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Che cos’è l’islam politico?

L’islam politico è nato dopo la fine dell’impero ottomano (1922), e la sua radicalizzazione anti-occidentale è una conseguenza dell’atteggiamento prevaricatore di Francia, Regno Unito e Stati Uniti in Medio Oriente e, più in generale, nel mondo islamico. Mustafa Kemal Atatürk pose fine al Califfato ottomano (ultimo riconosciuto al mondo) nel 1924, creando uno Stato laico, che però oggi Erdoğan ha messo in discussione.

Islam politico non necessariamente vuol dire terrorismo o sharia, però certamente non vuol dire democrazia. E anche la sua concezione dei diritti umani (soprattutto nei confronti delle donne) contiene aspetti che il mondo occidentale giudica molto primitivi.

L’islam politico può riguardare gli Stati islamici oppure i gruppi e movimenti che lottano per avere un ruolo governativo all’interno dei loro Stati. In ogni caso sia gli uni che gli altri usano la loro religione come uno strumento politico con cui difendersi dalle mire colonialistiche e imperialistiche dell’occidente capitalistico.

L’islam politico è un mondo incredibilmente vasto e complesso, ma in generale si può sostenere che l’ideologia di fondo contiene tre princìpi standard:

- la volontà di organizzare l’intera società e la politica sulla base della religione islamica (è il fondamentalismo o integralismo religioso);

- una condivisa mitizzazione del passato che porta a idealizzare la purezza del primo islam, considerato come modello ideale di riferimento (il che comporta la subordinazione di qualunque minoranza);

- l’obiettivo di purificare la società musulmana dalle contaminazioni culturali importate dall’esterno, considerate motivo del declino dell’islam (di qui l’acceso nazionalismo).

Naturalmente i modelli europei sono stati adottati da molti leader islamici al momento della costruzione dei rispettivi Stati, non solo per costrizione esterna, ma anche perché parte delle élites erano convinte che l’arretratezza dei loro Paesi fosse dovuta proprio alle strutture sociali, economiche e politiche dell’islam.

Era piuttosto l’ortodossia islamica di matrice clericale a ritenere che la “modernità” occidentale avrebbe allontanato la comunità musulmana dalla pratica dell’islam.

Purtroppo è stato il generale fallimento del modello occidentale nei Paesi islamici che ha indotto a cercare dei modelli alternativi basati sui princìpi islamici, in grado di fornire tutte le risposte alle necessità dei nuovi Stati-nazione mediorientali.

È in questo contesto che nasce il primo movimento islamista, la Fratellanza Musulmana, fondata in Egitto nel 1928. Pur essendo repressa da Nasser (1954-70), essa si è presto diffusa in Siria, Giordania, Tunisia e nei territori palestinesi.

Poi, nella seconda metà del ‘900 sono comparse organizzazioni jihadiste, e il fenomeno ha conosciuto una deriva armata e violenta. Tuttavia laddove l’islam politico è riuscito a entrare nei sistemi di governo (p.es. in Tunisia o in Marocco), si è rivelato totalmente incapace a esercitare il potere e a gestire gli affari nazionali.

A tutt’oggi il risultato più significativo e duraturo è stato ottenuto dalla Repubblica Islamica dell’Iran, con la rivoluzione teocratica compiuta da Khomeini nel 1979, che ha deposto lo scià filo-occidentale Reza Pahlavi. Per l’ayatollah sciita Khomeini “L’islam o è politica o non è nulla”. E i talebani afghani la pensano come lui. Infatti han preso l’Iran come modello.

Il nucleare in Iran, l’embargo e gli attacchi d’Israele

È incredibile come al giorno d’oggi, in cui continuamente parliamo di diritti umani, nessuno dica niente su come Israele, che è una potenza nucleare, impedisca all’Iran di diventarlo. Cosa direbbero a noi se di tanto in tanto andassimo a bombardare la Francia solo perché nel 1987 abbiamo rinunciato con un referendum al nucleare?

Sembra addirittura che il sabotaggio israeliano dell’importante impianto nucleare di Natanz (a 300 km a sud di Teheran) stia avendo delle conseguenze sulla politica interna dell’Iran, già in fermento a causa della crisi economica provocata dalle 1.500 sanzioni internazionali volute dagli USA (un numero enorme, senza precedenti, che sta portando al collasso l’economia del Paese).

Lo scontro tra ultraconservatori, guidati da Ali Khamenei (la principale figura politica e religiosa del Paese, ritenuta più potente dello stesso parlamento), e moderati, il cui leader è il presidente Hassan Rouhani, è diventato più acuto. Anche perché i primi non vorrebbero nessun accordo con gli americani. Esattamente come gli israeliani, che, per motivi opposti, han sempre detto di non fidarsi dell’Iran.

Abituati come siamo a ragionare in termini di buoni e cattivi, ci sembra che gli iraniani siano più cattivi degli israeliani, per cui ci fa piacere quando, in un modo o nell’altro, quel regime teocratico mostra vistose crepe. E così non ci rendiamo conto che le istituzioni iraniane sono gestite, non meno di quelle israeliane, da politici orgogliosi del proprio fondamentalismo, disposti a difenderlo in qualunque maniera.

A giugno in Iran si terranno le elezioni presidenziali, ma sin da adesso possiamo scommettere che vinceranno gli ultraconservatori, cioè quelli che sanno meglio sfruttare politicamente l’embargo economico dell’occidente e gli attacchi militari d’Israele. Basti pensare che è il Consiglio dei Guardiani, controllato dai radicali, a fare una preselezione dei candidati ammessi alle elezioni. E poi il presidente Rouhani non potrà candidarsi per un terzo mandato, essendo al potere dal 2013.

In ogni caso il sistema non è ancora crollato: né per le sanzioni, né per le grosse proteste antigovernative degli ultimi due anni, né per le tensioni nel Golfo Persico, né dopo l’uccisione del potente generale Qassem Suleimani, considerato uno degli esponenti più influenti dell’intero regime.

I colloqui relativi al nucleare iraniano in corso a Vienna non porteranno a niente. Infatti Joe Biden vuole sì tornare agli accordi del 2015, interrotti da Trump nel 2018, ma vuole anche che l’Iran non punti i suoi missili balistici a lungo raggio contro Israele o verso l’Oceano Indiano. Non solo, ma Teheran, prima di riportare l’arricchimento dell’uranio nei limiti previsti dall’intesa (un ridicolo 4%), pretende che gli USA ritirino subito la maggior parte delle sanzioni economiche. Sarà un dialogo tra sordi e se l’Iran deciderà di avvalersi dell’appoggio cinese, pur di non darla vinta all’occidente, la situazione in Medio Oriente diverrà esplosiva. Già oggi si ritiene che l’Iran abbia superato il suddetto limite di almeno 5 volte. E con la Cina è stato firmato un accordo di cooperazione strategica globale di 25 anni. Cina, Iran e Russia hanno anche condotto esercitazioni militari congiunte senza precedenti nel Golfo di Oman e nell’Oceano Indiano alla fine del 2019.

