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Quale nuovo rapporto tra scienza ed etica?

Vi è qualcosa di apparentemente poco spiegabile nello sviluppo della scienza e tecnologia occidentale. Al tempo della Grecia classica, tra i filosofi della natura, pochissimi tenevano separata la scienza dall’etica; e anche quando lo facevano (p.es. con Anassagora e Democrito), era solo per poter affermare meglio l’indipendenza della natura da qualunque cosa, cioè i princìpi dell’ateismo. Nella vita privata, infatti, questi filosofi-scienziati tenevano un comportamento etico ineccepibile, mostrando che una professione di ateismo non comportava affatto la rinuncia ai valori morali.

La cosa strana è che tenevano unite scienza ed etica all’interno di un contesto sociale, così fortemente caratterizzato dallo schiavismo, che avrebbe invece dovuto indurli a fare il contrario. Nell’ambito dello schiavismo, infatti, il concetto di “persona” è quasi inesistente. Non si riconoscono i cosiddetti “valori umani fondamentali”, quelli inalienabili, che si possiedono in quanto appunto si fa parte del genere umano. Lo schiavismo è la negazione esplicita della libertà della persona, e quindi della possibilità di avere una propria identità, di essere ritenuto responsabile delle proprie azioni. Essere “giuridicamente libero” era in assoluto la cosa più importante di tutte.

Generalmente si aveva una concezione molto negativa dello schiavo: lo si considerava un fannullone, un bugiardo, un ladro, uno poco abituato a pensare, in quanto tenuto soltanto a obbedire, uno di idee opportunistiche, tendenzialmente amorali, in quanto, pur di avere il consenso del proprio padrone, sarebbe stato disposto a dire o a fare qualunque cosa. Lo schiavo non aveva alcun diritto e andava costantemente sorvegliato. Agli schiavisti non interessava sapere che molti di questi comportamenti erano proprio il frutto di una condizione di forte subalternità. Preferivano dipingere i loro schiavi con mille difetti pur di giustificare l’esigenza di sottometterli e di muovere guerra a popolazioni ritenute, per definizione, “inferiori”.

D’altra parte sia i Greci che i Romani ritenevano se stessi i migliori popoli del mondo allora conosciuto: non avrebbero potuto esprimere pareri favorevoli neanche nei confronti degli stranieri liberi, a meno che tali stranieri non mostrassero una particolare intelligenza, mettendola al servizio della stessa civiltà greca o romana.

Dunque il fatto che i filosofi della natura tendessero a non separare la scienza dall’etica non può certo essere attribuito alla presenza dello schiavismo. Almeno non direttamente. Infatti indirettamente lo schiavismo c’entra. La storia dimostra che là dove esso è presente, la scienza si sviluppa poco in senso tecnologico.

La regina delle scienze pratiche, nel mondo antico, era la medicina, che aveva saputo unire alla plurisecolare fitoterapia uno studio accurato del corpo umano. Viceversa la regina delle scienze teoriche era la matematica, che però aveva scarsa applicazione alla fisica (salvo la leva e gli specchi di Archimede, p.es.) e, ancor meno, all’economia (ferma all’uso dell’abaco). La matematica poteva essere applicata all’astronomia (p.es. per stabilire fasi lunari, equinozi, eclissi, ecc.), all’arte (in riferimento alla proporzione tra le parti), all’architettura (per tenere in piedi i ponti, per stabilire la pendenza degli acquedotti, per edificare teatri, anfiteatri, archi di trionfo ecc., si doveva per forza fare dei calcoli), all’arte militare (per costruire un campo, misurare la parabola dei proiettili, l’efficacia delle armi…).

Ma in fondo era una matematica abbastanza semplice; più che altro era una geometria, che si avvaleva di mezzi facili da costruire e di molta esperienza personale, basata su prove ed errori. Generalmente si sostiene che dal 2500 a.C. al 500 d.C. lo sviluppo tecnologico fu relativamente scarso. Quello che mancava alle civiltà schiavistiche era la sperimentazione in laboratorio, cioè la capacità di riprodurre, in forma ridotta e quindi simulata, le condizioni presenti in natura o in società. Non si avvertiva la necessità di fare progressi significativi in campo tecnico-scientifico o, quanto meno, di renderli di dominio pubblico.

