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Il superamento della religione nell’Anti-Dühring di Engels

L’ateismo del comunismo primitivo

È impossibile dar torto a Engels quando considera ridicola l’idea di Dühring di “abolire” la religione nella società socialista. Infatti il socialismo scientifico ha sempre detto ch’essa è soltanto un epifenomeno, una sovrastruttura che si estinguerà da sé, insieme allo Stato politico, quando il socialismo sarà realizzato.

Ciò che non piace, nella sintesi engelsiana sulla posizione del socialismo in merito al fenomeno religioso, è un’altra cosa. Scrive nel suo Anti-Dühring: “Agli inizi della storia sono anzitutto le potenze della natura quelle che subiscono questo riflesso…”, assumendo col tempo “svariate e variopinte personificazioni”. Quale riflesso? “Ogni religione non è altro che il fantastico riflesso nella testa degli uomini di quelle potenze esterne che dominano la sua esistenza quotidiana, riflesso nel quale le potenze terrene assumono la forma di potenze ultraterrene”.

Molto feuerbachiana questa definizione della religione. Cerchiamo di capir bene cosa Engels voleva dire. Anzitutto non si sta riferendo alle religioni politeistiche, tipiche dello schiavismo, poiché subito dopo parla di “mitologia comparata” dei popoli indoeuropei, di cui i Veda induistici costituiscono l’origine ancestrale. Egli si sta riferendo alle religioni più primitive, quelle clanico-tribali, cioè quelle passate alla storia col nome di “totemico-animistiche”.

Queste però non erano religioni che riflettevano rapporti sociali di tipo antagonistico. Erano dunque così alienanti? così predisposte a fuorviare gli uomini dall’idea di doversi liberare da rapporti sociali frustrati? Assolutamente no, anche perché appunto non esisteva ancora lo schiavismo.

Ma facciamo ora mente locale e cerchiamo di ricordare come sono fatte le tante pitture rupestri dell’uomo preistorico trovate in vari luoghi del pianeta. Presentano forse una simbologia magico-religiosa o animistico-totemica? Purtroppo per Engels dobbiamo dire che appaiono molto realistiche e naturalistiche, per quanto le figure siano stilizzate, appena abbozzate. Esse dovevano soltanto rimandare ad altro, non avevano la pretesa d’aver un significato in sé. Il pittore preistorico non voleva rappresentare tutto se stesso, né faceva della sua arte una forma di consolazione o di evasione o di protesta in rapporto alle contraddizioni della sua vita. Picasso rimase molto stupito di questo realismo ingenuo e cercò d’imitarlo nelle sue raffigurazioni dei tori.

Ora, perché questa assenza di riferimenti religiosi? Il motivo è molto semplice: nel comunismo primitivo non esisteva alcuna religione. Il fatto che seppellissero i loro morti con tutto ciò che d’importante avevano usato in vita, non voleva affatto dire che basassero la loro esistenza in funzione di una credenza religiosa. Non c’erano sacerdoti che si distinguevano dal resto della comunità, rivendicando un potere particolare. Se c’erano sciamani o stregoni, non svolgevano riti non compatibili con le funzioni attribuite alla natura. Alcuni eminenti studiosi han detto che non c’era la religione perché il cervello degli uomini primitivi non era sufficientemente sviluppato. Allora non lo è neppure quello dei socialisti! Ancora oggi ci si imbatte in qualche studioso di mentalità borghese che legge il passato con gli occhi del presente o che ritiene sia impossibile non credere in un’entità superiore.

Gli uomini primitivi erano forse religiosi perché mancava la scienza? Ma la fede cieca nella scienza non rende forse altrettanto superstiziosi? L’unica vera scienza è forse quella occidentale? La conoscenza diretta della natura, trasmessa per prove ed errori attraverso le generazioni, va considerata non scientifica? La scienza è davvero “scientifica” solo quando fa esperimenti in laboratori asettici, neutrali, non influenzati dall’ambiente esterno? La vera scienza è soltanto quella che sa “dominare” la natura perché ne conosce a fondo tutte le sue leggi?

Sono tutte domande le cui risposte, oggi, dovrebbero essere scontate, anche perché l’uomo primitivo, avendo una visione olistica delle cose, era inevitabilmente molto più scientifico degli odierni scienziati, sempre molto settoriali e privi di senso etico, in quanto, se sono idealisti, non si ritengono responsabili quando le loro ricerche vengono usate dalla politica o dall’economia in maniera negativa, oppure, se sono venali, si chiedono come ricavare dalle loro ricerche un utile economico. Quando parliamo di medicina non stiamo forse lì a chiederci perché in occidente si curi soltanto l’organo malato e non si abbia un vero rapporto col paziente?

Vivendo rapporti sociali naturali, l’uomo primitivo non poteva avere alcuna religione, e se aveva delle credenze che oggi qualifichiamo, sbagliando, col termine di “religiose”, esse non lo facevano sentire in balìa delle forze della natura, non provenivano da un senso d’impotenza nei confronti di tali forze, poiché la natura era considerata “madre”, non “matrigna”. Semmai è sotto lo schiavismo che si inizia ad attribuire a forze innaturali o sovrannaturali la causa e, insieme, il rimedio delle proprie frustrazioni. È così che si creano delle personificazioni simboliche, astratte, di ciò che si vive (il male) e che si vorrebbe vivere (il bene) nella realtà.

Gli uomini primitivi non si sentivano “dominati” dalla natura, né avvertivano il desiderio di “dominarla”. Per loro la natura era una partner dotata di personalità autonoma (che, p.es., non si poteva ferire con l’uso dell’aratro, per non devastarne il ventre, come dicevano tante popolazioni antiche). Era considerata una madre severa, esigente, ma anche protettiva, rassicurante, con cui misurarsi alla pari, man mano che si diventava adulti, senza mai scordarsi che gli esseri umani sono tutti “figli della natura”. Concepivano la natura come fonte esclusiva1 delle loro risorse, della loro stessa vita. Se per il fatto di ritenerla una sorta di “divinità” è necessario definirli “religiosi”, indubbiamente lo erano. Ma allora dovremmo considerare tali anche gli antichi filosofi ilozoisti o panpsichisti, quando invece erano fondamentalmente atei.

Credere che esista un aldilà o che la morte sia una forma di passaggio da un’esistenza a un’altra non significa essere “religiosi”, poiché anche la scienza parla di eternità e infinità della materia e dell’universo che la contiene, e della sua perenne trasformazione. Per non essere “religiosi” è sufficiente non credere in un dio onnipotente, onnisciente, onnipresente, preveggente…, in grado di leggere il pensiero umano, di anticiparne le decisioni, di condizionarne le scelte, di indurlo in tentazione e altre amenità del genere, che fanno sentire l’uomo una marionetta nelle mani di dio. Chi crede nell’eternità della natura, non ha bisogno di credere in dio, oppure crederà in un dio che sostanzialmente avrà caratteristiche umane. Il livello massimo di religione che potevano avere gli uomini preistorici era il culto degli antenati, che è quanto di più umano vi possa essere.

Schiavismo e paganesimo

Il secondo aspetto sbagliato nella sintesi di Engels, sullo sviluppo del fenomeno religioso, è che non mette in relazione il paganesimo con lo schiavismo. Eppure avrebbe dovuto essere scontato. Tutte le religione cosiddette “pagane” o politeistiche sono nate quando già esisteva la fine del comunismo primitivo. Tali religioni avvertivano la natura come un pericolo o una minaccia, in quanto gli uomini vivevano così i loro rapporti sociali. Cioè consideravano la natura uno strumento nelle mani degli dèi, che lo usavano a loro discrezione, il più delle volte per punire gli uomini di qualche mancanza; oppure veniva invocato l’aiuto degli dèi per nuocere al nemico.

Non è mai esistito – come invece dice Engels – un periodo in cui gli uomini temevano le forze della natura, antecedente a un secondo periodo in cui hanno iniziato a temere le forze sociali antagonistiche. Dopo la fine del comunismo primitivo l’uomo ha subito avvertito il proprio simile come un nemico, e là dove non riusciva a sconfiggerlo, a sottometterlo, s’inventava delle forze supplementari astratte che potessero aiutarlo. Oppure chi era in grado d’imporsi con la forza o l’astuzia, escogitava delle entità simboliche per giustificare la propria superiorità.

Che poi sotto il paganesimo ci fossero tante divinità, mentre sotto le cosiddette “religioni del libro” ve ne fosse una sola, non ha molta importanza. Forse le religioni monoteistiche sono emerse quando il peso dei condizionamenti sociali antagonistici era troppo forte per essere sopportato. Esse infatti appaiono come una forma d’illusione a un livello superiore, più astratto e sofisticato: hanno sostituito qualcosa che aveva fatto il suo tempo, nella convinzione che occorressero ideali più elevati, da realizzarsi a tutti i costi. Le religioni monoteistiche sono legate più alla storia che non alla natura, più all’azione che non alla contemplazione, più a una organizzazione collettivistica con addentellati politici che non a un approccio alla divinità di tipo clanico-parentale o individuale, più a una sensibilità universale che non a un riferimento urbano o locale, più a rigidi dogmi che non a riti conformi ai ritmi della natura. Il passaggio da tante divinità che si possono rappresentare visivamente a un unico dio non rappresentabile o, come nel cristianesimo, a un personaggio che insieme è umano e divino, potrebbe anche essere visto come una forma di cripto-ateismo, di disincantamento da una certa ingenuità di fondo.

Insomma la formazione e lo sviluppo delle religioni sono stati molto sfaccettati nei secoli e nei diversi luoghi geografici, per cui non è possibile stabilire un “prima” e un “dopo” tra una forma e l’altra. L’unica cosa che si può dire è che, se si escludono le religioni animistico-totemiche, tutte le altre riflettono rapporti sociali conflittuali, cui s’è cercato di trovare una spiegazione fantastica a seconda delle circostanze. Tutti gli dèi servono per giustificare la posizione delle classi dominanti, o possono essere inventati per contrastare tale posizione. Le divinità possono assumere col tempo nomi, funzioni, caratteristiche, modalità d’azione… incredibilmente diversi, a seconda della fantasia umana: quello che non cambia è che esse vengono sempre usate in rapporto agli antagonismi sociali.

Anche oggi esistono divinità laicizzate che chiamiamo Stato politico, Libero mercato, Scienza laboratoriale, Diritti umani universali, Democrazia parlamentare… Persino la Scrittura, rispetto alla semplice Oralità, è considerata una divinità. Siamo in grado di “deificare” qualunque cosa, vivendo in sua funzione, sottomettendoci come servi: il denaro da accumulare, lo shopping per spendere il denaro accumulato, il sesso da godere, la droga per evadere, lo sport della squadra del cuore, l’attività ginnica che tiene sempre in forma, la medicina che risolve ogni problema fisico, l’alimentazione che rende sani, giovani e belli, i film che fanno sognare, la musica che distrae, le chat che coinvolgono, il gioco d’azzardo che ipnotizza, l’analista cui confidare i nostri problemi… Quando dominano i rapporti antagonistici, tutto può essere trasformato in una “religione”, persino l’ideologia con cui vengono criticati questi rapporti.

La religione è una fissazione da cui è molto difficile liberarsi, se non ci si libera di ciò che la origina. Con uno sforzo di volontà personale al massimo si può passare da una fissazione a un’altra. Tutto può diventare una forma di dipendenza, esattamente come le classiche religioni. L’oppio dei popoli oggi è il capitalismo, ma, in alcuni Paesi del mondo, per 70 anni è stato il cosiddetto “socialismo reale”. Gli stessi Marx ed Engels avevano il culto per la scienza e la tecnica e avevano concepito una transizione socialista che non prescindesse minimamente da ciò che la borghesia aveva realizzato sul piano tecnologico.