LA GUERRA DEGLI USA CON I SOLITI COMPARI SAUDITI CONTRO RUSSIA E ORA ANCHE IRAN CON L’ATOMICA DEL PETROLIO

PREZZO DEL PETROLIO E RISCHI GEOPOLITICI

Mario Lettieri* e Paolo Raimoindi**

Mario Draghi ha recentemente smosso le acque torbide della finanza affermando che «ci sono forze nell’economia globale di oggi che concorrono a mantenere bassa l’inflazione».

E’ la sua seconda dichiarazione di grande impatto politico ed economico. La prima fu nel luglio 2012 quando disse «faremo tutto quello che è necessario» per difendere l’euro dagli attacchi speculativi internazionali. In entrambi i casi è chiaro che non si riferisce a giochi interni all’Europa ma a forze politiche di oltreoceano.

Riteniamo che sulla questione del crollo dei prezzi delle commodity ed in particolare di quello del petrolio sia doveroso fare qualche approfondimento. Innanzitutto il prezzo del petrolio è stato più volte, per non dire sempre, oggetto sia di grandi operazioni speculative che di interventi e decisioni di interesse squisitamente geopolitico.

In quest’ottica va letto l’andamento del prezzo del petrolio. Si ricordi che fino alla metà del 2004 si aggirava intorno ai 40 dollari al barile. Nel 2006 salì a 70 dollari, a luglio del 2008 raggiunse i 145 dollari. A fine 2008 precipitò a 30 dollari, per poi risalire a 110 nel 2011. Dal 2014 il prezzo è sceso fino ai circa 30 dollari attuali.

In generale i prezzi riflettono una situazione di deflazione a seguito della globale recessione economica con la generale riduzione delle produzioni e dei commerci. Ma è altrettanto vero però che un tale ‘ottovolante’ non può rappresentare l’andamento reale della domanda e dell’offerta!

Dal 2014, oltre alla speculazione, si è attivata una vasta e pericolosa strategia geopolitica, guidata dell’Arabia Saudita ed avallata dagli Usa, tesa a far precipitare il prezzo del petrolio, aumentandone la produzione, per indebolire l’Iran e la Russia.

Le dinamiche dei prezzi del petrolio e delle altre materie prime sono anche collegate al ‘male profondo’ dell’economia mondiale che si chiama ‘bolla del debito’.

Il crollo dei prezzi si è accompagnato ad un alto indebitamento delle imprese leader nel settore delle commodity, del petrolio in particolare. Si considerino le imprese americane del settore dello ‘shale gas’ e le varie corporation petrolifere dei Paesi emergenti, che hanno largamente attinto risorse finanziarie sia dal settore bancario che sul mercato obbligazionario. I dati parlano chiaro.

Le imprese impegnate nei settori del petrolio e del gas che nel 2006 avevano sottoscritto prestiti bancari per 600 miliardi di dollari, nel 2014 ne contavano ben 1.600 miliardi. Un aumento del 13% annuo. Le stesse imprese, spesso attraverso l’utilizzo di filiali offshore, hanno fortemente aumentato anche le loro emissioni di obbligazioni, passando dai 455 miliardi nel 2006 ai 1.400 miliardi di bond nel 2014. Un aumento annuo del 15%.

L’emissione di obbligazioni nel periodo indicato è aumentata del 13% in Russia, del 25% in Brasile e del 31% in Cina. E’ appena il caso di ricordare che in questo lasso di tempo le imprese petrolifere dei Paesi emergenti hanno contribuito con grandi dividendi ai bilanci dei rispettivi governi. Perciò la drastica caduta dei prezzi sta mandando in crisi anche i budget pubblici di molti Paesi.

L’attuale basso prezzo del petrolio sta generando una serie di conseguenze. In primo luogo, essendo i titoli azionari e obbligazionari delle imprese petrolifere collegati al prezzo del petrolio, i loro valori di mercato ne stanno inevitabilmente risentendo. Inoltre con la diminuzione dei profitti è cresciuto il rischio dei dissesti e dei fallimenti oltre che il costo degli eventuali finanziamenti richiesti. Ad esempio, il tasso di interesse di un’obbligazione petrolifera che era di 330 punti nel giugno 2014 oggi è salita a 1.600 punti. Aumenti simili si sono registrati anche per i credit default swap, quei derivati sottoscritti per garantirsi contro le variazioni dei tassi di interesse.

Una seconda inevitabile conseguenza è la progressiva mancanza di liquidità per le imprese petrolifere coinvolte. Per farvi fronte inizialmente si aumenta la produzione con l’intento di mantenere un flusso di cassa attivo, ma spesso si è costretti a una riduzione degli investimenti o alla dismissione di parte del patrimonio dell’azienda.

Una terza conseguenza, la più rischiosa, si manifesta nella tendenza ad aumentare la vendita di ‘future’ petroliferi e di acquisti di derivati ‘put option’ come garanzie sull’andamento dei prezzi. Di fatto ogni aumento dei ‘future’ petroliferi tende a saturare ulteriormente il mercato contribuendo alla discesa del prezzo del petrolio. In una fase di caduta del prezzo, la speculazione gioca al ribasso: si vende, sulla carta, a 100 oggi per ricomprare domani a 90. Il contrario di quanto succedeva nei periodi di crescita del prezzo quando si comprava un derivato a 100 per venderlo a 110 alla scadenza, partecipando così all’esplosione dei prezzi.

E’ un meccanismo perverso della finanza, del debito e della speculazione. Non si possono immaginare soluzioni efficaci alle gravi distorsioni del sistema senza rivederne l’architettura.

Tale urgenza, secondo noi, non è più eludibile in quanto irresponsabilmente si ripropongono vecchie tesi di geopolitica che vedono solo nella guerra o in una grande e diffusa destabilizzazione ‘l’occasione’ per determinare l’aumento del prezzo del petrolio e delle altre commodity.

*già sottosegretario all’economia **economista

 

 

E PER LE BANCHE USA “TROPPO GRANDI PER FALLIRE” BABBO NATALE HA PORTATO UN BEL REGALO. SPERIAMO CHE L’UNIONE EUROPEA NON LO IMITI CON LA BEFANA….

