Articoli

I giochi pericolosi della guerra dei dazi

 

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

L’ha detto recentemente anche Mario Draghi, il presidente della Banca centrale europea:“Nel protezionismo i mercati sembrano vedere molto di più che un danno all’economia. Potrebbero vederci un fenomeno molto più ampio che mette in dubbio l’intero ordine multilaterale raggiunto dopo la seconda guerra mondiale. Le incertezze sui dazi sono aumentate“. Il rischio, poi, è che la guerra dei dazi possa degenerare in guerra delle valute.

Le altalenanti minacce americane “dazi si-dazi no”, le ritorsioni, le sospensioni condizionate hanno creato l’instabilità che l’intero sistema economico mondiale sta pagando. Finora non ci ha guadagnato nessuno, non gli Usa, non la Cina e tanto meno l’Europa.

L’Europa e, di conseguenza, anche l’Italia ci rimettono più di tutti.

Direttamente, quando i dazi sono imposti sui settori agroalimentari e dell’auto. Giustamente la Coldiretti teme che la “black list” americana colpisca pesantemente i prodotti agroalimentari del made in Italy che sono esportati fuori dai confini comunitari per ben 4,2 miliardi di euro.

Dopo i settori dell’acciaio e dell’alluminio, il bersaglio numero uno dei dazi americani è quello dell’auto, in particolare le imprese automobilistiche tedesche. La Germania, com’è noto, esporta negli Usa auto per 42 miliardi di dollari. Il che significa un duro colpo anche per le imprese italiane della componentistica i cui prodotti sono esportati in Germania. La Germania, si ricordi, è il primo partner commerciale mondiale dell’Italia.

Poi indirettamente, poiché i dazi imposti alla Cina o al Messico colpiscono soprattutto prodotti altamente tecnologici, di cui molte parti provengono dall’Europa.

Inoltre, un’importante area di scontro è quella dell’aviazione civile, tra la Boeing americana e l’Airbus europea. Washington si lamenta dei sussidi erogati dall’Unione europea, dimenticandosi che tutti i suoi settori tecnologicamente importanti, militari e civili, godono da sempre di sostanziosi sostegni statali. Trump ha avuto l’ardire di portare la controversia persino davanti all’Organizzazione del Commercio Mondiale, la stessa istituzione che quotidianamente boicotta. 

I dazi nei confronti della Cina, inizialmente del 10%, poi aumentate al 20%, su 200 miliardi di dollari di prodotti cinesi, potrebbero vedere una pericolosa escalation con dazi del 25% su altri 325 miliardi. Pechino ha annunciato le sue ritorsioni su 60 miliardi di dollari di prodotti americani. Per esempio, sulle importazioni di soia, che finora coprivano il 60% della produzione americana.

Una delle aree di scontro più pericoloso verte intorno alle tecnologie informatiche, considerate di rischio per la sicurezza nazionale americana. Di conseguenza Trump si è mosso per il blocco verso l’azienda cinese Huawei e altre imprese simili. Come risposta, Pechino ha fatto subito sapere di voler sfruttare la sua posizione di principale esportatore mondiale di materiali delle cosiddette “terre rare” utilizzati per le tecnologie avanzate.

Si tenga inoltre presente che la Cina possiede obbligazioni del Tesoro americano per più di mille miliardi di dollari.

Anche la minaccia di Trump di applicare il 5% di dazi su tutti i beni importati dal Messico, per poi alzarli fino al 25%, andrebbe a colpire, tra l’altro, i settori delle automobili, dei mezzi di locomozione e dei televisori, dove la componentistica europea è molto rilevante.

Il Messico è il terzo partner commerciale degli Usa con circa 265 miliardi di dollari di esportazioni di merci. Negli anni passati molti produttori americani vi hanno trasferito le loro fabbriche per sfruttare il basso costo della mano d’opera. Gli effetti dei dazi non penalizzeranno solo gli esportatori messicani ma anche gli importatori americani, che, poi, aumenteranno ovviamente i prezzi per i consumatori finali.

Poiché la questione è il blocco dei flussi immigratori, la guerra dei dazi diventa immediatamente una guerra sociale con conseguente destabilizzazione politica. Trump, però, non può ignorare che la questione immigrazione ha ragioni economiche e sociali profonde e dimensioni epocali.  

Recentemente gli Usa hanno tolto anche l’India e la Turchia dalla lista dei partner commerciali privilegiati, costringendo persino Nuova Delhi, da sempre amica di Washington, a reagire con delle contromisure commerciali.

In America, comunque, cresce l’opposizione contro la politica dei dazi e c’è la campagna “Tariffs hurt the heartland”, sostenuta da 150 organizzazioni di vari settori produttivi, che lamenta come i dazi colpiscano il cuore del paese e rischino di generare la perdita di 2 milioni di posti di lavoro.

Non sfugge che l’intento di Trump sia di colpire l’Unione europea. A Londra ha esplicitamente invitato la Gran Bretagna a uscire dall’Ue e le ha offerto accordi commerciali superprivilegiati. E’ un atteggiamento che va ben oltre l’attitudine di Trump!

E’ chiaro, tuttavia, che sono in gioco le strategie della grande finanza e i corposi interessi geopolitici di quel sistema che si chiama, fin dai tempi del presidente Eisenhower, “il complesso militare industriale americano”.

Pur mantenendo strette relazioni con gli Usa, il nostro alleato storico, l’Ue dovrebbe sfidare certi disegni dell’unilateralismo di oltre Atlantico. Potrebbe, invece, diventare il perno principale per la creazione di un nuovo sistema monetario internazionale basato su un paniere delle monete più importanti e non soltanto sul dollaro. Così potrebbe svolgere un’importante funzione di equilibrio geoeconomico e geopolitico tra gli attuali grandi attori internazionali.

*già sottosegretario all’Economia **economista

 

PAOLO SAVONA EUROPEISTA RITROVATO?

Paolo Savona, ritrovato europeista?

 di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

 Per alcuni potrebbe essere una sorpresa, ma il discorso di Paolo Savona alla sua prima conferenza annuale come presidente della Consob, l’Autorità italiana per la vigilanza dei mercati finanziari, è stato certamente interessante. Per correttezza dovrebbe essere valutato come economista e studioso dei processi economico-finanziari. Mettendo da parte le sue recenti disavventure politiche. Alcune sue sono analisi e proposte meritano una più attenta valutazione. 

 Anzitutto la proposta di “un’azione congiunta del settore privato e pubblico italiano per attuare investimenti aggiuntivi nell’ordine di 20 miliardi di euro, utilizzando il risparmio interno” . Secondo noi, sarebbe un’iniziativa praticabile da subito, eventualmente con la partecipazione della Cassa Depositi e Prestiti, o in altro modo.

 Si potrebbe creare l’equivalente di una banca o di un fondo di sviluppo, senza generare nuovo debito e fuori dal computo del debito pubblico. Lo fa già la banca di sviluppo tedesca Kreditanstalt fuer Wiederaufbau, largamente partecipata dallo Stato. La CDP porterebbe nel fondo una parte dei capitali e potrebbe coinvolgere investitori privati a fare altrettanto. Dovrebbero, poi, essere emesse delle obbligazioni, con le dovute garanzie, indirizzate a investimenti nei settori trainanti dell’economia reale, a cominciare dalle infrastrutture e dall’innovazione tecnologica. 

 Savona ha correttamente sottolineato che l’export e il risparmio sono i “traini” della nostra economia. Un export che vale il 31,8% del pil, con un surplus commerciale medio di 43,4 miliardi nell’ultimo triennio. E’ frutto dell’iniziativa, della creatività e della competitività delle nostre imprese. 

 Allo stesso tempo, però, la narrazione della nostra instabilità e la percezione del rischio fanno sì che il grande risparmio delle famiglie e delle imprese defluisca all’estero, ponendosi al servizio dello sviluppo altrui. Si ricordi che soltanto il 5,9% del debito pubblico è posseduto dalle famiglie italiane. E’, quindi, una priorità fornire ai risparmiatori le necessarie garanzie e gli strumenti adatti se si vuole davvero canalizzare il risparmio verso gli  investimenti e lo sviluppo della nostra economia.

 Savona sostiene anche una seconda proposta, la creazione di titoli europei privi di rischio, gli european safe asset. Di fatto è un altro nome per eurobond. Oggi molta liquidità europea è spinta ad acquistare obbligazione del Tesoro americano e, quindi, va a sostenere la crescita degli Usa invece che quella europea. Anche le banche europee sarebbero libere di scegliere questi titoli per i loro investimenti garantiti dal rischio. L’European Stability Mechanism è in grado di emettere simili titoli.

 Savona riconosce che “l’euro ne uscirebbe rafforzato come valuta internazionale”. L’ESM dovrebbe poi concedere i fondi raccolti per prestiti agli Stati membri che disporrebbero di una fonte alternativa e a basso costo per il finanziamento del loro debito pubblico. Il presidente della Consob appoggia anche la creazione nell’Ue di un Capital Market Union, un mercato europeo dei capitali, dove anche il risparmio italiano abbia la sua giusta e pari considerazione. Rilevante è stato anche il suo breve excursus storico sul processo di finanziarizzazione dell’economia e sulle errate politiche della finanza americana. In particolare ha indicato come “l’espansione virulenta dei derivati sia stato il veicolo che ha travolto il sistema dei controlli e causato la seconda Grande crisi globale in meno di un secolo”.  Al riguardo il presidente della Consob ha sollecitato azioni internazionali congiunte miranti ad armonizzare le regole finanziarie. Cioè la riforma del sistema.

 Condivisibile è la netta differenziazione che Savona ha fatto tra cripto valute e la tecnologia del “block chain” anche da esse utilizzata. Riguardo alle prime, giustamente ha affermato che, se fossero in mano privata, “il sistema monetario verrebbe sconvolto e il sistema finanziario coinvolto”. Egli auspica, perciò, che diventino di monopolio pubblico. La tecnologia utilizzata, invece, merita di essere studiata, in quanto un regime contabile criptato potrebbe garantire una maggiore trasparenza delle operazioni finanziarie.

 L’area dell’intelligenza artificiale è molto complessa e richiederà approfonditi studi. Noi restiamo molto scettici circa l’obiettività degli algoritmi, come dimostrano i continui scossoni provocati sui mercati dalle operazioni di high frequency trading fatte con l’utilizzo di supercomputer.

 

E’, comunque, metodologicamente corretta la polemica di Savona riguardo agli strumenti statistici convenzionali datati e ”all’uso consueto di medie non rappresentative dell’universo”, nonché riguardo ai vecchi parametri che potrebbero portare a valutazioni distorte delle reali condizioni, anche quelle dell’economia italiana.