Per conquistare i territori altrui ci si affidava alla forza fisica dei militari (fanti e cavalieri). Quando si ricorreva a una strumentazione ingegneristica (per costruire catapulte, torrette, arieti…), si usava sempre la stessa, quella consolidata per espugnare una città, una rocca, un bastione fortificato… Anche quando si costruivano navi militari, la forza propulsiva era sempre determinata dagli schiavi rematori.

Chi comandava si accontentava di vincere con la forza dovuta alla quantità numerica dei militari e ovviamente alla loro destrezza, frutto di accurati addestramenti. Tutto il resto veniva considerato accessorio. Semmai si considerava rilevante il coraggio da mostrare di fronte a un nemico temibile.

Quindi il mancato sviluppo di una tecnologia avanzata era dovuto proprio al fatto che la presenza dello schiavismo lo riteneva irrilevante. L’imperatore Vespasiano addirittura puniva chi provava a migliorare la tecnologia. D’altra parte la principale ricchezza era data solo da due cose: terre e schiavi. Chi si dedicava al commercio aveva più che altro esigenza di sicurezza, in quanto faceva degli investimenti rischiando di perderli.

In una società schiavista è già molto se si riesce a essere liberi, e chi lo è non può essere troppo tenero con gli schiavi, proprio perché sa che la sua libertà dipende anche dalla loro sottomissione. Ecco perché allo schiavista non si negava mai il diritto di vita e di morte sui propri schiavi.

In epoca moderna invece i ragionamenti sono molto diversi. In Europa occidentale, priva di schiavitù, come si poteva affermare, al tempo di Galilei, la propria esigenza al successo economico? Il cristianesimo aveva introdotto il concetto di “persona”, stabilendo che di fronte a dio si è tutti uguali e che nel paradiso entravano soltanto le persone che sulla terra si era pentite dei loro peccati o che avevano subìto ingiustizie. Lo stesso Cristo s’era fatto “servo” per redimere l’umanità dal peccato originale, per insegnare la legge dell’amore universale.

Certo, sulla terra il cristianesimo non chiedeva di eliminare lo schiavismo; però, siccome spostava nell’aldilà la realizzazione effettiva della libertà personale, era evidente che uno schiavo cristiano, rimasto fedele al suo padrone, anche quando questi lo trattava male, poteva essere considerato dalla chiesa un modello da imitare.

Tuttavia, sulla base di questa concezione di vita non poteva svilupparsi la scienza. Infatti, anche se si tendeva a preferire il servo della gleba, dotato di una relativa autonomia, allo schiavo, che ne era totalmente privo, la rivoluzione scientifica si ebbe soltanto alla fine del Medioevo, dapprima in campo fisico-astronomico, poi, nel Settecento, in campo industriale, grazie al carbone e al ferro.

È vero, durante il Medioevo vi furono varie migliorie tecniche nella gestione della terra (si pensi ad es. alla diversa tipologia degli aratri, al collare rigido per gli animali da tiro, alla staffa nella sella dei cavalli, alla ferratura dei loro zoccoli, ai mulini a vento…), ma non fu da queste cose che si sviluppò la moderna tecnologia.

Paradossalmente possiamo dire che neppure l’inizio dell’avventura coloniale vi contribuì. Le spedizioni navali di due paesi feudali come Spagna e Portogallo costituirono semmai un impedimento allo sviluppo scientifico, proprio perché nelle colonie nacque una nuova forma di schiavismo, da utilizzarsi liberamente per sfruttare le enormi risorse di quei territori.

La mentalità cominciò a cambiare solo quando qualcuno (Bartolomeo de Las Casas, Montaigne, Rousseau, ecc.) cominciò a dire che la civiltà europea, per come si comportava nelle colonie, era più barbara degli indigeni schiavizzati, e che, in ogni caso, non si potevano trattare da “schiavi” i nativi convertiti al cristianesimo.

