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La prassi e la realtà locale

Non c’è assolutamente modo di stabilire la verità delle cose con un criterio astratto, fissato a priori. Se questo criterio fosse quello della dialettica, cioè della legge che spiega l’attrazione e repulsione dei contrari, l’unità sintetica di tesi e antitesi, allora bisogna dire che questo criterio indica, al massimo, un processo avvenuto (ex-post), ma non offre dei chiarimenti univoci relativi ai singoli momenti in cui il processo avviene (in actu).

Questo perché l’esistenza è in sé irriducibile a qualunque sistema interpretativo, che sarebbe astratto anche se avesse elementi di tipo politico o socioeconomico.

La dialettica può comprendere e descrivere un processo quand’esso è terminato, cioè a posteriori, ma non può spiegarlo nel mentre si svolge, cioè non può dare delle indicazioni di merito per risolvere determinati problemi, proprio perché ciò si configurerebbe come un’operazione meramente intellettuale.

Gli uomini devono restare tali quando affrontano le loro contraddizioni, cioè devono affrontarle come collettivo, ragionando insieme su delle ipotesi praticabili di soluzione. In nessun libro della storia si potrebbe trovare il minimo aiuto per poter risolvere un determinato problema, lì dove esso si pone (hic et nunc).

La prassi è il criterio della verità e quindi ha un primato assoluto sulla teoria, anche se, indubbiamente, essa va aiutata da una teoria intelligente, altrimenti non si troverà alcuna soluzione ad alcun problema, neppure se ci pensassero sopra, contemporaneamente, un milione di persone.

Tuttavia, il fatto che debba esistere una teoria intelligente, non significa che debba essere la prassi a conformarsi meccanicamente ad essa. Una teoria intelligente può soltanto offrire uno spunto, un suggerimento, un’indicazione di massima, ma poi la soluzione va cercata nel confronto tra le diverse opinioni, che si devono poter esprimere liberamente e in maniera esauriente.

Se questo primato ontologico e operativo della prassi ci fosse chiaro, noi saremmo costretti a interessarci soltanto di problemi locali, cioè solo di quei problemi che pensiamo di poter risolvere, sapendo di averne i mezzi sufficienti per farlo.

E se il problema locale fosse per noi il perimetro in cui far agire una prassi decisionale, deliberativa, allora dovremmo far di tutto per impedire che il livello locale subisca dei condizionamenti che gli facciano perdere la piena autonomia. Se il locale è pesantemente condizionato da elementi esterni, esogeni, estranei, la possibilità di risolvere i problemi sarà tanto più debole quanto più forti saranno queste pressioni.

Là dove esiste una centralizzazione statale dei poteri, che ovviamente non può tener conto, nella loro complessità e vastità, delle esigenze delle realtà locali, lì esiste anche un’ideologia politica più o meno ufficiale, una Costituzione più o meno vincolante, una serie di Codici istituzionali di comportamento e soprattutto una serie infinita di leggi scritte.

Lo Stato è quella somma astrazione che ha la pretesa di regolamentare il più piccolo aspetto della concreta vita sociale. Chi non capisce un concetto così semplice, si deve chiedere se egli stesso non stia vivendo una vita del tutto astratta.

Abolire le province e ripensare il federalismo

Si sta discutendo se abolire o ridurre le Province. Io penso che vadano abolite in toto, perché sono una vergogna del nostro paese e di qualunque paese che voglia dirsi democratico. Sono un’emanazione dello Stato centralista. I Savoia le hanno prese dai francesi allo scopo di controllare i Comuni.

Sono i Comuni che devono avere più potere. Sono loro che devono decidere cosa fare a livello locale, con chi consorziarsi per gestire i problemi intercomunali e come utilizzare le tasse che devono restare in loco.

