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FTX: cade un’altra stella delle cripto valute

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

La cripto finanza conquista ancora una volta le prime pagine dei media. Questa volta con la bancarotta di FTX, la seconda piattaforma exchange più grande nel mondo, dopo Binance. Le exchange solitamente non creano monete digitali (token) ma si occupano di creare asset class per gli investitori, che utilizzano la piattaforma per cambiare dollari o euro in monete digitali e di comprare e vendere queste ultime al solo scopo di fare guadagni. FTX aveva, invece, anche il suo token, il FTT.

Pochi giorni fa, la Security Commissione delle Bahamas, il centro off shore dove FTX ha sede, aveva congelato tutti i suoi averi. La piattaforma, insieme a oltre 130 suoi affiliati, ha chiesto il Chapter 11 nello Stato del Delawere, cioè la procedura d’insolvenza per la riorganizzazione aziendale. Intanto Australia, Giappone e Bahamas hanno preso provvedimenti per congelarne le sue attività. Dopo una simile decisione adottata da Cipro, essa non può più operare nell’Ue.

Oggi la paura di un crollo caotico dell’intero settore si riassume in due parole “contagio” e “effetto domino”. Si parla di “momento Lehman Brothers” per la cripto finanza globale. Il buco varierebbe tra dieci e cinquanta miliardi di dollari. In pochi giorni il mercato delle cripto valute avrebbe perso il 20% del suo valore.

Dopo la crescita a dismisura fino a un picco equivalente a 3.000 miliardi di dollari, il mondo delle cripto monete già nel 2022 si era ridotto a mille miliardi. Inoltre, durante l’estate altre piattaforme cripto, tra cui Celsus Network, Voyager Digital e Terra-Luna sono fallite.

FTX è la breve storia di un “astro lucente” che diventa in pochi giorni una stella cadente. Il suo fondatore, il trentenne Sam Bankman-Fried, SBF per gli amici, aveva accumulato un patrimonio equivalente a 20 miliardi di dollari e, in poche ore, ne avrebbe perso il 94%. Anche tutti quelli che vi hanno investito possono dire addio ai loro soldi! Non c’è rete di salvataggio per la cripto finanza senza regole e controlli.

Alcuni parlano di “frode” poiché SBF avrebbe dirottato i fondi investiti nella piattaforma verso una sua controllata, la Alameda Research, anch’essa con sede alle Bahamas, che li avrebbe usati per operazioni finanziarie ad altissimo rischio andate male. FTX faceva soldi permettendo che investitori prendessero fondi in prestito per scommettere e speculare sui prezzi futuri delle cripto valute. Si era specializzata nella gestione di operazioni leverage (la famosa leva) in derivati con cripto monete. Piccolo particolare: le faceva in campo internazionale poiché esse sono vietate sul territorio americano.

Il vero timore è che la caduta di FTX possa contagiare anche il mercato finanziario tradizionale per via della sua grande interconnessione con la cripto finanza. Una paura che, purtroppo solo a parole, è stata spesso manifestata da vari dirigenti di enti federali americani. D’altra parte è noto che tra i suoi investitori vi sono vari fondi d’investimento, come il Blackrock e persino importanti fondi pensione.

Lo scandalo vero è la mancanza di controlli e d’interventi tempestivi e preventivi da parte delle agenzie governative preposte alla supervisione dei mercati finanziari. Ma forse non è così casuale. SBF è stato molto attivo a Washington nei mesi passati. Secondo resoconti della stampa americana, lui e altri dirigenti di FTX avrebbero sostenuto finanziariamente, legalmente, alcuni candidati sia democratici sia repubblicani nelle recenti elezioni di mid term. Non si sa mai!

SBF era anche un lobbysta molto impegnato a influenzare la stesura di una legge bipartisan per regolare il mercato delle cripto valute. Dopo il fallimento di FTX il procedimento è sospeso.

La nuova legge darebbe alla Commodity Futures Trading Commission (CFTC), l’agenzia che regola il mercato dei derivati, anche la supervisione del mercato cripto. Forse il Congresso americano e la Security Exchange Commission, l’agenzia federale di vigilanza delle borse valori, dovrebbero tenere in considerazione che alcuni top leader di FTX USA, la succursale americana, erano stati alti dirigenti proprio della CFTC! Evidentemente, purtroppo, il conflitto di interessi non esiste solo in casa nostra.