Regalo di Natale alle banche: ritorna il “bail out”

 Mario Lettieri* Paolo Raimondi** 

Solitamente Babbo Natale porta i regali ai più piccoli. Ma quest’anno, forse anche lui un po’ frastornato dalla valanga di messaggi di pubblicità o malignamente disinformato dall’onnipotente National Security Agency, ha fatto un bel regalo anche alle banche più grandi del pianeta.

Il Congresso americano infatti ha approvato delle misure che proteggono le “too big to fail” in tutte le operazioni con derivati finanziari. E’ stato cancellato il cosiddetto “Emendamento 716” della legge di riforma finanziaria Dodd-Frank che, per taluni derivati, costringeva le banche ad operare attraverso delle sussidiarie. Era un modo per evitare che i soldi dei depositi bancari venissero utilizzati in operazioni speculative.

Poiché i succitati depositi utilizzati usufruivano delle garanzie della Federal Deposit Insurance Commission (FDIC), tutte le banche in crisi finora hanno goduto di generose operazioni di salvataggio con fondi pubblici da parte del governo, i cosiddetti “bail out”.

In realtà la legge Dodd-Frank, originariamente concepita proprio per proteggere i risparmiatori dopo gli sconquassi della crisi finanziaria globale del 2007-8, era già stata abbondantemente annacquata. Permetteva quindi l’utilizzo dei depositi per i derivati relativi alla protezione rispetto ai rischi sui prestiti concessi, alla volatilità dei tassi di interesse e ai crediti inesigibili. Di fatto tale protezione riguardava ben il 95% di tutti i derivati.

Perciò è d’obbligo porsi la domanda del perché vi sia “tanta animosità” per il rimanente 5%, pari a 14 trilioni di dollari in rapporto a un montante nominale complessivo di circa 280 trilioni. Ciò soprattutto in considerazione del fatto che da tempo le banche possono contare anche sulla copertura del cosiddetto “bail in”, cioè sulla possibilità di attingere ai depositi, oltre che al capitale proprio, per coprire gli eventuali buchi provocati da operazioni finanziarie spericolate e da speculazioni andate male.

La risposta, secondo noi, sta proprio in quel 5% di derivati esclusi che include i derivati sulle commodity, rilevanti sotto tutti i punti di vista. Come evidenziato in passato, le banche hanno penetrato i mercati delle materie prime, su cui esercitano una crescente influenza sicuramente destabilizzante.

Oggi le banche americane sentono la necessità di garantirsi il “bail out” pubblico anche su questi segmenti di finanza speculativa in quanto i loro derivati, soprattutto quelli relativi al petrolio, rischiano di produrre grandissime perdite.

Infatti, mentre per i tassi di interesse il comportamento della Federal Reserve è una variabile prevedibile, l’andamento del prezzo del petrolio negli ultimi mesi non lo è stato. Non è stato quindi coerente con la legge della domanda e dell’offerta. In breve tempo esso è sceso da 110 dollari al barile a circa 60 dollari.

Vi è una chiara scelta politica sottesa alla volontà di inondare i mercati di petrolio e di continuare a produrne grandi quantità anche in situazioni di calo del prezzo assai vistoso. Normalmente non dovrebbe essere così, a meno che non vi siano forti ragioni geopolitiche. Ora appare evidente la volontà di mettere in ginocchio finanziariamente la Russia e l’Iran, due grandi produttori di petrolio i cui bilanci dipendono non poco da tale risorsa..

Però adesso le banche americane si trovano in pancia tanti prodotti derivati emessi in garanzia di aumenti del prezzo del petrolio oppure in rapporto a eventuali diminuzioni meno consistenti di quelle attuali.

La banca forse più esposta è la JP Morgan Chase, tanto che ha mandato il suo chief executive a testimoniare al Congresso per la rimozione dell’emendamento citato. La cosa in verità è passata sotto silenzio, “seppellita” nella legge finanziaria americana del 2015 che tra l’altro approva anche la copertura di spesa del governo per 1.100 miliardi di dollari per evitare così nuovi shut down.

Il voto delle leggi finanziarie spesso nasconde tra le migliaia di commi e di norme scelte e decisioni non giustificabili e non sostenibili. In verità il cosiddetto “assalto alla diligenza” accade anche da noi in sede di approvazione della Legge di Stabilità.

Speriamo che la scelta compiuta dal Congresso americano non venga imitata anche dall’Unione europea.

*Sottosegretario all’Economia del governo Prodi **Economista

FINE DELL’EGEMONIA DEL DOLLARO E RUOLO DELL’ORO

L’alternativa al sistema del dollaro. Il ruolo dell’oro

Mario Lettieri* Paolo Raimondi** 

I maldestri tentativi da parte americana di salvare a tutti i costi il ruolo egemone del dollaro stanno spingendo molti Paesi a lavorare più alacremente per costruire un’alternativa monetaria multipolare. Oggettivamente il dollaro, come unica valuta degli scambi e delle riserve internazionali, ha concluso il suo ciclo storico. Bisogna prenderne atto.

Le destabilizzazioni finanziarie e le svalutazioni monetarie nei Paesi emergenti, provocate dalle politiche di liquidità “yo-yo” della Federal Reserve, hanno indotto alcuni governi a denunciare una “guerra monetaria” in corso. Le “cadute pilotate” dei prezzi del petrolio e dell’oro mirano a mettere in difficoltà soprattutto i Brics, la Russia e l’Iran. Contemporaneamente i prezzi di alcune materie prime vengono manipolati al rialzo con l’effetto di “gambizzare” le politiche industriali e di sviluppo dei Paesi emergenti e anche dell’Unione europea.    

Anche se non lo volessero, da tempo molti Paesi sono quindi stati costretti a immaginare e a proporre un nuovo sistema monetario. Alcune recenti decisioni lo confermano.

Infatti la creazione a Fortaleza della Banca di Sviluppo dei Brics ha in sé le potenzialità per diventare un organismo monetario internazionale alternativo al Fmi e alla Banca Mondiale del defunto sistema di Bretton Woods.

La stessa Cina fa grandi accordi con il Brasile, con la Russia, con il Giappone, con la Corea del Sud regolati in yuan o in altre monete nazionali.

Sono contratti nella forma di swap monetari che permettono di saldare gli scambi nelle valute stabilite. Recentemente li avrebbe proposti anche all’Ue. Una parte del grande accordo di forniture di gas tra la Russia e la Cina per l’equivalente di 400 miliardi di dollari del resto verrà regolata in rubli o in yuan.