Il vero potere democratico è solo quello locale ed è il Comune che, al massimo, dovrebbe, a seconda della necessità contingente, concederlo temporaneamente allo Stato. Quanto più la delega dei poteri viene gestita lontana dal Comune tanto meno forti dovrebbero essere i poteri che si concedono, a meno che non vi siano urgenze particolari e momentanee (come quando le tribù cosiddette “barbare” affidavano, in caso di guerra, tutti i poteri a un sovrano eletto per il tempo necessario).

I Comuni fanno parte di una società civile che è il vero soggetto della democrazia. Oggi tutto questo viene vissuto in maniera rovesciata e il federalismo della Lega Nord non ha fatto che accentuare il centralismo.

Oggi però il vero problema è che la sinistra non ha nessun progetto alternativo allo Stato sociale che la destra vuole smantellare per favorire i monopoli privati. Ancora non riesce a capire che più importante dello Stato è la società civile e che bisogna progressivamente aumentare i poteri di questa società diminuendo quelli dello Stato. Se avesse capito questo, da tempo sarebbe riuscita a togliere alla Lega Nord il monopolio del discorso sul federalismo.

Un federalismo pensato in maniera davvero democratica deve prevedere l’autogestione collettiva (in ambito comunale) di tutte le risorse locali, contro il globalismo delle multinazionali, fino al ripristino dell’autoconsumo, per potersi emancipare, almeno nelle cose essenziali, dalle logiche dei mercati, che sfuggono, come le borse, ad ogni controllo politico.

Quale dopo Berlusconi? Scenari ipotetici

Berlusconi ha forse inaugurato un modo nuovo di fare politica? No, perché pur provenendo dal mondo imprenditoriale, non ha dimostrato di essere migliore dei politici di professione. Lui è frutto di una politica corrotta (quella social-democristiana) e in questi suoi anni di governo non ha fatto altro che ampliare la corruzione a tutti i livelli.

Ha cercato anzitutto di svuotare di significato le istituzioni repubblicane (proseguendo sulla scia presidenzialista inaugurata da Cossiga e sposando un tema federalista caro alla Lega), ovvero ha cercato d’imporre uno stile autoritario di governo (che la Lega ha accettato solo perché le permetteva di andare al potere, pensando in tal modo di realizzare meglio l’obiettivo del federalismo).

Grazie al suo carisma personale ha potuto far passare questo stile come un’alternativa necessaria all’incapacità che ha il parlamento di risolvere i problemi della gente comune. Ha concentrato su di sé non solo il consenso delle generazioni che, pur essendo cresciute sotto il fascismo, ne sentono ancora la mancanza, ma anche i favori di quei ceti sociali antistatalisti che vogliono evadere il fisco, raggirare le leggi, eliminare lo Stato sociale (oppure servirsene a proprio esclusivo vantaggio).

Ha inoltre ottenuto il plauso di quegli ingenui che pensano di poter diventare come lui partendo dal nulla, nonché l’appoggio di quei politici e cittadini triviali, che fanno dell’egoismo, del razzismo, del maschilismo e della volgarità il loro modus vivendi.

Può un uomo così avere dei seguaci, degli imitatori, dei successori? No, non può, perché è difficile avere il suo carisma. Quest’uomo sa parlare benissimo alle masse, ha una memoria eccezionale, è spiritoso, sa essere autoritario senza trascendere, non si fa impressionare dalle minacce, anzi sfrutta gli attentati come forma di propaganda, non si vergogna mai di nulla, è in grado di ribaltare la frittata come e quando vuole, facendo sembrare, come i gesuiti, bianco il nero e viceversa, venderebbe ghiaccio agli esquimesi, si vanta di essere un playboy anche di fronte ai cattolici, ha protestantizzato la politica stessa dei cattolici, sdogandola da riserve di tipo etico (tant’è che Cielle stravede per lui). Ha capito per la prima volta in assoluto che la politica non si fa in parlamento e, in un certo senso, neppure sulle piazze, se non c’è la televisione che lo riprende da vicino, e ha soprattutto convinto gli italiani che se avesse avuto più poteri avrebbe potuto fare cose straordinarie.

