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Violenza e non-violenza

La non-violenza non serve a far cadere i governi corrotti, reazionari. Una dittatura può anche ridurre il proprio arbitrio, ma lo farà solo per continuare a governare. La non-violenza non spaventa nessuno. In Sudafrica il governo razzista ha ammesso la sconfitta non perché c’era la non-violenza di Mandela, ma perché esistevano forti pressioni internazionali. Lo stesso accadde nell’India di Gandhi. I paesi capitalisti han bisogno dei mercati mondiali: non possono restare isolati, basandosi sull’autoconsumo.

Tuttavia, senza una rivoluzione vera e propria, i conflitti al massimo si attenuano, ma non si superano. È assurdo pensare che una dittatura accetti di lasciarsi superare dalla non-violenza. Anzi, in genere, accade il contrario: se all’arbitrio non si reagisce con fermezza, il potere non avrà motivo di non continuare a usarlo. La non-violenza va bene non per abbattere le dittature, ma per costruire l’alternativa dopo averle abbattute, e solo a condizione che tutti siano disarmati e che le contraddizioni fondamentali siano state risorte.

In tal senso è stato un errore gravissimo dello stalinismo sostenere che quanto più si edifica il socialismo, tanto più forte è la reazione negativa dei fautori del capitalismo. Dicendo questo, non si faceva altro che istituzionalizzare l’uso della violenza da parte del governo.

Quando si preparano le rivoluzioni armate, la non-violenza serve per dimostrare che la violenza è unicamente dalla parte del potere corrotto e autoritario. La non-violenza serve per acquisire consenso, non come criterio di strategia generale. Infatti essa è relativa: le masse rivoluzionarie non useranno violenza finché questa non verrà usata da chi le domina.

La violenza non può essere gratuita, ma solo una forma di legittima difesa. Una non-violenza ad oltranza viene predicata solo dei poteri dominanti e solo per convincere i ceti oppressi a non ribellarsi. L’ideologia della non-violenza ad oltranza impedisce qualunque rivoluzione, poiché ipostatizza un atteggiamento, prescindendo da qualunque svolgimento dei fatti. È soltanto una posizione schematica, ideologica, finalizzata a difendere i poteri costituiti.

La differenza tra rivoluzione violenta e non-violenta sta unicamente nel fatto che la prima non considera le persone individualmente responsabili del sistema che difendono. La lotta infatti è contro un sistema, non contro le persone: è una lotta di idee. Eliminare singole persone di governo significa fare del terrorismo.

Chi domina deve avere terrore di chi patisce ed è pronto a ribellarsi, ma proprio perché sa che la ribellione sarà di massa. È evidente che quando si ottiene un consenso di massa attorno a una determinata idea di società alternativa, l’esigenza di usare la violenza, da parte di chi cerca un’alternativa, sarà minore, poiché si spera sempre che tra le persone di governo vi sia qualcuna riluttante a buttarsi in una repressione di massa, il cui esito potrebbe essere molto incerto.

Ma questo non vuole affatto dire che chi ha organizzato una rivoluzione di massa, non debba essere pronto a difenderla anche con le armi. Una rivoluzione che non si sa difendere, non vale nulla. E il potere deve capire che è giunta la sua ora: nel momento culminante dell’azione rivoluzionaria di massa non vi possono essere titubanze, tentennamenti. Sarebbe da irresponsabili indugiare nei momenti decisivi.

Non si può giocare a fare i rivoluzionari. Non si possono consegnare nelle mani della reazione migliaia o decine di migliaia di persone, nella convinzione che una grande repressione scuoterà le coscienze e indurrà gli incerti ad aderire alla rivoluzione. Sono piuttosto i dittatori ad affermare di aver bisogno di almeno mezzo milione di morti per poter sedere al tavolo delle trattative di pace.

Questi calcoli cinici e meschini, che non tengono in alcuna considerazione la vita umana, non si giustificano neanche di fronte alla peggiore dittatura e non potranno certo costituire la base su cui costruire una valida alternativa. In nessun momento l’azione rivoluzionaria può porsi in maniera contraddittoria ai fini che vuole realizzare. Il fine certamente giustifica i mezzi, ma non fino al punto da sacrificare i valori umani. Non abbiamo bisogno né di gesuiti né di machiavellici.

Come faremo a gestire l’universo?

In uno spazio e in un tempo infiniti non ci si può mai fermare. Cioè quando si ha consapevolezza dell’infinità delle cose, il rischio che si corre non può certo essere quello della rassegnazione. Sulla terra, se uno sbaglia, può anche pagare tutta la vita: dipende da ciò che ha fatto. Spesso anzi siamo così intolleranti che infliggiamo pene di molto superiori al torto compiuto. Ma nell’universo avremmo il problema opposto, quello cioè di capire e far capire che uno non può affrontare con superficialità i valori umani soltanto perché sa di avere sempre a disposizione la possibilità di ricominciare da capo.

Di fronte a un proprio errore, la pena va comunque avvertita, altrimenti non c’è maturazione e la pedagogia diventa una scienza inutile. Certo è che la pena non potrà essere la stessa. Avendo la consapevolezza dell’infinità, la pena dovrà per forza essere qualcosa in grado di toccare l’interiorità della coscienza. Se si approfondisce la consapevolezza dell’estensione, relativa a un tempo e a uno spazio infiniti, deve per forza aumentare di molto la consapevolezza della profondità della coscienza.

L’essenza umana dovrà potersi salvaguardare anche in un mutamento radicale delle forme della sua vivibilità. Tuttavia una qualunque forma di esperienza, nell’infinità dello spazio e del tempo, non potrà mai prescindere dalla responsabilità del qui ed ora. Anche perché il principale compito dell’essenza umana è quello di approfondire se stessa, e questo è possibile solo in uno stretto contatto con altre essenze umane. Vivere rapporti superficiali, nella dimensione dell’universo, sarà la cosa più stupida che potremo fare.

Noi siamo soltanto destinati ad approfondire le cose, cioè a trovare i modi e le forme in cui l’essenza umana possa esprimersi al meglio. Il vero problema da affrontare sarà quello di far sì che a ognuno venga data questa possibilità. La democrazia non potrà certo essere un valore formale, come lo è oggi sulla terra. Una democrazia che prescinde totalmente dalle condizioni effettive della sua realizzazione, non vale nulla. Noi abbiamo bisogno di porre le condizioni per le quali ognuno si senta investito di una certa responsabilità personale. E questo è possibile soltanto se uno può constatare coi propri occhi gli effetti di tale responsabilità.

Sulla terra la democrazia non è mai qualcosa di autogestito, ma qualcosa di imposto o di eterodiretto, cioè amministrato dall’alto. Questo perché non si riconosce alcuna autonomia all’ambito locale: tutto deve dipendere da qualcosa che gli è superiore. La democrazia è fagocitata, svuotata di contenuto, tant’è che nei momenti di crisi può facilmente trasformarsi in una dittatura, scatenando persino guerre mondiali, come già visto nel Novecento.

Dunque la prima regola della democrazia, da attuare già sul nostro pianeta, sarebbe quella di ridurre progressivamente e costantemente i poteri delle istituzioni centrali, trasferendoli alle realtà locali, in maniera tale che gli spazi dell’autonomia vengano gestiti non in maniera evasiva, ma con responsabilità, cioè non per sottrarsi il più possibile alle forme di controllo dall’alto, ma per realizzare nuove forme di controllo reciproco, in cui ognuno è responsabile di chi gli sta vicino. Se non riusciamo a capire questo principio elementare della convivenza umana, una gestione democratica dell’universo sarà impossibile.

L’evidenza è solo un’abitudine

Non c’è nessuna evidenza, di nessun tipo. Per milioni di anni s’è creduto al sole che ci girava intorno, per poi scoprire ch’era il contrario. Neanche dio in persona, se ci si presentasse, potremmo considerarlo un’evidenza. E presumere di dimostrarlo, come facevano gli Scolastici con le loro prove logiche, è ridicolo, anzi patetico.

Ci può essere soltanto l’abitudine a considerare evidenti quelle cose che si ripetono costantemente, come diceva Hume. Ma proprio sul cambiamento delle abitudini Darwin ha posto le fondamenta del suo evoluzionismo.

Una qualunque abitudine può sempre essere smentita, magari non immediatamente o non in qualunque momento, ma se pretende di non esserlo mai, di sicuro – scriveva Popper – è falsa, non è scientifica. In effetti è la vita stessa che c’insegna ad essere elastici duttili flessibili. Dobbiamo abituarci a non avere abitudini tassative.

La gravitazione universale non ha alcuna forza per l’astronauta e, per questa ragione, quello è costretto a fare ginnastica anche quando non ne ha voglia, se non vuole che si decalcifichino le ossa e s’atrofizzino i muscoli.

Per cambiare abitudine bisogna solo avere il coraggio, la volontà e poi la costanza di farlo: ne sanno qualcosa gli obesi o gli accaniti fumatori, per i quali il vizio è un’evidenza che devono cercare di smentire, se vogliono star bene con se stessi e continuare a vivere in società come persone normali. E certamente le abitudini sociali, quando sbagliate, si superano solo collettivamente. Gli sforzi individuali servono a poco se non si fa una campagna pubblica contro una cattiva abitudine. In tal senso tutta la pubblicità dovrebbe essere “progresso”: i refrain giovano moltissimo; a volte si dà retta a quel che dicono proprio per non doverli più sentire.