Ecco la rivoluzione tecnico-scientifica vera e propria avvenne quando l’uso della schiavitù nelle colonie prese ad essere considerato una vergogna (non fu solo una questione di interesse pratico). La coscienza cristiana, per quanto laicizzata fosse, avvertiva come un’insopportabile contraddizione la pratica dello schiavismo con le idee di giustizia e libertà affermate in Europa.

Ora però si faccia attenzione a cosa avvenne riguardo ai rapporti tra etica e scienza. Siccome ai tempi di Galilei (ma anche a quelli di Newton) tutta la morale era determinata dalla religione, si cominciò a dire che tra scienza e fede non vi poteva essere alcun rapporto organico; nel senso cioè che una scienza, imbrigliata dal giudizio dei teologi, non avrebbe mai potuto svilupparsi. E così, proprio nel momento in cui la civiltà europea prendeva atto che la schiavitù era intollerabile (per motivi cristiani), si trovò il modo di estromettere il cristianesimo dallo sviluppo della scienza e della tecnica.

Chi si rese responsabile di questa decisione fu la borghesia, la quale, nel tentativo di ovviare agli evidenti limiti del cristianesimo in campo scientifico, pensò di sbarazzarsi anche di qualunque valutazione etica. La scienza si sarebbe sviluppata meglio rispondendo a esigenze materiali e demandando alle applicazioni delle proprie scoperte e invenzioni le considerazioni di tipo morale. La morale cioè sarebbe entrata nello sviluppo scientifico solo a posteriori, quando tale sviluppo avesse comportato svantaggi sociali insostenibili.

Ora però è venuto il momento di andare oltre questa concezione borghese della scienza (ovviamente senza concedere nulla al cristianesimo). Alla luce dei disastri ambientali ch’essa ha provocato, dobbiamo porre all’ordine del giorno il problema di come unire scienza ed etica. E questa sinergia deve avvenire a priori, prima ancora che gli scienziati e gli ingegneri si mettano a lavorare.

Il presupposto perché ciò avvenga può essere uno solo: concedere all’ecologia un primato significativo sull’economia. Cioè occorre fare della tutela ambientale la condizione irrinunciabile per un qualunque sviluppo socioeconomico. Va ripensato il concetto stesso di lavoro, poiché non ha più alcun senso svolgere determinati lavori quando questi distruggono l’ambiente e minacciano la salute umana.

Occorre ripensare il concetto di benessere, che non può dipendere da indici esclusivamente quantitativi (tipico quello del prodotto interno lordo, che è così fondamentale che anche quando sono presenti degli indici qualitativi, non lo si mette mai in discussione).

Va ripensato il concetto di comodità, nei cui confronti è del tutto ingiustificato l’atteggiamento di chi non si chiede quali effetti sull’ambiente possono avere gli oggetti che usa. Non possiamo più accettare che tali effetti vengano pagati dalle generazioni future.

Soprattutto va ripensato il concetto di progresso, nei cui confronti non si possono assumere atteggiamenti fatalistici: il progresso non è una sorta di divinità cui occorre prostrarsi senza discutere. Se il progresso materiale non sviluppa la personalità umana e riduce la facoltà di scelta, incatenando a decisioni altrui, è meglio rinunciarvi. Una moderna società tecnologica è quella dove i soggetti sono padroni dei propri destini, e questo è possibile solo se a livello locale possono controllare le loro risorse, senza dover dipendere dai grandi mercati.

Specie umana e animale

E’ ridicolo pensare che la coscienza sia un prodotto evolutivo della materia o della natura, poiché, se ciò fosse vero, non si capirebbe il motivo per cui essa non sia presente in alcun animale.

Noi possiamo soltanto fingere di poter parlare con gli animali o ci illudiamo di poterlo fare, ma non c’è assolutamente modo ch’essi apprendano qualcosa che vada al di là dell’istinto o dell’abitudine. Gli animali si adattano all’ambiente per abitudine e, se lo modificano, lo fanno sulla base di certi istinti, ma sono lontani dall’essere davvero creativi. A noi paiono versatili semplicemente perché le specie sono illimitate, ma ogni specie, in realtà, non ha fatto altro che specializzarsi in qualcosa di particolare.