Un uomo così, che il mondo industrializzato comincia già a considerare come un modello da imitare, che tipo di eredità può lasciare al nostro paese? Considerando cioè che il governo che gli subentrerà non potrà impedire né il dissesto economico che incombe sul nostro paese (in quanto se Tremonti ha voluto salvare le sole banche, queste non stanno salvando le nostre aziende), né quindi l’acuirsi delle tensioni sociali, a causa della crescente disoccupazione e dell’immane precariato, così tipico del nostro paese, a causa soprattutto del fatto che tantissime aziende sono in bilico se chiudere o lasciarsi inglobare dalle più grosse, le quali peraltro sono sempre lì lì per delocalizzare, considerando dunque tutto questo, che tipo di governo ci vorrà per affrontare la prossima, inevitabile, drammatica situazione, che nel nostro paese avremmo avuto anche a prescindere dal crollo americano?

Qui gli scenari possibili sono solo tre.

Scenario n. 1: la Lega vuole il federalismo a tutti i costi. Pur di averlo, indurrà il centro-nord a staccarsi dal centro-sud, e qui è facile pensare che avremo un replay o della situazione jugoslava (molto dolorosa) o di quella cecoslovacca (molto pacifica). In una soluzione del genere il Sud, paradossalmente e inaspettatamente, potrebbe approfittarne per staccarsi dal fardello del Nord, che gli impedisce di svilupparsi.

Scenario n. 2: per ottenere un federalismo senza minare l’unità nazionale, si realizzerà un forte presidenzialismo all’americana, con aspirazioni di tipo militaristico. In questa soluzione chi ci rimetterà sarà soprattutto il Mezzogiorno e, in genere, tutti i cittadini nazionali, che si troveranno a pagare le tasse due volte: per il centro e per la periferia. Saranno però favoriti i ceti imprenditoriali più significativi (specie quelli bancari e le grandi imprese), del Nord e del Sud, ivi inclusa la criminalità organizzata.

Scenario n. 3: la sinistra si convince che l’esigenza del federalismo è giusta. E’ disposta a diminuire progressivamente i poteri delle istituzioni centrali e, per far fronte al dissesto economico-finanziario che incombe, favorisce in tutti i modi la lotta contro la dipendenza dai mercati e dalle borse mondiali, promuove cioè tutte quelle realtà locali capaci di valorizzare le risorse del territorio.

La storia, che è maestra di vita, in quanto le cose si ripetono, ovviamente in forme e modi diversi, non prevede altri scenari. E’ troppo presto infatti per ipotizzare una situazione in cui l’Unione Europea fa scomparire il concetto di “nazione”, abolisce i parlamenti nazionali e impone un governo di tipo “continentale”. Prima che si possa realizzare questo, bisogna che il federalismo abbia radicato l’illusione di un’effettiva autonomia locale.

In ogni caso è auspicabile che, qualunque sia lo scenario, gli italiani comincino a sostituire il culto della famiglia e del clan con quello della società civile.

Il senso della democrazia diretta (in rapporto al federalismo)

Nella storia le tragedie avvengono soprattutto non quando si ha torto (come nelle dittature), ma quando si ha ragione e si pretende di averla (come nelle dittature che sostituiscono altre dittature). Cioè quando le proprie ragioni, che possono essere anche migliori di quelle altrui o di quelle precedenti temporalmente alle nostre, vengono imposte con la forza.

E’ sotto questo aspetto singolare che chi ha ragione e pretende di averla, non s’accorge che se c’è una cosa che contraddice la verità è proprio l’uso della forza.