Si ricordi inoltre che lo scorso aprile il governo di Mosca ha annunciato che una parte dei contratti internazionali stipulati dalle grandi corporation russe dovrà avvenire in rubli. Al recente summit dell’Asia-Pacific Economic Cooperation (APEC) di Pechino, il presidente Putin ha affermato che”faremo un uso sempre maggiore di accordi e compensazioni in monete nazionali nel nostro commercio con la Cina. Siamo pronti a fare i primi accordi in rubli e in yuan, anche nel settore dell’energia”. Una Commissione intergovernativa russo-cinese è già al lavoro per studiare simili opzioni. La stessa Banca Centrale russa ha annunciato la volontà di creare con i partner dei Brics un “sistema di swap multilaterali”.

Naturalmente i riverberi politici non mancano. Infatti la conferenza per la sicurezza del Shanghai Cooperation Organization (SCO), che già coinvolge Cina, Russia, Kazakhstan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan, vedrà a breve la partecipazione anche di India, Pakistan, Iran, Afghanistan e Mongolia. Anche la Turchia, che è un membro della Nato, sembra volervi aderire. Formerebbero così un blocco che in campo energetico controllerebbe il 20% delle riserve mondiali di petrolio ed il 50% di quelle di gas.

In tale contesto, come prevedibile, anche il ruolo dell’oro è ritornato al centro delle discussioni . Con la volatilità del suo prezzo registratasi nei mesi recenti si mira a renderlo instabile e quindi poco utilizzabile in eventuali accordi monetari internazionali. Però si ha notizia che a Mosca sarebbe in discussione proprio l’aggancio del rublo all’oro. E’ facilmente intuibile che l’attuale svalutazione del 30% della moneta russa sia frutto di speculazioni e manipolazioni internazionali. Di sicuro non riflette la reale capacità economica e l’immensa ricchezza della Russia. Agganciare il valore della valuta alle riserve auree avrebbe un effetto stabilizzante sui cambi della moneta.

Come è noto, a parte il debito sovrano al 15% del Pil, la Russia vanta riserve auree pari al 27% della quantità di rubli in circolazione. Gli Usa invece hanno un debito pubblico al 105% del Pil, mentre le loro riserve auree coprono appena il 2,3% dell’offerta monetaria.

Non si comprende il perché esperti occidentali tentano a minimizzare un possibile ruolo futuro dell’oro nel sistema monetario. Si ignora che da tempo tutti i governi europei importanti, a cominciare dalla Germania, dall’Olanda, dalla Gran Bretagna, dalla Svizzera stanno effettuando forti campagne pubbliche per riportare a casa il loro oro, attualmente detenuto nei caveau di Fort Knox negli Usa.

Su questo terreno assai movimentato e complesso riteniamo che il ruolo dell’Unione europea possa diventare più centrale e più incisivo. Una politica dell’Europa, veramente indipendente, potrebbe agevolare una soluzione non conflittuale verso un nuovo sistema politico e monetario internazionale. Una nuova architettura monetaria, come anche noi da tempo sosteniamo, dovrebbe portare alla costituzione di un paniere di monete dove ovviamente dovrebbe esserci anche il dollaro insieme all’euro e ad altre importanti monete.

Occorre prendere atto che con la caduta del Muro di Berlino il mondo necessita di un assetto multipolare, anche monetario.

*Sottosegretario all’Economia del governo Prodi **Economista

Anche l’Italia colpita dai giochi di potere internazionali sul petrolio

La geopolitica del petrolio colpisce anche in Italia

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi **

La questione petrolio è di indubbia portata globale anche se i riverberi locali incidono non poco sui territori,  nelle economie e sulla stessa salute dei cittadini residenti nelle regioni interessate alle estrazioni. Di conseguenza anche le ricerche e le estrazioni in Basilicata dipenderanno dal mercato globale, le cui oscillazioni tendono al ribasso.

Mentre la domanda ristagna a causa della perdurante crisi industriale ed economica in Europa e del rallentamento delle economie del Far East, in primis quella cinese, l’offerta è cresciuta molto. A ciò si aggiunga che gli USA, con la produzione di shale gas, hanno notevolmente aumentato l’estrazione di greggio (+80%). Anche i significativi risultati dovuti alla cresciuta efficienza energetica, all’aumento delle energie rinnovabili, ai risparmi nei consumi e alla migliore produttività dei settori incidono notevolmente.

Bisogna ricordare che il petrolio è sempre stata un’arma formidabile per mutare e condizionare le vicende e gli assetti geopolitici globali. Perciò la storia mondiale del petrolio è tristemente segnata, oltre che dai danni all’ambiente e alla salute, da guerre, colpi di stato, corruzione e assassinii.

Anche oggi non pochi esperti ed analisti del settore sottolineano che dietro la decisione di far scendere il prezzo del petrolio ci sarebbe anche l’intenzione dell’Arabia Saudita, condivisa con gli alleati americani, di colpire le economie della Russia e dell’Iran. Si tenga in considerazione infatti che le entrate petrolifere rappresentano il 60% delle entrate del governo dell’Iran e il 50% di quelle della Russia.

Una simile mossa venne fatta nel 1985 sempre dall’Arabia Saudita che per un certo periodo di tempo abbassò il prezzo del petrolio di 3,5 volte aumentando nel contempo la produzione di ben 5 volte. Gli sceicchi non dovettero rinunciare ai loro fasti, ma di conseguenza, nei grandi giochi della geopolitica mondiale, l’URSS venne messa in ginocchio. Continua a leggere

1) – CRIMEA E UCRAINA: LA REALTA’ E L’IPOCRITA AVVENTURISMO OCCIDENTALE 2) – IL GRANDE PROGETTO DI SVILUPPO DELL’EURASIA 3) FINALMENTE LA SEPARAZIONE BANCARIA?

Se anziché badare ai meschini ma grassi interessi di parte si badasse davvero all’interesse generale, la Comunità Europea andrebbe estesa non solo fino a Kiev, capitale dell’Ucraina in pericolosa ebollizione, ma fino a Mosca (così come a sud dovrebbe comprendere almeno anche la Turchia). Non a caso a Verona ha sede da qualche anno il Forum Eurasiatico, che si batte per diffondere appunto l’idea che l’Europa deve allargarsi all’Asia, questa volta con mezzi pacifici, trattati economici e strategie di ampio respiro anziché con le invasioni napoleoniche e nazifasciste.

