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Sulla contraddizione

Nel suo libretto Sulla contraddizione Mao non contrappone idealismo a materialismo, ma metafisica a dialettica, sostenendo che anche il materialismo può essere metafisico, come in genere è quello borghese.

Impossibile dargli torto su questo, anche se una precisazione è lecita. La scoperta delle leggi della dialettica (attrazione e repulsione degli opposti, svolgimento di tesi-antitesi-sintesi, dalle progressive determinazioni quantitative a una nuova qualità, ecc.) di per sé non è in grado d’impedire che la dialettica si trasformi in una metafisica. Detto altrimenti: non esiste alcun principio teorico che impedisca a una teoria di svolgersi in maniera opposta ai propri princìpi. In ultima istanza solo la prassi è garante di se stessa. Questo perché una teoria può sempre essere soggetta a interpretazioni opposte; e in ogni caso non può essere una teoria a “garantire” validità a una prassi.

Anche la prassi può essere vissuta secondo intenzioni e modalità opposte, ma gli effetti di queste intenzioni e modalità si vedono abbastanza presto, sicuramente molto prima di quanto non accada nel campo della teoria. La teoria infatti deve aspettare le realizzazioni pratiche, e se la pratica non è conforme ai princìpi della teoria, quest’ultima può sempre dire che la responsabilità non è la sua. La prassi invece non può permettersi questo lusso e, per rimediare ai propri errori, deve correggersi in fretta.

Tuttavia la prassi, pur non avendo questo lusso, ha un primato sulla teoria, che la teoria non le potrà mai togliere: la prassi deve rispondere a bisogni reali, immediati, contingenti, e deve cercare appoggi e consensi nel presente. Deve sapersi organizzare al meglio: non può essere astratta, poiché ciò significa essere inefficaci, inconcludenti.

La teoria diventa utile quando la prassi non è capace di rispondere ai bisogni della gente, ma la propria utilità deve dimostrarla proponendo una prassi alternativa. Non basta formulare una “teoria critica” per dimostrare d’avere ragione. Per “dimostrare” la verità di qualcosa, bisogna “mostrarla” concretamente.

Questo spiega il motivo per cui la politica è superiore alla filosofia e a qualunque scienza teorica che non si preoccupa di cercare delle verifiche pratiche. La politica è la scienza delle risposte pratiche ai bisogni delle masse popolari. Un testo filosofico, infatti, può essere letto da un individuo singolo. Una proposta politica deve invece riguardare una moltitudine di persone.

Tutto ciò per dire che la scoperta delle leggi della dialettica di per sé non vuol dire nulla. Almeno per una serie di ragioni: 1) la scoperta fu fatta da Hegel, che non era certamente un materialista, ed egli la usò per giustificare lo Stato prussiano, che non era certamente democratico; 2) la sua scoperta venne ereditata da Marx, Engels e Lenin, ma questo non impedì a Stalin di stravolgerla completamente nel suo significato; 3) l’operazione compiuta dallo stalinismo non fu capita da Mao, il quale anzi, dopo la destalinizzazione voluta da Krusciov, prese a criticare di revisionismo l’Unione Sovietica.

Cioè il fatto d’aver capito le leggi della dialettica non è stato sufficiente per rispettarle sul piano pratico. Il motivo di questa incoerenza sta nel fatto che non si è permesso alla pratica di correggere se stessa. Se all’interno del popolo si forma un ceto d’intellettuali che pretende d’imporre la propria teoria, il tradimento è sicuro. E all’interno di una società dominata dagli antagonismi sociali è facile che gli intellettuali si separino dal popolo o che la teoria si separi dalla pratica. La divisione tra lavoro intellettuale e manuale è all’origine delle stesse civiltà.

Esiste un criterio oggettivo per impedire alla prassi di tradire se stessa? Purtroppo (o per fortuna) non esiste. La prassi, infatti, ha un valore significativo solo se è determinata dalla libertà, ma la libertà non può essere garantita da qualcosa di esterno a se stessa. Ecco perché la teoria ha sempre un valore molto relativo: non c’è teoria che possa garantire un’esperienza adeguata della libertà. Tutto può essere, in qualunque momento, completamente o parzialmente tradito o travisato. Di qui l’importanza del controllo reciproco tra i componenti di una comunità.

È bene infatti precisare che la vigilanza ha senso solo se è reciproca. Se gli intellettuali pensano di esercitarla sul popolo, la democrazia è finita. Questo significa che non è possibile dare definizioni univoche della dialettica, come non è possibile darle della verità o della libertà o della giustizia. Tutto va sempre contestualizzato nello spazio e nel tempo, che sono le precondizioni fondamentali di qualunque esperienza umana, di qualunque storicità.

Se vogliamo essere coerenti sino in fondo, dobbiamo dire che non è possibile dare alcuna definizione della dialettica, come non è possibile farlo nei confronti della libertà o della verità. L’essenza umana è, per antonomasia, indefinibile. Il fatto stesso che un intellettuale scriva un testo sulle leggi della dialettica, mostrando come essa vada interpretata, è già un segno negativo, l’indizio di un’assenza della pratica corrispondente ai princìpi che si affermano: una pratica che dovrebbe essere data per tradizione, collaudata da un’esperienza ancestrale, di tipo collettivistico.

