione prevale l’artificiale, la natura, ad un certo punto, non sa più che farsene di noi e tende a emarginarci, a espellerci dal suo circuito riproduttivo e quindi addirittura dalla storia, sua e nostra. Noi infatti ci siamo illusi che i mezzi meccanici non potessero avere su di noi conseguenze irreparabili e che si potesse in qualunque momento fare un’inversione di marcia.

Questo, ovviamente, non è un problema della sola nostra società, bensì dell’intera civiltà industrializzata. Guardando come si è evoluto, sarebbe bene che il sistema capitalistico scomparisse dalla faccia della terra, proprio per permettere alla natura e a quelle poche popolazioni che vivono ancora in maniera naturale, di salvaguardarsi e, possibilmente, di farlo nel migliore dei modi.

Noi occidentali non dovremmo preoccuparci d’essere emarginati o espulsi dalla natura e dalla storia, quanto piuttosto di come favorire le condizioni perché qualcuno possa sopravvivere a un nostro declino che pare irreversibile. Il destino dell’umanità infatti è quello di popolare l’intero universo, ma nelle condizioni in cui attualmente ci troviamo, noi occidentali di sicuro siamo la popolazione meno adatta.

Macchinismo, natura e guerre

Se ci sono soltanto macchine avanzate che possono sostituirsi agli operai, che possono cioè fare a meno di molti operai manuali, pur non potendo fare a meno di operai intellettuali, in grado di far lavorare queste macchine attraverso un computer, il capitalismo non funziona. Un capitalismo del genere produce merci che costano di più rispetto a quel capitalismo che ha macchine meno avanzate ma più operai da sfruttare.

Marx aveva già individuato che esiste una caduta tendenziale del saggio di profitto dovuta al rinnovo periodico del capitale fisso. L’impresa guadagna all’inizio, appena ha introdotto le nuove macchine, e a condizione di poter vendere in maniera costante, ma poi le macchine vengono acquisite da altre aziende concorrenti e le stesse macchine diventano col tempo obsolete, proprio perché la produzione ha ritmi frenetici nel sistema capitalistico.

Gli investimenti per ristrutturare (resi sempre più necessari dalla competizione globale) non sortiscono gli effetti sperati, anche perché: 1. gli operai dei paesi occidentali non possono essere pagati come quelli dei paesi che iniziano adesso a industrializzarsi; 2. se, in forza dell’innovazione tecnologica, vi sono meno operai che producono e che quindi acquistano meno merci, queste rischiano di restare invendute.

La conseguenza inevitabile è, paradossalmente, che quanto più si rinnova il capitale fisso, tanto più si rischia la sovrapproduzione. Alla faccia della cosiddetta “qualità totale”. Se non fosse crollato il socialismo reale, sarebbe crollato il capitalismo, ovvero sarebbe scoppiata una nuova guerra mondiale per ripristinare le regole dell’imperialismo delle due guerre precedenti.

Tuttavia è impossibile, in presenza di una competizione mondiale, non innovare il macchinario. Se il capitale non si autovalorizza costantemente, s’impoverisce: non riesce a rimanere invariato, proprio perché esiste competizione. L’alternativa, se non si vuole delocalizzare l’impresa, è quella di chiuderla, investendo finanziariamente i propri capitali.

Volendo crescere a tutti i costi, il capitale preferisce il settore finanziario, che è meno esposto ai rischi della competizione, meno stressato dall’esigenze di rinnovare gli impianti e di collocare le merci, di contrattare con la forza-lavoro. Nei paesi avanzati la ricchezza tende a smaterializzarsi completamente.

I paesi che una volta definivamo del “Terzo Mondo” ci stanno facendo capire, a nostre spese, che, sotto il capitalismo, la capacità di fare profitto non dipende affatto dal grado di perfezione delle macchine. Quando gli imprenditori occidentali dicono che, per competere sulla scena mondiale, dobbiamo produrre cose di più alta qualità, lo dicono solo perché in questa maniera possono ricattare i loro lavoratori, ma essi sanno bene che lo sviluppo ineguale del capitalismo permette loro di ottenere più alti profitti anche con macchinari obsoleti, a condizione che la manodopera sia molto meno costosa.

Al capitale interessa vendere, non tanto produrre cose di alta qualità, e per vendere ci vogliono ampi mercati. Quelli occidentali sono mercati saturi, anche se con la pubblicità si fa di tutto per indurre l’acquirente a cambiare elettrodomestici, mezzi di trasporto e mezzi di comunicazione con molta frequenza.

Quando si delocalizza in un paese che fino a ieri era povero perché colonizzato o perché comunista, dove i salari mensili sono, rispetto ai nostri, incredibilmente bassi, non ha senso produrre cose di alta qualità, che nessuno, peraltro, sarebbe in grado di acquistare. E’ sufficiente produrre cose di media qualità, alla portata di un mercato significativo, che escluda soprattutto il rischio della sovrapproduzione, vera bestia nera del capitale.

E’ noto che l’imprenditore usa la macchina contro l’operaio, per poter avere meno operai possibili, ma poi la macchina si rivolta contro lo stesso imprenditore, poiché lo obbliga a vendere più di quanto vendeva prima. Per poter sopravvivere sfruttandola al massimo, il capitalista deve porre condizioni ricattatorie ai propri operai o minacciare di delocalizzare gli impianti in aree geografiche dove sicuramente non avrebbe problemi sindacali con la manodopera, anzi, avrebbe incentivi fiscali da parte degli Stati che vogliono modernizzarsi in senso borghese.