Cominciamo col chiarirci le idee in modo da sapere di cosa stiamo parlando. La Crimea è Russia dal ’700, prima faceva parte dell’impero turco. L’Ucraina ha la sua parte sudorientale composta da popolazione di lingua russa e la sua parte occidentale composta dalla Rutenia di memoria austro-ungarica e da una parte della Polonia,  che fino al 1939 era estesa molto più a est. L’Ucraina avrebbe quindi tutto l’interesse a cedere alla Russia oltre alla Crimea anche le regioni sudorientali russofone in cambio di buoni rapporti, stabili e vantaggiosi per tutti. Alle elezioni ucraine filo occidentali e filo russi sono entrambi al 50%. Se l’Ucraina cedesse il sud est russofono, i filo occidentali si assicurerebbero stabilmente il governo. Invece l’Europa e gli Usa titillano il nazionalismo ucraino, deleterio e pericoloso come tutti i nazionalismi, assecondandolo nella pretesa assurda di voler tenere nell’Ucraina anche le province russofone, sull’esempio della prepotenza degli Stati baltici prontamente assecondata dagli Usa e dall’Europa quando per far saltare l’Urss ricorsero anche all’invenzione dei tre Stati baltici.
Ovvio inoltre che alla Russia non faccia piacere la spinta Usa a piazzare basi Nato anche ai suoi confini con l’Ucraina, visto anche che gli Usa con la scusa del “pericolo Iran” hanno piazzato grandi basi militari negli Stati ex sovietici centro asiatici Uzbekistan, che li ha infine sloggiati, Kazakistan, ecc. La strategia Usa consistente nel circondare il più possibile la Russia con basi militari dai confini est europei a quelli meridionali centroasiatici è fin troppo evidente e ha un duplice scopo: poter minacciare militarmente sia la contingua Russia che la non lontana Cina. La durezza e l’aggressività, più a parole che con i fatti, di Putin non è altro che la logica conseguenza dell’aggressività politico militare degli Usa. Con al guinzaglio la docile Europa, che avrebbe invece tutto l’interesse a ingrandire la sua unione a est fino a Mosca, geograficamente cioè fino a Vladivostok, e a sud almeno fino alla Turchia – sicuramente più europea degli Stati baltici! – se non fino alla Mesopotamia. Continua a leggere

I paragoni impossibili di Obama e Kerry per spingere ad aggredire (anche) la Siria

In questa tragica e oscura vicenda siriana credo proprio sia il caso di dar retta a quanto dice Papa Francesco. E non solo perché, come giustamente ha detto,  le guerre portano solo altri morti e servono per far lucrare l’industria degli armamenti, oggi più formidabile che mai in tutto il mondo (e asse trainante della ricerca e dell’industria degli Usa), ma anche per altri motivi che inducono tutti a concludere che la prudenza non è mai troppa. Non a caso il Papa alla preghiera domenicale  dell’Angelus ha aggiunto: “No all’odio fratricida e a menzogne di cui si nutre”.
Cominciamo col dire che comunque il problema in Siria non sono tanto i 1.600 uccisi dal gas, chiunque li abbia usati, quanto gli almeno 100.000 morti, la massa di feriti e mutilati, le distruzioni e i milioni di sfollati collezionati dall’inizio della rivolta. Che, è doveroso dirlo chiaramente, è stata voluta e viene foraggiata dalle pessime monarchie saudita e del Golfo con il non disinteressato aiuto di Paesi occidentali. Detto questo, ammettiamo che i gas li abbia davvero usati l’esercito di Assad, come sostengono in molti, ma finora senza prove, anziché i ribelli e i mercenari, provocando la morte di 1.600 siriani. Basta questo per sostenere che “Assad è come Hitler”, cioè come l’inventore e il capo del nazismo che ha scatenato la seconda guerra mondiale e fatto ricorso ai campi di sterminio provocando in totale la morte di 40-50 milioni di persone? Basta questo per dire che “bisogna evitare una nuova Monaco”? Vale a dire, un nuovo accordo come quello che venne firmato da Inghilterra, Francia e Italia con la Germania nazista nel settembre del 1938, un anno prima che la Germania iniziasse la guerra. Basta questo per dire che “il mondo è in pericolo”?  O che “è in pericolo la sicurezza nazionale degli Stati Uniti”?
Evidentemente no, non basta neppure alla lontana. Eppure è quanto hanno sostenuto e sostengono il presidente Obama e il suo segretario di Stato John Kerry a partire dalla recente riunione del G 20, come si chiama il consesso del 20 Paesi più sviluppati del mondo. Continua a leggere

Dopo l’Iraq e la Libia, ora tocca alla Siria. In attesa di poter colpire di nuovo l’Iran. Intanto con la politica monetaria strangoliamo anche le economie emergenti

Paragonare il siriano Assad, o chiunque altro, a Hitler è solo da ignoranti, cinici, bari e quindi disonesti. Eppure è  il comportamento del Segretario di Stato Usa John Kerry, nonostante che lui la sua signora con Hitler-Assad ci abbiano beatamente cenato qualche anno fa. Tanta cialtroneria da parte di Kerry è solo il patetico tentativo di ipnotizzare di nuovo gli americani e il mondo come già fatto a suo tempo per poter invadere l’Iraq. Questa volta però non potendo ripetere la gigantesca balla e il gigantesco inganno, al proprio popolo di statunitensi e al mondo intero, delle “bombe atomiche e altre armi di distruzione di massa di Saddam” ecco che si ripiega sull’uso dei gas attribuito ad Assad. Anche questa volta sono stati subito scoperti dei falsi, per esempio l’uso di una foto che mostra decine di cadaveri già usata per accusare di stragi Saddam ora usata di nuovo per accusare di stragi Assad.

Domanda: cosa può fare Kerry, oltre a fregare ancora di più i palestinesi, nella sua veste di asserito mediatore negli incontri da lui voluti tra palestinesi e israeliani per la ormai mitologica ricerca di un accordo di pace?

E’ particolarmente vergognoso che a mentire pur di arrivare a colpire militarmente un altro Paese sia un premio Nobel per la Pace qual è Obama. La vergogna è doppia perché a colpire la musulmana Siria, sempre con l’obiettivo di fondo di colpire infine l’Iran per accontentare il governo israeliano, sia lo stesso Obama che all’inizio del suo primo mandato ha promesso in un discorso a Il Cairo “un’era di rapporti nuovi con il mondo islamico”. S’è visto…. E teniamo presente che gli Usa hanno già colpito pesantemente l’Iran due volte: la prima volta quando organizzarono il colpo di Stato contro il democraticamente eletto presidente Mossadeq, la seconda quando aiutarono in tutti i modi l’Iraq di Saddam nella sanguinosa guerra, qualche milione di morti, contro l’Iran.