Se ci fossero delle evidenze indiscutibili, ne subirebbe un danno la libertà umana: oggi abbiamo dei dubbi persino sul significato dell’appartenenza a un orientamento sessuale. Abbiamo infatti capito che non è una certezza del genere che, di per sé, ci rende eticamente migliori. Non lo diceva forse anche san Paolo ai Galati che nel regno dei cieli non solo non ci sarà né schiavo né libero, ma neppure né uomo né donna?

La libertà si sente davvero realizzata soltanto quando è libera di scegliere, e non una tantum ma ogni volta che lo desidera. Scegliere cioè di credere o di non credere in un determinato fatto evento fenomeno, o anche un semplice oggetto segno simbolo, una parola o una frase, persino un sentimento. Sappiamo che gli attori recitano, però quando ci commuovono ci piace credere che siano sinceri.

Certo, qualcuno potrebbe obiettare che se mettessimo in dubbio che i segnali stradali sono un’evidenza, poveri noi. Ma l’evidenza di quei simboli è puramente convenzionale: l’abbiamo decisa a tavolino e nulla c’impedisce di modificarla. L’importante è che tutti lo sappiano. In tal senso anzi dovremmo chiederci se non sia sbagliato pensare che, una volta presa la patente, l’automobilista non possa non ricordarsi tutti i segnali appresi quando andava a scuola-guida.

Insomma non ci piace essere “abituati” a credere o a non credere, e neppure ad amare o ad essere amati. Preferiamo, almeno di tanto in tanto, rimetterci in gioco: la scontatezza logora. Per questo dovremmo desiderare ardentemente la rotazione delle cariche, dei ruoli, delle funzioni. A scuola ci limitiamo a quella dei banchi, ma di tanto in tanto sarebbe bene che lo studente salisse in cattedra e tenesse la sua lezione.

Di fronte a qualunque cosa ci si dovrebbe sentire liberi di credere in maniera personale, non perché qualcuno ci obbliga o ci induce. Quelli che considerano la coerenza un valore assoluto, non si rendono conto che anche un qualunque elettrodomestico è coerente.

Noi possiamo anche accettare d’essere condizionati o persuasi da qualcuno, ma, in ultima istanza, vogliamo sempre poter dire che il fatto di credere o meno in una determinata cosa o persona dipende da una nostra libera decisione. Non vogliamo apparire plagiati o suggestionati. Le dittature nascono così, da quelle mega di Hitler e Stalin, che finirono con l’ammazzare milioni di propri connazionali, a quelle mini dei mariti violenti o dei santoni fanatici che, come Jim Jones, pur di non riconoscere la libertà di coscienza ai propri seguaci, preferiscono eliminarli tutti.

Ci piace apprezzare la libertà e, per questa ragione, non sopportiamo le cose o le persone che pretendono d’imporsi. Anzi, se siamo abbastanza esperti nelle cose del mondo, preferiamo insospettirci proprio di fronte a tutto ciò che pretende d’essere evidente, lapalissiano. Per questo non sopportiamo chi urla, chi non ascolta, chi non dialoga, chi si sottrae alle domande, chi presume d’avere la verità in tasca, chi pilota i dibattiti secondo uno schema precostituito, chi interpreta qualunque cosa secondo una sua determinata pre-comprensione. Non sopportiamo né la troppa luce né il troppo buio, né il silenzio assoluto né il rumore assordante.

L’evidenza è soltanto un pregiudizio, un infantile schema mentale, il difetto di una mancanza di dialettica. Una verità evidente è la più povera del mondo, è una banale tautologia, è la meno adatta a ulteriori sviluppi, è la morte del pensiero. La verità evidente è quella sbandierata dalle dittature, di destra e di sinistra, laiche e clericali. È l’idolatria del dogma, la morte della democrazia, del libero confronto delle opinioni.

La storia è piena di queste dittature del pensiero, che hanno avuto la presunzione di abbattere le evidenze con altre evidenze. “Stato” e “mercato”, p. es., sono due evidenze insopportabili, che ci legano mani e piedi. È non meno evidente che dobbiamo liberarcene.

La vera forza

Che cos’è la forza? Se c’è un concetto che, in teoria, dovrebbe distinguere l’uomo dall’animale è proprio questo. Infatti tra gli animali spesso vince il più forte, oppure il più astuto. Proprio come tra gli umani. Anzi, tra noi i più forti sono decisamente i più astuti, soprattutto quelli che si muovono in campo economico e finanziario. Sono loro che sottomettono politica e difesa.

Di per sé la forza fisica non vuol dire più nulla: al massimo può contare se la si mette al servizio del business, come per esempio nel pugilato, nei film di arti marziali o per fare il “gorilla” di famosi personaggi o il buttafuori nelle discoteche, ecc.

La differenza tra uomo e animale sta nella capacità di usare prevalentemente ogni forma di astuzia per poter dominare o anche solo per sopravvivere. Siamo leoni in quanto volpi, parafrasando al meglio Machiavelli. E non c’è forza che possa reggere il confronto con la nostra astuzia. A volte ci prova la natura, coi suoi fenomeni improvvisi e devastanti, ma per gli umani, discepoli di Ulisse, si tratta solo di casi imponderabili e non di forme di avvertimento. La natura non ci fa alcuna paura: abbiamo scienza e tecnica per dominare. Di Poseidone e Vulcano ci facciamo beffe.

Esibire la propria forza, usando le forme dell’astuzia, è una caratteristica dell’uomo “occidentale”, che non ha paura di nulla, se non di altri simili più astuti di lui. Adesso anche i cinesi han capito come si fa.

Viviamo in una società, anzi in una civiltà così maschilista che l’ostentazione della propria forza (economica, finanziaria, politica, amministrativa, ideologica…) è un dovere, una condizione per sopravvivere. La società ci educa sin da piccoli a sottomettere i deboli o, se siamo o ci sentiamo deboli, a rispettare chi è forte.

Noi viviamo come gli animali, col vantaggio che siamo molto più intelligenti di loro, tant’è che i cinici, dentro la categoria “darwinismo”, mettono insieme mondo umano e animale.

Ora, come uscire da questo handicap che caratterizza la nostra specie? Come possiamo far valere in pubblico l’idea che i cultori della forza e dell’astuzia sono contrari ai valori umani? Forse dicendo che la legge è più importante della forza? Saremmo ingenui: la legge è proprio uno degli strumenti privilegiati che i moderni sacerdoti dell’astuzia, che certo sprovveduti non sono, si danno come paravento per dimostrare che la loro forza è legittima. Legge e istituzioni, nonché l’illusione di uno Stato equidistante sono gli strumenti principali per esercitare la forza.

Anche la religione s’è piegata alle ragioni e all’astuzia della forza, al punto che non si fa scrupolo di benedirla, come quando si dice God save the Queen o Gott mit uns o In God we trust o quando si parla di “Uomo della provvidenza”. Non c’è cosa che non possa essere usata per fare gli interessi di un potere forte. I massacri che facciamo quotidianamente dei bambini, costretti a lavorare come schiavi, a prostituirsi o a combattere come militari, è ancora oggi assolutamente spaventoso.

Come possiamo liberarci di questo stravolgimento delle cose? di questo capovolgimento di valori? L’unico modo per farlo è quello di unirsi per lottare a favore della vera democrazia.

Se restiamo soli, ne usciremo sicuramente sconfitti. Se non lottiamo, pur restando uniti tra noi, non riusciremo a dimostrare la falsità di chi ci governa. Infine se non dimostriamo praticamente che la nostra democrazia è migliore della loro, tutta la nostra lotta politica non varrà nulla.

Democrazia infatti non vuol dire soltanto parlamento, partiti, sindacati, elezioni, referendum…; vuol dire anche avere dei valori umani e naturali da realizzare nel concreto. Difendiamo quindi questi valori, anche con la forza, se necessario, senza mai dimenticare che la vera forza è quella di chi si mette al servizio dei più deboli, quella di chi, pur di difenderli, è disposto anche a immolarsi.

Domande senza risposte

Può esistere, nella propria vita pratica, un comportamento morale differente rispetto a quello dominante, solo perché basato su una diversa concezione della vita? Cioè quando si oppone la propria ideologia o filosofia politica a quella di un avversario, si è legittimati a pensare che l’opposizione sta avvenendo anche nel modo di vivere l’etica? Quale processo dobbiamo ritenere più affidabile: quello che, partendo da un determinato modo di vivere la moralità, produce, come conseguenza naturale, una corrispondente concezione della vita, oppure dobbiamo ritenere che la teoria abbia un certo primato sulla pratica e che quindi quella parte di società che lotta per un cambiamento non può aspettarsi da noi una significativa coerenza, visto che i poteri forti ci impediscono di realizzare le nostre idee?