Ecco perché oggi, se davvero vogliamo realizzare un socialismo democratico, dobbiamo rimettere tutto in discussione. Oggi ci vantiamo di conoscere la natura molto meglio di quanto potessero fare gli uomini prima della rivoluzione tecnico-scientifica del Settecento. Ma chiediamoci: forse per questo abbiamo eliminato il concetto di “religione”? O non l’abbiamo piuttosto trasformato in qualcosa di più laico, conseguente al fatto che la società borghese ha aumentato, col consumismo, gli oggetti di cui possiamo disporre per illuderci di superare le nostre alienazioni?

Tutte queste opinioni limitate di Engels non dipendono solo dal fatto che risalgono a 150 anni fa, ma anche e soprattutto da una visione piuttosto terribile della preistoria. Scrive a tale proposito: “Gli uomini, appena nelle origini emergono dal mondo animale (in senso stretto), fanno il loro ingresso nella storia: ancora mezzo animali, rozzi, ancora impotenti di fronte alle forze della natura, ancora ignari delle proprie; perciò poveri come gli animali e di poco più produttivi di essi”. In queste condizioni verrebbe da chiedersi come sia stata possibile un qualunque forma di progresso.

Se osserviamo che talune comunità primitive, ancora oggi esistenti, sono rimaste ferme al neolitico, pur essendo consapevoli, almeno a grandi linee, di un certo progresso tecnico-scientifico e urbanistico, avvenuto non molto lontano dai loro villaggi, verrebbe quasi da pensare che i membri di tali comunità non appartengano affatto alla specie “homo sapiens”. A Engels sarebbe parso del tutto incredibile che, pur consapevoli di un certo progresso tecnologico al di fuori del loro habitat, tali comunità abbiano preferito rinunciarvi altrettanto consapevolmente, nella convinzione che, così facendo, avrebbero potuto conservare meglio le caratteristiche della loro identità, le proprietà del loro ambiente vitale.

Purtroppo gli stessi etnologi che visitano tali comunità spesso non sono in grado di capire ch’esse, a causa dei condizionamenti esterni che subiscono, non sono più come vorrebbero essere. Esse sanno benissimo che il cosiddetto “mondo civilizzato” non vede l’ora di espropriarle delle loro risorse naturali. Il fatto stesso che vi siano degli studiosi che vanno a conoscerle come se fossero animali in via di estinzione, è indicativo del profondo abisso che ci separa da loro. Per Engels il criterio fondamentale che spiega la differenza tra “loro” e “noi” è il rapporto con la natura, che per loro sarebbe di “dipendenza”, mentre per noi è di “dominio”, come se il concetto di “dominio” ci caratterizzasse, nei confronti della natura, come “esseri umani”.

Dunque a che serve il sedicente “socialismo scientifico” se nei confronti della natura ha lo stesso atteggiamento “imperialistico” del liberismo borghese? Abbiamo davvero bisogno di “razionalizzare” un atteggiamento che è sbagliato nei suoi presupposti di fondo? Finché per noi il rapporto con la natura si configura solo come dominio, che possibilità abbiamo di diventare noi stessi, cioè “enti di natura”? È forse giusto ritenere che nel mondo primitivo l’uguaglianza fosse soltanto un prodotto inevitabile della loro impotenza nei confronti della natura? un effetto della loro povertà materiale? della loro incapacità produttiva? Per quale motivo è così difficile capire che una qualunque produzione umana deve essere compatibile con le esigenze riproduttive della natura?

Addendum riepilogativo

Là dove c’è paganesimo, c’è sempre schiavismo. E lo schiavismo è sempre basato sui rapporti di forza, in cui p.es., sul piano personale/sessuale, l’uomo domina la donna. Se esistono riferimenti ancestrali al primato della natura, all’eternità-infinità dell’universo ecc., ciò va considerato un retaggio del comunismo primitivo, che ha caratterizzato la vita del genere umano in tutto il pianeta per almeno un milione di anni (in genere si fa partire lo schiavismo a circa 6000 anni fa).

Là dove c’è schiavismo, non è possibile considerare il paganesimo migliore del cristianesimo: semmai si possono fare differenze tra ortodossia religiosa (di derivazione greco-bizantina) e cattolicesimo-romano, in cui il papato si considerava politicamente superiore agli imperatori.

Il cristianesimo è quella religione che favorisce il passaggio dallo schiavismo al servaggio, in quanto ha un maggior senso dell’etica, proveniente dall’ebraismo. Questo almeno fino a quando, assumendo atteggiamenti neopagani, desunti dalla passata civiltà greco-romana, il cristianesimo non arriverà a trasformare la dipendenza personale del servaggio in dipendenza contrattuale del lavoro salariato. Un processo, quest’ultimo, iniziato in Italia, con la formazione dei Comuni borghesi e sviluppatosi enormemente con la Riforma protestante, specie nella variante calvinistica. Criticando il cattolicesimo borghese del papato, la Riforma sembrava voler riprendere la severità del cristianesimo primitivo; invece estese soltanto la corruzione a tutta la società civile, facendo di ogni credente il pontefice di se stesso.

Tutte queste cose: schiavismo/paganesimo, servaggio/ortodossia-cattolicesimo, capitalismo/protestantesimo vanno superate con una forma di socialismo democratico e ateistico (umano-naturalistico), che riprenda lo stile di vita del comunismo primitivo, l’unico in cui vigeva l’uguaglianza sociale e quindi quella di genere. Questo per dire che non potremo ereditare nulla di significativo né dallo schiavismo pagano, né dal servaggio cristiano, né dal capitalismo borghese, e neppure dal socialismo statale (di matrice russa) o mercantilistico (di matrice cinese).

Nota

1 Oggi non usiamo più il termine “esclusiva” ma “prioritaria”, in quanto ci vantiamo di poter costruire artificialmente ciò di cui abbiamo bisogno.

www.socialismo.info

Il Marx di Diego Fusaro

Indubbiamente Diego Fusaro, astro nascente dell’attuale filosofia marxista italiana, ha avuto e tuttora ha il merito di aver aiutato a riscoprire la portata eversiva delle teorie anti-capitalistiche di quel grande economista chiamato Karl Marx.

Vogliamo sottolineare la qualifica di “economista” perché è in questo ruolo che Marx ha dato il meglio di sé, checché ne pensi Fusaro, che invece lo preferisce di più nei panni del “filosofo” o in quelli del “filosofo dell’economia”, rischiando così pericolosamente di darne un’interpretazione influenzata dall’hegelismo, come d’altra parte fece uno dei suoi principali maestri, Costanzo Preve.

La vera grandezza di Marx sta invece proprio in questo, nell’aver distrutto il primato della filosofia, facendo dell’economia politica una vera scienza, e non una semplice ideologia al servizio della borghesia, com’era, in particolar modo, quella elaborata in Inghilterra, in cui dominava l’idea di considerare il capitalismo un fenomeno di tipo “naturale” e non “storico”, ovvero come un evento destinato a durare in eterno e non a essere superato da una società di tipo comunista. Per l’ultimo Marx, quello interessato all’antropologia, il comunismo altro non sarebbe stato che un ritorno al comunismo primitivo in forme e modi infinitamente più evoluti, in quanto scienza e tecnica avrebbero giocato un ruolo di rilievo, assolutamente più democratico di quello che svolgono in un contesto dominato dall’antagonismo tra capitale e lavoro.

A dir il vero il giovane Marx non aveva affatto intenzione di superare la filosofia con l’economia, bensì con la politica. Solo dopo aver conosciuto Engels si mise a studiare questa disciplina. Fu la sua sconfitta come politico della Lega comunista, nel corso delle rivoluzioni europee del 1848, che lo portò, una volta emigrato a Londra, a dare più peso agli studi teorici dell’economia capitalistica, di cui quelli dedicati al pre-capitalismo risultavano, agli occhi esigenti di Marx, non meritevoli d’essere pubblicati.

Tutti i testi di economia – ad eccezione dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, che maturarono a Parigi a contatto con gli ambienti socialisti – sono stati elaborati sotto il peso di un’amara sconfitta politica: di questo, leggendoli, non bisogna mai dimenticarsi, se si vuole tentare di esaminarli nella maniera più obiettiva possibile, cioè se non si vuole soprassedere al fatto che in tutti quegli scritti risulta alquanto forte l’uso dialettico della categoria hegeliana della necessità e quindi un certo determinismo economico, che tanto peso avrà nella storia della seconda Internazionale e in quasi tutto il marxismo europeo, sempre molto influenzato da correnti borghesi di pensiero, come ad es. il positivismo e lo strutturalismo, mentre, per quanto riguarda la Russia, ci si deve riferire allo sviluppo del cosiddetto “marxismo legale” ed “economicismo”, contro cui il giovane Lenin muoverà le sue forti proteste.

Marx è stato un genio assoluto in campo economico, ma per averne uno in campo politico abbiamo dovuto attendere Lenin, di cui però Fusaro non s’interessa minimamente. Eppure egli, pur scrivendo testi dichiaratamente filosofici, vuole darsi un obiettivo politico generale: quello del superamento del capitalismo. Perché dunque non fare mai alcun riferimento organico, propositivo, a Lenin? Il quale indubbiamente fu non solo il Marx dell’epoca imperialistica sul piano economico (il suo testo sull’Imperialismo è ancora oggi assolutamente fondamentale per capire le premesse dell’epoca in cui viviamo), ma anche il politico marxista più coerente, l’unico che seppe realizzare con successo gli insegnamenti del suo maestro, dimostrando una creatività di pensiero fuori del comune. Se Marx avesse potuto conoscerlo, non l’avrebbe certamente considerato di livello inferiore ai tanti suoi seguaci, più o meno ortodossi (Kautsky, Liebknecht, Bebel, Lassalle, Lafargue, Guesde…), che in Germania e in Francia si accingevano a costruire un partito socialista rivoluzionario e una seconda Internazionale.

Rivalutare Marx, senza fare alcun riferimento a Lenin, può portare a due inevitabili conseguenze: ripetere cose già dette o fraintendere il suo pensiero. Marx e Lenin sono due soggetti molto particolari: non possono essere semplicemente “studiati” o, peggio ancora, “letti” come due autori qualunque. Entrambi chiedono d’impegnarsi per trasformare le cose, proprio perché avvertono con drammaticità la gravità della crisi e con urgenza il compito di risolverla, senza sfociare in alcuna forma d’irrazionalismo. Tuttavia, se si dà più peso a Marx che non a Lenin, si finisce col fare i “teorici dell’alternativa”, senza lasciarsi coinvolgere in alcun partito o movimento politico e senza neppure essere capaci di fondarne uno nuovo. È appunto questa la posizione che ha l’attuale Diego Fusaro, che quando parla di filosofia fa politica e quando parla di politica fa filosofia.

Se ci si ferma a Marx, tralasciando Lenin, si sarà indotti ad attendere, in virtù delle proprie critiche eversive, che le masse spontaneamente insorgano. Cioè si finirà col compiere il medesimo errore di Marx, di cui lui stesso si rese conto (dicendolo nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica), senza però riuscire a porvi rimedio, tant’è, anzi, ch’egli si trovò come costretto ad accentuare il lato deterministico della transizione al socialismo, appellandosi alla necessità, per chiunque voglia compiere la rivoluzione, di vedere preventivamente esaurite le forze propulsive del capitale. Un errore che Lenin evitò accuratamente di ripetere, anche perché precisò subito, in Che fare?, che la coscienza rivoluzionaria di un superamento complessivo del sistema bisogna portarla, al proletariato, dall’esterno, in quanto, se lo si lascia a se stesso, al massimo matura una coscienza sindacale.