E’ infine raccapricciante che a fare la voce grossa e a minacciare sfracelli per l’asserito uso di gas da parte del governo  siriano  siano quegli Usa che oltre a usare il gas per eseguire le sentenze di condanne a morte dei propri cittadini sono gli stessi Usa che aiutarono Saddam a sterminare col gas almeno quattro volte migliaia di iraniani durante la guerra Iraq-Iran. Gli Usa infatti fornirono  all’Iraq le informazioni di intelligence per poter colpire senza errori le truppe iraniane. E quando gli iraniani inviarono vari rapporti ai servizi segreti Usa per denunciare l’uso dei gas da parte degli iracheni i servizi segreti statunitensi fecero vergognosamente finta di niente. Da notare che una ricerca ha dimostrato vari anni fa che almeno il 10% delle condanne a morte negli Usa colpiscono innocenti. Cittadini statunitensi gasati quindi benché innocenti. Esattamente come farebbe Saddam stando a quanto affermano Kerry e Obama. Ma cos’è più grave? L’eventuale uso di gas da parte di Assad che avrebbe ammazzato 1.500 siriani o l’uso delle menzogne sulle “bombe atomiche irachene” da parte di Bush junior che mandò così a farsi ammazzare ben più di 1.500 soldati statunitensi? Per una guerra, si noti, che ha provocato centinaia di migliaia di morti tra gli iracheni e, da parte deglle truppe Usa, anche l’uso delle armi al fosforo bianco proibite esattamente come i gas.

La realtà è che gli Usa e l’Europa, cioè l’Occidente, non intendono accettare che i popoli sfruttati prima col colonialismo e poi con il neocolonialismo e imperialismo possano dotarsi di Stati unitari, e di economie ben sviluppate, che non siano regimi orribili e fanatici in fatto di religione come l’Arabia Saudita o le monarchie del Golfo. Orribili, ma felici di incassare e godersi le cifre gigantesche ricavate con le  vendite di petrolio all’Occidente, che sulle loro malefatte, in primo luogo il trattare le donne come oggetti privi di ogni diritto, chiude entrambi gli occhi pur di essere rifornito di petrolioe sogna che restino solo i nostri serbatoi di oro nero. E anzi mostra felice alle proprie opinioni pubbliche le enormi Disneyland quali sono di fatto le capitali del Golfo, tacendo da cosa sono corcondate nel resto del territorio. Tutti gli Stati laici, dall’Iran di Mossadeq alla Libia di Gheddafi passando per l’Iraq di Saddam, sono stati combattuti e frantumati spingendoli verso il tribalismo e il fanatismo religioso. Gli Usa e l’Europa al mondo islamico che non si piega sanno offrire solo la fine fatta fare agli indiani d’America, agli indios del Centro e Sud America e agli aborigeni australiani. Ma sperare in un bis del successo di quella ricetta è forse illusorio, in un mondo decisamente cambiato e nel quale crescono giganti economico militari che non hanno nessun motivo per amarci. Avanti di questo passo, con il continuo trasferimento di richezza finanziaria verso i “Paesi produttori”, è più probabile che faremo la fine dell’impero romano: da una parte rovinato dalla bella vita e dai vizi, dall’altra impoverito per il continuo trasferimento della massa monetaria, vale a dire oro e argento,  verso l’Oriente produttore di ogni  ben di Dio, dalle spezie alle sete e ale pietre preziose, ben di Dio che costava sempre più caro, ma senza il quale i romani non sapevano più vivere. Il ben di Dio che forse ci colerà a picco è quell’energia elettrica e quella benzina che, ricavate dal petrolio che non possediamo a sufficienza, sono ormai alla base dell’intera nostra vita.

Da una parte lo strangolamento politico militare. Dall’altra, come dimostra l’articolo di Raimondi e Lettieri che segue il mio, lo strangolamento monetario e finanziario delle economia emergenti.

Ma torniamo alla situazione siriana. Continua a leggere

L’Iran recupera il tempo perso per responsabilità di Bush figlio? Lo speriamo.

Dopo l’elezione al primo colpo di Hassan Rohani a presidente dell’Iran, viene in mente questo scambio di domande e risposte, che qualche lettore ricorderà per averle già lette nei miei reportage dall’Iran del 2009.
Chi sarà eletto Presidente della Repubblica Islamica dell’ Iran, inshallah?
“Chi verrà scelto dal popolo”.
Certo, ma – chiunque vinca – lei non crede sia comunque auspicabile un cambiamento?
“Il cambiamento ci sarà e sarà molto grande. L’opinione pubblica mondiale ne sarà sorpresa”.
E quali saranno i temi del cambiamento? Per esempio, quali sono i punti centrali del suo programma?
“Lo sviluppo economico, la politica estera, i diritti civili e i diritti delle donne”.
Questo il botta e risposta nel 2009 poco prima delle elezioni presidenziali iraniane con il candidato riformista Mehdi Kharroubi, ex presidente del parlamento, incontrato per caso in strada a Esfahan vicino la cattedrale cristiana armena di S.Gregorio, nota anche come cattedrale di Vank.
Le elezioni purtroppo ebbero un esito diverso da quello sperato da Kharroubi e dai riformisti, Ahmadinejad venne confermato e ci furono anche gravi disordini e manifestazioni di piazza, con Kharroubi agli arresti domiciliari.
Questa volta invece senza neppure un timido accenno di manifestazione studentesca o comunque del mondo giovanile, che morde il freno perché ansioso di riforme e sviluppo, ha vinto al primo turno Hassan Rohani, che può essere considerato il Kharroubi di oggi. Rohani è buon amico di Khatami, il leader riformista che si vide soffiare la vittoria elettorale e stroncare il suo ambizioso programma di modernizzazioni dall’infelice idea di Bush figlio di inventarsi l’Asse del Male, composto dai Paesi che gli Usa vedono come il fumo negli occhi compreso l’Iran. L’orgoglio nazionalista e annessa vittoria elettorale della destra fu la risposta dell’elettorato iraniano a Bush, con l’era di Amadinejad che oggi pare finalmente al tramonto.
Rohani appare sicuro di sé e affabile come Kharroubi, e nonostante sia un religioso con il turbante a mo’ di galloni ricorda da vicino sia i nostri migliori leader democristiani di una volta che quelli socialisti: molto abile, paziente ma molto deciso, del tipo che punta al cambiamento vero senza esagerare nella retorica e conciliando tra loro temi apparentemente inconciliabili. Continua a leggere

La guerra permanente del governo israeliano. Cambiare regime in Siria per poter poi bombardare l’Iran. Intanto continuano gli abusi e la pulizia etnica contro i palestinesi

http://nena-news.globalist.it/Detail_News_Display?ID=73431&typeb=0&Fonti-Usa-nuovo-attacco-aereo-Israele-in-Siria

Israele avrebbe compiuto un nuovo raid aereo in Siria, fra giovedì e venerdì, passando per lo spazio aereo libanese. Lo affermano fonti dell’amministrazione Obama. “Non c’é motivo per ritenere che Israele abbia attaccato depositi di armi chimiche” in Siria, hanno detto le fonti al network televisivo Cnn.