 In conclusione, il ritrovato europeista Savona invita in particolare i governi dell’Unione europea a prendere atto della loro forza geo-economica e politica per modificare l’architettura istituzionale internazionale di un mondo non più diviso in blocchi politici contrapposti ma suddiviso dalla concorrenza tra grandi aree geografiche e dalle innovazioni tecnologiche. Occorre, però, anche secondo noi, prendere atto della necessità di evitare le guerre commerciali anche per non coinvolgere le valute attuali. Prendere atto dell’interdipendenza tra gli Stati, nella consapevolezza che è impossibile tornare indietro e che il mondo, volenti o nolenti, è diventato globale.

*già sottosegretario all’Economia  **economista

 

Deutsche Bank: con la crisi aumentano i suoi manager milionari

Deutsche Bank: con la crisi aumentano i suoi manager milionari

Mario Lettieri * Paolo Raimondi**

In Europa nel settore bancario ognuno ha i suoi guai e i suoi compiti a casa da fare. L’Italia ha i crediti inesigibili da smaltire, la Germania ha la Deutsche Bank, il colosso sempre più traballante da sistemare. A ciò si aggiungano le mine vaganti delle banche “too big to fail” negli Stati Uniti che, come più volte sottolineato, rappresentano sempre un rischio sistemico. 

Da qualche tempo le azioni DB sono in caduta libera: sono scese sotto i 7 euro. Valevano ancora 20 euro nel 2017.

Non a caso i vari tentativi di salvataggio sono falliti. In particolare il piano di fusione con la banca tedesca numero due, la Kommerzbank, partecipata per il 15% dallo Stato. Si è dovuto prendere atto che, sommando i problemi delle due banche, non si sarebbe ottenuta una soluzione positiva. La DB è pur sempre un colosso con 200.000 clienti, mentre la Kommerzbank ne conta 180.000. Insieme sarebbero diventate la seconda banca europea per dimensioni, dopo l’inglese Hong Kong Shangai Bank Corporation.

Negli ambienti bancari si stima che, per restare a galla, la DB dovrebbe licenziare almeno 20.000 dei suoi attuali 90.000 impiegati. Anche in terra germanica, invece di rivedere il modello di business e di cambiare gli orientamenti e le priorità della gestione bancaria, si preferisce, purtroppo, penalizzare il lavoro e la tradizionale sana politica del credito alle famiglie e alle imprese. Del resto, si tenga presente che entrambe le banche tedesche sono partecipate da due tra i più speculativi hedge fund americani, Cerberus e Black Rock.   

Si ricordi che la Deutsche Bank ha il record di derivati finanziari per oltre 43.500 miliardi di euro, un po’ di più dei livelli delle tre banche americane, la JP Morgan Chase, la Citigoup e la Goldman Sachs. Il suo ammontare di attivi pari a circa 1.600 miliardi di euro contrasta con i soli 15 miliardi di capitalizzazione: uno tra i più squilibrati rapporti al mondo!

Secondo uno studio del quotidiano francese Les Echos, incomprensibilmente essa occupa anche il primo posto nella classifica delle banche europee con il più alto numero di manager con stipendi superiori al milione di euro: ben 643! Seconda è la Barclays inglese con 542. La nostra Intesa Sanpaolo è dodicesima con 33 dirigenti milionari.

In altre parole, le banche più attive nella speculazione e, di conseguenza più a rischio, pagano profumatamente chi, di fatto, le “pilota” nelle acque più burrascose e limacciose del business finanziario. Infatti, nella BD è proprio il capo del settore investment banking a guadagnare il massimo, 8,6 milioni di euro nel 2018! Ci sfugge la razionalità di tutto ciò.  

Qualche anno fa sembrava che la partecipazione in DB di HNA, il conglomerato cinese dell’aviazione e della logistica, avesse portato nuovi capitali e un po’ di stabilità, diventandone, di fatto, il maggiore azionista. Ma per realizzare simili operazioni il gruppo cinese si era pesantemente indebitato tanto da giungere alla soglia del collasso, costringendolo a una progressiva ritirata. 

L’uscita della HNA aveva momentaneamente aperto la strada della fusione con la Kommerzbank che, si ricordi, nel mezzo della crisi finanziaria globale, aveva già evitato la bancarotta solo per l’intervento di salvataggio del governo tedesco con oltre 16 miliardi di euro, in seguito, comunque, restituiti allo Stato.

In verità, è da un decennio che la DB è continuamente sotto osservazione e sotto indagini da parte delle autorità tedesche, inglesi e soprattutto americane. Si stima che nel periodo 2015-2017 essa abbia dovuto pagare soltanto agli enti di controllo americani e inglesi ben 11,2 miliardi di dollari in multe e condanne giudiziarie per varie truffe e per altri comportamenti finanziari sanzionabili, tenuti prima e dopo la crisi del 2008.

Più recentemente negli Usa la banca tedesca è coinvolta in alcune importanti indagini. La prima è relativa a una possibile frode bancaria attribuibile a Trump. Il presidente americano e tre dei suoi figli hanno presentato alla corte di New York  la richiesta di non trasmettere i dati relativi ai propri conti bancari presso la Deutsche Bank e la Capital One Financial Corporation, richiesti dal Congresso americano. La seconda ha a che fare con operazioni di riciclaggio di soldi sporchi da parte della Danske Bank, legata alla DB. Si indaga, poi, su un suo possibile ruolo nell’evasione fiscale di alcuni suoi clienti, come emerso nei famosi Panama Papers.  

Una cosa che disturba i tedeschi è quello che loro chiamano “Shadenfruede”,  cioè il piacere di alcuni per le disgrazie altrui. E’ la stessa irritazione che si prova anche in Italia quando alcuni esponenti europei si compiacciono delle nostre difficoltà.

Non è nostra intenzione discutere in questo modo dei problemi della Deutsche Bank. Al contrario, vorremmo che ci fosse un serio approccio europeo unitario nell’affrontare questi e altri problemi. L’Europa si costruisce anche con la condivisione degli intenti e degli impegni nei campi più importanti. E quello bancario certamente lo è.

*già sottosegretario all’Economia **economista

FINALMENTE UN’INIZIATIVA SERIA PER L’AFRICA.

Grandi investimenti per salvare il lago Ciad. Il ruolo del “Progetto Transaqua”

Mario Lettieri*  Paolo Raimondi**

Il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha recentemente dichiarato l’intenzione di affiancare il presidente della Nigeria, Muhammadu Buhari, nella raccolta di fondi per la realizzazione del progetto di “trasferimento idrico” dalla regione dell’Africa centrale verso il Lago Ciad, nel Sahel. Intendono presenziare insieme a un Forum Speciale dove coinvolgere sponsor pubblici e privati per finanziare il progetto.

L’intero grande progetto richiederebbe 50 miliardi di dollari che i paesi direttamente interessati dal bacino acquifero del lago Ciad, cioè la Nigeria, il Camerun, il Niger e il Ciad, ovviamente non sarebbero da soli in grado di disporre.

L’accordo è stato mediato dall’African Development Bank, che negli anni passati si è mossa con grande impegno per la realizzazione d’infrastrutture in Africa e portare il continente e la sua popolazione fuori dal sottosviluppo e dal continuo spettro della povertà.

A causa di una gestione del lago quasi inesistente e, soprattutto, dell’avanzamento del deserto, nei decenni passati il lago ha perso il 90% della sua superficie, con catastrofici effetti climatici e sociali.

Come è risaputo, intorno al bacino del lago vivono circa 30 milioni di persone che di giorno in giorno vedono le loro vite e il loro futuro sempre più minacciati. Di conseguenza, sono sorti conflitti tra i paesi rivieraschi per l’approvvigionamento dell’acqua e forti tensioni tra agricoltori e pescatori. Una vera lotta tra poveri.

Non c’è quindi da essere sorpresi se i giovani di queste terre vogliano o debbano emigrare e se altri possano finire nelle reti del terrorismo e del crimine organizzato. Com’è noto sono proprio la mancanza di lavoro e le guerre locali, le cause principali delle migrazioni anche verso l’Europa.

E’ il caso di ricordare che la parte centrale del programma d’investimenti ipotizzato sarebbe la realizzazione del “Progetto Transaqua”, elaborato ben 40 anni fa dall’impresa italiana “Bonifica” del gruppo IRI per la creazione di un canale lungo 2.400 km per portare acqua dolce dal fiume Congo verso il lago Chad.

Già nel febbraio 2018 nella conferenza internazionale sul lago Ciad, tenutasi ad Abuja in Nigeria con la partecipazione anche dell’Italia e dell’Unesco, si era sostenuto con forza la realizzazione di Transaqua. Allo stato, il trasferimento idrico tra i bacini acquiferi non ci sembra un’opzione né un “miraggio faraonico” ma una vera e propria necessità.

Si prevede il trasferimento di 100 miliardi di metri cubi di acqua all’anno dal bacino del fiume Congo al lago Ciad, equivalente a circa l’8% della portata del fiume, che, comunque, la scarica tutta nell’Oceano Atlantico. Il piano prevede anche la costruzione di un sistema di dighe, bacini artificiali e canali che forniranno energia pulita, trasporto fluviale e acqua dolce per le popolazioni interessate e per lo sviluppo di un moderno settore agroindustriale nell’Africa Centrale.

Transaqua affronta molti aspetti della crisi africana, offrendo la possibilità di lavoro e benefici per i paesi a sud del Sahel, inclusa la Repubblica Democratica del Congo, che metterebbe a disposizione l’acqua in cambio di un importante arricchimento infrastrutturale e produttivo.

Come prevedibile, la Cina è il primo paese a essere interessato, non solo per ragioni geopolitiche ma anche per soddisfare la sua necessità di importare beni alimentari.

Già nel 2016 PowerChina, il gigantesco conglomerato industriale cinese che ha costruito anche la diga delle Tre Gole, aveva discusso del progetto con il governo della Nigeria esprimendo la sua disponibilità a partecipare al finanziamento e alla realizzazione dello stesso.

Oltre ai grandi investimenti miliardari in molti paesi dell’Africa, Pechino organizza ogni due anni uno specifico forum con la partecipazione di tutti i capi di stato africani. L’ultimo si è tenuto lo scorso settembre dove la Cina ha presentato il piano d’integrazione dell’Africa nelle Vie della Seta, la Belt and Road Initiative.

Nel frattempo si è mossa anche la Russia che il prossimo ottobre organizzerà il primo Russian African Summit con i leader di tutti i paesi africani.