Solo noi abbiamo la possibilità di riprodurre, in qualche modo, tutte queste particolarità. L’essere umano sembra essere la sommatoria di tutte le specie viventi, incluse quelle estinte. Quindi questa nostra prerogativa ci porta inevitabilmente a pensare che all’origine di ogni specie animale vi sia stata una sorta di essenza umana, da cui, per sottrazione, tutte le specie si sono formate.

Le specie animali non hanno fatto che specializzarsi in una delle infinite caratteristiche dell’essenza umana universale. Non siamo stati noi a ereditare il meglio degli animali, ma sono stati gli animali a trovarsi, per così dire, specializzati in una o più qualità già presenti in tale essenza. Tant’è che noi, volendo, possiamo riprodurre qualunque peculiarità del mondo animale, mentre gli animali non sono in grado d’imitare, se non in misura molto ridotta, le caratteristiche umane e, di queste, solo alcune.

Le specie animali sono così specializzate nelle loro particolarità che provano non poche difficoltà a imitarsi persino tra loro. Se lo facessero, sarebbe, per loro, come andare contro natura. Un carnivoro che non mangiasse un erbivoro, quanto tempo durerebbe? Formiche e api vivono solo in grandi collettivi, ma con regole del tutto diverse e non arriveranno mai a modificarle osservandosi a vicenda.

Noi in realtà non abbiamo nulla da imparare dagli animali. Ci diciamo il contrario soltanto perché noi stessi non ci comportiamo in maniera umana. È evidente, infatti, che la disumanità ci rende peggiori degli animali e quando ci accusiamo di comportarci come animali, in realtà stiamo dicendo una cosa senza senso, in quanto nessun animale fa per istinto ciò che noi facciamo in libertà. Dovremmo limitarci a dire che siamo peggio delle bestie, ma anche questa espressione è ingenerosa nei confronti degli animali. La realtà è che una libertà usata negativamente è infinitamente peggiore, proprio per le sue enormi possibilità, di qualunque istinto e, sotto questo aspetto, gli animalisti avranno tutte le ragioni di questo mondo a preferire gli animali agli esseri umani.

Anzi, questo forse spiega il motivo per cui tutte le specie animali, appena hanno modo di conoscerlo, hanno terrore dell’essere umano. È da almeno 6000 anni che gli animali sono abituati a vederci come il loro nemico n. 1. E non sarebbe strano se essi si fossero trasmessi questa paura anche per via genetica. Non è affatto vero, parlando per assurdo, che i dinosauri sono scomparsi per far posto all’uomo: se ci avessero dato fastidio, avremmo sicuramente trovato il modo di farli fuori. I dinosauri rappresentano soltanto l’infanzia dell’umanità, quando, da piccoli, ci piaceva giocare coi mostri, coi giganti dalla forza spaventosa. I dinosauri sono scomparsi perché noi siamo diventati adulti e abbiamo capito che più importante della forza è l’astuzia e più importante dell’astuzia è la capacità di voler bene, cosa che solo con una coscienza matura sappiamo esercitare.

L’etica della guerra e la guerra dell’etica

Le guerre sono l’esigenza di un’etica che si sente forte e che si è indebolita: un’etica malsana, individualistica, abituata a usare non l’esempio ma la forza per imporsi, e che quando riesce a ottenere ciò che vuole, diventa molle, s’infiacchisce, e non sa più come affrontare le proprie insanabili contraddizioni, i propri limiti egoistici.

L’esigenza della guerra è connaturata a una sorta di vuoto esistenziale, così tipico di quelle società (e financo di quelle civiltà) disposte anche a morire pur di trionfare sui più deboli.

E’ un’esigenza ciclica, che si ripete a ritmi alterni: a periodi di pace, in cui l’etica si rilassa, subentrano periodi di guerra, in cui l’etica si irrobustisce.

L’etica della guerra è un’etica di conquista, quella mediante cui il più forte vuole dominare. E’ l’etica del sacrificio, del coraggio, del disprezzo per la morte o per il dolore. E’ l’etica dell’obbedienza, del cameratismo, dell’altruismo nei confronti dei propri compagni, e dell’odio spietato nei confronti del proprio nemico. Si impara ad amare e a odiare nello stesso momento, con la stessa intensità.