Lenin aveva capito queste cose oltre un secolo fa; trascurarle, pensando sia sufficiente riscoprire Marx per fare di nuovo un discorso anti-capitalistico, rischia di portare fuori strada, anche perché il revival di Marx è già avvenuto, soprattutto in Europa occidentale, negli anni della contestazione operaio-studentesca: ripetere oggi quella scoperta, senza fare un passo avanti, in direzione del leninismo, non servirà a nulla. Anzi, su taluni aspetti è lo stesso leninismo che va rivisto: si pensi ad es. ai primati concessi all’industrializzazione, all’urbanizzazione, allo sviluppo tecnico-scientifico, che oggi una qualunque coscienza ambientalista guarderebbe con molto sospetto; ma si pensi anche alla necessità di non trascurare i rapporti tra coscienza umana e coscienza politica, onde evitare di veder assorbita la prima alla seconda.

Fusaro è convinto d’essere titolato pienamente a parlare di “riscoperta di Marx”, in quanto, secondo lui, quella avvenuta nella stagione del Sessantotto (che si protrasse almeno sino al delitto di Aldo Moro) fu tutta all’interno del sistema borghese, cioè fu una riscoperta che servì alla piccola borghesia per modernizzare il sistema. In realtà se questo fu l’esito della contestazione, bisogna dire che fu del tutto involontario o comunque non intenzionale. In gran parte dipese appunto dal fatto che si volle riscoprire solo Marx, senza fare i conti con Lenin, cioè ci si affidò più allo spontaneismo delle masse che non all’organizzazione di un partito di professionisti, capace di creare un consenso popolare e di gestirlo in chiave rivoluzionaria. Quando parlavano di rivoluzione, generalmente i partiti finivano nel terrorismo, ripetendo così gli errori di un certo anarchismo estremo e individualistico. E quando si parlava di Lenin, al massimo lo si faceva – come Althusser – sul piano meramente filosofico.

In Italia si ebbe addirittura l’impressione, negli anni Settanta, che il parlare così tanto di Gramsci, soprattutto di quello dei Quaderni, pubblicati per la prima volta dal 1948 al 1951, servisse proprio per non parlare di Lenin. L’importanza attribuita alla cultura appariva cioè strumentale all’esigenza di non toccare i tasti dell’impegno rivoluzionario vero e proprio, al fine di accettare acriticamente la politica di “larghe intese” (il famoso “compromesso storico”) realizzata tra comunisti e democristiani.

Un movimento come quello del Sessantotto non può essere guardato con gli occhi del filosofo: ci vogliono quelli del politico. E Fusaro ancora non li ha, e se non si emancipa dalla lezione di Preve, ch’egli peraltro ha assorbito quando Preve era già nella sua fase involutiva, rischierà di spegnersi in questa sua forte carica contestativa. Questo per dire che al giorno d’oggi, se davvero si vuol fare i “marxisti”, non è sufficiente fare dei “discorsi eversivi”; non si può evitare d’essere meramente “filosofi” limitandosi a usare quella che Lenin chiamava la “fraseologia rivoluzionaria”. Occorre l’appartenenza a un partito, una militanza personale.

Marx aveva ucciso la filosofia con l’economia, ma Lenin aveva detto che “la politica è una sintesi dell’economia”. Questo perché non c’è bisogno di conoscere il sistema capitalistico in tutte le sue sfumature prima di potersi organizzare praticamente per abbatterlo. Non abbiamo bisogno di riscrivere il Capitale per capire la nostra epoca globalizzata. È già sufficientemente chiaro che l’unica alternativa è quella di fuoriuscire dal sistema, abbattendo i suoi due pilastri fondamentali: lo Stato e il mercato, cioè il principale strumento oppressivo della borghesia e il primato assoluto che il valore di scambio ha su quello d’uso. Le differenze fra una strategia e l’altra possono riguardare soltanto le modalità e i mezzi da impiegare, anche perché il capitalismo si evolve di continuo e l’analisi economica viene sempre dopo, come ai tempi di Hegel la filosofia, civetta di Minerva. Con questa differenza, che la filosofia non riusciva mai a comprendere l’essenza degli antagonismi sociali.

Il primo a farlo, in maniera scientifica, dal punto di vista economico, con le sue teorie sul plusvalore, è stato appunto Marx. Fusaro glielo riconosce, anzi, lo esalta proprio per questo motivo, senza però accorgersi di un limite di fondo di tutta l’analisi del Capitale, e cioè la sottovalutazione dell’importanza dei fattori sovrastrutturali. Se Fusaro avesse studiato Lenin, o se almeno l’avesse fatto senza usare le lenti deformanti del suo maestro Costanzo Preve, che rifiutava il leninismo non solo sul piano politico, ma anche, e ancor più, su quello filosofico, forse avrebbe potuto dare di Marx una valutazione più obiettiva.

Dopo l’interpretazione che Lenin ha dato del “marxismo classico”, mediante cui ha valorizzato enormemente l’aspetto sovrastrutturale della politica, non è più possibile fare una semplice “riscoperta” di Marx. Ci vuole ben altro. Persino il giorno in cui riscopriremo Lenin, ci vorrà ben altro. Non potremo infatti considerare sufficiente una “politica rivoluzionaria”, trascurando, colpevolmente, quelli che oggi vengono chiamati i “diritti (o valori) umani universali”, i quali, per quanto formulati astrattamente, cioè senza riferimenti specifici a condizioni di spazio e tempo, fanno parte comunque del patrimonio dell’umanità, la cui formalizzazione è stata avvertita come inderogabile dopo due devastanti guerre mondiali, e che sono stati sinteticamente riprecisati dopo la fine di quella che Fusaro, sulla scia di Preve, chiama la “terza guerra mondiale” (cioè la “guerra fredda”), in quel documento significativo (la cosiddetta “Carta della nonviolenza” o “Dichiarazione di Delhi”) che Gorbaciov firmò nel 1986 insieme a Rajiv Gandhi.

Il tempo non passa invano, e per non ripetere gli errori del passato, occorre approfondire la riflessione critica, rendendo la prassi ad essa conseguente. I limiti sovrastrutturali nell’analisi economica di Marx non riguardano soltanto la scarsa importanza attribuita ai nessi con la politica. Per tutto il periodo londinese Marx si è sentito un teorico dell’economia e, fatto salvo l’impegno per costituire la prima Internazionale, che però nel 1876 si era già sciolta, egli non arrivo mai a impegnarsi per la costruzione di un partito autenticamente rivoluzionario. Qui la differenza da Lenin è netta.

Ma il limite di fondo riguarda anche la scarsa importanza attribuita ai fenomeni culturali, relativamente alla capacità che hanno di condizionare i processi economici. Per tutta la sua vita Marx ha visto la cultura, l’ideologia, le idee etiche, religiose, filosofiche, giuridiche, artistiche… come semplici riflessi o rispecchiamenti di determinate strutture economiche. Al massimo – aveva detto nella Prefazione alla prima edizione del Capitale – ci si poteva elevare soggettivamente nella comprensione delle contraddizioni sociali.

Lenin non era affatto così schematico, proprio perché attribuiva un’importanza decisiva, ai fini della rivoluzione, agli strumenti e ai metodi della tattica e della strategia. In Italia abbiamo dovuto attendere Gramsci – lettore di Lenin, anche se totalmente a digiuno di economia – prima che, nell’ambito del socialismo, si capisse l’importanza della cultura, per quanto già l’ultimo Engels non avesse mancato di sottolineare, coi suoi testi sullo Stato, la proprietà privata e la famiglia, sulla riforma protestante e la guerra contadina, che qualcosa del “marxismo” del suo geniale collega andava emendato, tant’è che proprio lui fu indotto a sostenere che il primato della struttura sulla sovrastruttura andava considerato tale solo in ultima istanza.

D’altra parte lo stesso Marx, alla fine della sua vita, cominciò a capire l’importanza delle formazioni sociali precapitalistiche (in modo particolare l’esperienza della comune agricola russa) e a rivalutare quel periodo storico che poi fu definito col termine di “comunismo primitivo”. Ma ormai gli mancavano le forze per approfondire questi temi. La stesura del Capitale lo aveva completamente distrutto; più volte Engels l’aveva messo sull’avviso, nelle lettere che gli scriveva, che quell’opera avrebbe minato irreparabilmente la sua salute.

Anche Lenin si rese conto solo alla fine della sua vita di non aver dato sufficiente spazio al lato umano della politica rivoluzionaria. Ma non ebbe il tempo sufficiente per porvi rimedio (anche a causa del grave attentato che subì) e la svolta autoritaria s’impose appena dopo pochi anni dalla sua morte. Per poter leggere il suo Testamento i comunisti russi han dovuto attendere il 1956: sotto lo stalinismo lo si considerava addirittura inesistente.

Che anche Fusaro non abbia capito l’importanza della cultura, come fattore particolarmente condizionante della struttura economica, lo si evince dalla mancata comprensione della motivazione per cui, nel tempo, si è passati dalla schiavitù diretta (quella tipica p.es. del periodo greco-romano) a quella salariata, che si è imposta proprio sotto il capitalismo. Il passaggio fu determinato non solo da fattori storici e contingenti, ma anche dallo sviluppo del cristianesimo. Cosa di cui Fusaro si disinteressa completamente, rischiando di fare un passo indietro persino rispetto a Marx, il quale, pur senza mai approfondirlo, aveva intravisto nel Capitale un nesso significativo tra capitalismo e protestantesimo. Argomento, questo, che verrà particolarmente sviluppato, ma dal punto di vista borghese, da Max Weber. Il quale, se ben comprese che il calvinismo era la confessione religiosa che meglio si confaceva allo sviluppo del capitalismo, non riuscì però a capire che le prime tracce di capitalismo s’erano sviluppate nell’Italia comunale e signorile, dove la religione dominante era quella cattolico-romana.

D’altra parte Fusaro, tralasciando, nei libri dedicati a Marx, di fare un’analisi sulla dittatura politica e ideologica affermatasi nel cosiddetto “socialismo reale”, non arriva neppure a comprendere che una schiavitù salariata non è una prerogativa del solo capitalismo privato, ma anche dello Stato totalitario di marca socialista, in cui il partito-guida, che è un padre e padrone, usa mistificanti motivazioni di tipo ideologico con cui estorcere plusvalore alla massa dei lavoratori.

È importante essere convinti di questo, poiché quando si contesta l’Europa delle banche e della finanza – come fa Fusaro con insistenza – e si vuole tornare alla sovranità degli Stati nazionali (che per lui ovviamente dovrebbero diventare di tipo socialista), si rischia di ripetere errori già compiuti. Tutti i giorni, infatti, vediamo che l’idea di Stato nazionale viene progressivamente erosa dalle esigenze del grande capitale, che sempre più ha bisogno di governi e istituti sovranazionali. Sono le esigenze del mercato che lo impongono, proprio per mantenere alti i profitti dei grandi monopoli, industriali e finanziari. Una battaglia contro questi monopoli, i quali per espandersi hanno continuamente bisogno di provocare tensioni e conflitti d’ogni tipo, non può riportarci alla fase dello “Stato nazionale”, sia questo di tipo capitalista o socialista.