L’Italia, fin dai tempi di Enrico Mattei, è sempre stata attenta all’idea di una vera cooperazione e dello sviluppo dell’Africa. Da sola, però, non è riuscita a smuovere gli altri grandi attori occidentali e internazionali.

Lo scorso ottobre è stato meritoriamente firmato un memorandum d’intesa tra il nostro Ministero dell’Ambiente  e la Commissione del Bacino del Lago Ciad per il finanziamento dello studio di fattibilità del Progetto Transaqua. L’Italia vi contribuisce con 1,5 milioni di euro.  Anche PowerChina cofinanzia lo studio.

Negli ultimi anni l’Europa ha ripetuto la necessità di lanciare un “Piano Marshall per l’Africa” per sviluppare il continente e per contenere il flusso dei cosiddetti “migranti economici” verso l’Europa. Questo a parole.

L’Italia ha sempre mantenuto un rapporto storico positivo con molti paesi africani. Siamo conosciuti come i costruttori di dighe e d’importanti infrastrutture. E’ interesse nostro e dell’Europa di lavorare per una genuina collaborazione, superando anche qualche vecchio retaggio del colonialismo di certi paesi europei.

In definitiva, la realizzazione del grandioso progetto in questione sarebbe un aiuto concreto allo sviluppo del continente africano e un modo serio di “aiutarli a casa loro”. Sarebbe, inoltre, anche una scelta coerente per difendere la Terra dal processo di desertificazione evidenziato dallo stesso ONU. Sarebbe probabilmente una risposta importante al problema dei mutamenti climatici denunciati dagli scienziati e dai giovani di tutto il mondo.

*già sottosegretario all’Economia **economista

SENZA PROGETTI E SENZA FONDI NIENTE RIPRESA

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

 Non si può essere soddisfatti di riconoscere che l’economia italiana è fortemente peggiorata nei passati mesi, come ammette lo stesso Documento di economia e finanza appena presentato. Sarebbe, però, ancora più preoccupante se, di fronte a questa triste ed evidente realtà, il governo volesse continuare a “vivere sulle nuvole”, spargendo illusioni e promesse insostenibili.

 Palazzo Chigi ha messo nero su bianco che per il 2019 l’aumento del pil dovrebbe passare dall’1% allo 0,2% e che di conseguenza il deficit di bilancio dovrebbe crescere dal 2,04% al 2,4%. Sono stime ancora troppo benevoli che non tengono conto, purtroppo, degli effetti negativi a spirale che solitamente accompagnano la recessione economica.

 Di ciò siamo fortemente preoccupati, anche perché il confronto politico è soprattutto di natura ideologica ed elettorale e, a volte, anche di rivalsa. Riequilibrare il bilancio dello Stato richiede decisioni chiare e tempi medi poiché si basa sulla ripresa degli investimenti, della produzione, dell’innovazione e dell’occupazione nei settori dell’economia reale.

 Perciò, mantenere a tutti i costi le promesse fatte durante le campagne elettorali potrebbe sembrare positivo ma, in verità, non fa parte delle leggi che regolano il sano andamento e lo sviluppo dell’economia, sia nella teoria che nella prassi. Vale per tante iniziative, a cominciare dalla flat tax che ha fatto capolino nel Def. Per ora è una semplice enunciazione.

 Per serietà e credibilità, portare come esempio da seguire nel nostro paese il modello ungherese della flat tax, che sarebbe la ragione del buon andamento dell’economia di Budapest, è un errore.

 Per chiarezza è opportuno ricordare, invece, che la recente ripresa economica dell’Ungheria si basa su tre condizioni convergenti: il contributo a fondo perduto di ben 3,5 miliardi di euro annui da parte dell’Unione europea, l’intensa partecipazione economica e industriale della Germania verso i paesi dell’Europa centrale e il basso costo della mano d’opera ungherese, con una qualifica tecnologica mediamente elevata, che ha attirato notevoli investimenti. Tutte condizioni che in Italia non ci sono.

 Ovviamente, il documento del Def non contempla aumenti nella tassazione: sarebbe una clamorosa ammissione di totale fallimento. Per i prossimi mesi, però, il governo dovrà dimostrare come “bilanciare” l’aumento delle uscite con le minori entrate. Naturalmente, per il bene degli italiani ci si augura che lo sappiano fare. Ma è indubbio che dal prossimo gennaio possa scattare l’aumento delle aliquote Iva.

 A nostro avviso la priorità dovrebbe essere la ripresa degli investimenti pubblici in infrastrutture per l’effettiva apertura dei cantieri, a partire dal Mezzogiorno dove la situazione economica e occupazionale è a dir poco disperata. Secondo varie stime, oltre ai fondi recuperabili dall’enorme evasione fiscale, ci sarebbero 140 miliardi di euro già stanziati nei bilanci degli anni passati per svariati progetti.

 Attraverso un accordo già operativo con la Banca europea per gli investimenti essi potrebbero diventare subito spendibili. Il vero problema sono le lungaggini delle burocrazie statali, regionali e locali.

 Secondo l’Associazione nazionale costruttori edili (ANCE) si tratterebbe, tra l’altro, di 60 miliardi del Fondo investimenti e sviluppo infrastrutturale, di 27 miliardi del Fondo sviluppo e coesione, di 15 miliardi di Fondi strutturali europei, ecc.

 Se si riuscisse a spendere in tempi ragionevolmente brevi i soldi in questione, sarebbe una leva per la ripresa economica. Si ricordi che l’Istat sostiene che ogni euro pubblico investito nelle infrastrutture possa generare una crescita di investimenti diretti e indiretti di 3-4 volte. 

 E’ il Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE), presso Palazzo Chigi, responsabile della gestione delle risorse sopra menzionate, che non ha svolto un’effettiva azione incisiva nei confronti degli enti e delle amministrazioni beneficiari dei progetti.

 Bisogna accelerare i processi decisionali, snellendo il codice degli appalti e affidando, contemporaneamente, alle autorità anti corruzione il compito di prevenire e colpire le infiltrazioni malavitose e le mazzette legate ai lavori pubblici.

 La situazione, nella sua complessità e urgenza, non può ancora essere lasciata alle lentezze burocratiche. Serve, invece, una chiara e netta assunzione di responsabilità da parte del governo e delle altre istituzioni. Il paese non può più aspettare.

 *già sottosegretario all’Economia  **economista

MA LA FLAT TAX E L’INFLAZIONE AL 2% RISOLVONO DAVVERO TUTTI I MALI?

Gli esempi poco esaltanti della flat tax

Mario Lettieri *  Paolo Raimondi**

La flat tax, di cui tanto si parla in questa campagna elettorale, non è la parola magica per la giustizia fiscale del nostro paese. Non è comunque la cattiva parola da demonizzare tout court. I limiti e gli obblighi costituzionali non si possono ignorare. Nel caso, quindi, di una sua eventuale e deprecabile introduzione, sarà necessario individuare meccanismi di deducibilità che rendano effettivo il principio della progressività.

C’è da sapere comunque che, dopo il voto, l’indomani come si sol dire al cinema, è un nuovo giorno. E pertanto le promesse e le decisioni si possono cambiare.

E’ doveroso prima di ogni decisione valutare quanto è accaduto e accade nei paesi, in cui la flat tax è stata introdotta. Il caso emblematico ci sembra quello russo, dove le famiglie povere e quelle indigenti sono fortemente aumentate tanto da spingere le masse delle periferie urbane e i residenti nei territori rurali a chiedere di rivedere il sistema fiscale, introducendo forme di progressività nella tassazione.

In Russia, com’è noto, nel 2001 Putin, al suo primo mandato, introdusse la tassa fissa del 13% per tutti, ricchi e poveri, singoli e imprese, aziende produttive e società dubbie. Egli aveva raccolto un paese in ginocchio, devastato dalla corruzione del periodo di Eltsin, dalla penetrazione della finanza speculativa internazionale, dalla svendita delle ricchezze nazionali alle grandi corporation e dal sostanziale fallimento dello Stato del 1998.

E quel che era più grave, c’era una generale sfiducia. Nessuno aveva fiducia nel rublo, nessuno pagava le tasse, o per corruzione o per indigenza, I cosiddetti oligarchi “spostavano” centinaia di miliardi di dollari a Londra o nei paradisi fiscali.

Perciò la tassa del 13% servì anzitutto a riportare un certo ordine e un po’ di razionalità nel sistema economico. Fu il modo per garantire un minimo di stabilità politica e un minimo di entrate fiscali.

Pertanto il vero motore della ripresa russa, più che la flat tax, è stato lo sfruttamento delle risorse energetiche, del petrolio e del gas, le cui riserve, insieme alle altre ricchezze naturali, sono enormi. Per anni la Russia ha incassato elevate fatture dalla vendita di crescenti quantità di risorse energetiche. Nel frattempo si è frenata in qualche modo sia la corruzione sia la fuga dei capitali. Si ricordi che in questi anni la differenza tra il costo di produzione e il prezzo di vendita di petrolio e gas ha garantito entrate davvero eccezionali. Tanto che nel 2008 il classico barile di petrolio ha toccato la vetta di 150 dollari!

Oggi, però, la Russia, come altri paesi, sta vivendo una crescente e pericolosa ineguaglianza economica e sociale. Soprattutto dopo le sanzioni economiche e il crollo del prezzo del petrolio. C’è un recente studio del Credit Suisse in cui si dimostra come la Russia sia uno dei più “disuguali”paesi del mondo: il 10% della popolazione detiene l’87% della ricchezza della nazione. L’1% della popolazione detiene il 46% dei depositi bancari.

Anche la situazione della tanto decantata Ungheria merita un’attenta disamina. Il paese, si ricordi, è entrato nell’Unione europea nel 2004 mantenendo però la sua moneta nazionale, il fiorino. Con una popolazione di 10 milioni di persone, nel 2008 aveva un pil di 157 miliardi di dollari a prezzi correnti. A seguito della crisi globale, nel 2011 il prodotto interno scese a 140 miliardi e nel 2012 a 125. Nell’ultimo periodo ci sono stati dei miglioramenti nell’economia magiara, trainata dalla piccola ripresa europea e soprattutto dall’attivismo industriale della vicina Germania.  

Non sembra che l’introduzione della flat tax del 16%, avvenuta nell’anno 2001, abbia aiutato la ripresa e le crescita in Ungheria. Ciò che ha invece veramente aiutato Budapest a mantenere una certa stabilità sono stati gli aiuti rilevanti da parte dell’Unione europea e la sua partecipazione al mercato unico europeo. Gli aiuti sono stati riconfermati anche recentemente: dal 2004 al 2020 l’Ungheria riceverà da Bruxelles sovvenzioni per complessivi 22 miliardi di euro, cioè oltre 3,5 miliardi l’anno.