C’è solo un caso in cui la forza smette d’essere tale e diventa diritto: quando è la forza della stragrande maggioranza di una popolazione (o di un intero paese). In questo caso si è soliti dire che vi sono più probabilità che la ragione stia dalla parte della grande maggioranza, ammesso (e non concesso) che sia possibile stabilire effettivamente la volontà di questa maggioranza. Il “non concesso” è d’obbligo là dove si pensa di stabilire tale volontà limitandosi a quella parodia di democrazia che è l’elezione dei parlamentari.

Quando la popolazione avverte l’esigenza di esercitare la forza come un proprio diritto, significa che non si sente rappresentata da chi la governa, ovvero che al governo si sta usando la forza contro gli interessi della grande maggioranza della popolazione, si sta usando la forza per violare dei diritti generali, che a tutti bisognerebbe riconoscere.

E’ a quel punto e solo a quel punto che alla forza di una risicata minoranza detentrice del potere, bisogna opporre la forza della grande maggioranza che lo subisce. Solo a quel punto la forza diventa violenza rivoluzionaria, avente cioè lo scopo di abbattere il governo in carica con una insurrezione popolare.

Tuttavia la storia ci dice che le tragedie avvengono proprio quando si è abbattuto il governo autoritario in carica. Infatti succede sempre che i trionfatori credono d’essere autorizzati a servirsi delle loro ragioni come occasione per imporre una nuova forza.

Col pretesto di dover abbattere tutti i nemici che ancora cercano di opporsi al nuovo governo, si impongono nuove servitù, nuove costrizioni, spesso peggiori delle precedenti. E il popolo, abituato a obbedire, ingenuamente le subisce, le accetta passivamente per il bene comune, pensando a una qualche “ragion di stato”.

Tutte le rivoluzioni sono fallite proprio perché i vincitori finivano col comportarsi come i vinti. Persino quando le ragioni sono state di tipo “socialista”, si è verificato questo fenomeno.

Bisogna dunque trovare il modo per scongiurare un’involuzione della democrazia. E l’unico non può essere che quello di affidare allo stesso popolo le sorti del proprio destino. Chi lo avrà guidato alla vittoria, dovrà riconoscergli la capacità di autogestirsi e di difendersi da solo contro eventuali nemici.

Il popolo deve sperimentare il significato della democrazia diretta, autonoma, localmente gestita, dove l’esigenza di affermare una qualche forma di centralismo può essere determinata solo da un consenso preventivo, concordato e motivato da parte delle realtà locali, che possono stabilire un patto tra loro al fine di realizzare un obiettivo specifico.

La democrazia o è diretta, locale, autogestita, o non è. La democrazia delegata, centralizzata, nazionale o sovranazionale ha senso solo se è temporanea e solo se le prerogative sono ben definite dalle realtà locali territoriali.

Se si escludono i momenti particolari delle guerre contro un nemico comune, occorre affermare il principio che vi è tanta meno democrazia quanto più chi la gestisce è lontano dalle realtà locali.

Ecco in tal senso è possibile usare l’idea di “federalismo” per spingere la democrazia verso obiettivi più significativi di quelli attuali, che non possono certo essere quelli di rendere il capitalismo più efficiente, né quelli di scegliere, come contromisura al rischio di una disgregazione sociale, di aumentare i poteri dell’esecutivo (che alcuni vorrebbero trasformare in “presidenzialismo”).

Per conservare l’unità nazionale non c’è bisogno di alcun presidenzialismo. Se le realtà locali (federate tra loro) sono democratiche, è la democrazia stessa, è la sua intrinseca forza etica e politica, a tenere unita la collettività nazionale e internazionale.

Ma perché questa democrazia non sia una mera formalità della politica, occorre che da essa si passi al “socialismo”, cioè alla gestione comune delle risorse vitali, alla socializzazione dei mezzi produttivi, in cui il primato economico passi dal valore di scambio al valore d’uso.

