E’ consuetudine che le scuole superiori vengano periodicamente visitate da ex-tossici che raccontano, in forma assembleare, la loro esperienza o che gli studenti li vadano a trovare nelle loro comunità per conoscere i loro ambienti e percorsi di recupero, le loro motivazioni ecc.
Ci si chiede se tutto quello che si fa in questi incontri sia pedagogicamente utile. Molte cose lo sono sicuramente, ma forse una no: quella di raccontare ad estranei, da parte dell’ex-tossico, i propri problemi più intimi, più personali.
Questi ex-tossici vivono ancora nelle comunità di recupero per una qualche ragione: hanno superato la dipendenza fisica ma non quella psichica, oppure hanno scelto di vivere definitivamente nella propria comunità (come spesso succede in quella di San Patrignano, dove lavorano, si sposano ecc.), oppure vengono giudicati “utili” dai loro dirigenti come forma di testimonianza positiva da divulgare appunto nelle scuole e in altri ambiti sociali.
Ho l’impressione che il fatto di mettersi a raccontare tutto di sé a chi viene visto per una sola volta rischi di diventare una forma di violenza nei confronti di se stessi, anche nel caso in cui vi si acconsenta liberamente. E’ infatti difficile pensare che una persona che ha scelto di vivere in una di quelle comunità invece che in carcere, possa sentirsi così libera nei confronti di chi gli chiede (o anche solo gli propone) di offrire una testimonianza del genere.
Indubbiamente non si sta qui a mettere in discussione l’utilità terapeutica di raccontare la propria esperienza a chi vive problemi analoghi o a chi si pensa che in qualche modo possa aiutarci a risolverli. La domanda che ci si pone è un’altra: siamo sicuri che il raccontare la propria esperienza a soggetti del tutto estranei non rischi di diventare una forma di esibizionismo (in relazione alla propria capacità di affrontare e superare il problema della dipendenza), o, peggio, una forma di propaganda a favore della propria comunità di recupero?
E’ noto infatti che sono gli stessi gestori di tali comunità che si servono dei propri ex-tossici (o ex-alcolisti) per far conoscere la propria struttura, per far vedere i loro successi e per chiedere sostegni finanziari alle istituzioni. Gli ex-tossici raccontano al mondo le loro esperienze anche perché le varie comunità di recupero sono in concorrenza tra loro. Questo rischia di trasformarsi in un modo non di raccontarsi ma di vendersi.
Se un ex-tossico va in giro a raccontare ad estranei tutta la propria storia, rischia di mettersi in faccia una maschera, quella appunto dell’ex-tossico. Prima si sentiva disperato, ora si sente esaltato, poiché ha visto che può fare della propria disperazione un’occasione di autostima, di orgoglio, e non s’accorge d’essere strumentalizzato dai propri dirigenti. Prima s’illudeva d’essere qualcuno “facendosi”, ora s’illude d’essere qualcuno “non facendosi”.
Chi ascolta queste storie forse non ha davvero bisogno di sentirsele raccontare da chi le ha vissute: è sufficiente che le raccontino gli esperti del settore. Anche perché non si deve alimentare l’emotività o la curiosità fine a se stessa. Gli studenti non devono essere “spettatori” di un evento che rischia di porsi in maniera “teatrale”, che tale è in quanto, subito dopo averlo osservato, non potranno fare alcunché (se non riflettere su di sé fino al momento in cui, e sarà abbastanza breve, ciò che hanno visto resterà impresso nella loro mente).
Le storie personali devono restare appunto “personali” per gli estranei. Non si può rinunciare alla privacy solo perché si è vissuto nel fango una parte della propria vita. Supponiamo infatti che chi si mette a nudo s’incontri di nuovo, una volta uscito dalla comunità, con le stesse persone che hanno conosciuto per filo e per segno tutta la sua storia. E’ vero, questo è difficile che accada, poiché generalmente i drogati vengono collocati in comunità lontane dai loro luoghi d’origine, oppure, quando escono, vanno a vivere in luoghi lontani dalle loro stesse comunità.