Sono soldi che provengono anche dall’Italia, nonostante la forsennata propaganda magiara anti euro e anti Unione europea.  

Si ricordi che l’Italia contribuisce al bilancio dell’Ue con ben 20 miliardi di euro e ne riceve 12. Gli 8 miliardi rappresentano il contributo netto dell’Italia. Se fossimo trattati come l’Ungheria dovremmo ricevere, in proporzione alla popolazione italiana che è 6 volte quella magiara, aiuti da Bruxelles per 22 miliardi di euro ogni anno. Altro che flat tax!

La pressione fiscale nel nostro paese ha raggiunto livelli intollerabili. Deve essere ridotta e semplificata per dare ossigeno alle famiglie, ai lavoratori e alle imprese, ma non si può pensare di eliminare il principio di progressività perché così si minerebbe il principio stesso di una società civile e democratica.

—————————————

Inflazione al 2%: panacea di tutti i mali?

 Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

 Il presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, e la presidente della Federal Reserve americana, Janet Yellen, nelle loro brevissime dichiarazioni prenatalizie hanno fatto a gara a parlare dell’inflazione che non c’è. Per loro una vera e propria ossessione.

A nostro avviso è la dimostrazione della mancanza di una corretta valutazione della situazione economica e finanziaria nazionale e internazionale e dell’assenza di un virtuoso piano di rilancio economico che punti allo sviluppo e non solo alla crescita.

La parola “inflazione” è stata ripetuta da entrambi ben 15 volte in un testo di 2 paginette. Yellen però batte Draghi 4 a 3 nella citazione del 2% di inflazione quale obiettivo da raggiungere per avere un’economia ben funzionante. Dal 2010 il target del 2% è diventato un mantra ossessivamente ripetuto in tutte le salse.

Nell’immaginazione di alcuni economisti di recente grido, il 2% d’inflazione sarebbe sinonimo di un’economia in movimento, dove aumentano gli investimenti, i consumi, i redditi delle famiglie e, dulcis in fundo, farebbe diminuire anche il debito pubblico che si svaluterebbe di anno in anno in rapporto ad un Pil inflazionato.

Questa teoria è stata totalmente sposata dalle banche centrali che, come è noto, da anni si danno da fare per far ripartire l’inflazione. Alcuni, per abbattere il debito pubblico, la vorrebbero al 4-6% annuo. Ci si scorda evidentemente che in un passato recente molti governi e molte famiglie in vari Paesi hanno lottato contro l’iperinflazione del 15-20%.

L’inflazione è una bestia selvaggia, innocua se ne parla soltanto, ma terribile e incontrollabile se si muove e comincia a galoppare.

Certo, anche la deflazione che abbiamo avuto per alcuni anni dopo la Grande Crisi è un “animale” non meno pericoloso. Essa avviene quando l’economia si avvita su se stessa, con una diminuzione dei prezzi dovuta in gran parte alla riduzione dei consumi e dei bilanci pubblici, al crollo dei commerci internazionali e di conseguenza anche delle produzioni e dell’occupazione.

La deflazione genera un immobilismo progressivo in cui tutti gli attori economici sono indotti a posticipare le decisioni d’investimento o di acquisto nella prospettiva che i prezzi possano scendere ancora. E’ un processo che porta direttamente alla recessione.

L’obiettivo “inflazione al 2%” è il “fratello gemello” della politica monetaria espansiva del Quantitative easing di creazione di grande liquidità da parte delle banche centrali per acquistare titoli di stato e, soprattutto, i titoli cosiddetti asset-backed-security (abs) in possesso delle grandi banche, che spesso sono di carattere speculativo e di bassa affidabilità.

Il programma avrebbe dovuto spingere il sistema bancario a concedere più crediti alle imprese e alle famiglie che così avrebbero creato più investimenti, più ricchezza, più consumi e, quindi, anche generato la desiderata inflazione del 2%.

Gli anni passati di bassa inflazione hanno anche comportato tassi d’interesse molto bassi, vicini allo zero, che, secondo la teoria, avrebbero dovuto agevolare nuovi crediti per nuovi investimenti.

Così non è stato. Si è trattato di due automatismi che non hanno funzionato. L’unico parametro che, invece, è veramente cresciuto è stato quello concernente i debiti pubblici e quelli delle imprese. L’altro parametro negativo è stato quello dei salari bassi e della precarietà.

Evidentemente le banche centrali, soltanto con la politica monetaria e finanziaria, non riescono a influenzare gli andamenti macroeconomici, come ad esempio i prezzi del petrolio e delle altre materie prime. In verità secondo noi, non sono state nemmeno capaci di orientare i comportamenti del sistema bancario e della finanza. 

Alla fine s’intuisce che il cosiddetto “inflation targetting” più che una teoria economica è una politica dell’informazione. Da qualche tempo le banche centrali hanno fatto della loro comunicazione l’asse portante delle scelte economiche e monetarie, ritenendo che l’annuncio di alcuni paletti e degli obiettivi delle loro politiche fosse sufficiente a determinare comportamenti virtuosi nel complesso mondo bancario e finanziario.

E’ arrivato il momento di ritornare ai sani principi dello sviluppo economico. Se l’economia privata stenta a muoversi, lo Stato deve iniziare a investire in settori, come le infrastrutture, la modernizzazione tecnologica e altri, che possono trainare l’intera economia. Spesso lo ha fatto l’America industriale e capitalista. Negli anni trenta dello scorso secolo con il New Deal lo fece il presidente Franklin D. Roosevelt. Quindi, se il sistema bancario privato non fa rifluire sui mercati i soldi offerti gratuitamente dalle banche centrali, occorre creare nuovi canali di credito.

A proposito, in Europa che fine hanno fatto i project bond che la Commissione europea aveva proposto qualche anno fa? Si trattava di finanza produttiva e non speculativa che avrebbe dato un grande stimolo alla realizzazione delle nuove infrastrutture e alla modernizzazione del sistema produttivo, creando sicuramente nuovo reddito e una qualificata occupazione, soprattutto per tanti giovani lasciati allo sbando fuori dal mercato del lavoro. 

Non vorremmo che nel nostro Paese il recente aumento delle bollette energetiche e delle tariffe autostradali, non certo giustificabili, fosse funzionale al fantomatico obiettivo dell’inflazione al 2%.

 

*già sottosegretario all’economia

**economista

Il Vaticano è l’unico Stato che chiede una pronuncia ufficiale dell’ONU per verificare se le gestione del debito internazionale viola i diritti umani e quelli dei popoli e se limita la sovranità e l’indipendenza degli Stati indebitati

Iniziativa internazionale sul debito pubblico

Mario Lettieri*  Paolo Raimondi**

Dal 2007 a oggi il debito pubblico mondiale è più che raddoppiato, passando da 28,7 a oltre 61 trilioni di dollari. Nello stesso periodo quello americano è triplicato, attualmente è circa un terzo del totale. Ogni cittadino americano ha più di 60.000 dollari di debito pubblico federale sulle sue spalle. Il record mondiale. Si ricordi che in Italia esso è di circa 38.000 euro pro capite.

Il crescente debito globale è una delle più pericolose minacce di crisi sistemiche.

Per il momento, però, sono i Paesi più poveri, e quelli impoveriti o a rischio default, ad esserne schiacciati. Finora i potenti della Terra, anche se di fatto sono i più indebitati, hanno avuto la spregiudicatezza e gli strumenti per far pagare il conto agli altri.

E’ perciò significativo che sia la Santa Sede, e non i governi, a portare all’esame delle Nazioni Unite il tema della legittimità del debito pubblico. Certamente si intravede la mano di papa Francesco.

L’obiettivo, come ci ricorda il professor Raffaele Coppola, direttore del Centro di Ricerca ”Renato Beccari” dell’Università di Bari e tra i principali coordinatori dell’iniziativa, è far pronunciare l’Assemblea Generale dell’Onu al fine di legittimare la richiesta di parere alla Corte internazionale di Giustizia dell’Aja sulla gestione del debito internazionale per verificarne le eventuali violazioni dei diritti umani e dei popoli.

Si pone, quindi, l’esigenza di un’analisi approfondita dei fondamenti sia giuridici che etici della questione del debito. Non può diventare un macigno insostenibile per le popolazioni, né frenare lo sviluppo e limitare l’indipendenza e la sovranità di uno Stato.

Molti giuristi di varie ispirazioni stanno riflettendo sul problema del pagamento del debito da parte dei Paesi poveri e sullo stato di forza maggiore e di necessità a cui vengono sottoposti. Per lo stato di forza maggiore il non pagamento dipende da un evento incontrollabile da parte dello Stato. Lo stato di necessità, invece, giustificherebbe l’inadempienza quando il pagamento sarebbe troppo gravoso per i cittadini. Chi può pensare di affamare il popolo per pagare a tutti i costi gli interessi sul debito?

L’iniziativa presso l’Onu costituirebbe un precedente giuridico su una materia nevralgica per lo sviluppo della globalizzazione e in particolare per il rapporto fra Paesi ricchi e Paesi poveri. Di conseguenza non potranno essere ignorati gli effetti deleteri della finanziarizzazione e della deregulation dell’economia.

La proposta della Santa Sede non è campata in aria ma poggia anche su un precedente importante: la risoluzione 69/319 dell’Onu del 2015 relativa ai cosiddetti “fondi avvoltoio”,  cioè quei fondi speculativi che operano in modo aggressivo sul debito dei Paesi in crisi. E’ appena il caso di ricordare che essa fu approvata nonostante il parere contrario degli Stati Uniti.

I valori esplicitati nella proposta si ispirano alla Carta di Sant’Agata de’ Goti del 1997 nella quale giuristi, uomini di Chiesa, intellettuali e laici misero a punto una serie di principi giuridici per regolare secondo giustizia la questione del debito. In particolare «il divieto di accordi usurari», il rispetto «dell’autodeterminazione dei popoli» e il divieto di «una eccessiva onerosità del debito».

Intorno all’iniziativa vaticana si sta tessendo un’ampia rete di alleanze. E’ importante in quanto  la Santa Sede ha lo status di osservatore alle Nazioni Unite e c’è bisogno che uno Stato presenti, in sua vece, la richiesta di discussione all’Assemblea Generale. E’ un ruolo che l’Italia naturalmente potrebbe e dovrebbe assumere. Sull’argomento pare esista già un’intesa di massima con il governo italiano.