12 principi costituzionali da rivedere (I)

E’ stato detto che i principi fondamentali della nostra Costituzione sono intangibili e che, in 60 anni di vita, nessun governo ha mai pensato di modificarli. Sembrano una sorta di decalogo veterotestamentario, una serie di enunciati assolutamente dogmatici. Vediamo se davvero dobbiamo considerarli così.

Art. 1. La Repubblica è democratica in quanto fondata sul lavoro e non sulla rendita o sullo sfruttamento del lavoro altrui. Questo è vero, ma bisognerebbe specificarlo espressamente, perché il concetto di “lavoro”, in sé, non indica affatto il carattere “democratico” di una repubblica. Nel sistema capitalistico il lavoro è soltanto una merce, al pari di altre, che si acquista sul mercato, tant’è che si parla di “mercato del lavoro”.

Più che essere “fondata” sul lavoro, la Repubblica italiana dovrebbe essere fondata sulla “proprietà collettiva dei mezzi di lavoro”, quella che permette a tutti di non dover essere sfruttati per poter vivere. Il lavoro può non essere una “merce” soltanto se la proprietà dei fondamentali mezzi produttivi non è privata.

Il lavoro è un diritto-dovere, ma dove esiste proprietà privata dei mezzi produttivi, spesso diventa soltanto una casualità, una fortuna o un ripiego. Se davvero la Repubblica fosse fondata sul lavoro, noi non dovremmo avere disoccupati o inoccupati o sottoccupati o cassintegrati, né lavoratori in nero o clandestini, né quelli che svolgono mansioni che non c’entrano nulla con gli studi fatti, né quelli che, non rassegnandosi a questo trend di sprechi e inefficienze, emigrano dal nostro paese per cercare un’occupazione inerente ai propri studi o comunque un’occupazione che permetta di vivere dignitosamente. Né dovremmo avere quelli che approfittano del bisogno o delle debolezze o della precarietà altrui per estorcere favori di ogni genere, per obbligare a servizi umilianti, per ridurre in stato di schiavitù. Non dovremmo neppure avere tutti quei giochi, sommamente diseducativi, che promettono premi favolosi col miraggio di non lavorare o di lavorare molto meno.

Solo se la Repubblica è fondata sulla proprietà collettiva dei fondamentali mezzi produttivi, si può davvero dire che la “sovranità appartiene al popolo”, come recita la seconda parte di questo articolo. In caso contrario la definizione resta puramente formale. Non è sufficiente essere lavoratori o cittadini per esercitare un’effettiva “sovranità”. La sovranità politica è una diretta conseguenza di quella economica e sociale. Là dove manca la proprietà comune dei mezzi produttivi, la sovranità politica si esercita unicamente nel momento della scadenza periodica del voto. In tal modo la vera sovranità politica non viene esercitata dal popolo ma dai suoi delegati parlamentari, i quali tendono a fare gli interessi solo di quella parte di popolazione che dispone di proprietà privata.

Art. 2. Poiché non si è specificato nell’art. 1 che la Repubblica deve essere fondata sulla proprietà comune dei principali mezzi produttivi, accade inevitabilmente, quando si afferma ch’essa “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”, che all’interno di questi diritti debba essere inteso anche quello alla proprietà privata, come è naturale che sia in tutte le Costituzioni borghesi, dove appunto tra i diritti fondamentali si prevedono sempre quelli alla libertà e alla proprietà, concepiti quasi in maniera interscambiabile.

In realtà il diritto alla proprietà privata può essere tollerato solo quando questa proprietà non è relativa ai mezzi fondamentali di produzione, che sono poi quelli che garantiscono la sopravvivenza di un’intera collettività, ovvero quelli che le permettono di esercitare i diritti irrinunciabili che la caratterizzano o la identificano come tale.

Tutti gli articoli relativi al titolo III della Costituzione: “Rapporti economici” non rendono affatto più chiara l’esigenza di precisare il primato della proprietà comune dei mezzi produttivi rispetto al lavoro.