*già sottosegretario all’Economia ** economista

Sull’aumento del prezzo del gas incidono anche futures e speculazione

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

In Italia, non solo tra le forze politiche, si discute dell’aumento delle bollette del gas e dell’elettricità, rispettivamente del 31% e del 40%. E’ un trend inflattivo in atto in tutta Europa e nel resto del mondo. Manca, però, la chiarezza sulle cause dell’aumento. Non basta riferirsi alla ripresa economica globale e dei consumi dopo i lockdown pandemici, alla domanda di energia pulita e al cambiamento climatico. Tutti aspetti veri, ma il classico rapporto tra domanda e offerta, a nostro avviso, non spiega il fenomeno dei prezzi così “inflazionati”. Però, diventano delle giustificazioni per operazioni di carattere finanziario, come i futures sul gas.

Com’è noto, il prezzo del gas naturale e quello dei futures sul gas sono definiti nello stato della Lousiana dal cosiddetto Henry Hub. Dall’inizio dell’anno il prezzo dei futures sul gas contrattati negli Usa è cresciuto di oltre 94%. Cinque volte quelli di due anni fa. Si aggiunga che sul mercato ci sono anche i cosiddetti CFD (contract for difference), strumenti finanziari derivati il cui utilizzo non comporta lo scambio fisico, in questo caso il gas. Bensì si prevede il pagamento in contanti della variazione di valore della materia prima alla scadenza del contratto.

I mercati principali dei futures sui prodotti energetici sono il Chicago Mercantile Exchange e il NYMEX di New York. Come per gli altri futures e, in genere, per i derivati finanziari, i trader possono usare il cosiddetto leverage, la leva, per cui un deposito limitato messo in garanzia permette di sottoscrivere contratti per un valore multiplo. Pertanto, la sola spiegazione oggettiva dell’aumento del prezzo del gas, causato dalla crescita della domanda e dei consumi, non regge. Lo conferma anche lo studio, “The future of liquified natural gas: Opportunities for growth“, pubblicato nel settembre 2020 da McKinsey & Company, la maggiore società internazionale di consulenza strategica. McKinsey ha una sua credibilità. Per esempio, in passato ha elaborato lo studio più accurato sulle infrastrutture a livello globale.

McKinsey sosteneva che l’industria del gas naturale liquefatto (GNL) stava praticando prezzi bassi e un’offerta eccessiva e che, per la pandemia, la domanda di gas nel 2020 sarebbe potuta diminuire dal 4 al 7%. Tanto che gli esportatori di GNL avevano cancellato alcune spedizioni di gas (più di 100 cargo statunitensi sono stati cancellati nel mese di giugno e di luglio 2020), poiché il prezzo spot nei mercati asiatici ed europei non copriva più il costo della fornitura.

In ogni caso, McKinsey spiegava che in futuro lo GNL avrebbe avuto una grande potenzialità in rapporto a cinque aree di intervento: efficienza del capitale, ottimizzazione della catena di approvvigionamento, sviluppo del mercato, de carbonizzazione e digitalizzazione avanzata dei processi. In seguito, McKinsey ha valutato una crescita della domanda globale di gas intorno al 3,4% annuo fino al 2035.Perciò, l’aumento della domanda c’è, ma in dimensioni che non giustificano la sproporzionata crescita del prezzo del gas. Invece, l’aumento dei prezzi dei futures può deformare l’andamento del mercato.

Ovviamente i liberisti facinorosi sostengono che i futures non influenzano l’andamento dei prezzi, poiché si tratta di contratti tra privati, dove se uno perde, l’altro vince. Somma zero. In realtà, i futures e in generale le operazioni speculative in derivati, grazie al leverage, raggiungono numeri altissimi e riescono a influenzare i mercati e determinare i prezzi di una materia prima. Si ricordi il balzo del petrolio fino a oltre 150 dollari al barile nel 2008, alla vigilia della Grande Crisi, per poi crollare. Allora si parlò dei famosi “barili di carta”, perché per ogni barile reale di petrolio, almeno cento barili erano trattati con strumenti speculativi.