Si può davvero essere delle persone oneste quando a livello istituzionale domina la disonestà? Ma se non si riesce ad essere onesti come si vorrebbe, che speranza si può avere, lottando contro il sistema, di realizzare una vera alternativa? Dobbiamo quindi dare per scontato che, lottando contro un sistema corrotto, nessuno può pensare di poterlo fare sbandierando una purezza interiore? Dobbiamo quindi dichiararci preliminarmente disponibili ad autoeducarci sul piano morale il giorno in cui avremo sconfitto politicamente la corruzione del sistema? O dobbiamo forse iniziare a farlo da subito, almeno nei limiti del possibile?

Ma quali saranno o possono essere le condizioni operative per poter compiere questo lavoro etico su di sé? Perché le rivoluzioni politiche ad un certo punto si trasformano sempre in dittature? Dobbiamo forse sentirci rassegnati in partenza proprio perché siamo convinti della inevitabilità di questi terribili capovolgimenti di fronte? Che cos’è che c’impedisce d’essere noi stessi, una volta che abbiamo tolto di mezzo chi c’impediva di diventarlo?

Davvero è solo una questione di persone che gestiscono il potere? O non è forse una questione di “sistema”? Ma se è una questione di “sistema”, a che serve cambiare le persone? Per quanto tempo queste nuove persone riusciranno a dimostrare che sono diverse rispetto a quelle precedenti? E se invece, memori delle esperienze passate, diventassero ancora più scaltre, riducendo ancora di più la capacità di resistere al male? Quand’è che possiamo dire con sicurezza di una persona: “ecco quella è davvero onesta”? Quand’è che possiamo basarci su delle certezze e non su delle apparenze?

Quando le cose più importanti della nostra vita non dipendono dalla nostra volontà ma da quella dei poteri forti, davvero possiamo avere delle certezze in positivo? Davvero possiamo dire con sicurezza di qualcuno che vediamo solo sul luogo di lavoro o in televisione o in una riunione condominiale o di partito, che è una persona sincera, onesta, affidabile?

Che cos’è che ci manca per essere davvero umani e conformi a natura? Forse il fatto che non siamo più in grado di controllarci a vicenda? E come possiamo controllarci a vicenda, nelle cose essenziali della vita, quando si vive in Stati centralizzati, dove tutti i poteri vengono gestiti dall’alto? Come possiamo soddisfare autonomamente i nostri bisogni quando dipendiamo da mercati gestiti da monopoli che collegano interi continenti?

Approfittare della guerra per cambiare sistema

Ogni guerra, dove pur di vincere o di non perdere, si finisce col compiere qualunque cosa, anche quelle che, nei periodi di pace, non si sarebbero mai fatte, procura devastazioni non solo materiali ma anche morali, e non solo in chi perde ma anche in chi vince.

Infatti, se è possibile che chi vince soffra meno disastri materiali, è però certo che non può sottrarsi in alcun modo ai disastri morali, quelli che p. es. colpiscono i militari in congedo, i reduci, affetti da sindromi nevrotiche e psicotiche, incapaci di reinserirsi normalmente nella società.

Questi reduci spesso vengono anche biasimati dalle popolazioni civili quando diventa ufficiale che la guerra era stata ingiusta o inutile, quando la si è persa vergognosamente, quando la vittoria non ha comportato alcun vantaggio significativo, quando si sono compiute azioni assolutamente ingiustificate, ecc.

Il compito che attende la società civile è quello di ricostruire delle personalità distrutte, che non vogliono sentirsi uniche responsabili di un conflitto deciso dalla politica e, a volte, dalla stessa società civile, di cui pur anche loro erano e continuano a essere parte organica.

Invece le istituzioni tendono a nascondere questi traumi, poiché costituiscono un cattivo esempio, un fattore demoralizzante, una critica indiretta ai poteri forti. La politica non vuole essere messa in discussione nelle scelte belliche che prende, siano esse vincenti o perdenti.

Se queste scelte si sono rivelate, alla fine del conflitto, del tutto sbagliate, si tratterà soltanto di sostituire gli statisti responsabili con altri statisti, ma senza modificare il sistema. Il potere non vuole mai che i risultati di una guerra (che sempre, in un modo o nell’altro, destabilizzano)possano indurre la società civile a chiedere una revisione generale del sistema. E’ la società civile che lo deve esigere, e può farlo soltanto se si sostituisce allo Stato, se è capace di dimostrare d’essere in grado di autogovernarsi.

Chi pensa che una società con queste pretese finisca col comportarsi peggio dello Stato, non sta dalla parte dei cittadini ma dei poteri autoritari, illudendosi o facendo credere che le istituzioni rappresentino la volontà della nazione. Nei sistemi antagonistici, caratterizzati dai conflitti di classe, la politica è sempre al servizio dell’economia e l’economia è sempre al servizio di chi detiene il monopolio della proprietà privata. Non esistono istituzioni equidistanti o Stati interclassisti.

Certo, una società civile abituata a essere considerata come una “serva” dallo Stato, abituata soltanto a difendersi da un potere padronale, farà fatica, nel periodo iniziale della propria autonomia, ad autogestirsi in maniera democratica. Ma se non riuscirà a migliorare se stessa, non potrà certo addebitare allo Stato la causa di questa sua incapacità, anche perché i poteri dello Stato, nella fase della transizione, saranno ridotti al minimo, secondo il seguente principio democratico: la forza dei poteri delegati deve essere inversamente proporzionale alla distanza che li separa dalla comunità delegante. Cioè tanto meno forti quanto più lontani.

In ogni caso in un sistema di autonomie locali vi sono condizioni più favorevoli a realizzare un controllo delle attività politiche ed economiche. La democrazia infatti sarà diretta e non delegata, la gestione dei mezzi produttivi sarà collettiva e non privata, la soddisfazione dei bisogni primari dipenderà dalle risorse del territorio e non dai mercati.

In una situazione del genere si potranno recuperare meglio i reduci delle guerre disumane volute da sistemi assurdi.

I 12 principi fondamentali della Costituzione sono intangibili?

E’ stato detto che i principi fondamentali della nostra Costituzione sono intangibili e che, in 60 anni di vita, nessun governo ha mai pensato di modificarli. Sembrano una sorta di decalogo veterotestamentario, una serie di enunciati assolutamente dogmatici. Vediamo se davvero dobbiamo considerarli così.

Art. 1. La Repubblica è democratica in quanto fondata sul lavoro e non sulla rendita o sullo sfruttamento del lavoro altrui. Questo è vero, ma bisognerebbe specificarlo espressamente, perché il concetto di “lavoro”, in sé, non indica affatto il carattere “democratico” di una repubblica. Nel sistema capitalistico il lavoro è soltanto unamerce, al pari di altre, che si acquista sul mercato, tant’è che si parla di “mercato del lavoro”.

Più che essere “fondata” sul lavoro, la Repubblica italiana dovrebbe essere fondata sulla “proprietà collettiva dei mezzi di lavoro”, quella che permette a tutti di non dover essere sfruttati per poter vivere. Il lavoro può non essere una “merce” soltanto se la proprietà dei fondamentali mezzi produttivi non è privata.

Il lavoro è un diritto-dovere, ma dove esiste proprietà privata dei mezzi produttivi, spesso diventa soltanto una casualità, una fortuna o un ripiego. Se davvero la Repubblica fosse fondata sul lavoro, noi non dovremmo avere disoccupati o inoccupati o sottoccupati o cassintegrati, né lavoratori in nero o clandestini, né quelli che svolgono mansioni che non c’entrano nulla con gli studi fatti, né quelli che, non rassegnandosi a questo trend di sprechi e inefficienze, emigrano dal nostro paese per cercare un’occupazione inerente ai propri studi o comunque un’occupazione che permetta di vivere dignitosamente. Né dovremmo avere quelli che approfittano del bisogno o delle debolezze o della precarietà altrui per estorcere favori di ogni genere, per obbligare a servizi umilianti, per ridurre in stato di schiavitù. Non dovremmo neppure avere tutti quei giochi, sommamente diseducativi, che promettono premi favolosi col miraggio di non lavorare o di lavorare molto meno.

Solo se la Repubblica è fondata sulla proprietà collettiva dei fondamentali mezzi produttivi, si può davvero dire che la “sovranità appartiene al popolo”, come recita la seconda parte di questo articolo. In caso contrario la definizione resta puramente formale. Non è sufficiente essere lavoratori o cittadini per esercitare un’effettiva “sovranità”. La sovranità politica è una diretta conseguenza di quella economicasociale. Là dove manca la proprietà comune dei mezzi produttivi, la sovranità politica si esercita unicamente nel momento della scadenza periodica del voto. In tal modo la vera sovranità politica non viene esercitata dal popolo ma dai suoi delegati parlamentari, i quali tendono a fare gli interessi solo di quella parte di popolazione che dispone di proprietà privata.

Art. 2. Poiché non si è specificato nell’art. 1 che la Repubblica deve essere fondata sulla proprietà comune dei principali mezzi produttivi, accade inevitabilmente, quando si afferma ch’essa “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”, che all’interno di questi diritti debba essere inteso anche quello alla proprietà privata, come è naturale che sia in tutte le Costituzioni borghesi, dove appunto tra i diritti fondamentali si prevedono sempre quelli alla libertà e alla proprietà, concepiti quasi in maniera interscambiabile.