«Gli Stati Uniti ritengono che Israele abbia condotto un’incursione aerea in Siria. L’intelligence americana e quella dei paesi occidentali stanno rivedendo le informazioni, che sembrano indicare che l’attacco sarebbe avvenuto fra giovedì e venerdì», ha riferito la Cnn citando due fonti dell’amministrazione Usa. Si tratta dello stesso arco temporale in cui dal Libano avevano segnalato ripetute e insistenti violazioni – almeno 16 – dello spazio aereo nazionale, da parte dell’aviazione dello stato ebraico. «Ambedue le fonti – ha aggiunto la Cnn – non ritengono ci sia motivo per credere che Israele avesse come obiettivo i depositi di armi chimiche».

Da Tel Aviv una portavoce militare non ha fatto alcun commento alle notizie riferite dalla rete americana. A fine gennaio l’aviazione israeliana attaccò a pochi chilometri da Damasco quello che secondo fonti occidentali era un convoglio di armi antiaeree diretto in Libano e destinato al movimento sciita Hezbollah. Secondo altre fonti invece obiettivo del blitz aereo era stato un centro ricerche per armi chimiche.

Del resto a lanciare  le notizie ad hoc sull’impiego di armi chimiche da parte del governo siriano è stato proprio il servizio segreto militare israeliano, e dopo pochi giorni  Obama ha fatto eco anche se prudentemente ha specificato che non è chiaro quale dei contendenti abbia usato le armi chimiche. Potrebbero infatti essere stati anche i ribelli, visto anche che in realtà la gran parte sono mercenari prezzolati dai peggiori governo dei Paesi del Golfo probabilmente aiutati in vari modi da Israele stessa. Dopo le accuse contro l’Iraq di Saddam di fabbricare bombe atomiche, balla colossale e criminale per poter invadere quel Paese, solo i disonesti di professione o gli imbecilli possono inghiottire gli allarmi sull’uso altrui di armi non convenzionali. Ovviamente tacendo e mentendo quando a usare il fosforo bianco anche contro i civili sono gli Usa e Israele.

Del nuovo baccano ne approfittano come sempre i governanti, i militari e la feccia colonialista da loro alimentata per compiere altre soperchierie a danno dei palestinesi e dei beduini in modo da rendere l’espressione “Stato dei palestinesi” un incrocio tra una beffa e un peto.

Purtroppo a pagare il prezzo di tutto ciò e della propria ipocrisia sarà l’Europa. Forse  esagerano coloro – e sono molti, compresa Informazione Corretta degli estremisti sionisti italiani – a dire che in Siria è iniziata la terza guerra mondiale, però la linea di marcia purtroppo è proprio quella. Intanto è utile informarsi un po’ più leggendo per esempio quanto scritto nei seguenti articoli, spesso di fonte israeliana:

- prosegue la politica di demolizione delle case di palestinesi:

http://972mag.com/photos-the-face-of-israels-discriminatory-home-demolition-policy/70210/

- la brigata palestinese contro il nazismo, della quale non si parla mai:

http://frammentivocalimo.blogspot.it/2013/04/6000-palestinesi-combatterono-fianco.html?spref=fb

- il massacro di Deir Yassin:

http://972mag.com/watch-new-look-at-the-massacre-of-deir-yassin/69967/

- deportazione anche dei 30.000 beduini:

http://972mag.com/israeli-coalition-parties-team-up-to-reduce-bedouin-land/69999/

- la giustizia israeliana in Cisgiordania:

http://nena-news.globalist.it/Detail_News_Display?ID=72452&typeb=0&Come-opera-il-sistema-giudiziario-israeliano-in-Cisgiordania

- minorenni palestinesi tenuti in isolamento nelle carceri israeliane: http://www.guardian.co.uk/world/video/2012/jan/23/cell36-aljalame-prison-israel-solitary-confinement-palestinian-children

- Il Dipartimento di Stato Usa condanna la discriminazione israeliana contro i palestinesi:

http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-4369999,00.html

- Quando la negazione dell’esistenza del popolo palestinese diventa genocidio:

http://www.amiciziaitalo-palestinese.org/index.php?option=com_content&view=article&id=4159%3Aquando-la-negazione-dell-esistenza-dei-palestinesi-diventa-genocidio&catid=23%3Ainterventi&Itemid=43

- Il negazionismo e il riduzionismo sionista nei confronti dei massacri contro i palestinesi:

http://www.amiciziaitalo-palestinese.org/index.php?option=com_content&view=article&id=4153%3Aun-centinaio-e-oltre-deir-yassin-beit-daras-e-storia-dei-massacri-sepolti&catid=22%3Adossier&Itemid=42

- Il furto israeliano di proprietà non è nulla di nuovo:

http://www.amiciziaitalo-palestinese.org/index.php?option=com_content&view=article&id=4146%3Ail-furto-israeliano-di-proprieta-non-e-nulla-di-nuovo&catid=23%3Ainterventi&Itemid=43

Akiva Eldar: Israele ignora la proposta di pace della Lega Araba

http://frammentivocalimo.blogspot.it/2013/05/akiva-eldar-israele-ignora-la-proposta.html?spref=fb

Israele/Palestina: non tutti predicano l’odio e portano il cervello all’ammasso

http://www.freedomflotilla.it/2012/10/10/chi-naviga-sulla-estelle-verso-gaza-per-forzare-il-blocco-comunicato-stampa/

http://frammentivocalimo.blogspot.it/2012/10/alessandro-schwed-basta-con-la-guerra.html

http://nena-news.globalist.it/Detail_News_Display?ID=37247

Chi naviga sulla Estelle verso Gaza per forzare il blocco?

Ship to Gaza svela l’identità del primo passeggero a bordo della Estelle, la nave partita il 6 ottobre da Napoli alla volta di Gaza per interrompere l’assedio.

Passeggero I: Elik Elhanan , Israele

Elik Elhanan , proveniente da Tel Aviv, in Israele, è uno dei passeggeri a bordo del veliero Estelle nell’ultima tappa verso Gaza. Viene da una famiglia molto conosciuta emigrata in Palestina già negli anni ’20. Il padre del nonno materno fu il primo ambasciatore israeliano a Stoccolma. Il nonno materno, Matti Peled, fu il primo generale israeliano a prendere posizione contro l’occupazione nel 1972 e a creare gruppi pacifisti insieme ai palestinesi. Lasciò l’esercito e si dedicò invece a un dottorato in letteratura araba.

Elik, che ora ha 35 anni, ha un passato giovanile di punk. Nel 1995 si arruolò nell’esercito israeliano ed entrò nel corpo dei paracadutisti diventando con il passar del tempo un membro della squadra di élite.