In occidente il capitalismo è destinato a morire, a meno che i lavoratori non vengano ridotti in schiavitù (pur conservando le formali libertà giuridiche), non venga smantellato lo Stato sociale (e quindi privatizzata la scuola, la sanità, la previdenza ecc.) e non vi sia concorrenza tra imprenditori. Tutte condizioni che non hanno senso sotto il capitalismo cosiddetto “avanzato”, che è quello delle società uscite dalla seconda guerra mondiale.

Condizioni del genere potrebbero verificarsi se invece di società “democratiche” avessimo società “autoritarie”, dittatoriali, che facessero esclusivamente gli interessi degli imprenditori, i quali non avrebbero bisogno di competere tra loro, in quanto sarebbero protetti dalle istituzioni. Ma uno Stato del genere non può esistere in un paese occidentale (Europa, Usa, Canada…), dove una qualunque istituzione viene sempre vista in funzione dell’interesse privato dell’imprenditore.

Da noi gli Stati sono in funzione dei singoli imprenditori privati, materialmente (nel senso che ricevono benefit da parte degli Stati) e anche come logica di sistema (nel senso che lo Stato, pur vigendo l’idea formale dell’equidistanza delle istituzioni rispetto agli interessi in gioco, non si pone mai contro gli imprenditori). Sono semmai i lavoratori che cercano di strappare diritti sia allo Stato che all’imprenditoria privata.

Il capitalismo euroamericano deve per forza lasciare il testimone ad altre nazioni, dove la politica abbia un peso maggiore rispetto a quello che ha da noi, e dove l’economia produttiva abbia la sua ragion d’essere e la ricchezza non sia solo finanziaria.

I grandi Stati in grado di ereditare il testimone sono la Russia, per l’enorme quantità delle sue risorse, la Cina e l’India, per l’enorme quantità di manodopera disponibile a basso costo. Di questi Stati l’unico in grado di ereditare velocemente la formale democrazia borghese è la Russia, che ha radici cristiane e che già nel passato si lasciava influenzare dalla cultura europea.

Il problema è che la Russia ha un territorio assolutamente sproporzionato rispetto all’entità della propria popolazione. Quindi inevitabilmente il futuro, nell’ambito del capitalismo, non è russo ma cinese: sarà la Cina ad appropriarsi delle immense ricchezze della Siberia. Solo che la Cina deve ancora imparare l’abc della democrazia formale borghese. Anzi, sotto questo aspetto, tra i paesi asiatici è molto più avanti l’India, che però ancora non ha risolto il problema delle caste e che resta ancora troppo “religiosa” per poter diventare pienamente “borghese”.

Il capitalismo, così com’è, può solo peggiorare, può soltanto trasformarsi in una dittatura poliziesca, in cui il ruolo di un partito di governo molto disciplinato, di uno Stato centralizzato, di un numero spropositato di militari, di un vasto consenso sociale faccia la differenza tra un vecchio Stato capitalista e uno nuovo. Difficile pensare che un ruolo del genere possa essere giocato, nei secoli a venire, dall’Europa, dalla Russia o dagli Stati Uniti. Nessuno di loro possiede tutte queste cose messe insieme.

L’alternativa a tutto ciò è la costruzione di una nuova civiltà, che potrebbe mettere radici adesso, ipotizzando il proprio sviluppo nell’arco dei prossimi cinquecento anni. Una civiltà che anzitutto deve superare il concetto di “macchinismo”. L’uomo infatti nasce “artigiano” non “operaio”, anche perché se la macchina lavora per lui, lui perde interesse al lavoro, anche nel caso in cui la macchina sia di sua proprietà.

L’operaio non è “alienato” solo perché il suo lavoro è “separato” dai suoi mezzi di produzione e quindi dai beni che produce, che giuridicamente non gli appartengono, ma è “alienato” anche perché ha a che fare con una macchina che lo disumanizza, che rende il lavoro monotono e ripetitivo.

Un qualunque oggetto prodotto deve poter essere ristrutturato per scopi diversi. Oggi questo è impossibile. Gli oggetti sono così complessi che per essere riutilizzati vanno prima completamente smontati, dopodiché si riutilizzano pochissimi singoli pezzi per lo stesso scopo per cui erano nati. Di un’auto si fa un cubo pressato: non la si manda neppure in fonderia per recuperare il metallo usato. Spesso non conviene neppure disassemblare, in quanto il costo del lavoro è superiore al valore dei pezzi da riciclare.

Oggi, quando un oggetto non serve più (si pensi p.es. a una semplice penna a sfera), perché usato da molto tempo, perché ha finito il suo ciclo produttivo, perché superato dal progresso, perché non più funzionante come all’inizio, ecc., noi non cerchiamo di ripararlo, di sostituire quel pezzo che gli permette ancora all’oggetto di funzionare, ma semplicemente lo buttiamo, inquinando irreparabilmente l’ambiente. Così ci è stato insegnato: noi anzitutto dobbiamo essere “consumatori”. Un qualunque elettrodomestico non può durare più di dieci anni: lo sappiamo sin dal momento in cui lo acquistiamo.

La nostra civiltà della produzione illimitata di oggetti tecnologici sta diventando un’enorme civiltà di rifiuti, i cui costi di smaltimento o di riciclaggio sono superiori al loro stesso valore.

Ecco perché una civiltà davvero democratica dovrà limitarsi a produrre soltanto quegli oggetti che abbiamo un impatto minimo, irrisorio, sulla natura. La trasformazione delle risorse naturali ha un limite oltre il quale non è possibile andare, ed è appunto quello della riproducibilità della stessa natura, che va garantita sopra ogni cosa.

Senza inversione di rotta ci attende solo la desertificazione, anche in assenza di guerre mondiali. E in ogni caso le guerre diventano inevitabili quando nei periodi di pace non s’intravvedono i modi per risolvere i problemi sociali e ambientali. Le guerre vengono fatte proprio quando si pensa ch’esse possano costituire una soluzione estrema.