Ricordiamo che l’Italia ha già avuto un ruolo meritorio nel 2000 quando il Parlamento approvò la legge 209 relativa alle «Misure per la riduzione del debito estero dei Paesi a più basso reddito e maggiormente indebitati». Il significativo provvedimento nacque sull’onda del Giubileo promosso da Giovanni Paolo II durante il quale fu lanciata la campagna per l’abbattimento del debito dei Paesi poveri. 

Al riguardo si ricordi l’articolo 7 della citata legge che recita: «Il Governo, nell’ambito delle istituzioni internazionali, competenti, propone l’avvio delle procedure necessarie per la richiesta di parere alla Corte internazionale di giustizia sulla coerenza tra le regole internazionali che disciplinano il debito estero dei Paesi in via di sviluppo e il quadro dei principi generali del diritto e dei diritti dell’uomo e dei popoli». E’ esattamente l’obiettivo della Santa Sede. 

In merito l’Italia, non solo per il rispetto della sua legge ma anche per la sua indiscussa sensibilità per le problematiche dei Paesi in via di sviluppo, può davvero svolgere un ruolo incisivo a partire dal prossimo G7 di Taormina.

*già sottosegretario all’Economia  **economista

Il debito pubblico italiano e la globalizzazione senza regole (= speculazione sfrenata)

Il debito pubblico italiano e la globalizzazione senza regole

Mario Lettieri* e Paolo Ramondi**                                  

Il debito pubblico italiano è sempre al centro di tutte le discussioni relative al ruolo dell’Italia nell’Unione europea. Anche se siamo stati tra i fondatori dell’Unione, più di un governo europeo ci vorrebbe relegati nel secondo o addirittura nel terzo girone.

Gli ultimi dati indicano che il rapporto del debito pubblico italiano rispetto al pil è intorno al 133%. Di conseguenza, tutti si sentono autorizzati a chiedere riforme strutturali, rientri veloci, tagli ed austerità, fino a sollecitare forti sanzioni finanziarie per il mancato rispetto dei parametri di Maastricht.                                                    

L’andamento del nostro debito pubblico nei decenni passati è sempre stato in aumento per una serie di motivi negativi, politici ed amministrativi, che ancora oggi necessitano di essere affrontati e corretti.

Noi, però, dobbiamo anche evidenziare come la speculazione finanziaria internazionale, esplosa in alcuni momenti cruciali della nostra storia, ha inferto delle tremende accelerazioni nella crescita del debito pubblico, portandolo così fuori dai normali canali istituzionali.

Il primo grande attacco speculativo contro la lira avvenne nel 1992. Era parte del più vasto attacco contro il Sistema Monetario Europeo. Lo Sme doveva preparare con maggior attenzione e con una velocità moderata, il processo di cooperazione e di unione europea, anche nel campo monetario e finanziario.

Come è noto, in Italia l’attacco speculativo era combinato con la pressione internazionale verso la privatizzazione delle imprese a partecipazione statale. Ovviamente non vi fu solo la spinta internazionale… Alla fine, con la massiccia svalutazione della lira, vi fu una vera e propria svendita delle aziende pubbliche.

L’effetto sul debito pubblico fu devastante. Il rapporto debito/pil , che era di 105,4% nel 1992, salì al 115,6% nel 1993 fino a raggiungere 121,8% nel 1994.

Sotto la pressione dei mercati i tassi di interesse sui titoli di stato salirono notevolmente, aggravando ulteriormente l’andamento del debito pubblico.

Fu necessario un enorme sforzo, sia per la ripresa economica che per i tagli della spesa pubblica, per ridimensionare i tassi. Anche l’entrata nell’euro incise nel rapporto debito/pil che scese intorno al 103% nel 2004 e nel 2007/8.

Poi la crisi finanziaria globale, partita dagli Usa, investì tutto il mondo, in primis l’Europa, colpendo tutti i settori economici, bancari e commerciali provocando pesanti crolli nelle produzioni ed enormi salvataggi pubblici delle banche a rischio bancarotta.

In Italia il rapporto debito/pil schizzò dal 103,6% del 2007 al 116,0% del 2009. 

L’altra impennata più recente si è registrata nel 2011 a seguito dell’attacco speculativo contro l’Italia, che portò lo spread ad oltre 500 punti (5%)sopra il tasso di interesse del Bund decennale tedesco, con effetti pesanti per gli interessi dei titoli di stato italiani. Come noto, la crisi determinò anche mutamenti negli assetti di governo. Per fortuna l’attacco si fermò nel preciso momento in cui Mario Draghi, presidente della Bce, dichiarò che avrebbe utilizzato tutti i mezzi necessari nella difesa dell’euro. Il famoso “whatever it takes”.

Ma il rapporto debito/ pil, che nel 2011 era del 120,7%, schizzò al 127,0% l’anno successivo.

Si stima che le grande banche internazionali, in particolare quelle europee, nel pieno di quelle turbolenze finanziarie abbiano venduto non meno di 200 miliardi di euro di titoli di Stato italiano. E’ difficile dare una valutazione precisa, ma non si è lontani dalla verità se si afferma che siano state coinvolte anche certe banche tedesche e francesi, quelle stesse che in precedenza  erano state salvate dai rispettivi governi.

E’ da ipocriti affermare in Europa o in Italia che la speculazione attacca chi se lo merita, per una endogena debolezza economica di cui si è i soli responsabili. Si dimentica che un’economia più debole deve anche fare degli sforzi enormi per recuperare le perdite generate da una crisi a volte provocata da altri.

 I dati e le stesse discussioni ci dicono che c’è ancora molto da fare. Nelle sedi europee non servono né l’ottimismo di maniera né la classica voce grossa. In quelle sedi non solo bisogna evidenziare che il nostro Paese, a seguito dei ripetuti attacchi speculativi, ha subito un aggravamento del rapporto debito/pil non inferiore al 30%, ma soprattutto far comprendere che è il momento di decidere che gli investimenti non possono essere sottoposti ad un irrazionale principio di austerità che, anziché lenire, aggrava i malanni di un Paese.

*già sottosegretario all’Economia  **economista

Trump e le infrastrutture: chiacchiere o quale modello di investimento?

Trump e le infrastrutture: chiacchiere o quale modello di investimento?

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Ancora non si conosce il vero orientamento del presidente Trump per i settori dell’economia reale degli Usa.  

Cancellando le poche regole introdotte a suo tempo dal presidente Obama per contenere le spinte speculative, le sue decisioni riguardanti il mondo bancario e finanziario hanno deluso quanti si aspettavano i cambiamenti promessi in campagna elettorale.

Dubbi e perplessità sorgono anche per quanto riguarda il finanziamento del vasto programma infrastrutturale annunciato, che prevede ben 1.000 miliardi di dollari di investimento.    

Si farà ricorso ad obbligazioni e a fondi pubblici mirati a specifici progetti a beneficio degli utenti, oppure verranno messi in campo dei partenariati pubblico-privati (PPP) in cui si garantiscono maggiori privilegi alla parte privata?

Potrebbe sembrare una domanda secondaria ma non lo è per niente.

Se il governo si farà carico dell’intero investimento, lo Stato evidentemente si aspetterà di essere ripagato attraverso una maggiore efficienza dei settori produttivi e dai tributi fiscali derivanti dall’aumento dei redditi e dei consumi. Se si privilegiano i partenariati, gli investitori privati incasseranno le tariffe pagate dai consumatori e, forse, giovandosi anche di una rilevante garanzia pubblica.

In Italia si conosce bene la differenza in quanto negli anni, si è, purtroppo, in gran parte privatizzata la distribuzione dell’acqua, che da bene pubblico è sempre più diventato un servizio gestito da privati. Lo stesso avviene per la gestione delle autostrade che hanno portato ricchi introiti ai privati a fronte di scarsi investimenti e di insufficienti manutenzioni della rete.  

Lungi da noi l’intento di criminalizzare il modello dei partenariati. Al contrario, esso può essere uno strumento molto valido se ben utilizzato e ben controllato. Occorre però riconoscere che non è il toccasana alternativo per tutti gli investimenti pubblici.

Negli Stati Uniti si stima che la componente privata degli investimenti nei servizi di interesse pubblico produce su base decennale in media un profitto annuo tra l’8 e il 18%.

Sono soprattutto i fondi di “private equity”, controllati dalle banche, ad operare in questi settori. Molte città americane, come è noto, in passato hanno “delegato” ai privati la gestione di molti servizi pubblici.

In una situazione di tassi di interesse zero, le banche e i fondi finanziari scalpitano per investire nei progetti infrastrutturali e in certi servizi pubblici. Ecco perché il programma di Trump suscita grandi consensi da parte del sistema bancario.

Indubbiamente la materia è complessa e ha notevoli riverberi. E’ noto, per esempio, che ogni investimento pubblico nelle infrastrutture genera un aumento del valore di mercato dei terreni e degli immobili già esistenti nella zona, generando effetti perversi nell’aumento dei prezzi delle case e degli affitti.

Si ricordi che Trump è un immobiliarista che ha accumulato le sue ricchezze in questo settore. Perciò non vorremmo che in futuro gli Usa diventassero un gigantesco fondo di investimento immobiliare.

Comunque speriamo che il presidente americano ci sorprenda positivamente e fughi con le sue scelte le non poche perplessità circolanti sulla natura del suo governo.

*già sottosegretario all’Economia  **economista

 

Riportare la Russia nel G8

Summit di Taormina: riportare la Russia nel G8

Mario Lettieri * e Paolo Raimondi**

E’ partita un’iniziativa italiana per il reintegro nel G8 della Federazione Russa. E’ un’iniziativa giusta, opportuna e che tiene conto anche degli interessi del nostro Paese.

I presidenti del Consiglio Italiano del Movimento Europeo (CIME), dell’istituto di ricerche sociali EURISPES e dell’Istituto Italiano per l’Asia e il Mediterraneo (ISIAMED) hanno scritto una lettera aperta al Presidente del Consiglio dei Ministri, Paolo Gentiloni, sollecitando il nostro governo a farsi promotore di azioni affinché il presidente Vladimir Putin possa essere al summit di Taormina, al fine di costruire “ponti” e la necessaria, vera e positiva collaborazione di pace per una efficace cooperazione tra i popoli.

Come è noto, dal primo gennaio l’Italia ha la presidenza del G7, di cui sono membri anche gli Stati Uniti, il Canada, il Giappone, la Germania, la Francia e la Gran Bretagna. Gli altri Paesi dell’Ue sono rappresentati dalla Commissione europea, che, si ricordi, non può ospitare i vertici ne presiederli.