Il quattro settembre 1997 sua sorella Smadar Elhanan, di 16 anni, tornava a casa da scuola sul viale Ben Yehuda a Gerusalemme.Era la prima settimana di scuola e c’era molta gente in giro. Due attentatori suicidi si fecero esplodere quel pomeriggio sul viale Ben Yehuda. Cinque persone persero la vita e venti furono ferite.

Quando Elik venne a sapere dell’attentato chiamò a casa dal reggimento, lo facevano tutti coloro che vivevano a Gerusalemme. Nessuno aveva sentito niente di speciale. Quando chiamò gli aveva risposto un vicino. I genitori erano usciti per identificare la figlia. Lei e la sua migliore amica erano tra i morti.

Dopo la morte di Smadar, la loro madre, Noret Pelled Elhanan, dichiarò che considerava il governo israeliano e la sua politica di occupazione responsabili della morte di Smadar. Continua a leggere

I trucchi e le manovre degli “esportatori di democrazia” Netanyahu e Al Thani per avere ai piedi l’intero Medio Oriente. Intanto però comincia ad attecchire anche tra israeliani e filo israeliani l’idea di Israele Stato anche dei palestinesi

La 66esima sessione dell’Onu ha visto Netanyahu fare una figura ridicola, da piazzista imbonitore. Dopo 20 anni che si suona l’allarme sulle “bombe atomiche iraniane”, instillando spesso il sospetto che ne abbiano già o le stiano producendo, il piazzista imbonitore Netanyahu, che oltretutto veste come un impiegato del catasto al dì di festa e indossa cravatte di banale mancanza di gusto, il suo allarme lo ha lanciato dicendo che “l’Iran ha terminato la prima fase, entro l’estate 2013 concluderà la seconda e da quel momento in poche settimane consentirà di arrivare all’uranio ad alto potenziale necessario a realizzare un ordigno”. E’ la ripetizione caricaturale della menzogna che Bush figlio ordinò al generale Colin Powell, suo Segretario di Stato,  di raccontare all’Onu per ingannare il mondo intero brandendo una bustina che disse piena dei terribili batteri antrace e cianciando di armi di distruzione di massa accumulate dall’Iraq. Powell però il suo show lo mise in piedi su ordine del suo superiore piazzato alla Casa Bianca, Netanyahu invece lo ha messo in scena di propria volontà, convinto forse che a ordinarglielo sia il suo superiore piazzato nell’alto dei cieli…
Come si vede, nonostante l’ormai ventennale starnazzare “Al lupo! Al lupo!” siamo sempre solo nell’anticamera dell’anticamera del pericolo…. Il piazzista imbonitore di Tel Aviv ha in pratica rimandato all’anno prossimo il molto strombazzato attacco all’Iran, puntando – o sperando – che a scendere in campo affianco all’esercito di Tel Aviv siano soprattutto l’esercito Usa con il contorno della Nato. Come una caricatura del Grande Dittatore di Charlie Chaplin, Netanyahu&C sognano un mondo al loro guinzaglio. Megalomania sorprendente. Oltre che molto pericolosa.
Stessa speranza, o pretesa, pare ce l’abbia l’emiro del Qatar, Hamad bin Khalifa Al Thani, monarca assoluto del suo piccolo regno ma straricco di petrolio. Dopo avere avuto il ruolo principale nell'”esportazione della democrazia” in Libia, l’emiro ha tentato il bis in Siria fomentando da mesi, assieme agli Usa, l’Inghilterra e Israele, la rivolta in Siria. Rivolta che vede impegnati non tanto cittadini siriani quanto contingenti di militari e istruttori militari, soprattutto del Qatar, fatti affluire dall’estero, riforniti di armi Usa e affiancati da mercenari strapagati. Dopo mesi di massacri da ambo le parti e di notizie fasulle per spingere l’Occidente a indignarsi e intervenire quindi in armi, l’emiro ha dichiarato a un giornale del Kuwait che “è ora di prendere atto dell’impossibilità di rovesciare il regime siriano”. Motivo per cui Al Thani ritira le sue truppe  e i suoi mercenari dalla Siria e punta sull’intervento degli eserciti dei Paesi del Golfo in blocco più l’Arabia Saudita, sperando inoltre che si muova anche la Nato. E per “spingere” meglio usa la sua formidabile emittente televisiva Al Jazeera per veicolare versioni di comodo e verità pilotate. Continua a leggere

Attacco aereo di Israele all’Iran? Tecnicamente impossibile: può servire solo a voler costringere gli Usa a intervenire militarmente

Le guerre peggiori scoppiano d’estate. Forse perché il gran caldo fa impazzire non solo le menti deboli. La prima guerra mondiale iniziò il 28 luglio, la seconda il 1° settembre, l’invasione israeliana del Libano che portò alla mattanza di Sabra e Chatila scattò il 6 giugno. Sta dunque per esplodere anche la guerra di Israele contro l’Iran? Quasi tutti lo danno per certo. Netanyahu, Barak, Lieberman e il loro rabbino di riferimento Josef Ovadia, che prega per “la distruzione dell’Iran”, forse hanno tutte le rotelle a posto, ma sono spinti da uno zelo politico “religioso” (!) tipico dei fanatici pericolosi sotto ogni cielo. E in effetti il governo israeliano sta costruendo caparbiamente la legittimità morale della sua guerra contro Teheran senza tenere in conto – almeno in apparenza – neppure i sondaggi che dimostrano come la gran parte degli israeliani sia contro questa nuova guerra: 42% di no contro il 32 di sì, il resto è incerto. Se poi si dovesse tener presente il parere dei palestinesi che di fatto vivono insaccati in enclave interne a Israele, pari a 2,1 milioni di persone, e quello degli arabi con cittadinanza israeliana, il 20% della popolazione israeliana, pari a quasi un altro milione e mezzo di persone, ecco che quel 42% schizzerebbe molto più in alto. Ma in Israele i non ebrei non hanno molta voce. E la stampa è impegnata a suonare la grancassa a favore del governo  in modo da coprire o diluire le voci critiche. Eccone un buon campionario, scelto non da me, ma da chi è per Israele senza se e senza ma, sempre e comunque, e come se non bastasse spinge anche per la guerra all’Iran: http://www.israele.net/articolo,3513.htm .

Senza contare l’atteggiamento di parte di alcune comunità all’estero, come quella che in Italia si riconosce nella linea isterica di  Informazione Corretta, il cui motto è in pratica l’allucinante e allucinato “Armiamoci e partite”, con la strana pretesa di insegnare agli israeliani cosa devono fare e di spingerli alla guerra restandosene però loro comodamente al calduccio e al sicuro in Italia e altrove lontano da Israele. Continua a leggere