In realtà il diritto alla proprietà privata può essere tollerato solo quando questa proprietà non è relativa ai mezzi fondamentali di produzione, che sono poi quelli che garantiscono la sopravvivenza di un’intera collettività, ovvero quelli che le permettono di esercitare i diritti irrinunciabili che la caratterizzano o la identificano come tale.

Tutti gli articoli relativi al titolo III della Costituzione: “Rapporti economici” non rendono affatto più chiara l’esigenza di precisare il primato della proprietà comune dei mezzi produttivi rispetto al lavoro.

Art. 3. E’ inutile affermare l’uguaglianza giuridica di tutti i cittadini di fronte alla legge, quando non si precisa a chiare lettere la necessità della loro uguaglianza sociale ed economica di fronte al bisogno. La seconda parte dell’art. 3, in assenza della suddetta precisazione, rischia di restare, sul piano pratico, una pia intenzione, ovvero di tradursi in uno sforzo moralistico o paternalistico di dubbia efficacia.

Infatti, se si fosse puntato più sul bisogno che sulla legge, più sulla concreta proprietà pubblica che non sull’astratta tutela del lavoro, non si sarebbe detto, in questo articolo, che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, ma, al contrario, che i cittadini con più bisogni hanno più diritti davanti alla legge. Hanno più diritti di precedenza e di preferenza, proprio al fine di colmare il loro gap dovuto a motivi fisici, psichici, esistenziali, sociali, geografici, linguistici ecc., rispetto agli altri concittadini.

L’uguaglianza assoluta davanti alla legge può andar bene quando tra cittadini non esistono differenze rilevanti. Tuttavia, se consideriamo che persino la natura pone una certa differenza di genere tra i sessi e pone altre differenze dovute all’età anagrafica, è del tutto inutile auspicare un’uguaglianza assoluta di fronte alla legge.

E’ la legge che deve adeguarsi alla diversità dei bisogni, non sono i bisogni che devono adeguarsi all’uniformità della legge. Ci si adegua all’uniformità imposta dalle circostanze per soddisfare meglio il bene comune. Ma è evidente che le circostanze possono cambiare e, con esse, la regola dell’uniformità.

Una società che per molto tempo si vantasse di avere regole uniformi a livello nazionale, potrebbe dare impressioni del tutto opposte: di grande coerenza democratica, ma anche di grande forza dittatoriale. Non è certo dal contenuto in sé delle leggi che si può valutare il grado di democraticità di una nazione. Bisogna piuttosto esaminare il livello di rispondenza delle leggi ai bisogni collettivi. E, considerando che i bisogni sono per lo più mutevoli, soggetti al continuo modificarsi delle circostanze, può apparire, al limite, del tutto superflua l’esigenza di darsi delle leggi scritte.

Art. 4. Questo articolo è molto importante e la Repubblica dovrebbe essere denunciata quando non assolve il proprio dovere di assicurare a tutti un lavoro. Se il lavoro è un diritto-dovere, allora è compito della Repubblica garantirlo. Non basta dire ch’essa “promuove” le condizioni che rendono effettivo il diritto; le condizioni devono essere “assicurate”, “garantite”, altrimenti non è possibile sostenere che il lavoro è un “dovere” di tutti.

Come noto il lavoro è un diritto che può essere rivendicato, ma se è anche un dovere, il cittadino dovrebbe essere obbligato a lavorare, anche nel caso in cui non volesse farlo.

Finché il cittadino rivendica il lavoro come un diritto, significa che la Repubblica non è in grado di assolvere al proprio dovere di assicurarlo a tutti. E’ dunque giusto affermare che ognuno ha il dovere di lavorare, salvo che qualcosa di oggettivo non gli impedisca di esercitare questo obbligo.

Art. 5. Questo articolo non è mai stato applicato per due semplici ragioni:

  1. esistono nel territorio italiano degli spazi geografici in cui la sovranità dello Stato è insussistente, come p.es. quelli della Città del Vaticano, della Repubblica di S. Marino e delle basi Nato. In queste aree delimitate da precisi confini si esercita il principio della extraterritorialità da parte di uno Stato che inevitabilmente deve essere considerato come “straniero” all’interno della nostra Repubblica;
  2. il nostro Stato, prima monarchico poi repubblicano, è nato e si è sviluppato in maniera centralistica, usando gli Enti Locali Territoriali come propri organi periferici. Sono state piuttosto le autonomie locali a lottare per essere riconosciute come tali dallo Stato.

Nella nostra Repubblica non è lo Stato ad essere a servizio della società civile, ma il contrario. E non è detto che questo rapporto sia destinato a mutare trasformando lo Stato da centralista a federalista.

Art. 6. Questo articolo non è mai stato attuato con coerenza, semplicemente perché uno Stato centralista non può farlo. In particolare il centralismo si è espresso sul versante del confessionalismo, emarginando le minoranze religiose, e sul versante educativo, esercitando il monopolio dell’istruzione pubblica: la scuola “statale”, essendo di estrazione, di formazione, di cultura “borghese”, ha fagocitato la cultura contadina e operaia, ha impedito l’uso dei dialetti, ha distrutto tutto quanto era di tradizione “pre-borghese”. Se le minoranze hanno continuato ad esistere, è stato unicamente per merito loro, per la loro volontà di sopravvivenza.

Art. 7. Questo articolo è la dimostrazione più evidente della debolezza del nostro Stato, costretto a riconoscere, da un lato, la propria limitatezza istituzionale, in quanto il Vaticano agisce in piena autonomia politica ed economica in una determinata porzione di territorio, rivendicando una gestione temporale dei propri beni che lo qualifica come uno Stato a pieno titolo (in grado addirittura di agire indisturbato a livello internazionale); e, dall’altro, il nostro Stato dimostra la propria insufficienza normativa, in quanto il Vaticano gli impedisce di affermare con coerenza i principi della laicità in materia di libertà di coscienza.

Questo articolo andrebbe completamente abolito o riscritto, evidenziando la piena sovranità e laicità dello Stato.

Art. 8. Questo articolo non prevede la libertà di non credere in alcuna religione. La libertà di coscienza viene qui equiparata alla libertà di religione, nel senso che ogni cittadino è libero di credere nella confessione che vuole.

In realtà la libertà di religione è solo un aspetto della libertà di coscienza, la quale appunto prevede anche la libertà di non credere in alcuna confessione.

Art. 9. Questo articolo è troppo generico per essere importante. Per renderlo più significativo si potrebbe aggiungere che la Repubblica tutela solo lo sviluppo di quella cultura orientata a promuovere l’umanizzazione dei rapporti sociali, e solo lo sviluppo di quella ricerca tecnico-scientifica favorevole alle esigenze riproduttive della natura.

Bisogna dettagliare questo per impedire che la prima parte dell’articolo finisca col trovarsi in contrasto con la seconda. Non tutta la cultura, non ogni tipo di ricerca merita d’essere tutelata.

Art. 10. Questo articolo dovrebbe avere un valore sia in tempo di pace che in tempo di guerra, e quindi a prescindere da qualunque contenzioso la nostra Repubblica possa avere con chicchessia.

Inoltre bisognerebbe precisare che la nostra Repubblica si attiene alle norme del diritto internazionale solo quando queste sono conformi ai valori umani universali e alle esigenza di tutela ambientale.

Infine bisognerebbe aggiungere che nelle controversie internazionali o anche solo bilaterali (tra Stato e Stato), la nostra Repubblica si appellerà, se lo riterrà opportuno per risolverle, a organi di carattere internazionale, riconoscendo a questi organi un potere vincolante per le decisioni che prenderanno.

Art. 11. Questo articolo viene costantemente smentito dalle cosiddette “missioni di pace”, che vengono compiute da un personale militarizzato. Bisogna quindi precisare che qualunque intervento armato, non avente scopo meramente difensivo dei nostri confini territoriali, cioè dell’integrità della nostra nazione, va considerato illegale. Dal nostro territorio non dovrebbero uscire forze armate di alcun genere, neppure per fare delle esercitazioni.

Anzi, il nostro Stato dovrebbe operare affinché si riconosca a livello internazionale il divieto, da parte di forze militari nazionali, di occupare spazi di cielo, di terra e di mare che risultano comuni a più nazioni o anche a tutte le nazioni del mondo. Gli spazi internazionali devono essere lasciati liberi da qualunque tipo di arma.

Dovrebbe essere tassativamente vietato che uno Stato possa disporre di proprie basi militari al di fuori dei propri confini.

Sarebbe bene che il nostro Stato s’impegnasse per primo in questa direzione, mostrando agli altri Stati che la sicurezza è maggiormente garantita non in presenza ma in assenza delle armi.

Inoltre nella Costituzione dovrebbe esserci un articolo che prevede la rinuncia definitiva alla produzione, alla vendita, all’uso di qualunque arma di sterminio di massa. Dovrebbe essere proibita in maniera tassativa anche la vendita di qualsivoglia arma all’estero.