Quindi a maggio a Taormina si terrà il prossimo summit dei capi di stato e di governo con la presenza di nuovi leader mondiali, come il Presidente americano Donald Trump, il prossimo Presidente francese e il Primo ministro inglese Theresa May.

E’ noto che, dal 1998 fino al 2014, al G8 ha partecipato anche la Federazione Russa. A seguito della crisi in Ucraina, del referendum in Crimea e delle conseguenti sanzioni, è stata impedita tale partecipazione.

Pertanto a Taormina, purtroppo, potrebbe non esserci, ancora una volta, il Presidente della Federazione Russa. In merito riteniamo che il meeting potrebbe essere l’occasione per l’Italia per spingere verso la riapertura di un dialogo costruttivo con Mosca. La Russia, non sfugge a nessuno, è un partner importante. Lo è ancor di più per l’Unione europea, se davvero si vuole agire per affrontare le tante questioni globali. La soluzione di problemi quali quello della sicurezza e delle migrazioni e ovviamente quelli relativi ai costruendi nuovi assetti pacifici e multipolari, non può prescindere dal coinvolgimento della Russia.

Si ricordi che il 2016 si è purtroppo chiuso con il massacro terroristico di cittadini inermi nel mercatino di Natale a Berlino e il 2017 è cominciato con l’orrendo attentato di Istanbul. Sono eventi che pongono al centro della politica europea ed internazionale la questione della sicurezza e della pacificazione e risoluzione dei troppi conflitti regionali che, come dice il Papa, nel loro insieme, anche se a pezzi, costituiscono la terza guerra mondiale.

Le grandi istituzioni internazionali, a cominciare dall’ONU e dall’Unione europea, sono chiamate ad assumere delle responsabilità dirette. Ma anche i vertici G20, G7 e G8 sono importanti organismi di coordinamento per affrontare le cause delle tante tensioni legate soprattutto alle maggiori sfide economiche e geopolitiche e dare indicazioni sulle soluzioni più adeguate e condivise.

Perciò riteniamo positivo che il primo ministro Gentiloni abbia già sottolineato la necessità per tutti di abbandonare la logica della guerra fredda, senza rinunciare ai principi, Lo sono anche le recenti dichiarazioni del Ministro degli Esteri, Angelino Alfano, che sembra sollecitare il rientro della Russia nel G8.

Ciò potrebbe aiutare anche la stessa Unione europea a recuperare un ruolo più incisivo nel contesto internazionale. Il vertice di Taormina, città di grande storia proiettata nel Mediterraneo, potrebbe, quindi, essere davvero l’occasione per aprire nuove prospettive di cooperazione e crescita comune.

L’esclusione della Russia sarebbe non solo inopportuna e ingiustificata, ma darebbe l’impressione di una decisione negativa esclusiva dell’Europa, tenuto conto delle più recenti dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti.

Mancando la Russia, oltre alla Cina e all’India che non vi hanno mai fatto parte, il G7 rischia di essere visto nel mondo come un club di amici dell’Occidente. Un club di Paesi che, rispetto al loro Pil, sicuramente occupano le prime posizioni mondiali, ma hanno economie in prolungata stagnazione.

Si rammenti che le perduranti sanzioni incrociate con la Russia penalizzano esclusivamente le economie europee. In proporzione, è l’Italia a rimetterci di più. Se ciò è vero, come è vero, il nostro Paese non può non cogliere l’opportunità di Taormina per assumere un ruolo più incisivo ed avere un maggiore spazio nella scena internazionale, a partire dal Mediterraneo e dalla stessa Europa.

*già sottosegretario all’Economia **economista

1) Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica cooperano con forte sviluppo mentre l’Europa si limita a guardare. 2) La matematica al servizio delle speculazioni globali gigantesche in tempo reale, che nel mondo intero rendono sempre più ricchi pochi e sempre più poveri troppi.

 

Goa: BRICS, alleanza sempre più stretta

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Il summit dei Paesi BRICS a Goa, India, tenutosi il 16 ottobre scorso segna un ulteriore passo avanti verso la creazione di una più stretta alleanza istituzionale tra i suoi membri. E’ indubbiamente la dimostrazione concreta che gli indebolimenti interni ai singoli Paesi e i tentativi esterni di destabilizzazione non hanno avuto gli effetti paralizzanti che certi interessi geopolitici si auguravano.

La Dichiarazione finale del summit afferma che i BRICS rappresentano “una voce influente sullo scenario internazionale capace anche di generare effetti positivi tangibili per i propri popoli”. Essi “contribuiscono grandemente all’economia mondiale e al rafforzamento dell’architettura finanziaria internazionale” anche attraverso i nuovi organismi come la Nuova Banca per lo Sviluppo (NDB) e l’Accordo per la Riserva di Contingenza (CRA) . Ciò dovrebbe agevolare la “transizione verso un ordine internazionale multipolare”.

Tale prospettiva si affianca alla denuncia dei “conflitti geopolitici che hanno contribuito al clima d’incertezza dell’economia globale”, in quanto lo sviluppo e la sicurezza sono strettamente collegati, direttamente proporzionali e determinanti per sostenere una pace duratura.

Al riguardo si ribadisce il sostegno al ruolo centrale dell’ONU come unica organizzazione multilaterale universale capace di lavorare per la pace, la sicurezza, lo sviluppo, la solidarietà e la tutela dei diritti umani. Tale sostegno è una scelta importante, per certi versi stridente con lo stesso silenzio dell’ONU rispetto a situazioni di crisi, come quelle in atto in Siria e in Nord Africa.

Si afferma con forza che “le politiche monetarie da sole non possono condurre ad una crescita bilanciata e sostenibile”. Si sottolinea perciò “l’importanza dell’industrializzazione e di efficaci misure finalizzate allo sviluppo industriale, che sono le fondamenta di una trasformazione strutturale”. In questo contesto l’innovazione tecnologica, si evidenzia, è centrale.

Durante la riunione del BRICS Business Council, formato da 25 importanti industriali, tenutosi il giorno prima del summit, i capi di governo dei BRICS hanno parlato con un linguaggio ancora più chiaro. Il presidente cinese Xi Jinping ha detto che l’economia mondiale langue nel mezzo di una “ripresa incerta e volatile”. E’ perciò necessario, ha aggiunto, che, dopo i successi dei passati dieci anni, i BRICS rafforzino la loro partnership.

A sua volta il primo ministro indiano Narendra Modi ha aggiunto che tale crescente e positivo rapporto tra i Paesi BRICS deve rafforzarsi con la creazione di nuove istituzioni e organizzazioni comuni, tra cui una propria Agenzia di rating, un Centro di ricerche agricole e quello per le infrastrutture e i trasporti ferroviari.

Il presidente russo Vladimir Putin, da parte sua, ha indicato una strategia comune per una nuova linea di cooperazione e di investimenti che colleghi le attività del Business Council con quelle della Nuova Banca di Sviluppo. L’intento è quello di rendere più operativi gli imprenditori privati. Molti dei quali, con l’occasione, hanno partecipato alla grande Fiera Commerciale di New Delhi dove sono stati presentati i nuovi prodotti tecnologici e industriali realizzati nei rispettivi Paesi

Noi pensiamo che nel prossimo futuro il mondo occidentale potrebbe essere sorpreso dai molti nuovi progetti realizzati congiuntamente dai BRICS in vari campi tecnologici.

I capi di governo dei BRICS hanno ribadito gli accordi e gli impegni presi al summit del G20 di Hangzhou in Cina all’inizio di settembre. In particolare hanno rinnovato l’impegno a lavorare con più decisione nel G20 per progetti di importanza globale, come l’Iniziativa per lo sviluppo dell’Africa e la definizione dei una più giusta ed equa governance del Fondo Monetario Internazionale.

Ci sembra che, anche in relazione al ruolo, sempre più incisivo, dei BRICS, l’Unione europea dovrebbe avviare con maggiore convinzione rapporti più stringenti con detti Paesi. Sarebbe il modo più concreto ed efficace di contribuire ad accelerare la ripresa economica globale, la crescita delle regioni in ritardo di sviluppo e, ovviamente, la realizzazione dell’indispensabile stabilità politica internazionale quale presupposto per una pace mondiale duratura.

—————————

Algoritmi: parola magica per meglio speculare

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi **

Recentemente i mercati internazionali, sia delle valute che dei titoli, hanno registrato dei capovolgimenti così grandi da suscitare grandi preoccupazioni sulla tenuta dell’intero sistema bancario e finanziario mondiale. Eppure i governi e le autorità preposte, nonostante le loro indubbie preoccupazioni, hanno cercato di far passare tali eventi come ‘fisiologici per il mercato’.

Invece, così non è.

Venerdì 7 ottobre, nel giro di meno di 3 minuti, la lira sterlina è crollata del 6% per poi recuperare il 5 % in meno di un ora. Dopo aver raggiunto il minimo assoluto degli ultimi 31 anni, a fine giornata la sterlina registrava una perdita dell’1,6%.

Il crollo è avvenuto alle 7 di mattina sul mercato di Singapore, mentre a Londra ancora si dormiva profondamente e la borsa di Wall Street aveva già chiuso le sue operazioni.

E’ stata una pura speculazione, di inaudita pericolosità per l’intero sistema, per niente giustificabile con i possibili effetti della Brexit sull’economia inglese. L’unica spiegazione possibile, ci sembra, è legata al cosiddetto ‘electronic trading’, che avviene quando i computer sono programmati con un algoritmo specifico a fare in automatico operazioni di compravendita ad una velocità straordinaria, oltre ogni immaginabile umana capacità.

Algoritmi e computer basati su istruzioni relative all’andamento di certi scenari, come quello della Brexit.

Si arriva finanche ad impostare tali algoritmi in rapporto al numero e al tipo di informazioni riportate dai media, a volte addirittura dai social media!

L’algoritmo succitato avrebbe ‘letto’ i reportage negativi sulla Brexit come un segnale di vendita della sterlina. Poi, quando la moneta inglese ha cominciato a scendere, altri algoritmi si sono ‘attivati’ nelle stessa direzione.

Purtroppo i mercati internazionali dei cambi sono ancora grandemente non regolati. Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali gli scambi della coppia dollaro-sterlina rappresentano il 9,2% di tutte le contrattazioni nei mercati dei cambi, che mediamente sono di 5,1 trilioni di dollari al giorno.

Negli ultimi tre anni l’‘algorithm trading’ sarebbe aumentato enormemente.  