È dal “sistema” che bisogna uscire, coi suoi meccanismi di mercato e di oppressione istituzionale. E, sotto questo aspetto, bisogna stare attenti a non ripetere gli errori della rivoluzione d’Ottobre e di tutte le rivoluzioni comuniste, dove, pur parlando, teoricamente, di progressiva estinzione dello Stato, si è finiti, temendo continui attacchi militari da parte dei nemici storici, col rafforzare all’inverosimile proprio le istituzioni statali, facendole, ad un certo punto, implodere. È stata una grande illusione pensare di eliminare le leggi del mercato usando la forza di uno Stato autoritario. Questo è un compito che va lasciato alla popolazione civile, messa in grado di usare liberamente la propria volontà. Anche se, ovviamente, non può essere considerata sbagliata l’idea di usare le leve dello Stato per affrontare l’eventuale controrivoluzione.

Nota

I due testi di Diego Fusaro cui qui si fa riferimento sono Karl Marx e la schiavitù salariata, ed. Il prato, Saonara 2007 e Bentornato Marx! Rinasci­ta di un pensiero rivoluzionario, ed. Bompiani, Milano 2012. Il presente articolo è già stato pubblicato nel libro curato da I. Pozzoni, Frammenti di filosofia contemporanea VI, ed. Limina Mentis, 2015

I dieci peccati capitali di Marx

  1. Marx ha sottovalutato l’importanza del colonialismo nella formazione del capitalismo, lasciando credere ch’esso fosse una sua logica conseguenza, quando, in realtà, tra capitalismo e colonialismo vi è un’influenza reciproca. Il colonialismo infatti s’impone sin dai tempi delle crociate, cioè a partire dal Mille. Certamente non possiamo sostenere ch’esso sia stato la principale causa per la nascita del capitalismo, in quanto a ciò hanno contribuito anche fattori ideologici e tecnologici; e tuttavia l’influenza del colonialismo va considerata decisiva, come risulta ancora oggi per la sopravvivenza del capitalismo.
    Questo errore non fu compiuto da Lenin, il quale, anzi, si rese conto, ad un certo punto, che proprio il colonialismo permetteva al capitalismo di condizionare pesantemente il movimento operaio metropolitano e, ancor più, i suoi dirigenti politici e sindacali, mantenendo alti i salari e gli stipendi, pagati, sostanzialmente, con l’enorme sfruttamento delle colonie.
  2. Ritenendo che il proletariato industriale fosse l’unica classe che, priva di tutto, non avrebbe avuto nulla da perdere a scatenare una rivoluzione politica, ne ha sopravvalutata la capacità eversiva. Cioè si è affidato eccessivamente a quello che viene definito “lo spontaneismo delle masse”, rinunciando così a costruire un partito politico vero e proprio.
    Errore, questo, che Lenin non fece, essendo persuaso che la classe operaia, lasciata a se stessa, senza una guida politica, al massimo si limitava a fare delle rivendicazioni salariali, non riuscendo ad avere una visione d’insieme relativa all’intero sistema da abbattere. Lenin in sostanza aveva capito che non basta la “sofferenza”, dovuta alla miseria e alla privazione dei diritti, per compiere una rivoluzione: ci vuole l’organizzazione determinata e consapevole di un partito politico, che può essere anche composto di operai, ma questi devono dedicarsi completamente alla tattica e alla strategia eversiva, cioè devono diventare dei “professionisti” della politica rivoluzionaria.
  3. Marx ha del tutto trascurato l’alleanza degli operai con la piccola-borghesia e soprattutto coi contadini. Non è stato capace di creare un consenso su temi comuni. Ha sempre considerato i contadini troppo ignoranti, troppo bigotti, troppo isolati tra loro per poter compiere una rivoluzione comunista.
    Lenin non farà questo errore, anche perché, in un paese come il suo, all’80% contadino, non avrebbe avuto alcuna possibilità di fare una rivoluzione autenticamente popolare; senza l’appoggio delle masse contadine avrebbe soltanto potuto fare un colpo di stato.
  4. Marx ha sottovalutato l’importanza della sovrastruttura ai fini del cambiamento qualitativo della struttura socio-economica. Questo lo ha portato, altresì, a inglobare il sociale nell’economico, cadendo nello stesso limite della borghesia.
    Tra struttura e sovrastruttura oggi si ammette un’influenza reciproca, sempre e in ogni caso, come ben compresero Lenin (che ritenne la politica più importante dell’economia ai fini della rivoluzione) e Gramsci (che ritenne la cultura più importante addirittura della politica ai fini dell’egemonia del partito nell’ambito della società civile).
  5. Marx non solo ha trascurato la realizzazione di un partito politico rivoluzionario, guidato da professionisti della politica, ma non ha mai valorizzato neppure il socialismo utopistico e il mondo della cooperazione, insistendo invece nel fare un’analisi economica in cui la transizione dal capitalismo al socialismo apparisse come un qualcosa di necessario, dipendente dalle stesse irrisolvibili contraddizioni del capitale, la prima delle quali è sempre stata considerata quella della crescente sfasatura tra forze e rapporti produttivi.
    Conseguenza di ciò è stato che, insieme ad Engels, ha allestito un’Internazionale comunista che di eversivo non aveva nulla. Il soggiorno londinese è servito a poco sul piano politico e, su quello dell’analisi economica, è servito soltanto ad approfondire le tesi già espresse durante il soggiorno parigino. Marx si è lasciato determinare troppo dalla categoria hegeliana della necessità.
  6. Egli inoltre non ha capito che lo sviluppo tecnico-scientifico non può essere utilizzato così com’è. Una società socialista non può fondarsi sull’idea che sia sufficiente socializzare i mezzi produttivi per poter utilizzare al meglio la tecnologia prodotta dalla borghesia. Questa tecnologia non può essere considerata come qualcosa di neutrale, dipendente dall’uso che se ne può fare. Essa stessa, essendo il prodotto di precisi conflitti di classe, va rimessa continuamente in discussione. Sotto il socialismo ci si dovrà ogni volta chiedere, di fronte all’esigenza di dover risolvere un problema, se i mezzi ereditati dalla società capitalistica siano davvero quelli idonei.
  7. Marx non ha capito che tutta l’industrializzazione e tutta la scienza e la tecnologia che si sono sviluppate sotto il capitalismo e, prima ancora, nelle società e civiltà basate sugli antagonismi sociali, hanno sempre una ricaduta negativa sull’ambiente. Egli ha sempre contrapposto l’uomo alla natura e ha sempre considerato la natura un bene da consumare, un oggetto da dominare grazie appunto alla scienza e alla tecnica, seppur ciò andasse fatto in maniera razionale, diversamente da quanto accade sotto il capitalismo. Oggi questo modo di vedere le cose viene considerato profondamente anti-ecologico.
  8. Marx ha ritenuto assolutamente necessaria la transizione dal feudalesimo al capitalismo, senza mai prospettare l’idea di una riforma agraria che spezzasse il latifondo ed evitasse quindi quella transizione. Ma, quel che è peggio, ha sempre ritenuto necessario il passaggio dal comunismo primordiale (che non soffriva di conflitti di classe o di casta) allo schiavismo. Di qui la necessità di credere, secondo i principi del determinismo economico, che sarebbe stata necessaria anche la transizione dal capitalismo al socialismo.
  9. Marx non ha capito i motivi per cui, a parità di traffici commerciali, o comunque in presenza di mercati, di valori di scambio e di monete, il capitalismo nasce in un luogo invece che in un altro, anche se ha intuito due aspetti fondamentali dell’economia borghese: la prima è che non può nascere il capitalismo se non esiste la libertà giuridica pienamente affermata a favore del lavoratore, la seconda è che il protestantesimo rappresenta la religione che meglio si presta a garantire l’affermarsi di tale libertà giuridica formale o astratta, in cui la libertà viene fatta coincidere con la pura libertà di scelta, mentre per il resto ci si affida alla legge economica del più forte.
  10. Nel suo soggiorno londinese Marx è sempre stato convinto che fino a quando una società non esaurisce tutta la sua forza propulsiva, è impossibile una transizione al socialismo. D’altra parte non ha mai spiegato come avrebbe dovuto svolgersi l’ultima transizione della storia. Diceva, p. es., che lo Stato va occupato e persino gestito in maniera dittatoriale in presenza di una controrivoluzione, ma poi sia lui che Engels hanno detto che doveva “estinguersi”, seppure in maniera progressiva. Neppure è stata chiarita la fase relativa alla socializzazione dei mezzi produttivi: lo Stato ha un proprio ruolo in tale socializzazione o non ne ha alcuno? È più importante la società o lo Stato? Come può la società organizzarsi fino al punto da non aver bisogno di alcuno Stato?

Il socialismo delle comunità ristrette

Le idee socialiste non nascono soltanto quando si inizia a parlare di socialismo. Piuttosto si dovrebbe dire che nella storia il socialismo diventa un’idea quando si smette di praticarlo, cioè a partire dal momento in cui si formano le prime civiltà basate sull’urbanizzazione, sulle differenze di ceti e di classi, ecc. Prima di allora, tutta l’esperienza primordiale o primitiva del cosiddetto “uomo preistorico” può essere definita di tipo “socialistico”.

Le parole hanno soltanto un uso convenzionale: quello che conta sono i fatti. Abbiamo iniziato a parlare di “socialismo” usando le più disparate parole. Ed è compito dello storico saper andare al di là delle parole per comprendere i fatti. E i fatti, quando si parla di socialismo, devono essere riconducibili a una cosa sola: la proprietà comune dei mezzi produttivi, in maniera tale che nessuno possa prevalere su altri.

Questa proprietà comune è la base materiale per qualunque altra forma di “socializzazione”. Quindi l’unico criterio che distingue un’esperienza di socialismo da un’altra è il modo in cui si vive tale proprietà. Di conseguenza l’unico criterio che distingue un’idea di socialismo da un’altra è il modo in cui si cerca di realizzare questa esperienza.

Aveva ragione Lenin a puntare l’attenzione su questioni come la tattica e la strategia, che fino ad allora erano considerate patrimonio delle operazioni belliche. Con lui diventano questioni politiche, aventi come obiettivo la conquista del potere, cioè il rovesciamento delle istituzioni di governo. Il concetto di “rivoluzione”, con Lenin, diventa qualcosa di molto concreto, di fattibile, come mai, prima d’allora, s’era visto. Con lui si ha, per la prima volta, l’impressione che il socialismo, dopo 6000 anni di storia basata su conflitti antagonistici irriducibili, poteva passare dall’idea all’esperienza.

La vittoria del socialismo, in Russia, poi tradito dallo stalinismo, dimostrò la superiorità dell’organizzazione del bolscevismo rispetto a tutte le altre correnti che volevano superare lo zarismo. Dimostrò anche la superiorità rispetto a tutte le correnti del socialismo euroccidentale che dicevano di voler costruire un’alternativa al capitalismo. Semmai ci si può chiedere il motivo per cui il leninismo fu subito tradito dallo stalinismo. Qualcosa deve aver fatto difetto. E non si può certo sostenere, compiendo un’opera di sciacallaggio, che l’aberrazione dello stalinismo era già inclusa nel leninismo.

Che l’idea di “socialismo” sia imprescindibile nell’epoca contemporanea, lo dimostra il fatto che anche le esperienze nazi-fasciste vi si richiamavano. Certo, vi possono essere passi avanti in direzione del socialismo, e passi indietro a favore del capitalismo. Tuttavia la tendenza resta sempre verso il recupero di un socialismo perduto, proprio perché il capitalismo non solo non è in grado di risolvere le proprie contraddizioni, ma tende anche, per motivi endogeni, ad aggravarle sempre di più.