Art. 12. Questo articolo è frutto dello Stato centralista. Si può riconoscere allo Stato una determinata bandiera, ma permettendo anche alle Regioni e persino ai Comuni di aggiungere sullo sfondo tricolore gli elementi simbolici che li caratterizzano da secoli.

Siria, primo atto dell’assedio geopolitico all’Iran. I documenti Usa però parlano chiaro: NON si tratta di difendere la democrazia, ma solo “gli interessi americani in Medio Oriente”.

Il salto di qualità dell’appoggio dell’Occidente ai ribelli siriani è avvenuto non solo e non tanto con la recente decisione europea, Italia compresa, di un più deciso appoggio militare quanto con la decisione Usa di fornire loro missili terra aria, in grado cioè di colpire qualunque velivolo. Si tratta della stessa decisione che a suo tempo presero gli Usa di fornire i micidiali Stinger terra aria per mettere in grado i ribelli afgani di colpire gli aerei e gli elicotteri sovietici, segnando così il punto di svolta che permise la vittoria dei talebani appoggiati da tempo i tutti i modi da Washington. Per fare un paragone dei nostri tempi: se qualcuno  fornisse gli Stinger o i loro equivalenti non made in Usa ai palestinesi, Israele non potrebbe più bombardare Gaza con l’aeronautica. Continua a leggere

Il virus della borghesia

La borghesia che si è sviluppata in Europa a partire dal Trecento (in Italia a partire dal Mille, con la nascita dei Comuni, che già nel Duecento erano così forti da impedire agli imperatori tedeschi di far valere i loro diritti feudali) in che cosa viene considerata “progressiva” dagli storici? Semplicemente nel fatto ch’essa riuscì a ottenere, attraverso il commercio e l’industria, ciò che prima poteva essere ottenuto solo attraverso la terra e le armi.

Ma davvero possiamo dire che la borghesia sostituì l’uso della rendita con quello del profitto? Davvero rimpiazzò l’uso delle armi per ottenere la terra con l’uso del denaro per ottenere ricchezze e prestigio? O non è piuttosto vero ch’essa si limitò ad abbinare uno stile di vita a un altro?

Davvero la borghesia può essere considerata una classe “rivoluzionaria”? Una cosa dovrebbe essere considerata “rivoluzionaria” quando elimina o sostituisce quella precedente, non quando le si affianca, limitandosi a ridurne il peso o il volume.

Per raggiungere il suo obiettivo, la borghesia, più che altro, s’è comportata con una buona dose di opportunismo e di cinismo; ha sapientemente dissimulato le proprie intenzioni; ha fatto dell’ambiguità un vero modello di comportamento. Ha saputo approfittare di tutte le contraddizioni della nobiltà e del clero cattolico, lacerati tra un idealismo astratto e un’immoralità concreta, soltanto per produrre nuove contraddizioni, strettamente legate all’uso dei capitali.

Davvero l’umanità aveva bisogno di vivere questa esperienza per emanciparsi dalla corruzione dei sovrani feudali? E’ stato davvero un “progresso” che una classe sociale potesse arrivare a un’analoga corruzione seguendo strade diverse da quelle percorse da chi l’aveva preceduta nella scala che porta al potere economico e politico?

Stando ai classici del socialismo scientifico, Marx ed Engels, sì, il percorso della borghesia era necessario per emanciparsi dal feudalesimo; stando invece al rivoluzionario Lenin, no: si poteva benissimo passare dal feudalesimo al socialismo democratico, saltando la transizione borghese.

Sono due posizioni completamente diverse, e oggi, alla luce del crollo del socialismo autoritario, dovremmo pensare che, in definitiva, avevano ragione Marx ed Engels.

Teoricamente, in realtà, aveva ragione Lenin, ma l’evoluzione del leninismo verso lo stalinismo ha dato ragione a Marx (e indirettamente a Trotski).

Lo stalinismo infatti è stato la testimonianza, in forme diverse da quelle del capitalismo occidentale, che lo stile di vita borghese può influenzare le masse più di quanto non si creda. Lo stalinismo è stato il tentativo d’impedire alla borghesia di svilupparsi autonomamente, utilizzando, nel fare questo, alcuni strumenti che la stessa borghesia s’era data per imporsi, e cioè lo Stato, le forze armate e di polizia, i servizi segreti, la burocrazia, l’ideologia politica, la parvenza del diritto, l’istruzione di massa, la scienza e la tecnica al servizio del potere, l’informazione manipolata ecc.

Nello stalinismo è mancata soltanto la possibilità che si sviluppasse una classe sociale particolare, frutto di un uso privatistico del denaro (che è poi quello che sta permettendo oggi il socialismo cinese).

Si sviluppò invece la figura del burocrate statale deresponsabilizzato e dell’intellettuale di partito spersonalizzato, ch’erano, nella sostanza, delle figure borghesi, dipendenti da questa tipologia di classe. La tradizione collettivistica, che s’era conservata nella decadenza del feudalesimo est-europeo, aveva ostacolato lo sviluppo della borghesia “economica”, ma non era riuscita a impedire lo sviluppo di quella “politica e amministrativa”.

Tuttavia i fatti hanno dimostrato che se si sviluppa una borghesia del genere, più intellettuale che imprenditoriale, diventa poi impossibile impedire che si sviluppi anche l’altra borghesia, che nell’Europa occidentale esiste da almeno un millennio.

La storia dunque cos’ha dimostrato? Semplicemente che, una volta nato, lo stile di vita borghese è come un virus che si propaga molto velocemente; che bisognerebbe eliminarlo con decisione appena lo si intercetta; che è un virus molto pericoloso, in quanto muta continuamente le sue sembianze; che è un virus in grado di vivere in maniera latente e inerte anche dopo averlo tenacemente combattuto, e che alla prima occasione può venire allo scoperto, cogliendo del tutto impreparato chi l’aveva combattuto.

Per tenere sotto controllo questo virus, impedendogli di svilupparsi e di diffondersi, ci vogliono alcune condizioni fondamentali, che non possono essere imposte dall’alto, poiché una qualunque imposizione fa il gioco del virus.

La prima condizione è che si accetti di vivere un’esperienza collettivistica basata sull’autoconsumo e sulla democrazia diretta. Non solo cioè ci si deve limitare a consumare ciò che effettivamente si produce in maniera autonoma, evitando che si formino delle categorie di persone che, col pretesto di amministrare le eccedenze, evitano di lavorare; ma bisogna anche che ogni decisione da prendere su come ottenere dalla terra i prodotti del nostro sostentamento, sia frutto di una comune volontà, senza interferenze da parte di forze esterne al collettivo.

Posto questo, occorre che si abbia piena consapevolezza che nei confronti della natura non si può avere un atteggiamento di sfruttamento. La natura va rispettata nelle sue esigenze riproduttive, che sono le stesse che permettono agli uomini di esistere. Qualunque cognizione scientifica o uso della tecnologia non può andare oltre un certo limite, perché al di là di questo esiste solo autodistruzione.

In che senso l’Europa unita?

Tre periodi storici di altissima crisi, dovuta a corruzione, conflitti di ceti e classi, abusi d’ogni tipo, portarono in Italia a soluzioni che all’apparenza sembravano convincenti, ma che, alla resa dei conti, si rivelarono peggiori dei mali che volevano combattere.

Il periodo più antico fu quello della tarda repubblica romana, che, dopo l’eliminazione dei Gracchi, dopo le sanguinose guerre sociali e civili e dopo la sconfitta della rivolta di Spartaco, portò alla dittatura degli imperatori, durata mezzo millennio, e non solo in Italia ma in tutta Europa.

Mille anni dopo fu la volta del tardo alto Medioevo, la cui corruzione portò alla nascita della teocrazia pontificia, che durò sino alla riforma protestante e al sorgere degli Stati nazionali europei.

Circa mille anni dopo fu la volta delle dittature nazi-fasciste, che insanguinarono l’intera Europa per tutta la prima metà del Novecento, in risposta alla crisi strutturale dei regimi liberali e parlamentari.

A queste dittature fasciste di tipo cesarista, in cui cioè la mistica del duce dominava incontrastata, si opposero con successo sia la dittatura stalinista, che poteva avvalersi di un apparato statale e di una persuasione ideologica più efficace; sia (con un successo che col tempo si rivelò ancora più grande) la dittatura economica degli Stati Uniti, capaci di applicare allo sviluppo produttivo tutte le principali conquiste tecnico-scientifiche, capaci di fare del consumismo di massa un’ideologia mondiale attraverso un uso spregiudicato dei mass-media e capaci di fare della finanza una potente arma di ricatto mondiale nei confronti dei paesi più deboli.

In tutti e tre i periodi storici non si riuscì a fare altro che sostenere, senza rendersene conto (in un primo momento), le dittature più feroci, nella convinzione che in tal modo le classi privilegiate avrebbero potuto essere meglio controllate. L’illusione di una maggiore democrazia fece nascere le peggiori dittature della storia (cui si possono aggiungere quelle del socialismo reale, che sfruttarono il declino del tardo feudalesimo dei loro paesi).