Si rammenti che qualche giorno prima, il 30 settembre, le azioni della Deutsche Bank avevano perso il 9% in mattinata e avevano guadagnato il 5,7% a fine giornata. Una cosa inaudita, fuori dal normale andamento.

Le nostre critiche alla DB sono note. Qui però si è di fronte ad un colossale attacco speculativo, non facilmente spiegabile. L’anomalo andamento non può essere attribuibile semplicemente alla stratosferica multa comminata dalle autorità americane alla banca tedesca per le sue passate speculazioni con i derivati sui mutui subprime americani. Né la successiva risalita delle sue quotazioni può essere giustificabile con le notizie relative ad una eventuale riduzione della multa in questione.

Chi ha comprato le azioni per salvare la banca dal tracollo? E’ una domanda che sorge spontanea.

Mario Draghi, governatore della Banca Centrale Europea, nel suo recente discorso ai parlamentari tedeschi del Bundestag, ha detto che la sua politica del tasso di interesse zero, nel 2015 ha fatto risparmiare alla Germania ben 28 miliardi di euro. Sulla base di questo dato si può ipotizzare che negli ultimi anni Berlino abbia pagato meno interessi sul suo debito pubblico per almeno 100 miliardi.

La Germania non sembra aver usato tanta ricchezza per sostenere consumi e investimenti in casa propria o nelle regioni europee più deboli e bisognose di un sostegno concreto per il loro rilancio economico.

Molto probabilmente il ‘tesoretto’ tedesco è stato accantonato proprio per il salvataggio delle banche che non sono in buona salute!

I due recenti avvenimenti finanziari menzionati assumono una gravità eccezionale per le dimensioni e i velocissimi tempi delle operazioni. Essi ci dicono che l’intero sistema economico è esposto più di prima a terremoti di altissima magnitudo.

Non sono vicende da lasciare ai mercati o solo alle banche centrali e alle autorità di controllo. Sono questioni squisitamente politiche che, secondo noi, richiedono interventi e decisioni da parte dei governi. Senza indugi, prima che una nuova crisi sistemica bussi alla porta.

*già sottosegretario all’Economia **economista

 

Gli USA, in buona parte parassiti del mondo

 

Gli Usa vivono in gran parte sulle spalle del resto del mondo

Mario Lettieri * e Paolo Raimondi**

Anche negli Usa non è tutto oro quello che luccica. Nel mondo non è adeguata l’attenzione all’andamento del debito degli Stati Uniti. La realtà è che esso, insieme ad altri indicatori economici, segna rosso costante.

E’ come per le automobili, quando il cruscotto segnala un problema, anche se la macchina ancora cammina non è consigliabile continuare a guidare come se nulla fosse.

E’ un dato inoppugnabile che ciò che avviene negli Usa non riguarda solo gli americani perché esso riverbera i suoi effetti nel resto del mondo.

All’inizio del 2016 il debito pubblico federale americano ha raggiunto i 19.200 miliardi di dollari, pari a circa il 105% del Pil. Alla fine del 2007 era di 9.200 miliardi pari al 65% del Prodotto interno lordo. Nel 2000 era di 5.600 miliardi. In pratica si è più che triplicato. Perciò per il sistema americano è il suo tasso di crescita, o meglio, di accelerazione della sua crescita esponenziale che deve preoccupare maggiormente.

Lo stesso andamento si è avuto per il debito delle corporation private non finanziarie che oggi è pari a 6.600 miliardi di dollari. Era di 3.300 miliardi nel 2007ed è raddoppiato.

Di conseguenza non ci si deve stupire dell’attuale stratosferica cifra di quasi 64.000 miliardi di debito totale (governo federale, singoli stati, enti locali, business, famiglie e ipoteche). Era di 28.600 miliardi nel 2000. Si sottolinea che oggi è evidente che è più che raddoppiato.

In pratica si tratta in gran parte di “debito sporco”. Fatto per tappare i buchi di bilancio, per evitare i fallimenti di banche e corporation e non per sostenere investimenti e sviluppo. La spia rivelatrice è il perenne deficit di bilancio degli Usa. Nel 2009 esso aveva raggiunto l’incredibile vetta di 1.413 miliardi di dollari portando gli Usa fino alla soglia della bancarotta. Anche il 2015 si è chiuso con un deficit di 438 miliardi.

Significativo quanto preoccupante è il crollo della bilancia commerciale. Dal 2000 ad oggi gli Usa hanno accumulato un deficit commerciale di oltre 8.630 miliardi di dollari. Dallo scoppio della crisi ad oggi è aumentato di ben 3.500 miliardi. Sarebbe ancora peggiore se si considerasse soltanto la bilancia commerciare di beni reali che dal 2000 è in negativo per oltre 10.500 miliardi. Quasi 4.700 miliardi a partire dal 2009.

E’ evidente che l’avanzo commerciale nel settore dei servizi ne attenua la portata. Anche se nei servizi convivono quelli dell’ingegneristica e quelli finanziari, dove la componente speculativa è notevole.

E’ quindi naturale chiedersi come facciano gli Usa a continuare a stampare e a spendere dollari quando l’economia sottostante,come visto, non è tanto solida.

Il tutto sembra molto simile al gioco delle tre carte.

La prima è sicuramente il Quantitative easing, cioè la decisione a suo tempo adottata dalla Federal Reserve di immettere nuova liquidità nel sistema.

L’effetto è ben visibile nella crescita straordinaria del bilancio della Fed che è passato da 860 miliardi di dollari del 2007 ai circa 4.500 miliardi di oggi. La decisione della Fed e del governo di Washington anche se ha una valenza monetaria è soprattutto politica. Secondo noi la situazione non può durare all’infinito. I nodi prima o poi verranno al pettine.

La seconda carta è il debito pubblico americano, finora largamente scaricato sulle ‘spalle’ del resto del mondo che, in verità, per varie ragioni ha assecondato tale tendenza.

Infatti circa 6.000 miliardi di dollari di obbligazione del Tesoro Usa sono in mani straniere. La Cina da sola ne ha 1250 miliardi ed il Giappone ne possiede ben 1.133 miliardi. La Fed ha in bilancio T-bond fino a 2.500 miliardi.

La terza carta si chiama derivati otc (over the counter), cioè quelli trattati al di fuori dei mercati regolamentati e tenuti fuori dai bilanci. Si sottolinea che, a seguito del tasso di interesse zero, il’ammontare complessivo di tali derivati a livello mondiale è sceso a 500.00 miliardi di dollari. Però di questi ben 180 mila sono nella banche americane. Come è noto, i derivati sono un mezzo per generare nuova liquidità quando se ne ha bisogno. Sono titoli creati attraverso una forte leva finanziaria e con alti rischi. Possono anche essere messi in garanzia per ottenere dei prestiti veri dalla Fed o dalla Bce.

Fin tanto che gli Usa riescono a scaricare il proprio debito sul resto del mondo e sui propri cittadini avranno mano libera per creare la liquidità necessaria per continuare a comprare a debito e finanziare spese di ogni tipo prescindendo, purtroppo, dalla loro effettiva capacità economica e finanziaria.

*già sottosegretario all’Economia **economista

USA: vera ripresa economica o altre bolle?

Usa: vera ripresa o nuove bolle finanziarie?
Mario Lettieri* e Paolo Raimondi **

Negli Usa ritorna la paura di nuove bolle simili a quella legata ai mutui subprime che nel 2008 fu la causa principale dello scatenamento della crisi finanziaria globale. Molti mutui furono concessi senza tenere in considerazione la reale capacità di pagamento di molti sottoscrittori. In seguito i titoli suddetti furono utilizzati come base per altre operazioni ad alto rischio, i derivati finanziari. La montagna di titoli virtuali, così creata, crollò su se stessa quando la percentuale dei mancati pagamenti e dei fallimenti individuali divenne insostenibile. Ormai è storia nota.

Situazioni simili però si stanno ricreando anche oggi in vari settori economici, tra cui quello delle vendite di automobili e quello delle carte di credito. Anche in questo caso gli Usa precedono, indicano la strada che, anche se pericolosa, l’Europa non esita a percorrere.
Negli anni passati chi ha acquistato un’auto lo ha fatto a debito. Così negli Usa gli acquirenti sono diventati ‘parte’della tanto sbandierata ripresa economica americana. La domanda, si è detto, è ripartita: il cavallo è tornato a bere. Il totale dei prestiti per l’acquisto di automobili ha raggiunto il trilione (mille miliardi) di dollari.

Le banche e altri mediatori finanziari anche in questo caso hanno ‘impachettato’ tali debiti in apposite obbligazioni che sono state vendute sul mercato. Sulle stesse si sono moltiplicati i vari strumenti finanziari anche per darne copertura assicurativa.
Intanto i media statunitensi hanno cominciato ad evidenziare che un numero crescente di acquirenti non è in grado di pagare le rate. Alcuni istituti finanziari hanno registrato un ritardo di pagamento di oltre 30 giorni per almeno il 12% dei prestiti da loro concessi. Anzi, per il 2,6% degli stessi è già stata attivata la procedura di fallimento e di sequestro del veicolo.

Ancora una volta sono le agenzie di rating a valutare la sostenibilità delle obbligazioni e degli asset-backed security (derivati) emessi dalle banche sulla base dei mutui accesi per l’acquisto di auto. Fitch Ratings riporta che i titoli ‘impacchettati’ nei passati 5 anni con un ritardo di pagamento di 60 giorni hanno raggiunto complessivamente il livello del 5,16%. Il più alto degli ultimi 20 anni.
Alla luce dei dati succitati si può dire che le vendite record di auto non riflettono il vero andamento dell’economia americana. Tutto al più rappresentano il più facile accesso al credito per l’acquisto di automobili.

Altro settore delicato ci sembra quello delle carte di credito, il cui debito negli Usa sta raggiungendo il livello di 1 trilione di dollari. Nell’ultimo trimestre del 2015 vi è stata un’impennata che ha superato la crescita totale avvenuta nel triennio 2009-11. E’ il caso di sottolineare che nel solo ultimo trimestre dell’anno scorso l’incremento è stato di ben 52 miliardi.
Purtroppo il rischio di una bolla si profila anche per i crediti concessi agli studenti. Sono prestiti garantiti dallo Stato che devono essere ripagati durante la futura vita lavorativa da chi ne ha usufruito nel periodo universitario. Si stima che l’ammontare complessivo sia oggi ben oltre 1 trilione di dollari e che possa raggiungere i 3,3 trilioni entro il 2024.