Il vero problema sta quindi nel cercare di capire quali possano essere le condizioni per far sì che i tradimenti non siano in grado di avere effetti così devastanti su milioni di persone. Eliminare la possibilità del tradimento è ovviamente impossibile. Ma si deve cercare di rendere quest’azione meno gravosa possibile. Il problema cruciale sta proprio in questo: da un lato, infatti, l’idea del socialismo, per realizzarsi, ha bisogno del concorso di grandi collettività; dall’altro ci si rende facilmente conto che il tradimento degli ideali ha ripercussioni dirette proprio su queste grandi collettività.

L’esperienza leninista ci ha fatto capire che se queste collettività non restano unite, a rivoluzione compiuta, possono facilmente essere sopraffatte dai conservatori del sistema, i quali possono avvalersi di aiuti esterni, da parte di altre forze avverse al socialismo. E tuttavia, una volta superata la reazione, si deve avere l’intelligenza per capire che una gestione “statalistica” della transizione facilmente porterà ad abusi e corruzione, come appunto hanno dimostrato gli orrori dello stalinismo.

Socialismo vuol dire non solo democrazia politica, ma anche autogestione sociale dei bisogni collettivi. Un’autogestione del genere non può essere statalizzata, proprio perché è l’istituzione stessa dello Stato che va abbattuta.

Un’autogestione è autentica se è circoscritta a livello territoriale. La democrazia infatti, per essere autentica, deve essere diretta, ma non potrà mai esserlo se è “statale”. Nell’ambito dello Stato la democrazia può essere solo indiretta, delegata, rappresentativa. È il concetto stesso di “istituzione” che impedisce la democrazia diretta. E là dove questa manca, è impossibile un’autogestione sociale dei bisogni collettivi.

La democrazia e l’autogestione sono possibili soltanto all’interno di comunità ristrette, dove sia possibile un controllo reciproco in forza di una conoscenza personale fra i soggetti che le compongono. Se non comprendiamo questo, non servirà a niente fare delle rivoluzioni per edificare degli Stati con cui sostituirne altri.

Si può emendare il marxismo senza uscire dal socialismo?

Se davvero si pensa (come sta facendo Diego Fusaro, sulla scia del suo maestro Costanzo Preve, recentemente scomparso) che il marxismo sia stato “fondato” da Engels e Kautsky in quel periodo che va dalla fondazione del partito socialdemocratico tedesco, unificato nel congresso di Gotha (1875), sino alla morte di Engels (1895), escludendo che Marx possa ritenersi “responsabile” di tale fondazione, si dice una sciocchezza. Engels fu il primo a capire che le due cose più importanti del “marxismo” erano l’analisi economica e l’impegno politico.

Di propriamente “engelsiano” vi fu altro: un metodo storiografico che sapeva vedere come reciprocamente influenzabili gli elementi strutturali e sovrastrutturali (si pensi solo al fatto che fu proprio lui a individuare nella religione degli aspetti eversivi e niente affatto consolatori o giustificazionisti); una filosofia materialistica che sapeva vedere come strettamente interconnessi gli elementi umanistici e naturalistici (recuperando, in questo, il valore dell’hegeliana filosofia della natura); uno spiccato interesse per le questioni militari; una notevole capacità organizzativa a favore dell’Internazionale comunista. Engels anticipò Marx persino nello studio dell’economia politica e diede al “marxismo” una rigorosa impostazione filosofica.

Considerare Engels “inferiore” a Marx sarebbe un imperdonabile errore. L’uno integrava l’altro. Marx aveva bisogno di Engels non solo per il pane quotidiano, ma anche come consulente per le questioni economiche, come collaboratore fondamentale per le questioni organizzative del movimento comunista, persino come “rettificatore”, in senso anti-dogmatico, del proprio pensiero (la questione della struttura economica come valida in ultima istanza è fondamentale). Per convincersi di questo è sufficiente leggersi il loro carteggio.

Engels prese il meglio del pensiero di Marx, quello a lui noto, gli diede una sistemazione organica e lo migliorò. Se accentuò il lato deterministico del pensiero di Marx, laddove p. es. parla della differenza tra socialismo utopistico e scientifico o della transizione dall’una all’altra delle cinque formazioni sociali, fu perché era convinto che questi aspetti fossero fondamentali nella concezione materialistica di Marx.

Quando i comunisti leggevano Marx, lo facevano attraverso il filtro di Engels, anche quando Marx, che pubblicò pochissime opera e per di più su riviste, era in vita. Engels non scrisse mai nulla che Marx disapprovasse. Quando nacque in Russia il cosiddetto “marxismo-leninismo”, Engels veniva considerato parte organica di questa filosofia e ideologia politica. Non si incontrerà neanche una riga, nei tanti volumi scritti da Lenin, in cui si dica che il pensiero di Engels non collimava con quello di Marx. Per la fondazione del materialismo storico-dialettico i comunisti russi consideravano fondamentale l’Anti-Dühring. Lenin stimò molto anche Kautsky, almeno sino allo scoppio della prima guerra mondiale.

Quindi, se si pensa di poter scindere il pensiero di Marx da quello di Engels, al solo scopo di poter dare un’interpretazione di Marx che Engels non avrebbe potuto condividere, si sta commettendo un errore. Non c’è nulla di Marx che possa essere usato in senso “anti-marxista”, cioè contro la “vulgata” che del suo pensiero è stata fatta dopo la sua morte. Marx ed Engels vanno interpretati come un tutt’uno, un unicum che, nella sostanza, resta inscindibile.

Chi ha davvero dato un contributo originale al pensiero della coppia Marx-Engels è stato Lenin. Chi non riconosce la superiorità di Lenin su Marx ed Engels sul piano della teoria politica e dell’organizzazione partitica in senso rivoluzionario, è inutile che si metta a reinterpretare Marx. L’unica possibile reinterpretazione di Marx deve necessariamente passare attraverso il leninismo. Quindi non solo non si può separare il pensiero di Marx da quello di Engels, ma non si può neppure separare il pensiero dei due fondatori del marxismo da quello di Lenin.

Il contributo di Lenin al marxismo va considerato di importanza capitale, assolutamente imprescindibile per qualunque studio sul marxismo, anche per le analisi di tipo filosofico ed economico, poiché Lenin non fu solo un politico. Questo per dire che, se si vuole andare oltre Marx ed Engels, integrandoli con nuove idee, bisogna andare oltre anche Lenin, ma bisogna saperlo fare restando nei limiti del socialismo.

Tale lavoro integrativo, di perfezionamento, delle idee dei classici del marxismo (Marx, Engels e Lenin) non può, in alcun modo, essere cercato nelle opere di Stalin o di Mao; non può essere cercato in alcun soggetto individuale. Il “completamento” delle idee del marxismo-leninismo, in grado di determinare il superamento dei limiti di questa corrente di pensiero e di azione, potrà in futuro essere patrimonio solo di un’esperienza collettiva. È finito il tempo delle individualità geniali, inevitabilmente soggette a ingiustificati culti.

Il destino del socialismo è nelle mani di chiunque voglia davvero realizzarlo nel rispetto della democrazia. Occorre quindi porre le condizioni per cui chiunque voglia impegnarsi in questa costruzione si senta coinvolto come chiunque altro, responsabile a pari titolo. Condizioni del genere, se davvero si vuole rispettare la democrazia, devono andare al di là delle differenze di cultura, di lingua, di origine geografica, di genere e orientamento sessuale… Un’esperienza autentica di socialismo, in cui il più “piccolo” conti come il più “grande”, deve poter andare al di là di qualunque differenza prodotta dalla cultura o dalla natura.

Per realizzare un’esperienza del genere occorrerà rivedere completamente il rapporto uomo-natura, poiché è su questo aspetto che il marxismo-leninismo si è mostrato maggiormente deficitario. La costruzione del socialismo deve avvenire rispettando non solo la democrazia diretta (con cui eliminare lo Stato) e l’autoconsumo (con cui eliminare l’egemonia del mercato), ma anche le esigenze riproduttive della natura, con cui eliminare la tendenza prevaricatrice della scienza e della tecnica, tale costruzione deve necessariamente riconsiderare l’intera epoca chiamata “preistoria” o comunque dell’epoca antecedente alla nascita dello schiavismo.

Davvero le previsioni di Marx erano sbagliate?

È diventata ormai un refrain l’accusa, rivolta a Marx, di aver fallito completamente le sue previsioni scientifiche, tanto che lo si può constatare anche nelle pubblicazioni cosiddette di “sinistra”, come p.es. quelle di Costanzo Preve, recentemente scomparso.

Ma in che senso le previsioni di Marx possono essere considerate “fallite”? Una è la più evidente. Il socialismo non si afferma più facilmente là dove è più sviluppato il capitalismo. Questo già Lenin l’aveva capito e se ne servì per fare la rivoluzione nell’anello più debole del capitalismo mondiale. Viceversa, gli intellettuali marxisti del suo tempo (ma anche quelli di oggi) se ne servirono per dire che in Occidente i tempi non erano ancora maturi per una vera e propria rivoluzione e che quindi bisognava limitarsi a compiere progressive riforme. Una bella differenza tra i due atteggiamenti!

Ma perché Marx era arrivato a sostenere una tesi del genere, che i suoi detrattori, peraltro, definiscono ancora oggi di tipo para-teologico o messianico? I motivi sostanzialmente erano due, tra loro intrecciati. Marx è vissuto in un periodo in cui le contraddizioni del capitalismo erano, in Europa, molto più acute di oggi; egli era convinto che la competizione tra gli Stati non le avrebbe affatto risolte e che la divisione imperialistica del pianeta, che allora iniziava a imporsi, le avrebbe ancor più accentuate. Sia lui che Engels avevano già potuto constatare la regolare frequenza di crisi produttive, la cui intensità – secondo loro – andava aggravandosi.

In effetti, dopo un intenso sviluppo dell’economia europea negli anni 1850-73, vi era stata una grande depressione economica nel periodo successivo, dal 1873 al 1896, cui i paesi capitalisti europei tentarono di porre rimedio con la pratica dell’investimento all’estero (a Londra iniziò verso il 1870). Solo verso il periodo 1896-1914 si può parlare di trionfo dell’economia capitalistica mondiale, pur interrotta da altre due crisi cicliche, nel 1900-1903 e 1907-10. È in questo periodo che avviene la trasformazione del capitalismo in imperialismo, con tanto di trust, cartelli e monopoli internazionali.

Marx quindi si era trovato a vivere, sostanzialmente, nella fase concorrenziale del capitalismo, che in Europa aveva raggiunto il suo apogeo nel 1860-70 e stava iniziando a verificare quella di tipo monopolistico, che avrebbe dovuto peggiorare la situazione. Sia lui che Engels si aspettavano una catastrofe imminente, come p. es. un crollo di borsa, dei fallimenti aziendali e bancari, persino una guerra mondiale. In una situazione del genere – e qui veniamo al secondo motivo – era per loro del tutto naturale pensare che il soggetto più esposto ai colpi della crisi, quello meglio organizzato sindacalmente e più consapevole delle contraddizioni del sistema, e cioè il proletariato industriale, avrebbe reagito in maniera rivoluzionaria, non avendo assolutamente nulla da perdere.

Anche Lenin era convinto di questo, ma si stupiva che gli intellettuali marxisti della II Internazionale non facessero nulla per preparare la classe operaia per il momento decisivo della rivoluzione. Attribuiva questa incapacità organizzativa di tipo strategico (la lotta, secondo lui, si limitava alle rivendicazioni sindacali) a una sorta di “corruzione morale”, dovuta al fatto che gli intellettuali stavano beneficiando – grazie ai frutti dell’imperialismo – di uno stile di vita borghese, che inevitabilmente li portava a cercare dei compromessi col sistema.