E’ un’etica schizofrenica, lacerata, che illude i combattenti di poter diventare migliori proprio mentre uccidono qualcuno. L’omicidio viene giustificato in nome della guerra, cioè in nome del fatto che, siccome non si riesce ad amare nella pace, si deve provare a farlo nella guerra. E chi non è un “compagno” da amare e rispettare, è visto solo come un nemico da abbattere.

La paura di non-essere fa nascere le guerre, che infatti servono per affermare un “proprio essere”, l’essere della cultura, della nazione, della civiltà a cui si appartiene.

E sono guerre non di difesa ma di attacco. Non si sta difendendo legittimamente il proprio territorio, ma si sta occupando quello altrui. E mentre lo si occupa, si sviluppa l’etica, i cui valori sono finalizzati alla conquista e alla distruzione di chi fa resistenza.

E il militare non può aver dubbi di sorta: sta combattendo una guerra giusta, a favore della civiltà, della libertà, della giustizia, della scienza, del progresso e soprattutto dei valori umani universali.

Il soldato mette a repentaglio la propria vita per il bene dell’umanità e spera d’essere considerato un prode, un valoroso, addirittura un eroe. Viene ingannato dai suoi superiori e finisce con l’ingannare se stesso.

Prima della guerra l’etica era così debole che non si riusciva più a distinguere il bene dal male. E men che meno si può pensare di farlo durante la guerra, dominata dal principio mors tua, vita mea. E’ impossibile far chiarezza mentre si combatte, proprio perché la guerra rende elementari tutti i principi etici: o uccidi o vieni ucciso. Al massimo si può obiettare all’ordine di uccidere, se questo viola la dignità umana. Ma è molto raro vederlo.

La vera etica, quella umana, non può essere decisa durante la guerra: va decisa o prima o dopo. E quando non si riesce a farlo in tempo, la guerra diventa inevitabile; e se non si riesce a farlo neppure dopo, la guerra è stata inutile.

L’etica in un contesto violento

In una società violenta, ove dominano acuti conflitti sociali, l’etica non può essere disgiunta dalla violenza; nel senso ch’essa può emergere da una riconsiderazione del male che si fa. Come quando p.es. ci si autogiustifica dicendo: “ho fatto la guerra perché ho obbedito al governo o perché mi sembrava fosse il mio dovere”, cioè “sono un eroe perché patriota”; oppure quando si dice: “L’ho ucciso perché era un mostro”, cioè “questo omicidio dovrebbero considerarlo una legittima difesa”; o quando, sotto interrogatorio, si dice: “sapevo ch’erano corrotti, ma non mi sono lasciato coinvolgere”, cioè “dovreste ringraziarmi, invece di dirmi che ho solo pensato ai fatti miei”.

In questi ambienti il tasso di moralità è così basso che appare “etica” anche l’azione che, in un altro contesto, sarebbe stata del tutto naturale o, al contrario, lo sarebbe stato a un livello minimalista. P.es. il fatto di non vendicarsi per un torto subito, dovrebbe essere considerato un normale atteggiamento umano, ma è raro in una società tipicamente violenta, e comunque non è affatto “etico” quando lo si motiva dicendo d’avere “pietà” per l’aggressore, come se fosse un minorato mentale.

La percezione che si ha della moralità, in un contesto di forte violenza, è ridotta al minimo; normalmente anzi si pensa che l’atteggiamento morale sia quello meno adatto a permettere la sopravvivenza. Occorre per forza essere duri, cattivi, sfrontati, stando bene attenti, nel contempo, a non comportarsi come ingenui e sprovveduti, rischiando d’essere ingannati o strumentalizzati da chi è capace di usare la violenza in forme più subdole e sottili.

Questi atteggiamenti si vedono moltissime volte là dove regna la povertà sociale, il degrado ambientale, l’individualismo esasperato, la criminalità più o meno organizzata, piccola o grande che sia.

E’ molto difficile vivere in un contesto di forte violenza e bisogna imparare presto a capire come non farsi schiacciare dagli altri. In contesti del genere i piccoli soprusi, se si è furbi, vengono facilmente minimizzati: si è tolleranti nei confronti delle piccole angherie. Certo, dipende sempre da chi le subisce, poiché se uno ha una certa reputazione da difendere, un certo onore, non fa molta differenza tra piccola o grande offesa: tutto diventa occasione per mostrare quel che si è.

