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E PER LE BANCHE USA “TROPPO GRANDI PER FALLIRE” BABBO NATALE HA PORTATO UN BEL REGALO. SPERIAMO CHE L’UNIONE EUROPEA NON LO IMITI CON LA BEFANA….

Regalo di Natale alle banche: ritorna il “bail out”

 Mario Lettieri* Paolo Raimondi** 

Solitamente Babbo Natale porta i regali ai più piccoli. Ma quest’anno, forse anche lui un po’ frastornato dalla valanga di messaggi di pubblicità o malignamente disinformato dall’onnipotente National Security Agency, ha fatto un bel regalo anche alle banche più grandi del pianeta.

Il Congresso americano infatti ha approvato delle misure che proteggono le “too big to fail” in tutte le operazioni con derivati finanziari. E’ stato cancellato il cosiddetto “Emendamento 716” della legge di riforma finanziaria Dodd-Frank che, per taluni derivati, costringeva le banche ad operare attraverso delle sussidiarie. Era un modo per evitare che i soldi dei depositi bancari venissero utilizzati in operazioni speculative.

Poiché i succitati depositi utilizzati usufruivano delle garanzie della Federal Deposit Insurance Commission (FDIC), tutte le banche in crisi finora hanno goduto di generose operazioni di salvataggio con fondi pubblici da parte del governo, i cosiddetti “bail out”.

In realtà la legge Dodd-Frank, originariamente concepita proprio per proteggere i risparmiatori dopo gli sconquassi della crisi finanziaria globale del 2007-8, era già stata abbondantemente annacquata. Permetteva quindi l’utilizzo dei depositi per i derivati relativi alla protezione rispetto ai rischi sui prestiti concessi, alla volatilità dei tassi di interesse e ai crediti inesigibili. Di fatto tale protezione riguardava ben il 95% di tutti i derivati.

Perciò è d’obbligo porsi la domanda del perché vi sia “tanta animosità” per il rimanente 5%, pari a 14 trilioni di dollari in rapporto a un montante nominale complessivo di circa 280 trilioni. Ciò soprattutto in considerazione del fatto che da tempo le banche possono contare anche sulla copertura del cosiddetto “bail in”, cioè sulla possibilità di attingere ai depositi, oltre che al capitale proprio, per coprire gli eventuali buchi provocati da operazioni finanziarie spericolate e da speculazioni andate male.

La risposta, secondo noi, sta proprio in quel 5% di derivati esclusi che include i derivati sulle commodity, rilevanti sotto tutti i punti di vista. Come evidenziato in passato, le banche hanno penetrato i mercati delle materie prime, su cui esercitano una crescente influenza sicuramente destabilizzante.

Oggi le banche americane sentono la necessità di garantirsi il “bail out” pubblico anche su questi segmenti di finanza speculativa in quanto i loro derivati, soprattutto quelli relativi al petrolio, rischiano di produrre grandissime perdite.

Infatti, mentre per i tassi di interesse il comportamento della Federal Reserve è una variabile prevedibile, l’andamento del prezzo del petrolio negli ultimi mesi non lo è stato. Non è stato quindi coerente con la legge della domanda e dell’offerta. In breve tempo esso è sceso da 110 dollari al barile a circa 60 dollari.

Vi è una chiara scelta politica sottesa alla volontà di inondare i mercati di petrolio e di continuare a produrne grandi quantità anche in situazioni di calo del prezzo assai vistoso. Normalmente non dovrebbe essere così, a meno che non vi siano forti ragioni geopolitiche. Ora appare evidente la volontà di mettere in ginocchio finanziariamente la Russia e l’Iran, due grandi produttori di petrolio i cui bilanci dipendono non poco da tale risorsa..

Però adesso le banche americane si trovano in pancia tanti prodotti derivati emessi in garanzia di aumenti del prezzo del petrolio oppure in rapporto a eventuali diminuzioni meno consistenti di quelle attuali.