Se in assenza di questa pratica della libertà, un intellettuale scrive un testo interpretativo della stessa libertà, che valore può avere il suo testo? Sicuramente sarà deficitario in qualcosa di essenziale. Chiunque aspiri a dire che cos’è la libertà, eo ipso la nega. La libertà può essere solo vissuta, non detta. La libertà è indicibile.

Stando le cose in questi termini, l’unico modo di controllare l’applicazione delle leggi della dialettica (che è necessariamente un modo bidirezionale e multilaterale) è quello che si può vivere in comunità ristrette, del tutto autonome, cioè non dipendenti da fattori esterni, siano essi istituzionali o mercantili.

Paradossalmente anche il parlare di queste cose è indice di alienazione. Anche quando si dice che non si può dire nulla di definitivo della libertà, di fatto non la si sta vivendo. La scrittura, ai fini dell’esperienza della libertà, è quanto di più inutile vi sia. Rispetto alla parola, detta con la voce, la scrittura è qualcosa del tutto artificiale. Ma se la parola viene usata per giustificare i rapporti antagonistici, la sua inutilità ai fini della democrazia è non meno evidente.

Perché l’idealismo vince sempre sul materialismo?

E’ impressionante vedere con quanta forza i filosofi presocratici riuscirono, col loro materialismo, naturalismo e, in fondo, ateismo, a superare le concezioni religiose della mitologia di Esiodo e Omero, e con quanta debolezza dovettero soccombere agli attacchi delle metafisiche platoniche e aristoteliche, così astratte, idealistiche e imbevute di misticismo.

Molte delle cose scoperte dai filosofi naturalisti verranno riprese solo duemila anni dopo, al tempo dell’Umanesimo e del Rinascimento; altre verranno recuperate ancora più tardi, come p.es. l’atomismo di Democrito. E di tutti i loro innumerevoli testi ci restano solo pochi frammenti: li conosciamo solo indirettamente, solo perché altri (spesso gli avversari) ne hanno parlato.

Come si spiega questo fenomeno? In una maniera molto semplice: chi professa il materialismo o l’ateismo finisce, in genere, coll’avere scarsa propensione per gli argomenti etici, preferendo di gran lunga quelli di carattere scientifico.

Ora, il potere politico dominante trova sempre una certa difficoltà a utilizzare questo atteggiamento da intellettuali per rabbonire le masse. Quest’ultime, infatti, per essere meglio ingannate, hanno bisogno di sognare ad occhi aperti, di provare sentimenti, emozioni… E il materialismo, in tal senso, appare troppo freddo, troppo sicuro di sé.

I materialisti non si rendono conto che ai comuni mortali, abituati alle vessazioni dei potenti, non piace tanto la verità quanto piuttosto la finzione: la verità presumono già di saperla, ed è la loro sofferenza (che ritengono secolare, irrisolvibile), per cui preferiscono fantasticare.

I materialisti che vorrebbero essere onesti dicendo la verità, escono sempre sconfitti dal confronto con gli idealisti, proprio perché questi sanno vivere meglio il loro “volgare materialismo” dietro la facciata delle belle parole, dei buoni sentimenti (quelli lacrimevoli), dei valori patriottici (che affratellano tanto) e così via.

Gli idealisti sono così abili che fanno passare i materialisti per gente senza scrupoli, sempre litigiosa, supponente, fanatica, fondamentalmente egoista, in quanto priva di valori sociali condivisibili.

E i materialisti, ad un certo punto, si rassegnano a questo ruolo trasmesso dai mass-media, e cominciano a discutere solo tra loro, si vantano di avere la verità in tasca, nutrono sentimenti rancorosi, ostentando un distacco fittizio, e soprattutto attendono passivamente che le contraddizioni esplodano da sole, proprio per avere la soddisfazione di dire: “Era da un pezzo che ve lo dicevamo”.

Insomma, prima i metafisici greci, poi i teologi medievali, poi ancora i filosofi borghesi e ora infine i politici di ispirazione cristiana: tutti mostrano di saper perfettamente comunicare alle classi marginali il modo migliore per uscire dall’oppressione: sperare contro ogni speranza.

E queste masse, sempre più vaste, sempre più sofferenti, continuano a illudersi che qualcuno, prima o poi, saprà alleviare i loro mali, magari farle anche uscire dalla miseria; e questo qualcuno dovrà per forza essere un idealista, perché solo un idealista ha il senso dell’umanità, è misteriosamente ispirato da dio.

I veri nemici da combattere sono i disfattisti, quelli che vogliono sostituire dio con la natura, lo spirito con la materia, la fede con la ragione, cioè quelli che vogliono dire la verità, senza sapere che la verità è relativa e che nessuno la conosce.