Art. 3. E’ inutile affermare l’uguaglianza giuridica di tutti i cittadini di fronte alla legge, quando non si precisa a chiare lettere la necessità della loro uguaglianza sociale ed economica di fronte al bisogno. La seconda parte dell’art. 3, in assenza della suddetta precisazione, rischia di restare, sul piano pratico, una pia intenzione, ovvero di tradursi in uno sforzo moralistico o paternalistico di dubbia efficacia.

Infatti, se si fosse puntato più sul bisogno che sulla legge, più sulla concreta proprietà pubblica che non sull’astratta tutela del lavoro, non si sarebbe detto, in questo articolo, che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, ma, al contrario, che i cittadini con più bisogni hanno più diritti davanti alla legge. Hanno più diritti di precedenza e di preferenza, proprio al fine di colmare il loro gap dovuto a motivi fisici, psichici, esistenziali, sociali, geografici, linguistici ecc., rispetto agli altri concittadini.

L’uguaglianza assoluta davanti alla legge può andar bene quando tra cittadini non esistono differenze rilevanti. Tuttavia, se consideriamo che persino la natura pone una certa differenza di genere tra i sessi e pone altre differenze dovute all’età anagrafica, è del tutto inutile auspicare un’uguaglianza assoluta di fronte alla legge.

E’ la legge che deve adeguarsi alla diversità dei bisogni, non sono i bisogni che devono adeguarsi all’uniformità della legge. Ci si adegua all’uniformità imposta dalle circostanze per soddisfare meglio il bene comune. Ma è evidente che le circostanze possono cambiare e, con esse, la regola dell’uniformità.

Una società che per molto tempo si vantasse di avere regole uniformi a livello nazionale, potrebbe dare impressioni del tutto opposte: di grande coerenza democratica, ma anche di grande forza dittatoriale. Non è certo dal contenuto in sé delle leggi che si può valutare il grado di democraticità di una nazione. Bisogna piuttosto esaminare il livello di rispondenza delle leggi ai bisogni collettivi. E, considerando che i bisogni sono per lo più mutevoli, soggetti al continuo modificarsi delle circostanze, può apparire, al limite, del tutto superflua l’esigenza di darsi delle leggi scritte.

Art. 4. Questo articolo è molto importante e la Repubblica dovrebbe essere denunciata quando non assolve il proprio dovere di assicurare a tutti un lavoro. Se il lavoro è un diritto-dovere, allora è compito della Repubblica garantirlo. Non basta dire ch’essa “promuove” le condizioni che rendono effettivo il diritto; le condizioni devono essere “assicurate”, “garantite”, altrimenti non è possibile sostenere che il lavoro è un “dovere” di tutti.

Come noto il lavoro è un diritto che può essere rivendicato, ma se è anche un dovere, il cittadino dovrebbe essere obbligato a lavorare, anche nel caso in cui non volesse farlo.

Finché il cittadino rivendica il lavoro come un diritto, significa che la Repubblica non è in grado di assolvere al proprio dovere di assicurarlo a tutti. E’ dunque giusto affermare che ognuno ha il dovere di lavorare, salvo che qualcosa di oggettivo non gli impedisca di esercitare questo obbligo.

Art. 5. Questo articolo non è mai stato applicato per due semplici ragioni:

  1. esistono nel territorio italiano degli spazi geografici in cui la sovranità dello Stato è insussistente, come p.es. quelli della Città del Vaticano, della Repubblica di S. Marino e delle basi Nato. In queste aree delimitate da precisi confini si esercita il principio della extraterritorialità da parte di uno Stato che inevitabilmente deve essere considerato come “straniero” all’interno della nostra Repubblica;
  2. il nostro Stato, prima monarchico poi repubblicano, è nato e si è sviluppato in maniera centralistica, usando gli Enti Locali Territoriali come propri organi periferici. Sono state piuttosto le autonomie locali a lottare per essere riconosciute come tali dallo Stato.