Lenin non riteneva la classe operaia occidentale in grado di opporsi a questo progressivo “imborghesimento”, poiché la vedeva accontentarsi troppo facilmente di avere dei salari decenti. Ecco perché nel suo primo importante libro, Che fare?, ipotizzò l’idea che la coscienza rivoluzionaria gli operai dovessero riceverla dall’esterno, cioè da un partito politico di rivoluzionari di professione, che lottano quotidianamente per porre le condizioni di una insurrezione popolare contro il sistema.

Ora, per quale motivo Marx ed Engels non avrebbero dovuto approvare una cosa del genere? Non erano due docenti universitari o due parlamentari lautamente retribuiti: non erano neppure così schematici da sentirsi obbligati a credere in maniera cieca a qualcosa di particolare.

Certo, né Marx né Engels erano dei politici rivoluzionari di professione; semmai erano due teorici, due studiosi, due giornalisti, due organizzatori della I Internazionale, un’associazione pacifica che aveva il compito di coordinare l’attività dei vari movimenti socialcomunisti di tutta Europa e persino degli Usa.

Facevano questo lavoro in condizioni molto precarie e disagiate, soprattutto Marx, continuamente alle prese con una gravissima situazione familiare. Se fossero stati due politici di professione, Lenin non avrebbe dato un contributo teorico decisivo al marxismo, ma si sarebbe limitato a mettere in pratica le loro idee. Invece la diversità fu proprio in questo, che Lenin attribuì alla politica rivoluzionaria un primato decisivo rispetto all’analisi economica delle contraddizioni del capitale.

Lenin fece il critico teorico nella sua lotta contro il populismo e contro la II Internazionale, ma appena poté, volle mettere in piedi un movimento avente il preciso obiettivo di abbattere lo zarismo e di realizzare la transizione dal feudalesimo al socialismo, sfruttando, del capitalismo, soltanto le conquiste tecnico-scientifiche.

Chi non capisce questa sostanziale differenza tra Marx ed Engels, da un lato, e Lenin dall’altro, non è in grado di capire la storia del marxismo, che è anche storia del leninismo (tradite, entrambe, dalla storia dello stalinismo). Non è certamente un caso che chi accusa Marx d’essere stato un visionario utopista, si senta poi in dovere di accusare Lenin d’aver creato un partito “monolitico”, dittatoriale.

I classici del marxismo e la Russia

Alla luce del fallimento del cosiddetto “socialismo reale” oggi ci si chiede se non avessero ragione quanti sostenevano che in Russia doveva svilupparsi il sistema capitalistico prima che si potesse pensare a una rivoluzione socialista. Aver voluto fare una rivoluzione socialista in un paese fondamentalmente agrario sembra essere stato un grave errore.

Marx ed Engels avevano sempre detto che se in Russia si fosse passati dal feudalesimo al socialismo agrario, evitando una transizione capitalistica, il tentativo avrebbe potuto avere successo solo a condizione che in Europa occidentale si fosse, nel contempo, compiuta la rivoluzione socialista, in modo che le due rivoluzioni avrebbero potuto sostenersi a vicenda. Non era importante che partisse prima l’una o l’altra; era importante, per i russi, l’appoggio decisivo del proletariato occidentale, altrimenti i governi borghesi avrebbero affossato il loro tentativo.

Come noto, le cose, almeno sotto il leninismo, andarono diversamente; nel senso che Lenin, quando vide il tradimento della II Internazionale durante la guerra mondiale e l’interventismo straniero in Russia dopo la rivoluzione, non particolarmente ostacolato dal proletariato occidentale, si convinse che la Russia avrebbe dovuto farcela da sola e che semmai sarebbe stata l’Europa occidentale a trovare, in virtù di questo esempio, la forza per muoversi per conto proprio.

Morto Lenin, Trotzky pensò che se non si fosse esportata la rivoluzione in Europa, essa col tempo avrebbe avuto il fiato corto, proprio perché la Russia era troppo “contadina” per competere coi paesi europei. Stalin invece era del parere che utilizzando la tecnologia occidentale, imponendo la collettivizzazione forzata di qualunque strumento produttivo e un terrorismo di stato, si poteva costruire il socialismo anche in un solo paese. Vinse la sua linea e il prezzo che la Russia pagò fu enorme, sotto qualunque punto di vista: questo non per dire che se avesse vinto il trotzkismo il prezzo sarebbe stato minore.

Quanto alle idee di Marx ed Engels, esse furono totalmente smentite dallo sviluppo del capitalismo occidentale, proprio in quanto non si comprese che un eccessivo sviluppo di questo sistema economico non avvicina ma allontana il momento della rivoluzione politica, tanto che oggi una transizione al socialismo non è all’ordine del giorno di alcun partito parlamentare occidentale. Il massimo che i partiti di sinistra arrivano a prospettare è un “miglioramento” del sistema attuale, un’attenuazione delle sue contraddizioni attraverso lo strumento dello Stato sociale.

Ciò è tanto più vero quanto più si pensa che all’Europa occidentale non è affatto servito, ai fini di una rivoluzione socialista, che nell’Europa dell’est si fosse sviluppata un’esperienza di “socialismo reale”, per quanto dittatoriale sia stata sotto lo stalinismo e la stagnazione. Semplicemente l’Europa si è lasciata condizionare dal fatto che lo sfruttamento del Terzo mondo le permetteva un tenore di vita relativamente elevato, tale per cui si era in grado di attutire parecchio l’acutezza degli antagonismi sociali e quindi la percezione che se ne poteva avere.

Ora, qual è stato l’errore di fondo dei classici del marxismo che ha indotto a fare previsioni del tutto sbagliate? L’errore di fondo sta nel fatto che Marx, Engels e Lenin (ma anche Trotzky e Stalin) non ritenevano i contadini sufficientemente maturi per fare una rivoluzione socialista. I comunisti non avevano alcun rapporto coi contadini, non solo perché questi erano credenti, ma anche perché non erano urbanizzati. Anzi, il fatto stesso che i contadini fossero convinti di vivere una sorta di “socialismo agrario”, attraverso l’obščina, il mir e l’artel, non li avvicinava affatto – secondo i marxisti – al socialismo scientifico, ma anzi li allontanava.

La polemica di Marx contro Bakunin, di Engels contro Tkačëv e di Lenin contro i populisti lo dimostra eloquentemente. Marx cominciò a nutrire qualche ripensamento solo alla fine della sua vita, quando intrattenne una corrispondenza con Vera Zasulič, e Lenin adottò, per realizzare la rivoluzione, il programma agrario dei socialisti-rivoluzionari, che loro stessi non riuscivano a realizzare essendosi compromessi con le forze borghesi.

Tutti i classici del marxismo han sempre ritenuto indispensabile uno sviluppo della borghesia, non foss’altro che per una ragione: con esso le differenze di classe sarebbero state ridotte al minimo (borghesia e proletariato), sicché l’esigenza di una trasformazione radicale del sistema sarebbe stata inevitabilmente più forte. Volevano l’acuirsi delle contraddizioni perché consideravano questo una premessa indispensabile alla transizione.

Anche Lenin ne era convinto, con la differenza, rispetto agli altri marxisti (p.es. Plechanov), che quello sviluppo in Russia andava considerato già sufficiente per compiere la rivoluzione, nel senso che bastava avere a che fare con un proletariato industriale presente nelle grandi città, in grado di guidare la rivoluzione in tutto il paese. Naturalmente all’interno della categoria di “proletariato” si mettevano gli stessi intellettuali, che avrebbero dato alla classe operaia la vera coscienza rivoluzionaria, altrimenti questa sarebbe rimasta ferma a una coscienza sindacale.

I fatti, in un certo senso, diedero ragione a Lenin, ma solo perché egli riuscì a capire che se non avesse cercato il consenso dei contadini, promettendo la proprietà della terra senza alcuna forma di riscatto o di indennizzo, la rivoluzione sarebbe fallita subito. Lenin era una persona intelligente, flessibile. Non apprezzava i coltivatori diretti perché li equiparava alla piccola-borghesia, ma con la Nep venne incontro alle loro esigenze, anche perché erano stati i contadini che, durante il periodo del comunismo di guerra, avevano permesso al governo sovietico di resistere alla controrivoluzione bianca e straniera.

Ma come si sarebbe comportato Lenin se non fosse morto nel 1924? Certamente non avrebbe avuto nei confronti dei contadini l’odio che ebbe Stalin, e che avrebbe avuto anche Trotzky, se avesse vinto la partita col suo principale rivale. Il terrore staliniano fu così duro che se in Russia non ci fosse stata l’invasione nazista, la rivoluzione sarebbe caduta prima.

Praticamente è stato proprio lo stalinismo a preparare non solo la fine del socialismo, ma anche la ripresa di quel capitalismo che era stato interrotto dai bolscevichi. E questo proprio perché all’interno dello stalinismo non vi è mai stata alcuna possibilità di realizzare una transizione progressiva verso il socialismo democratico. Dalla morte di Stalin all’ascesa di Gorbaciov la Russia ha vissuto complessivamente 30 anni di stagnazione, che è parsa ai comunisti di tutto il mondo non così grave, in quanto si riteneva che, in ogni caso, l’Urss rappresentasse il baluardo più forte contro i tre poli dell’imperialismo mondiale (Usa, Europa occidentale e Giappone), contro la guerra fredda e la minaccia nucleare e contro il neocolonialismo occidentale nel Terzo mondo.

Dall’esterno non si riusciva a percepire l’effettiva gravità di quella stagnazione. L’implosione del 1991 apparve del tutto inaspettata. Eppure, strumentalizzando le riforme di Gorbaciov per eliminare qualunque forma di socialismo, essa, ad un certo punto, fu del tutto inevitabile. L’Occidente non solo non comprese la natura democratica di quelle riforme, ma iniziò a illudersi che la propria democrazia avrebbe definitivamente smesso di credere che, per realizzarsi in maniera adeguata, avesse bisogno delle idee del socialismo.

Che ne è dei rapporti tra socialismo e religione?

Dopo il crollo del muro di Berlino e dell’Urss, il tema del rapporto tra socialismo e religione, in Europa occidentale, sembra essere totalmente scomparso. Eppure abbiamo ancora oggi il più grande partito comunista del mondo, quello cinese, che gestisce un sesto dell’umanità. Abbiamo Cuba che resiste imperterrita al più grande embargo della storia americana (e forse della storia in generale). Abbiamo altri paesi del sud-est asiatico che hanno chiaramente conservato tracce del più recente socialismo; per non parlare del pericoloso autoritarismo (sedicente comunista) della Corea del Nord. E che dire di quei paesi che al loro interno hanno porzioni di territorio in cui le comunità locali vivono reminiscenze di socialismo ancestrale, pur senza professarne l’ideologia?

Questo per dire che dal punto di vista mondiale non ci sarebbero tanti motivi per mettere una pietra sopra il tema suddetto.

Dai tempi del socialismo utopistico ad oggi i progressi fatti sul piano della laicità sono stati enormi: dal concetto di Stato laico alla secolarizzazione dei costumi e degli stili di vita.

Nonostante le aberrazioni del cosiddetto “socialismo reale”, l’idea di emanciparsi progressivamente dalla superstizione e dal clericalismo è andata avanti; anzi si può dire che, oltre alla scoperta dei diritti tipicamente “sociali” (lavoro, assistenza, previdenza, istruzione, sanità, sicurezza…), il maggior contributo allo sviluppo dell’umanità il socialismo l’abbia dato proprio nel campo della laicizzazione (la quale, si badi bene, non può essere confusa con l’ateizzazione gestita dallo Stato).