Dunque quale può essere oggi l’illusione popolare in grado di far nascere in Europa una potente dittatura, che sia molto più efficace di quella bonapartista dei vari Mussolini, Hitler, Franco, Pétain…

L’illusione può essere solo questa: i parlamenti nazionali non sono in alcun modo in grado di risolvere i problemi economici e i conflitti sociali, dunque ci vuole un unico parlamento sovranazionale, un vero parlamento europeo dotato di tutti gli effettivi poteri di uno Stato centralizzato.

Così, invece di sviluppare la democrazia diretta, la democrazia sarà ancora più delegata; invece di sviluppare l’autogestione, saremo completamente eterodiretti, invece di sviluppare l’autoconsumo, resteremo totalmente in balìa dei mercati e delle borse mondiali. Si farà di un Superstato democratico un Leviatano mai visto. E questo nella convinzione di realizzare una maggiore uguaglianza.

Alla luce dei precedenti storici, è evidente che per poter arrivare a questo saranno necessari rovinosi crolli di borsa, un generale impoverimento economico della società, un’acuirsi della corruzione e naturalmente una sanguinosa guerra civile.

Gli Stati nazionali scompariranno e tutto verrà gestito da un unico organismo europeo, i cui nuovi burocrati non mancheranno di dire che solo in tal modo saremo in grado di fronteggiare meglio il globalismo aggressivo della nuova superpotenza cinese.

Che ne è dei rapporti tra socialismo e religione?

Dopo il crollo del muro di Berlino e dell’Urss, il tema del rapporto tra socialismo e religione, in Europa occidentale, sembra essere totalmente scomparso. Eppure abbiamo ancora oggi il più grande partito comunista del mondo, quello cinese, che gestisce un sesto dell’umanità. Abbiamo Cuba che resiste imperterrita al più grande embargo della storia americana (e forse della storia in generale). Abbiamo altri paesi del sud-est asiatico che hanno chiaramente conservato tracce del più recente socialismo; per non parlare del pericoloso autoritarismo (sedicente comunista) della Corea del Nord. E che dire di quei paesi che al loro interno hanno porzioni di territorio in cui le comunità locali vivono reminiscenze di socialismo ancestrale, pur senza professarne l’ideologia?

Questo per dire che dal punto di vista mondiale non ci sarebbero tanti motivi per mettere una pietra sopra il tema suddetto.

Dai tempi del socialismo utopistico ad oggi i progressi fatti sul piano della laicità sono stati enormi: dal concetto di Stato laico alla secolarizzazione dei costumi e degli stili di vita.

Nonostante le aberrazioni del cosiddetto “socialismo reale”, l’idea di emanciparsi progressivamente dalla superstizione e dal clericalismo è andata avanti; anzi si può dire che, oltre alla scoperta dei diritti tipicamente “sociali” (lavoro, assistenza, previdenza, istruzione, sanità, sicurezza…), il maggior contributo allo sviluppo dell’umanità il socialismo l’abbia dato proprio nel campo della laicizzazione (la quale, si badi bene, non può essere confusa con l’ateizzazione gestita dallo Stato).

Col tempo abbiamo capito che “Stato laico” vuol semplicemente dire “aconfessionale”, cioè indifferente alle religioni, anche se le istituzioni non possono restare “neutrali” di fronte ai tentativi d’ingerenza clericale nelle leggi parlamentari.

Il miglior Stato che possa favorire la libertà di coscienza è appunto quello “laico”, che in Italia, come noto, non esiste, a motivo della presenza dell’art. 7 della Costituzione, che riconosce un privilegio fondamentale alla chiesa romana, in virtù del Concordato e dei Patti Lateranensi.

Il futuro socialismo democratico (perché comunque di “socialismo” dobbiamo parlare, non potendo buttar via acqua sporca e bambino) non dovrà in alcun modo creare uno “Stato ateo”, né tentare di separare la chiesa dalla società civile. Ognuno dovrà essere lasciato libero di credere nella religione che vuole, e ogni credente dovrà sforzarsi il più possibile, quando vorrà opporsi a determinate leggi statali, di farlo semplicemente in quanto cittadino, senza chiamare in causa i contenuti della propria fede.

In occidente è finito da un pezzo il periodo in cui era necessario opporsi a un’idea religiosa con un’altra idea religiosa, o quello in cui si permetteva alla religione di avere una propria presenza politica (teocrazia, ierocrazia, integralismo della fede, teologia politica ecc.). Solo in Italia si hanno ancora dubbi al riguardo.

L’umanità procede verso una sempre più grande laicizzazione della vita sociale, pur in mezzo a errori madornali, dalle conseguenze spesso spaventose. Tali errori sono stati compiuti proprio perché s’è capito che non basta la laicità per rendere migliore la vita: occorre anche la giustizia. E in questo campo, essendo gli uomini da millenni abituati all’antagonismo sociale, ovvero ai conflitti di classe, siamo ancora lontanissimi dall’aver trovato una strada davvero praticabile.

Si pensi solo al fatto che se, per l’affermazione dell’umanesimo laico oggi ci accontentiamo di un regime di separazione tra chiesa e Stato, tale separazione non è affatto sufficiente per garantire la realizzazione di un socialismo davvero democratico.

I migliori classici del socialismo hanno infatti sempre sostenuto che parlare di “Stato democratico” è una contraddizione in termini, in quanto l’obiettivo finale prevede l’autogestione delle risorse e dei bisogni collettivi.

Per una democrazia compiuta

E’ possibile farsi una rappresentazione della democrazia compiuta? O bisogna limitarsi a considerarla una semplice aspirazione da realizzarsi in un futuro imprecisato? Se partissimo dal presupposto che per una democrazia compiuta non ci può essere alcuna evidenza che s’imponga da sé, forse il futuro potrebbe iniziare da subito.

Dovremmo cioè partire dall’idea che non c’è nessun obbligo da rispettare se non quello della libertà di coscienza, che non è neppure un dovere ma un piacere. Se tutti amassero rispettare la coscienza, sapendo che questa è la fonte di ogni libertà, avremmo posto la pietra più importante dell’intero edificio della democrazia.

Il potere di fare le cose, di crearle o di trasformarle, dovrebbe essere messo in relazione alla capacità di rispettare la libertà di coscienza. La scienza dovrebbe essere completamente subordinata alla co-scienza, e questa non dovrebbe essere soltanto una prerogativa dell’individuo singolo, ma anche un fenomeno collettivo, come quando nel Medioevo chiedevano al popolo di confessare pubblicamente le proprie colpe, per essere assolto come popolo.

Infatti la migliore coscienza delle cose è quella che si manifesta in un collettivo, all’interno del quale ci si può confrontare. Questa è la prima regola fondamentale della democrazia: rispettare collegialmente la libertà di coscienza.

Il modo migliore per rispettare questa libertà è quello di compiere delle azioni di cui si è personalmente responsabili. Non può esistere, in campo etico e sociale, la delega di ruoli e funzioni, se non in casi eccezionali e per un tempo molto limitato. Noi dovremmo avvertire con ansia la mancanza di democrazia e non limitarci a opporre all’autoritarismo dei governi in carica il nostro anarchico individualismo.

Il singolo dovrebbe sentirsi direttamente responsabile delle proprie azioni non solo come singolo, ma anche in quanto appartenente a un collettivo. Dovrebbe diventare una nostra seconda natura il principio per il quale quando un singolo sbaglia, sbaglia l’intero collettivo, poiché il collettivo ha dimostrato di non saper prevenire gli errori. Ognuno quindi dovrebbe essere responsabile delle proprie azioni due volte: come singolo e come membro di un collettivo.

Tuttavia un collettivo è davvero responsabile solo se è in grado di autogestirsi, cioè solo se è padrone delle proprie risorse, e non dipende da risorse altrui o da altri collettivi. Se c’è dipendenza, dev’essere reciproca e non sulle cose essenziali, quelle che permettono di vivere.

Se un collettivo non è in grado di autogestirsi, va aiutato e messo nelle condizioni di poterlo fare. Non si può utilizzare la scienza per sottomettere quei collettivi che non ne dispongono allo stesso livello. In una democrazia compiuta lo sfruttamento delle risorse altrui dovrebbe essere considerato vietatissimo, proprio in quanto costituisce, immediatamente, una violazione della libertà di coscienza.

Ora, che succederà nei casi in cui risulterà poco chiaro se la coscienza è stata o no violata? Se ogni decisione viene presa da un collettivo, all’interno di questo le persone più autorevoli sono necessariamente quelle con più esperienza. Non ci sono altri criteri. Il secondo criterio infatti lo conosciamo già: “nessuno è insostituibile”.

Ma il problema più complesso è un altro. In un sistema come il nostro, dove la libertà di coscienza non può essere adeguatamente rispettata, che ruolo può giocare una formazione politica che voglia realizzare la democrazia compiuta?

Una formazione del genere dovrebbe agire soltanto nell’ambito della società civile, al fine di rispondere ai bisogni della gente comune. Non dovrebbe neppure sedere in Parlamento. Dovrebbe cioè porre le basi non per acquisire un potere prossimo venturo, quando le contraddizioni esploderanno, ma per esautorare progressivamente questo potere di tutte le sue funzioni.