Nella nostra Repubblica non è lo Stato ad essere a servizio della società civile, ma il contrario. E non è detto che questo rapporto sia destinato a mutare trasformando lo Stato da centralista a federalista.

Art. 6. Questo articolo non è mai stato attuato con coerenza, semplicemente perché uno Stato centralista non può farlo. In particolare il centralismo si è espresso sul versante del confessionalismo, emarginando le minoranze religiose, e sul versante educativo, esercitando il monopolio dell’istruzione pubblica: la scuola “statale”, essendo di estrazione, di formazione, di cultura “borghese”, ha fagocitato la cultura contadina e operaia, ha impedito l’uso dei dialetti, ha distrutto tutto quanto era di tradizione “pre-borghese”. Se le minoranze hanno continuato ad esistere, è stato unicamente per merito loro, per la loro volontà di sopravvivenza.

La dittatura della democrazia (I)

Che cos’è la democrazia? E’ il governo dei rappresentanti del popolo, eletti periodicamente. Non è il governo “del” popolo ma “per” il popolo, in cui il popolo è attivo solo nel momento in cui va a votare: cosa che avviene nel corso delle elezioni amministrative o politiche. Un altro momento in cui il popolo si esprime direttamente col voto è quello del referendum abrogativo di leggi o, più spesso, di articoli di leggi già in vigore.

In genere nei paesi cosiddetti “democratici” la democrazia non è che la possibilità di votare chi di fatto governerà per conto proprio, anche se di diritto o formalmente egli governerà per conto del popolo, o se si vuole per conto dei cittadini aventi diritto di voto e che hanno esercitato effettivamente questo diritto (negli Usa p.es. solo la metà degli elettori partecipa alle elezioni dei candidati alla presidenza, sicché chi viene eletto si trova ad avere un consenso esplicito solo da parte di un quarto della nazione).

Un parlamentare dovrebbe sentirsi in dovere di render conto del proprio mandato agli elettori che l’hanno votato. Ma, a parte il fatto che la legge stessa gli garantisce ampie immunità e privilegi, questo è vero solo teoricamente, in quanto di fatto il parlamentare agisce in piena autonomia, pur sapendo di rischiare di non essere rieletto se non soddisfa determinate richieste del proprio elettorato.

Non a caso il parlamentare non può essere chiamato a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle sue funzioni; egli non ha nessuna responsabilità penale, civile, amministrativa o patrimoniale per tali attività. Nessun parlamentare può essere perquisito, arrestato, processato senza l’autorizzazione (che, dopo la riforma costituzionale dell’ottobre 1993, non è invece richiesta per condurre un’indagine nei suoi confronti) della Camera cui appartiene, a meno che non si sia in presenza di una sentenza irrevocabile di condanna o della flagranza del reato. Solo allo scadere del mandato parlamentare, il deputato o il senatore perdono il diritto all’immunità e tornano a essere come tutti gli altri cittadini, quindi perseguibili per i reati eventualmente commessi.

Questa regola, che oggi appare come una sorta di “impunità parlamentare”, fu particolarmente rigida nella Costituzione italiana del 1948 per reazione ai soprusi commessi dal fascismo contro i deputati d’opposizione. Una regola giusta in un regime autoritario s’è trasformata in una regola ingiusta in un sistema democratico.

In questa maniera infatti, l’accesso al parlamento è diventato un’àncora di salvezza per i trasgressori della legge, una sorta di via di fuga per coloro che intendono sottrarsi ad un giusto processo. Finché resta in carica il parlamentare ha tutti gli strumenti per gestire al meglio la propria situazione a delinquere: un supporto economico considerevole, la possibilità di una sua rielezione e, soprattutto, la possibilità di incidere con una legge ad personam sulla propria posizione nei confronti della giustizia. Di qui l’accusa rivolta ai parlamentari di essere una “casta di intoccabili”.