Col tempo abbiamo capito che “Stato laico” vuol semplicemente dire “aconfessionale”, cioè indifferente alle religioni, anche se le istituzioni non possono restare “neutrali” di fronte ai tentativi d’ingerenza clericale nelle leggi parlamentari.

Il miglior Stato che possa favorire la libertà di coscienza è appunto quello “laico”, che in Italia, come noto, non esiste, a motivo della presenza dell’art. 7 della Costituzione, che riconosce un privilegio fondamentale alla chiesa romana, in virtù del Concordato e dei Patti Lateranensi.

Il futuro socialismo democratico (perché comunque di “socialismo” dobbiamo parlare, non potendo buttar via acqua sporca e bambino) non dovrà in alcun modo creare uno “Stato ateo”, né tentare di separare la chiesa dalla società civile. Ognuno dovrà essere lasciato libero di credere nella religione che vuole, e ogni credente dovrà sforzarsi il più possibile, quando vorrà opporsi a determinate leggi statali, di farlo semplicemente in quanto cittadino, senza chiamare in causa i contenuti della propria fede.

In occidente è finito da un pezzo il periodo in cui era necessario opporsi a un’idea religiosa con un’altra idea religiosa, o quello in cui si permetteva alla religione di avere una propria presenza politica (teocrazia, ierocrazia, integralismo della fede, teologia politica ecc.). Solo in Italia si hanno ancora dubbi al riguardo.

L’umanità procede verso una sempre più grande laicizzazione della vita sociale, pur in mezzo a errori madornali, dalle conseguenze spesso spaventose. Tali errori sono stati compiuti proprio perché s’è capito che non basta la laicità per rendere migliore la vita: occorre anche la giustizia. E in questo campo, essendo gli uomini da millenni abituati all’antagonismo sociale, ovvero ai conflitti di classe, siamo ancora lontanissimi dall’aver trovato una strada davvero praticabile.

Si pensi solo al fatto che se, per l’affermazione dell’umanesimo laico oggi ci accontentiamo di un regime di separazione tra chiesa e Stato, tale separazione non è affatto sufficiente per garantire la realizzazione di un socialismo davvero democratico.

I migliori classici del socialismo hanno infatti sempre sostenuto che parlare di “Stato democratico” è una contraddizione in termini, in quanto l’obiettivo finale prevede l’autogestione delle risorse e dei bisogni collettivi.

Debellare un virus mortale

Quando si parla di “comunismo superiore” – come fa p.es. la rivista “n+1″ nei numeri 27 e 28/2010), sarebbe meglio rinunciare all’idea che la “superiorità”, rispetto al “comunismo primitivo”, stia nella nostra scienza e tecnica.

Quando si affermerà il futuro comunismo, non avrà nulla dell’attuale sistema capitalistico, proprio perché di questo sistema non vi è nulla di umano e di naturale. La “superiorità” sarà solo a livello di coscienza, in quanto gli uomini saranno del tutto consapevoli dei limiti delle civiltà antagonistiche precedenti.

Quanto alle forme, esse non saranno molto diverse da quelle del comunismo primitivo, proprio perché solo quest’ultimo ha saputo rispettare integralmente la natura.

Perché una società possa dirsi davvero democratica, occorre che la sua scomparsa non lasci alcuna traccia a livello ambientale. L’uomo è ospite della natura, non è il suo padrone, non può fare quello che vuole in casa altrui. Meno fa e più rispetta le regole dell’ospitalità.

I doni che la natura offre all’uomo non devono farci pensare che siano dovuti. Sono doni offerti gratuitamente: si tratta soltanto di gestirli con parsimonia e oculatezza.

La natura non è un magazzino di risorse pienamente disponibili in forme illimitate, la cui porta può essere aperta e chiusa a nostra discrezione. La natura non è un oggetto di cui si può fare quel che si vuole. E’ un organismo vivente, che produce esseri viventi, tra cui noi stessi.

L’unica differenza tra gli esseri viventi è che l’uomo è in grado di influire così tanto sui processi naturali da rendere impossibile la loro riproduzione. Non c’è nessun animale e neppure alcun fenomeno naturale (glaciazione, eruzione vulcanica, terremoto…) che abbia la capacità di questa irreversibilità.

L’uomo delle civiltà artificiali è un virus che distrugge il sistema, è l’unico elemento patogeno che alla fine arriva a distruggere persino se stesso. Non è solo un parassita che sfrutta risorse altrui, come può essere una zecca o un tafano, ma è come un’anofele, che mentre succhia sangue, uccide di malaria. Quando ha finito di uccidere tutti in un determinato luogo, si sposta in un altro, nella convinzione che le risorse siano infinite.

Un mostro di questo genere non può essere fermato con le buone parole, anche se possiamo usare lo strumento del linguaggio per ingannarlo. Occorre la violenza organizzata dei sopravvissuti.

La resistenza armata deve essere collettiva, perché solo in questa maniera si potrà rinunciare alla violenza quando l’obiettivo sarà stato raggiunto.

Bisogna creare le condizioni – e questo è ancora più difficile che debellare il virus – perché, nel corso della lotta armata, non nascano pretesti per inoculare nuovi virus nella popolazione. Che è appunto quel che venne fatto nel passaggio dal leninismo allo stalinismo.

Ha senso lo Stato nella transizione al socialismo? (II)

All’origine del centralismo autoritario vi è il fatto che il comunismo sovietico, sulla scia di quello tedesco di Marx ed Engels, ha sempre considerato i contadini una classe culturalmente sottosviluppata e socialmente piccolo-borghese. A questa classe ha voluto sovrapporre, in un rapporto di subordinazione gerarchica, il proletariato industriale, che veniva considerato più rivoluzionario in quanto assolutamente privo di tutto.

Tuttavia il proletariato industriale è una classe socialmente sradicata, di provenienza, fino a qualche tempo fa, prevalentemente rurale. Ora, se è vero ch’esso non ha nulla da perdere oltre la propria capacità lavorativa, è anche vero che non è in grado di costruire un’autonomia produttiva della realtà locale. E una classe del genere, priva di alcun riferimento alla terra e alle sue secolari tradizioni, è fatalmente strumentalizzabile da quella intellettuale, priva anch’essa di radici rurali.

L’industria non garantisce in maniera relativamente sicura la sopravvivenza di una comunità locale, o almeno non è in grado di farlo meglio di una comunità rurale. Tant’è che quando essa subisce seri contraccolpi da parte della concorrenza (nazionale o internazionale), la sua chiusura o delocalizzazione determina la fine della medesima comunità o la riconversione produttiva di quest’ultima.

Per distruggere le comunità rurali, il capitalismo ha impiegato dei secoli, ma per distruggere una piccola o media industria (e oggi, a causa del globalismo, lo vediamo anche con le grandi) occorre un tempo infinitamente minore. Negli Stati Uniti intere cittadelle costruite nei pressi di una miniera diventavano dei fantasmi appena la miniera veniva considerata non più “produttiva”.

Nell’ambito dell’agricoltura basata sull’autoconsumo, un anno di siccità non faceva spopolare una comunità di villaggio. L’agricoltura, che includeva anche l’artigianato, veniva aiutata dall’allevamento, dall’uso comune di taluni arativi e prativi, dei boschi, dei laghi, dei fiumi, delle paludi e soprattutto da una cultura dell’assistenza reciproca.

Un prodotto industriale che subisce la concorrenza di un prodotto analogo, specie in un regime ove i trust monopolistici tendono a prevalere e dove non è più possibile applicare le regole del protezionismo senza subire gravi ritorsioni, rende molto debole l’azienda che lo produce in condizioni di inferiorità (anche se queste condizioni, in assenza di concorrenza, potrebbero risultare più che sufficienti per riprodurre il capitale investito). Il futuro di aziende del genere, in un mercato sempre più globalizzato, ove i nuovi competitori si avvalgono di un costo del lavoro molto basso e non hanno scrupoli nel raggirare le regole commerciali che col tempo si sono dati i paesi capitalisti, risulta legato a variabili del tutto imprevedibili, e questo anche quando l’apparenza è lì a mostrare un’azienda economicamente stabile.

A suo tempo, quando si cominciava appena a parlare di globalismo, il socialismo di stato aveva pensato di ovviare a questo continuando a pianificare dall’alto tutta la produzione, come agli inizi dello stalinismo, trasformando tutti (operai e dirigenti d’azienda) in meri esecutori materiali di decisioni prese da organi politici e amministrativi. In questa maniera si tolse definitivamente l’incentivo al lavoro, alla produttività. Per quale motivo infatti si sarebbe dovuto fare volontariamente un lavoro monotono, faticoso, pericoloso e per giunta sotto pagato, quando il prodotto del proprio lavoro (che virtualmente avrebbe dovuto avere un valore maggiore di quello agricolo, in quanto connesso a un imponente capitale fisso) veniva gestito da un ente, lo Stato, che in definitiva restava non meno estraneo del capitalista privato all’operaio del mondo occidentale?

Il socialismo di stato aveva funzionato nel comunismo di guerra (salvo rettificarlo con l’introduzione della Nep, finita la controrivoluzione), aveva funzionato con la nascita dell’industrializzazione, fatta pagare duramente al ceto rurale e all’ambiente in generale, aveva funzionato durante la II guerra mondiale, poiché tutta l’industria era stata trasformata da civile a militare, ma s’era rivelato completamente fallimentare nel periodo della stagnazione, preceduta da quella della destalinizzazione.

Non è curioso che l’inizio del crollo del “socialismo reale” sia avvenuto proprio nel momento in cui la nomenklatura insisteva di più nell’attribuire grande importanza al passaggio dallo “Stato della classe operaia” (dittatura del proletariato) allo “Stato di tutto il popolo”? S’era perso completamente il riferimento alla realtà. Il partito chiedeva ai lavoratori di guardare lo Stato in maniera del tutto idealistica, come una sorta di padre bonario, le cui azioni dovevano risultare ottime di per sé, a prescindere da qualunque riscontro concreto, soprattutto in considerazione del fatto che con la “guerra fredda” il socialismo mondiale continuava ad essere seriamente minacciato.

Il plusvalore estorto politicamente agli operai era servito solo in misura limitata ad accrescere la qualità della vita e, inevitabilmente, esso non poteva accompagnarsi a una progressiva democratizzazione della società. Stalin pretendeva che in tempo di guerra, per la difesa della patria, si lavorasse 24 ore al giorno, ma sotto Breznev, Cernienko, Andropov si poteva pretendere uno spirito di sacrificio senza dare, come contropartita, una qualità di vita né morale né materiale?

* * *

Il socialismo futuro dovrà dunque essere di tipo rurale, in cui l’apporto dell’industria sarà ridotto al minimo, rispettando le compatibilità ambientali. Nessun socialismo potrà essere democratico se non sarà ambientalista. Questa cosa è stata completamente trascurata dai classici del marxismo.

L’autonomia produttiva dovrà basarsi sulla soddisfazione di bisogni locali utilizzando risorse interne. Non ha alcun senso che una comunità locale venga tenuta in piedi attraverso i salari che guadagnano gli operai di un’azienda, le cui materie prime provengono da chissà dove e le cui merci vengono vendute chissà dove. Questa cosa non avrebbe senso neppure se l’azienda fosse di proprietà degli stessi operai.

Il socialismo futuro non potrà avere nei confronti della scienza e della tecnica alcuna devozione feticistica. Anche perché un qualunque primato concesso all’industria implica l’impossibilità di rinunciare al primato del valore di scambio su quello d’uso. Il che non vuol dire che l’industria non debba esserci, ma semplicemente che la sua ragion d’essere andrà decisa dalla comunità locale che vorrà fruire dei suoi prodotti.