In genere comunque, sapendo bene che non ci vuol molto a reagire in maniera sproporzionata, si sta sempre molto attenti a non compiere inutili provocazioni, a non dire parole di troppo, anche se lo stress, la tensione quotidiana portano invece a comportarsi proprio così, e si spera sempre che l’altro tenga conto di questi pesanti e costanti condizionamenti. Magari si diventa amici dopo essersi presi a pugni.

In contesti come questi vige sempre la regola delle tre scimmie: “se c’ero non ho visto nulla, se ho visto non ho sentito, se ho sentito non ho parlato”.

Se non si è dei boss, si è disposti a tollerare i piccoli sgarri, a meno che questi, sommandosi uno sull’altro, non diventino assolutamente insopportabili. Ecco, è a questo punto che scatta il meccanismo della scelta: diventare un feroce criminale, capace di difendersi sempre con la violenza, anche quella più spietata, nella convinzione che il rispetto altrui diventa proporzionale alla propria ferocia; oppure cambiare mentalità, ribaltando i consueti criteri di vita, approfittando delle tragedie più disumane e cominciando a guardare con occhi diversi anche le situazioni più banali.

Ci vuole una certa maturità per capire che questa seconda strada, per potersi realizzare, ha bisogno del concorso di una collettività. E’ certamente importante che uno dimostri di possedere un senso di responsabilità, ma è ancora più importante che questa responsabilità non lo trasformi in un “giustiziere della notte”, ma semmai in un punto di riferimento per organizzare una riscossa sociale.

Bisogna soprattutto evitare di illudersi che il pianto dei disperati possa indurre al pentimento i capi della criminalità, poiché, se anche qualcuno arriva a pentirsi, vi sarà sempre un altro che lo sostituirà, e che magari sarà ancora più spietato, cominciando proprio a dare l’esempio coi “traditori”.

E’ il sistema delle relazioni sociali che va cambiato, a partire dai rapporti di lavoro. Non c’è criminalità là dove non c’è sfruttamento del lavoro altrui.

Apparenza e realtà tra etica e scienza

Per millenni abbiano creduto vera un’apparenza – che fosse il sole a girarci intorno -, eppure siamo vissuti lo stesso e dignitosamente.

Sostenere che il progresso sia iniziato quando abbiamo scoperto la verità, sarebbe sciocco. Di per sé la verità scientifica non dice nulla sulla verità etica o filosofica o politica di una società, tanto meno sul suo “progresso”. Questa è una verità elementare ma sconosciuta, in genere, agli autori dei manuali scolastici di storia, che vedono il presente migliore del passato.

Il Medioevo non è più falso della Modernità perché più ignorante, né la Modernità è più vera perché più sapiente. L’ignoranza non ha alcun rapporto con la falsità. L’apparenza, di per sé, non è più falsa della realtà. Esiste forse materialmente l’arcobaleno? No, eppure lo vediamo e ci costruiamo sopra persino dei miti, proprio a causa di questa sua particolarità.

Se qualcuno, di fronte al cucchiaino spezzato in un bicchier d’acqua, ci spiega il fenomeno della rifrazione, noi forse smettiamo, solo per questo, d’avere una percezione magica della realtà? E allora perché c’illudiamo di poter pagare i nostri debiti col gioco d’azzardo o le lotterie o gli imbonitori alla Vanna Marchi? Perché pensiamo di poter un giorno recuperare le nostre perdite in borsa? Perché pensiamo che un semplice cambio di governo possa migliorare, stante l’attuale sistema, la nostra situazione disastrata? Perché usiamo le medicine come un toccasana miracoloso? E così via.

Semmai la falsità subentra quando si vuol negare che l’apparenza sia solo un’apparenza, ovvero che non possa o, peggio, non debba esistere una realtà opposta, cioè che non possa essere dimostrata un’altra verità, come appunto sosteneva la chiesa ai tempi di Galileo.