Infatti, se anche una tale formazione operasse nel solo ambito della società civile, lavorando per risolvere le contraddizioni sociali, il giorno in cui andasse al potere, stante l’attuale sistema, inevitabilmente si corromperebbe. Gli uomini hanno creato un sistema che corrompe a prescindere dal livello di eticità della loro coscienza.

Questo mostruoso Moloch si chiama “delega istituzionalizzata”. Un partito per la transizione, che voglia realizzare la democrazia compiuta, è meglio che stia fuori dal Parlamento, proprio per dimostrare che la politica del sistema non solo non risolve alcun problema ma addirittura li crea.

Andare o non andare a votare, in tal senso, conta assai poco. La democrazia rappresentativa o delegata è un altro di quei problemi da risolvere, per il quale la medicina è una sola: la democrazia diretta o autogestita.

Abolire le province e ripensare il federalismo

Si sta discutendo se abolire o ridurre le Province. Io penso che vadano abolite in toto, perché sono una vergogna del nostro paese e di qualunque paese che voglia dirsi democratico. Sono un’emanazione dello Stato centralista. I Savoia le hanno prese dai francesi allo scopo di controllare i Comuni.

Sono i Comuni che devono avere più potere. Sono loro che devono decidere cosa fare a livello locale, con chi consorziarsi per gestire i problemi intercomunali e come utilizzare le tasse che devono restare in loco.

Il vero potere democratico è solo quello locale ed è il Comune che, al massimo, dovrebbe, a seconda della necessità contingente, concederlo temporaneamente allo Stato. Quanto più la delega dei poteri viene gestita lontana dal Comune tanto meno forti dovrebbero essere i poteri che si concedono, a meno che non vi siano urgenze particolari e momentanee (come quando le tribù cosiddette “barbare” affidavano, in caso di guerra, tutti i poteri a un sovrano eletto per il tempo necessario).

I Comuni fanno parte di una società civile che è il vero soggetto della democrazia. Oggi tutto questo viene vissuto in maniera rovesciata e il federalismo della Lega Nord non ha fatto che accentuare il centralismo.

Oggi però il vero problema è che la sinistra non ha nessun progetto alternativo allo Stato sociale che la destra vuole smantellare per favorire i monopoli privati. Ancora non riesce a capire che più importante dello Stato è la società civile e che bisogna progressivamente aumentare i poteri di questa società diminuendo quelli dello Stato. Se avesse capito questo, da tempo sarebbe riuscita a togliere alla Lega Nord il monopolio del discorso sul federalismo.

Un federalismo pensato in maniera davvero democratica deve prevedere l’autogestione collettiva (in ambito comunale) di tutte le risorse locali, contro il globalismo delle multinazionali, fino al ripristino dell’autoconsumo, per potersi emancipare, almeno nelle cose essenziali, dalle logiche dei mercati, che sfuggono, come le borse, ad ogni controllo politico.

Qual è il vero significato del lavoro?

Cosa vuol dire “lavorare”? Un commerciante che acquista un prodotto da un agricoltore e lo rivende sul mercato, è un “lavoratore”? Se l’acquirente andasse direttamente dal produttore, sentiremmo la mancanza di un “rivenditore”?

Nel Medioevo consideravano i mercanti degli imbroglioni, di cui sicuramente era meglio non fidarsi: si sapeva infatti che speculavano di molto su quanto vendevano, approfittando del fatto che l’acquirente non poteva conoscere il prezzo d’origine della merce, quello che lo stesso mercante, andando in oriente, aveva pagato per ottenerla.

Lavorare infatti non può significare “rivendere”, a meno che chi compra non ne abbia una necessità vitale. Non a caso nel Medioevo vigeva il baratto: lo scambio delle cose presupponeva che entrambe le parti conoscessero il tempo e i mezzi impiegati per produrle, la fatica occorsa ecc. Si barattavano cose reciprocamente prodotte o trasformate. La moneta, negli scambi, veniva usata dalle persone facoltose e solo per merci rare e preziose.

Il mercante ovviamente si giustificava dicendo che il suo era un “lavoro” importante, in quanto doveva viaggiare molto, avere molte conoscenze, rischiare beni personali ecc.

Tuttavia era anche una sua scelta: nessuno ve lo obbligava. In campagna le unità produttive erano del tutto autosufficienti, e chiunque avrebbe potuto pensare che quando un contadino si trasformava in mercante, lo faceva perché detestava il servaggio o perché voleva arricchirsi a spese altrui.

Nel Medioevo i lavori fondamentali erano quelli agricoli e artigianali; persino la caccia e la pesca e la raccolta di radici bacche erbe miele selvatico, ch’era il lavoro fondamentale nel Paleolitico, venivano praticate nei tempi morti dell’agricoltura o, la sola caccia, dai “signori” come passatempo.

Nel Medioevo il lavoro era contrapposto all’ozio dei possidenti terrieri, come il servaggio alla rendita. Gli agrari vivevano approfittando del fatto che i loro avi, in un lontano passato, avevano usato la forza militare per impadronirsi di determinati territori: era la terra il simbolo della ricchezza. Soltanto dopo aver conquistato questi territori, costruirono le mitologie delle ascendenze aristocratiche, elaborarono la legge del maggiorasco ecc., proprio allo scopo d’impedire che i patrimoni si frantumassero o finissero in mani sbagliate.

La borghesia mercantile nacque per reagire proprio a una situazione bloccata, in cui era praticamente impossibile arricchirsi seguendo le vie legali. O si restava servi della gleba tutta la vita o si doveva cercare fortuna in maniera non convenzionale (a meno che uno non accettasse la carriera ecclesiastica). E quando la fortuna, coi commerci, veniva fatta, il borghese doveva poi convincere il contadino a lavorare per lui, non come contadino, ovviamente, ma come artigiano, o meglio, come operaio salariato. E a quel tempo il modo più veloce d’arricchirsi, con un’impresa produttiva, era quello di dedicarsi al tessile.

Quando il contadino scinde il suo lavoro in due mansioni diverse, agricola e artigianale, può anche nascere la città: qui infatti possono trasferirsi gli operai che servono alla borghesia per arricchirsi (possono abbandonare il feudo e respirare l’aria “libera” della città).

Gli stessi artigiani possono diventare imprenditori di loro stessi, con alle dipendenze molti garzoni o apprendisti o lavoranti che non hanno mezzi sufficienti per mettersi in proprio. Gli artigiani fanno presto ad arricchirsi e a diventare una casta, specie quando il frutto del lavoro dipende da conoscenze specializzate, che pochi possono avere.

L’edificazione di una città non comportava la libertà per tutti ma solo l’illusione d’averla: di fatto era libero solo chi disponeva già di capitali e voleva aumentarli, oppure disponeva di terre i cui prodotti voleva cominciare a vendere proprio per soddisfare una domanda proveniente dalle città (p.es. la lana, che comportò la trasformazione di molti agricoltori in pochi e semplici pastori).

Naturalmente non mancava chi andava in città sperando di emanciparsi dalla condizione servile del passato, propria o dei propri parenti. E per riuscirvi aveva bisogno di dar fondo a tutte le proprie risorse, intellettuali, comportamentali, comunicative, psicologiche… Si trattava soprattutto di modificare la propria passata mentalità.

Il borghese infatti rappresenta la persona astuta, senza tanti scrupoli, in grado facilmente di simulare e dissimulare, sostanzialmente atea, anche se formalmente religiosa, attaccatissima al denaro e disposta a vendere l’anima pur di accumularne il più possibile. Non si diventa borghesi accontentandosi del poco o restando sottomessi, né affidandosi al caso o alla fortuna, né sperando nella benevolenza dei potenti.

Il borghese è un individualista per definizione, che si vanta d’essersi fatto da solo, e non accumula solo per avere il potere economico, ma anche per quello politico.

Il borghese deve arrivare alla convinzione che la ricchezza è unicamente dipesa dalle proprie capacità e deve trasmettere questa convinzione al pubblico, illudendolo che la ricchezza in generale è alla portata di chiunque.

Esiste solo uno stile di vita peggiore di quello borghese, e ne abbiamo avuto un assaggio con lo stalinismo. E’ lo stile di vita dell’intellettuale di partito e del funzionario di Stato, che si costituisce come casta privilegiata, sfruttando il lavoro di tutti. Attraverso lo strumento dell’ideologia e dello Stato (e quindi non del vile denaro), il partito diventa una sorta di sfruttatore collettivo.

Oggi, in forza di queste sconfitte storiche del capitalismo e del socialismo amministrato, possiamo dire che il lavoro può acquisire un carattere democratico solo se chi lo compie ha la percezione della sua utilità sociale e la convinzione che questa utilità gli viene riconosciuta e la certezza di non essere soggetto ad alcuna forma di sfruttamento.