Ha senso lo Stato nella transizione al socialismo? (I)

La storia ci dice che il socialismo ha qualche speranza d’affermarsi solo in coincidenza di catastrofi epocali, come p.es. le guerre. Là dove non vi riesce, o non vi riesce in forma adeguatamente democratica, tornano inevitabilmente in auge i rapporti antagonistici, nel senso che le società divise in classi, dopo un certo momento di sbandamento, sono in grado di riorganizzarsi e di riprendere il cammino là dove gli eventi l’avevano interrotto, salvo introdurre variazioni di forma, onde salvaguardare la sostanza dello sfruttamento.

Non esiste alcun processo “naturale” dal capitalismo al socialismo, come non è mai esistita alcuna inevitabilità dal comunismo primitivo allo schiavismo. Moltissimo dipende dalla volontà degli uomini, che devono saper approfittare delle circostanze per affermare i loro progetti alternativi, i quali, a loro volta, solo le circostanze diranno se erano davvero favorevoli agli interessi delle masse, oppure no.

Questa è stata la lezione del leninismo, che riuscì a imporsi proprio grazie alla catastrofe della I guerra mondiale, trasformando il conflitto contro un nemico esterno (i tedeschi) in una guerra civile tra nemici interni (russi). Lenin non dovette combattere solo contro lo zarismo, ma anche contro i marxisti che ritenevano impossibile una transizione dal feudalesimo al socialismo saltando la fase del capitalismo.

Egli riuscì ad avere la geniale intuizione che se la struttura economica determina in maniera irreversibile la sovrastruttura politica, non avrebbe mai potuto esserci alcuna rivoluzione comunista. Il rapporto tra economia e politica doveva basarsi sul reciproco condizionamento. La frase che Marx aveva detto in Per la critica dell’economia politica (1859): “Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza”, era la frase di un uomo politicamente sconfitto dalla rivoluzione del 1848.

Il fatto che oggi la Russia sia diventata capitalistica non vanifica la giustezza del ragionamento anti-deterministico di Lenin. Oggi, in questo immenso paese, esiste il capitalismo semplicemente perché non si è avuta la sufficiente volontà per trasformare il socialismo autoritario, di matrice stalinista, in quel socialismo democratico che Gorbaciov, ampliando e approfondendo il tentativo abortito di Krusciov, era riuscito a inaugurare. Il mezzo secolo di dittatura non poteva non comportare effetti gravissimi sul senso della democrazia partecipata.

Questo per dire due cose:

  1. anche la migliore impostazione del tipo di edificazione del socialismo, quale sicuramente era quella leninista rispetto alle altre di quel tempo (da quelle utopiste a quella della Comune), non offre alcuna garanzia circa la sua continuità, proprio perché non esiste alcuna condizione oggettiva che possa impedire alla libertà umana di negare alle proprie esperienze storiche il loro valore positivo;
  2. i comunisti che vogliono “rovesciare” l’esistente dovrebbero impegnarsi a predisporre la popolazione ad attendere l’arrivo dei momenti cruciali della storia. Per poterlo fare, non ha senso mantenersi separati dalla società, nella convinzione di poter conservare meglio la purezza dei propri ideali. Bisogna anzi rinunciare ad anteporre la previa accettazione di dottrine astratte all’affronto quotidiano delle contraddizioni sociali. Bisogna persino accettare il rischio di cadere nell’opportunismo, pur di non perdere il contatto con le masse.

E’ evidente infatti che finché esiste la proprietà privata, la corruzione delle idee e dei comportamenti è sempre possibile. Lo stalinismo ha addirittura dimostrato che tale corruzione è possibile anche là dove la proprietà viene completamente statalizzata. Ma sarebbe peggio se, per timore di questa corruzione, ci si rinchiudesse in una politica attendista, da guarnigione assediata, che con un binocolo osserva, molto preoccupata, fingendo ostentata indifferenza, i movimenti di un nemico molto più forte.

Quali aspettative può offrire di realizzare in futuro la democrazia quel movimento che oggi teme il dissenso, si trincera dietro una presunta purezza ideologica, dietro una coerenza che, in ultima istanza, è solo formale. Chi pretende di autogestirsi, in maniera autoreferenziale, in attesa del “crollo”, somiglia a una di quelle comunità monastiche che, al tempo dei primi compromessi politici tra chiesa e impero, preferiva ritirarsi nel deserto.

* * *

Ora, la domanda cui si vuole cercare di dare una risposta è la seguente: per poter affermare la proprietà sociale dei mezzi produttivi bisogna necessariamente passare attraverso lo Stato? Se sì, in che misura e fino a che punto? Non è, per caso, che l’importanza attribuita da Marx ed Engels al ruolo dello Stato, nella prima fase di transizione al socialismo, rifletteva in realtà una certa sfiducia nelle capacità organizzative delle masse?

Secondo loro lo Stato era inizialmente indispensabile proprio perché permetteva di regolamentare non solo la gestione collettiva della produzione (almeno finché la società non fosse in grado di autogestirsi), ma anche una difesa contro chi, dall’interno, vorrebbe fermare la storia. Inoltre, finché esistono Stati stranieri che possono e vogliono distruggere il socialismo costruito all’interno di una nazione, è impossibile fare a meno dello Stato, che garantisce facilmente la centralizzazione del comando politico-militare. L’assenza di una direzione operativa centrale non fu forse fatale per le sorti del socialismo durante la guerra civile spagnola?

Ebbene, questo modo di vedere le cose, alla luce di quanto è accaduto al cosiddetto “socialismo reale”, va considerato soggetto necessariamente ad alcune rettifiche. Infatti, quello che si deve evitare, a rivoluzione compiuta o nelle prime fasi della transizione, è la tendenza, che ad un certo punto diventa inarrestabile, a burocratizzare il socialismo.

Non è sufficiente sapere che lo Stato è destinato a estinguersi, né che occorre un centralismo operativo nei momenti in cui le conquiste rivoluzionarie appaiono più instabili, più minacciate da resistenze esterne. Il compito principale del socialismo è quello di dimostrare la propria capacità democratica non solo nei brevi momenti di conflitti bellici, ma anche e soprattutto nei lunghi momenti di pacifica e civile convivenza.

Non si tratta soltanto di saper difendere le proprie posizioni dagli attacchi di nemici esterni o di collaborazionisti interni, ma anche di saper costruire una gestione democratica dei bisogni collettivi. Se non si è capaci di fare questa seconda cosa, non si saprà fare in maniera adeguata neanche la prima. Non a caso la forza dell’autoritarismo stalinista, responsabile di inumane purghe politiche, svanì improvvisamente come neve al sole nei primi mesi dell’attacco proditorio dei nazisti.

Anzi, col pretesto di dover garantire ordine e sicurezza, si finirà col negare qualunque valore alla democrazia. Questa la tristissima lezione dello stalinismo, che, a tale proposito, arrivò ad affermare che quanto più si sviluppa il socialismo, tanto più si rafforza la volontà di chi vuole distruggerlo. In tal modo Stalin (e la sua cricca) manteneva forte la necessità di una direzione centralizzata del socialismo, il quale, inevitabilmente, veniva a configurarsi come una forma di “socialismo di stato”.

Gli effetti negativi di questo tipo di socialismo sono stati infinitamente superiori a quelli, positivi, che si potevano mettere in rapporto alle contraddizioni antagonistiche del capitalismo. La Russia non vinse la guerra contro i nazisti grazie allo stalinismo ma nonostante questa aberrazione storica, che, ben prima del 1941, aveva già fatto sparire dalla circolazione tutta quella generazione di comunisti che aveva partecipato attivamente alla rivoluzione bolscevica. Era lo stalinismo stesso che si creava continuamente i propri nemici interni, che poi sfruttava per dimostrare, in uno dei circoli più viziosi della storia, che la dittatura era necessaria.

Oggi per fortuna è diventato sufficientemente chiaro che non ha alcun senso sostenere il socialismo nel momento stesso in cui si nega la democrazia, anche se nella Russia di Eltsin e di Putin, col pretesto di voler affermare la democrazia, s’è finito col negare qualunque valore al socialismo.

* * *

E’ questo il motivo per cui oggi bisogna pensare a un altro modo di difendere le conquiste rivoluzionarie. L’accentuazione eccessiva dell’importanza dello Stato pare essere il riflesso di una sfiducia nelle capacità auto-organizzative delle masse. Gli uomini devono liberarsi da soli delle loro contraddizioni antagonistiche, non possono aspettare che qualcuno lo faccia per loro. Qualunque accentuazione del ruolo dello Stato finirà col deresponsabilizzare le masse. La gestione della democrazia non può essere delegata al centralismo.

Questo non vuol dire essere contrari al “centralismo democratico”, ma semplicemente che nella gestione quotidiana del bene pubblico è più importante la democrazia che il centralismo. Quest’ultimo trova la sua ragion d’essere quando è necessario coordinare gli sforzi delle varie realtà democratiche per un obiettivo specifico, quando queste realtà devono affrontare problemi comuni. Ma la regola, nelle decisioni da prendere, non può certo essere quella che va dall’alto al basso.

Il processo di smantellamento delle istituzioni statali va avviato subito dopo la rivoluzione, o comunque progressivamente, in modo che i cittadini possano sensibilmente accorgersene. Occorre realizzare quanto prima l’autonomia produttiva delle singole realtà locali, conservando istanze o livelli superiori soltanto per integrare i bisogni trasversali a queste stesse realtà.

I rapporti tra comunità locali indipendenti, federate tra loro, vanno fortificati attraverso scambi commerciali e culturali, patti d’amicizia, trattati di difesa bilaterali, convenzioni su progetti di comune interesse o di reciproco vantaggio.

Al momento dell’ingresso nazista in Russia, centinaia di villaggi vennero completamente distrutti non tanto perché erano dei “villaggi”, quanto perché la dirigenza stalinista, che si riteneva invulnerabile, non li mise in stato d’allerta, non li attrezzò alla difesa, non volendo dar retta agli avvisi di un attacco imminente.

Al tempo della guerra in Vietnam, gli americani erano infinitamente superiori in mezzi offensivi, eppure furono sconfitti da una rete di comunità di villaggio organizzate militarmente. La dottrina militare sa perfettamente che è più facile difendersi che attaccare, e la riuscita dell’attacco diventa tanto più difficile quanto più si prolunga nel tempo.

Nell’America del Nord, fino a quando le tribù indiane rimasero divise tra loro, non ebbero scampo nella guerra contro gli statunitensi, ma quando arrivarono a unirsi (Lakota Sioux, Cheyenne e Arapaho), sotto il comando unificato di Toro Seduto e di Cavallo Pazzo, conseguirono una splendida vittoria a Little Bighorn.

Questo a testimonianza che una difesa armata può esser bene organizzata anche senza Stato, semplicemente attraverso un patto d’alleanza tra realtà locali autonome. L’unica condizione perché ciò riesca è quella d’incrementare, in tempo di pace, i rapporti tra queste realtà: un patto di autodifesa non può improvvisarsi sul nulla. Quanto più queste realtà restano isolate, tanto più difficile sarà trovare un’intesa contro un nemico comune. E, in ogni caso, se il nemico risulta apparentemente più forte, ciò non può essere considerato un motivo sufficiente per rinunciare all’indipendenza delle realtà locali.

E’ meglio essere distrutti per aver difeso la democrazia, che distruggerla dall’interno dopo aver vinto un nemico esterno. Questo infatti è ciò che accadde al socialismo autoritario russo, che dopo aver vinto la guerra contro i nazisti, continuò a perdere la pace nei confronti della democrazia.