Oggi diciamo che l’ignoranza della verità non è ammessa, ma lo diciamo perché siamo illuministi e positivisti, cioè ideologici. Noi in realtà ci illudiamo che la verità etica possa dipendere da quella teoretica o gnoseologica. Ma son due cose del tutto separate, com’è giusto che sia.

Uno deve poter essere giudicato anche nella sua ignoranza, non in quanto ignorante, ma in rapporto al suo modo di vivere il bene. Il bene può essere vissuto anche nell’ignoranza.

Il bene è verità? Se lo è, allora la verità può anche essere ignorante. Il fatto di non sapere non può essere usato come scusa o pretesto per “non-essere”. Non è possibile dire: “Mi sono comportato male perché non sapevo”. La percezione del bene e del male va al di là della conoscenza della verità o della falsità.

Si può però dire: “Ora so quale sia la verità, cambierò atteggiamento”, cioè “se ho sbagliato in qualcosa, per mia ignoranza, rimedierò”. Ma una disponibilità del genere – bisogna ammetterlo – lascia supporre che anche l’errore in causa non fosse molto grave. Questo perché l’etica è sempre superiore alla gnoseologia, altrimenti non avremmo fatto alcun passo avanti rispetto alla Grecia classica, quando i filosofi dicevano che la colpa sta nell’ignoranza.

Nell’ignoranza esiste la buona fede, che viene sempre moralmente (benché non giuridicamente) giustificata, tant’è che diciamo: “errare è umano”, ma non per questo diciamo che un errore gnoseologico porta automaticamente a un errore del comportamento. Il male non viene prodotto dall’ignoranza in sé, ma da un modo sbagliato di vivere il bene, cosa possibile anche nella conoscenza della verità.

Un contadino cattolico, che ha sempre obbedito alle leggi e pagato le tasse, può odiare lo straniero islamico se gli viene fatto credere che può essere un suo nemico. Una persona buona può diventare cattiva nella sua ignoranza, ma non è la sua ignoranza che la fa diventare cattiva: è piuttosto l’abitudine a obbedire ciecamente, a fidarsi dei propri superiori, come in genere avveniva nel Medioevo, e se vogliamo anche oggi, nonostante la nostra sterminata conoscenza.

Tant’è che è vero anche il contrario, e cioè che non è la certezza del carattere inoffensivo dello straniero che ci porterà a non odiarlo. L’atteggiamento nei confronti del bene è soggetto a valutazioni che esulano dalla conoscenza della verità in senso stretto.

Gli indiani del Nord America sapevano bene che i bianchi mentivano quando firmavano i loro trattati, eppure, siccome erano abituati a credere nel valore della parola data, continuavano a credere nella verità di quei trattati e nella sincerità di chi li firmava; l’uomo bianco aveva la lingua biforcuta, ma l’indiano, nella sua ingenua buona fede, si sentiva in dovere di credere nelle promesse di lui: se voleva continuare a vivere nel bene, sentiva di non avere alternative.

E così il genocidio degli indiani non è stato solo uno sterminio della buona fede ma anche della verità e del bene in generale, al punto che oggi l’uomo bianco non sa più distinguere il bene dal male, e quando parla fa fatica a credere nelle sue stesse parole. La finzione s’è sostituita alla realtà, tanto che qualunque animale, nella semplicità dei suoi istinti, è diventato più “vero” di qualunque essere umano.

Siamo diventati falsi proprio nella nostra grande conoscenza, non perché la conoscenza renda falsi, ma perché quando non si vuol vivere il bene, quando non si vuole “essere”, non c’è conoscenza che tenga: la sua funzione si riduce soltanto a mistificare meglio il “non-essere”.

Ciò detto, resta da stabilire cosa s’intenda con la parola “bene”. Ma questo è un discorso che la filosofia non può fare, neppure la filosofia della morale o l’etica in generale. Per comprendere la natura del “bene”, bisogna storicizzarlo, calarsi nelle determinazioni di spazio e tempo, fare considerazioni che riguardano i comportamenti umani in senso stretto, che concernono discipline come l’economia, la politica ecc. Parlare del “bene” in astratto, senza considerare i rapporti di proprietà o i conflitti sociali, non serve a nulla.