Naturalmente il timore è dovuto al fatto che anche su questi prestiti le banche hanno emesso una serie di titoli abs il cui valore è strettamente legato al flusso di cassa dei rimborsi continui. Questa situazione si sta aggravando tanto che il tema è diventato oggetto della campagna presidenziale in corso. In verità la lista potrebbe essere più lunga perché vi sono tante altre ‘piccole’ bolle. Trattasi comunque di trilioni anche se non di centinaia di trilioni come per i derivati otc.

Sono dati che cominciano ad essere oggetto di valutazione e di discussione da parte degli addetti. Considerati i riverberi che oggettivamente la finanza globalizzata può determinare nei singoli Paesi, sarebbe opportuno che le autorità di governo e di vigilanza nazionali ed internazionali vi prestassero adeguata attenzione. A partire dal nostro Paese, dove, come è noto, il problema dei crediti deteriorati e delle sofferenze per 200 miliardi di euro è di prima grandezza.
*già sottosegretario all’Economia

**economista

ANNO NUOVO, RISCHI FINANZIARI NUOVI

2016: NUOVI RISCHI FINANZIARI GLOBALI

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

La Federal Reserve, come previsto, ha chiuso il 2015 con un aumento del tasso di interesse dello 0,25%. Evidentemente si intenderebbe dare il messaggio di fine della crisi negli Stati Uniti. C’è da augurarselo per la ripresa globale. Non vorremmo però che ci si debba ricredere.

La politica degli anni passati del Quantitative easing e del tasso di interesse zero non ha risolto i problemi . In questo periodo sono stati immessi 3,5 trilioni di dollari nel sistema bancario. Solo la borsa americana ne ha beneficiato. Rispetto al crollo del 2008 gli aumenti sono stati del 96% per l’indice Dow Jones, del 124% per quello S&P 500 e del 214% per il Nasdaq.

Nei sistemi finanziari e nelle economie di molti altri Paesi, invece, ha lasciato profonde ferite. Nei mercati emergenti molte imprese sono state invogliate ad accendere tanti e nuovi debiti in dollari, molto spesso per operazioni rischiose e poco produttive. Del resto i costi apparivano molto contenuti. Secondo i dati della Banca dei Regolamenti Internazionali il debito totale delle imprese private dei Paesi emergenti ha raggiunto i 3,4 trilioni di dollari, più del doppio rispetto al livello di prima della crisi.

Con la continua svalutazione delle proprie monete nazionali, le economie emergenti hanno sempre più difficoltà a pagare debito e interessi. Per coprire i buchi finanziari attingono al bilancio pubblico scatenando gravi tensioni sociali. Adesso ogni aumento del tasso di interesse americano suona come una minaccia alla propria stabilità nazionale ed economica. Inoltre, l’attuale discesa dei prezzi della materie prime, di cui sono largamente produttori , e l’atteso rallentamento delle economie emergenti nel loro insieme, non solo quello della Cina, rappresentano un ulteriore aggravamento. Se si tiene presente che esse rappresentano il 40% del Pil mondiale, la loro instabilità rischia di avere delle conseguenze negative globali.

Il tasso zero e la liquidità a “go-go” hanno generato una tendenza simile anche negli Usa. Invece di essere utilizzata per espandere il business, la liquidità è spesso servita per fusioni e acquisizioni. Quest’anno ben 327 miliardi di dollari sono finiti in tali operazioni. Inoltre tra il 2009 e il 2014 ben 1.200 miliardi di dollari sono stati riversati nei fondi che trattano obbligazioni corporate. Perciò anche l’Office of Financial Research del ministero del Tesoro americano nel suo recente rapporto annuale intravede dei “rischi elevati” per il rifinanziamento dei debiti obbligazionari del settore non finanziario.

Non è un caso quindi che nelle scorse settimane una serie di fondi di investimento che operavano con i cosiddetti “junk bond” , i titoli spazzatura ad alto rischio, siano andati in crisi. Il settore era cresciuto moltissimo negli anni passati, particolarmente nel campo energetico. Di fatto esso aveva rimpiazzato quello delle ipoteche sub prime dominante prima della crisi. Ciò ha generato delle ulteriori vendite sul vasto mercato dei junk bond con riverberi negativi sull’intero mercato delle obbligazioni. Si stima che vi siano circa 1,4 trilioni di junk bond che richiederanno un rifinanziamento a breve.

Una delle aspettative derivante dall’aumento del tasso di interesse sarebbe quella di ridurre la tendenza del sistema bancario e di quello corporate a ricorrere al prestito facile. Ma in realtà le banche americane hanno già delle gigantesche riserve in eccesso, pari a 2,42 trilioni di dollari, per cui il menzionato aumento difficilmente determinerà mutamenti nel loro comportamento.

Come sappiamo la Banca centrale europea, invece, intende perseguire una politica espansiva della liquidità. Occorrerà stare attenti che non si generi il cosiddetto “euro carry trade”, cioè la tendenza ad approfittare dell’euro a tasso zero per attingere a crediti che potrebbero andare in attività, anche speculative, fuori dall’Europa. Proprio come in passato è accaduto con lo yen e con lo stesso dollaro.

Considerati i rischi di nuove turbolenze, sarebbe il caso che in Europa e anche in Italia si affrontassero con chiarezza e decisione le crescenti difficoltà del sistema bancario. Servono più controlli stringenti sulle sue attività, divieto assoluto delle operazioni ad alto rischio sia in derivati che in junk bond, maggiore tutela dei risparmiatori e forti sanzioni penali nei confronti degli amministratori e dei manager bancari che non rispettano le norme.  

*già sottosegretario all’Economia

**economista

LA MONETA CINESE FA IL SUO INGRESSO TRA LE MONETE DI RIFERIMENTO DEL FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE

La moneta cinese entra nei diritti speciali di prelievo del Fmi

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Il renminbi cinese (rmb) entra a far parte dei diritti speciali di prelievo (dsp), la moneta internazionale di riferimento del Fondo Monetario Internazionale composta da un paniere di valute. Sino ad oggi vi partecipano soltanto il dollaro, l’euro, lo yen giapponese e la sterlina britannica.

I dsp sono la moneta virtuale di riserva internazionale creata dal Fmi nel 1969, nel contesto del sistema di cambi fissi di Bretton Woods, per affiancare le riserve monetarie (allora solo dollaro e oro) e per supportare l’espansione del commercio mondiale e i relativi flussi finanziari.

Il Fmi li ha usati anche per prestiti di emergenza verso i Paesi membri. I dsp possono essere scambiati con le altre valute normalmente usate. A fine novembre di quest’anno erano in circolazione 204 miliardi di dsp, pari a circa 285 miliardi di dollari.

La ripartizione sarà così: il dollaro avrà il 41,73%, l’euro il 30,93%, il renminbi il 10,92%, lo yen l’8,33% e la sterlina l’8,09%. Questa nuova composizione entrerà in vigore il prossimo 1 ottobre 2016.

Interessante notare che la suddivisione delle quote del 2011 era: 41,9% per il dollaro, 37,4% per l’euro, 11,33% per la sterlina e 9,44% per lo yen. Balza evidente che, nonostante il ridimensionamento dell’economia americana, il dollaro mantiene la posizione dominante. Chi viene ridimensionato è in particolare l’euro.

Si noti che, quando il Fmi venne creato nel dopo guerra, il pil americano era equivalente al 50% di quello mondiale, oggi è il 22%. Venti anni fa il pil della Cina rappresentava soltanto il 2% del totale, oggi è il 12%. Si consideri che la Cina detiene circa 1,3 trilioni di dollari in buoni del Tesoro americano.

Nonostante queste enormi trasformazioni dell’economia mondiale la quota di partecipazione assegnata alla Cina nel Fmi è simile a quella del Belgio. Del resto non si può ignorare che il Congresso americano nel 2010 votò contro la revisione delle quote e che tale opposizione si è poi ripetuta ad ogni summit del G20.

In ogni caso la decisione sui dsp è un importante passo in avanti nella creazione di un nuovo sistema monetario internazionale basato su un paniere di monete. La nuova composizione dei dsp dovrebbe perciò preparare una grande evoluzione verso un sistema multipolare nella sua dimensione politica, economica, commerciale e, quindi, anche monetaria.

La Cina e gli altri Paesi del BRICS sono stati i grandi fautori di una riforma globale in modo crescente a partire dalla crisi finanziaria del 2008. Già nel marzo del 2009 il governatore della Banca Centrale Zhou Xiao Chuan aveva sollecitato la creazione di una moneta di riserva internazionale non più sottomessa a una singola moneta nazionale, il dollaro. Oggi la Banca centrale cinese saluta la decisione come “un miglioramento dell’attuale sistema monetario internazionale e un risultato vincente sia per la Cina che per il resto del mondo”

Adesso la Cina sarà certamente sottoposta a crescenti pressioni e la sua economia e il suo sistema finanziario saranno analizzati e valutati con cura.

Si stima che inizialmente ciò dovrebbe determinare un modesto aumento nella domanda internazionale di valuta cinese, equivalente a circa 30 miliardi di dollari. Comunque chi commercia con la Cina sarà sollecitato a tenere quantità crescenti di rmb.

La riduzione delle allocazioni di portafoglio in dollari a seguito della decisione di riconoscere al rmb un ruolo di moneta di riserva potrebbe nel tempo essere maggiore di quanto si possa oggi pensare.

Il processo di internazionalizzazione di una moneta è lento, procede infatti per tre stadi: viene prima usata in operazioni commerciali, poi può diventare oggetto di investimenti da parte di privati e infine può essere accettata come riserva per il mercato regionale e globale.

Si ricordi che nel 2014 il rmb era incluso nelle riserve monetarie di 38 Paesi soltanto. E rappresentava circa 1,1% di tutte le riserve monetarie. L’euro contava per il 21%.

Negli anni recenti la Cina ha sottoscritto accordi di swap monetari con più di 40 banche centrali, in Asia, in Europa e in America Latina. Ciò ha facilitato l’uso dello rmb e ha favorito la concessione di quote di partecipazione nei programmi cinesi di investimenti esteri.

Si stima che nei prossimi 10 anni questa evoluzione potrebbe portare ad un flusso di circa 2-3 trilioni di dollari verso la Cina. Soprattutto le economie emergenti avranno un immediato interesse verso il rmb e il suo nuovo ruolo internazionale.

Ci si augura che l’Europa abbia piena consapevolezza delle oggettive implicazioni strategiche che il cambiamento in questione avrà. Non vorremmo che ancora una volta essa subisca certi processi rinunciando al protagonismo che la sua realtà economica e politica richiede.

*già sottosegretario all’Economia **economista