Il pregio di cercare alternative

L’intera vita occidentale è ormai diventata di un’assurdità inusitata. Non possiamo neppure dire: pur dopo sessant’anni di pace entro i confini di Stati Uniti, Europa e Giappone, perché diremmo una sciocchezza. Abbiamo in realtà avuto decine di conflitti regionali, in varie parti del pianeta, in cui in un modo o nell’altro siamo stati coinvolti, e la situazione sociale, interna alle nazioni economicamente più avanzate, mostra una crescente tensione, specie dopo l’ultimo dissesto finanziario originario negli Usa e propagandatosi ovunque. La crisi, generata dalle banche, dagli istituti finanziari, dalle borse, dalle speculazioni dei broker, da manager senza scrupoli e da affaristi di ogni risma, è stata fatta pagare ai lavoratori e ora che una timida ripresa sembra affacciarsi sui mercati, i livelli occupazionali restano al palo, anzi continuano a calare: ciò a riprova che le leggi del capitale sono opposte a quelle del lavoro.

Gli occidentali sembrano essere diventati un problema irrisolvibile per l’intero pianeta e, dopo il crollo del “socialismo reale”, la loro cultura del business, in Cina, in Russia, in India, in Brasile e in tanti altri territori che fino a poco tempo o facevano parte del blocco socialista o appartenevano al cosiddetto “Terzo mondo”, non è più vista come una sorta di invasione extraterrestre, ma come un modello da imitare, il più in fretta possibile, sfruttando a piene mani le risorse umane e naturali dei propri territori.

* * *

Fondamentalmente noi siamo nocivi alla salute e all’ambiente, intenzionati a vivere di rendita sino al giudizio universale e privi di idee credibili, in quanto costantemente incoerenti nella pratica. Viviamo senza far nulla di davvero utile all’umanità. La quasi totalità dei consumatori occidentali non sa neppure l’origine di ciò che mangia, non conosce la fatica che ci vuole a produrre il proprio cibo. Noi conosciamo il nome dell’azienda che lo produce o lo smercia, ma non conosciamo chi materialmente lo realizza, in quali condizioni lo fa, se viene equamente retribuito. Sappiamo soltanto che di sicuro non è lui a decidere il prezzo dei suoi prodotti. Per il resto nulla di nulla, e poi con qualche scrupolo di coscienza parliamo di “commercio equo solidale”.

Non sappiamo da dove, precisamente, viene ciò che usiamo, a parte la generica provenienza della nazione. Anzi, quando ci dicono che molte cose provengono dal Terzo mondo, pensiamo di essere noi a fare un piacere a loro comprando i loro prodotti. Come se loro fossero sui mercati coi nostri stessi titoli. Che poi in fondo sono i nostri stessi monopoli che sui nostri mercati vendono i loro prodotti.

Anche quando pensiamo di essere utili a qualcuno, in realtà produciamo cose che altri han già deciso per noi (i proprietari dei nostri mezzi di lavoro); cose che sicuramente non faranno il bene della natura, poiché sono tutte artificiali (dove la chimica, i derivati del petrolio e altre sostanze di sintesi hanno assoluta preminenza); cose che faranno anche crescere il pil di una nazione ma che non miglioreranno la qualità della vita, proprio perché noi non sappiamo più cosa voglia dire “vivere in maniera naturale”.

Per noi “qualità” vuol dire “comodità”, cioè ottenere le stesse cose e anche di più e meglio, il più velocemente possibile (per risparmiare sul tempo, che è un nemico mortale per l’obsolescenza dei macchinari), il meno faticosamente possibile (per risparmiare sul costo del lavoro) e, nel migliore dei casi (ma qui ci vuole una dirigenza davvero illuminata), il meno pericolosamente possibile, onde evitare che le spese della formazione incontrino ostacoli insormontabili nei problemi della sicurezza.

In pratica “qualità della vita” vuol dire “godersi la vita”, lasciando ad altri il compito di faticare e di rischiare veramente. “Qualità della vita” significa aver tempo libero da dedicare ai propri interessi individuali o di piccolo gruppo.

Noi ci illudiamo di essere noi stessi quando pensiamo di poterlo essere in maniera autonoma. Quando p.es. viviamo da sedentari e quindi da alienati, ci ritagliamo un certo spazio per fare ginnastica, cioè per bruciare energie e restare in forma, non per produrre qualcosa di utile alla comunità (salvo il fatto che, se siamo in salute, la sanità pubblica spende meno per noi).

Le nostre case, per fare un altro esempio, non servono solo per mangiare e dormire, ma anche e soprattutto per viverci. La nostra vita è chiusa nelle quattro mura delle nostre abitazioni, che per noi sono un punto di forza del nostro benessere. Chiusi così, non abbiamo coscienza di nulla, non ci interessa più di tanto quel che sta fuori. Le news ci arrivano attraverso la televisione, mescolate assurdamente tra loro, dalle tragiche alle insulse, con assoluta indifferenza, come se fossero soltanto merci da vendere in un grande supermercato, dove pensiamo che la libertà stia nel poter scegliere tra venti dentifrici diversi.

Le news dicono tante cose, ma su nessuna di esse si può far qualcosa. Si può soltanto cambiare velocemente canale, per vedere e sentire sempre le stesse cose. Chi naviga in rete pensa di poter “interagire” con qualcuno, illudendosi di poter incidere su qualcosa o di poter avere ampie conoscenze con cui amministrare meglio la propria vita. Si pensa che, essendo in tanti, un qualche potere di resistenza o di cambiamento delle cose, lo si abbia e a volte sembra effettivamente così.

Ma i poteri forti non mollano, hanno più resistenza di noi, più mezzi, e tornano all’attacco, aggiustando il tiro delle loro restrizioni, il cui scopo è sempre quello di tutelare dei privilegi acquisiti. Non basta la rete virtuale per resistere, ci vuole anche quella reale.

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La nostra democrazia è la nostra dittatura quotidiana, che non ha bisogno d’essere feroce, in quanto ci ha già svuotati dentro. Siamo come pinoli chiusi, che all’apparenza sembriamo pieni, ma che si schiacciano al primo colpo.

Ci siamo illusi che dagli operai, dagli studenti, dagli intellettuali progressisti, dalla Russia e dalla Cina comuniste, dal Terzo mondo anticapitalista o non-allineato potessero venir fuori idee rivoluzionarie, in grado di cambiare le cose nella sostanza. Invece al massimo sono state cambiate alcune forme, alcune leggi, alcune abitudini, ma la sostanza è rimasta uguale: noi continuiamo a non restare padroni della nostra vita, siamo eterodiretti. Che sia un monopolio politico o economico non fa differenza. Che l’ideologia si serva dello Stato, del partito o delle aziende non cambia nulla.

La democrazia parlamentare, formale, statale, delegata, e poi il mercato, il valore di scambio, i bisogni indotti, i capitali dominanti, i profitti estorti, le rendite vergognose, gli interessi accumulati, la corruzione dilagante – tutto questo è la nostra alienazione, la nostra dittatura quotidiana.

Noi dobbiamo uscire da questo stato di cose, se ci è rimasto un briciolo di dignità. Dobbiamo opporre resistenza affermando insieme un’autonomia produttiva, una sorta di autoconsumo para-feudale, senza servaggi, senza clericalismi di sorta, in cui sia finalmente il valore d’uso delle cose a farla da padrone.

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Quali possono essere le prime regole fondamentali per riappropriarci della nostra vita, cercando di delegare ad altri meno cose possibili?

  1. Non usare mai nulla che la natura non possa riciclare agevolmente.
  2. Le cose che servono per riprodursi devono durare il più possibile.
  3. Se proprio si è costretti a scegliere tra esigenze umane e naturali, scegliere quelle naturali, perché si sbaglia di meno.
  4. Prima di creare qualcosa di artificiale chiedersi se quanto si trova in natura può essere sufficiente (o se si può fare usando materiali naturali).
  5. Quando è in gioco la sopravvivenza di un collettivo di vita, non fare mai scelte a titolo individuale.
  6. Progresso significa migliorare i rapporti con la natura, conservandola il più possibile integra e permettendole una facile riproduzione.
  7. Primato del valore d’uso vuol dire anzitutto primato dell’autoconsumo.
  8. Non parlare di cose che non conosci, che non riguardano la tua vita di gruppo o su cui non puoi offrire alcun contributo significativo per migliorarle.
  9. Ricomponi tutto il sapere alle cose essenziali che servono per vivere e riprodursi.
  10. Attieniti alle regole fondamentali della democrazia diretta:
    • nessuna decisione è irrevocabile;
    • il bisogno è superiore alla legge;
    • più bisogni più diritti;
    • nessuno è insostituibile o infallibile, neanche un organo collettivo;
    • la minoranza deve rispettare la volontà della maggioranza, previo dibattito franco e aperto;
    • a ognuno secondo il bisogno, da ognuno secondo le capacità;
    • le esigenze di un collettivo sono sempre superiori a quelle del singolo individuo;
    • la violazione della libertà di coscienza comporta la violazione di qualunque altra legge;
    • più la democrazia è delegata e meno poteri deve avere;
    • nessun ruolo o funzione può essere a vita o ereditario;
    • il diritto di espressione non può essere usato fino al punto da compromettere il diritto di associazione;
    • metodo e contenuto, sostanza e forma devono il più possibile coincidere;
    • la verità è sempre relativa alle condizioni di spazio e tempo, anche se la verità oggettiva è superiore a quella soggettiva.