Ma supponiamo per un momento che ciò accada. Chi racconta tutto di sé al primo venuto, riuscirà, una volta uscito dal gruppo che l’ha accolto quando aveva un problema, a sentirsi davvero libero, a stabilire dei rapporti normali con chi sa che in passato si drogava, rubava, mentiva, si prostituiva, era violento ecc.? Ci si può fidare al cento per cento di uno che nel passato s’era comportato in questo modo? Non è forse meglio che non si sappia nulla del suo pregresso e si stabilisca con lui o lei un rapporto ex-novo, alla pari?
Quando uno racconta il peggio di sé al primo venuto, sarebbe meglio, una volta uscito dalla propria comunità, che andasse a vivere molto lontano dal luogo del suo recupero (o del suo raccontarsi), proprio per essere più sicuro di potersi rifare completamente una vita. Se bisogna uscire dalla comunità dopo aver risolto il proprio problema, non si può uscirne con appiccicata in fronte l’etichetta “ex-problema”. Se non ha senso fare del proprio problema un motivo di vanto per averlo superato, non è neppure giusto doverselo portare dietro dopo averlo superato.
Se io fossi un ex-drogato o un ex-alcolista o un ex-carcerato o un ex-terrorista o un ex-mafioso ecc., mi piacerebbe guardare in faccia un estraneo in piena libertà, senza dover neanche per un momento sospettare che quella persona sta pensando al mio passato (o che può comunque pensarci in qualunque momento). Il mio debito l’ho già pagato; questo debito m’ha segnato profondamente e preferirei che non me lo si ricordasse ogni volta, anzi vorrei essere sicuro che a nessuno possa sfiorare il pensiero che io ho avuto un determinato problema. Vorrei essere sicuro che chi mi guarda o mi parla o vive o lavora con me, mi dia la possibilità di sentirmi del tutto libero dal mio passato e vorrei che anche lui si sentisse libero di rapportarsi a me senza essere minimamente condizionato da ciò che io ho fatto nel passato.
Se io avrò voglia di raccontare tutta la mia vita a chi mi pare, lo farò dopo essere uscito dalla comunità di recupero, senza condizionamenti esteriori, senza che qualcuno me lo chieda. Non voglio spettacolarizzare il mio dolore, a meno che non voglia appunto farlo come forma di “spettacolo”, liberamente, in cui la finzione viene usata su un palcoscenico, nella piena consapevolezza di stare recitando una parte. In tal caso mi lascerò coinvolgere solo quel tanto che basta a produrre un determinato effetto. Magari su una cosa del genere potrò anche trovare di che vivere, e se non sono capace di recitare, potrò sempre chiedere che lo faccia un altro al mio posto, oppure mi metterò a scrivere un libro o la sceneggiatura di un film. L’importante è che tutto questo venga fatto nel rispetto della mia libertà di coscienza.
Libertà di coscienza vuol appunto dire anche questo: sentirsi liberi di aver avuto un problema senza che tutto il mondo debba per forza saperlo.
Non ha alcun senso dover soddisfare delle conoscenze o curiosità intellettuali da parte dei giovani: non si evita di cadere nella droga semplicemente ascoltando storie raccontate da ex-drogati, anche perché per drogarsi le occasioni sono infinitamente di più. Non sono le storie drammatiche, quelle a maggior impatto emotivo, che aiutano meglio a non cadere negli stessi errori, a non avere gli stessi problemi: se fosse così facile, la droga, l’alcool, il fumo ecc. neppure esisterebbero.
I giovani hanno bisogno di esempi positivi quotidiani, hanno bisogno di credere che la vita abbia per loro un senso. Se proprio hanno bisogno di “emozioni forti” per crescere, è sufficiente far vedere queste storie drammatiche nei film, mediante attori professionisti, che sanno recitare alla perfezione, magari con la scritta in calce: “Tratto da una storia vera”.
Se proprio, per crescere in questa difficile fase della vita che è l’adolescenza, hanno bisogno di toccare con mano certe situazioni inusuali, gliele si faccia sperimentare da vicino, per un breve periodo di tempo, affiancandoli da esperti e specialisti, e rinunciando a priori a degli incontri estemporanei che servono soltanto a illudersi, sia da parte di chi parla, sia da parte di chi ascolta.