La banca forse più esposta è la JP Morgan Chase, tanto che ha mandato il suo chief executive a testimoniare al Congresso per la rimozione dell’emendamento citato. La cosa in verità è passata sotto silenzio, “seppellita” nella legge finanziaria americana del 2015 che tra l’altro approva anche la copertura di spesa del governo per 1.100 miliardi di dollari per evitare così nuovi shut down.

Il voto delle leggi finanziarie spesso nasconde tra le migliaia di commi e di norme scelte e decisioni non giustificabili e non sostenibili. In verità il cosiddetto “assalto alla diligenza” accade anche da noi in sede di approvazione della Legge di Stabilità.

Speriamo che la scelta compiuta dal Congresso americano non venga imitata anche dall’Unione europea.

*Sottosegretario all’Economia del governo Prodi **Economista

L’economia Usa è malata. Con rischio di collasso

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Lo “shutdown”, che è scattato all’inizio di ottobre con la chiusura di settori importanti della pubblica amministrazione, è la più evidente dimostrazione della patologica crisi sistemica dell’economia e della finanza degli Stati Uniti. Il governo di Washington è senza soldi in quanto ha utilizzato tutte le disponibilità di bilancio approvate dal Congresso. Per continuare con l’attuale ritmo di spesa previsto dovrebbe “sfondare” il tetto del debito pubblico prestabilito. Come è noto, ogni anno e da tempo si ripete lo sfondamento del limite massimo del debito, un’operazione che richiede però l’approvazione del potere legislativo.

Nel frattempo oltre 800.000 dipendenti federali che lavorano in alcuni settori amministrativi, nella gestione del territorio e dei parchi e perfino nel settore spaziale e dell’intelligence sono da giorni a casa e senza stipendio. Naturalmente la sospensione dal lavoro di centinaia di migliaia di impiegati comporta una perdita di reddito pari a circa 200 milioni di dollari al giorno che inevitabilmente genera una riduzione dei consumi mettendo in crisi anche settori del commercio. Continua a leggere

IN ARRIVO DAGLI USA UNA VALANGA DI DEBITI?

In arrivo dagli Usa una valanga di debiti!

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

L’accordo di capo d’anno per scongiurare che il fantomatico “fiscal cliff” potesse portare ad uno choc fiscale, alla recessione e al blocco del bilancio dello stato federale Usa, non è una vittoria della stabilità. Dovrebbe invece essere considerato un rischio ulteriore di instabilità per il resto del mondo, in primis per l’Europa. L’evento ha una valenza tutta americana, molto importante per i giochi di potere interni. Sancisce però una politica complessivamente fallimentare, sia dei democratici che dei repubblicani, nella gestione della finanza. Si sono trovati i 600 miliardi di dollari necessari per evitare, almeno sulla carta, che alcune spese per il welfare vengano automaticamente bloccate e alcune agevolazioni fiscali siano cancellate. In realtà l’accordo “partorisce” un aumento del debito per ben 4.000 miliardi di dollari nel prossimo decennio!. La stima non è fornita da una qualche fucina ideologica neoliberista anti Obama, bensì dal prestigioso e indipendente Congressional Budget Office.

Come noto, il Cbo è un’istituzione finanziata dal Congresso per analizzare i costi delle politiche di bilancio. Il suo direttore viene nominato congiuntamente dai presidenti della Camera e del Senato. L’attuale direttore, Douglas Elmendorf è stato scelto nel gennaio 2009 quando entrambi i presidenti erano democratici.

l “fiscal cliff” quindi non è la vera emergenza finanziaria americana. Si è trattato piuttosto di un “preparativo” psicologico. La vera emergenza che gli Usa devono affrontare è invece lo sfondamento del tetto del debito pubblico!  A fine anno infatti il debito pubblico americano ha raggiunto il “ceiling”, cioè il tetto massimo stabilito dalla legge finanziaria di bilancio che è di 16.400 miliardi di dollari, equivalente al 103% del Pil. Sarebbe dovuto bastare fino al 30 settembre 2013, cioè fino alla scadenza del bilancio annuale. Ma così non sarà.

Che succederà adesso? Continua a leggere