Resta ineludibile, quindi, l’approvazione di nuove regole sulle attività finanziarie e speculative. Il G20 non può sottrarsi a questa specifica responsabilità. Se ne faccia carico anche il governo italiano.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Super multa per la JPMorgan per manipolazione dei mercati. Ma tanto poi non cambia niente….

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

La JP Morgan Chase, la più grande banca americana, dovrà pagare una multa di 920,2 milioni di dollari, la più salata della storia, per protratte operazioni di manipolazione del mercato. La decisione è stata presa dalla Commodity Futures Trading Commission (Cftc), l’agenzia del governo statunitense che si occupa della regolamentazione dei future e di altri derivati finanziari contrattati sui mercati delle commodity, quelli delle materie prime e dei prodotti alimentari.  Il suo scopo è quello di garantire l’integrità del settore finanziario.

Secondo l’ordinanza della citata Cftc, dal 2008 al 2016 la JP Morgan ha tenuto “una condotta manipolatrice e ingannevole” in particolare nei mercati dei metalli preziosi e dei contratti future legati alle obbligazioni del Tesoro. Di fatto, gli operatori, i trader, della JP Morgan hanno emesso centinaia di migliaia di ordini di acquisto che venivano poi ritirati, cancellati, prima della loro esecuzione. In questo modo hanno stravolto il normale andamento della domanda e dell’offerta, inducendo gli altri investitori a intraprendere azioni finanziarie basate su valutazioni e attese falsate.

In pratica il sistema JP Morgan funzionava in questo modo: gli operatori emettevano ordini farlocchi di acquisto, per esempio, di contratti future sull’oro, i cosiddetti spoof order. Creavano così un “effetto onda”, imitato da altri operatori, per far salire il prezzo dei derivati. Poi, un momento prima di ritirare gli ordini fatti, essi emettevano un ordine vero, il cosiddetto genuine order, con il quale, invece, vendevano il future, il cui valore a quel punto era salito.  

Solo per un dato segmento di operazioni analizzate, è stato appurato che la JP Morgan avrebbe fatto profitti per oltre 172 milioni di dollari mentre gli altri operatori avrebbero avuto perdite per circa 312 milioni.

Nell’ordinanza della Cftc si legge anche che per anni la banca ha disinformato e manipolato la stessa agenzia di controllo, rallentando così ogni possibile intervento di correzione e di sanzione. La JP Morgan non ha potuto nemmeno giustificarsi e scaricare le responsabilità su qualche singolo dipendente “avventuriero”, in quanto i vari dirigenti dei dipartimenti preposti ai mercati erano direttamente coinvolti.

Soltanto nel 2016 la JP Morgan avrebbe iniziato a collaborare con l’agenzia di controllo. Per questa ragione, e ciò è alquanto sorprendente, l’ammontare della multa è stato proposto dalla banca e accettato dalla Cftc. Inoltre, sempre per tale tardiva e discutibile dimostrazione di buona volontà e di cooperazione, l’agenzia non ha chiesto che la banca fosse squalificata e dichiarata bad actor e, quindi, esclusa dai mercati perché “cattivo operatore”. Il che, e non solo secondo noi, sarebbe stata una vera rivoluzione nella finanza.  

Ancora una volta per le banche too big to fail si applica un conveniente accordo di favore. Le multe, anche se apparentemente salate, sono spesso solo una misera percentuale dei profitti fatti illegalmente e fraudolentemente. Il loro patteggiamento, di conseguenza, comporta sempre la fine delle indagini e dei procedimenti legali intrapresi.

In merito, comunque, il Dipartimento di Giustizia e il Procuratore dello Stato del Connecticut stanno istruendo dei procedimenti penali per frode. Anche la Security Exchange Commission (Sec), la Consob americana, l’agenzia federale preposta alla sorveglianza delle attività delle borse valori e alla protezione degli investitori, sta iniziando un caso legale in sede civile. Vedremo se andranno oltre l’imposizione di semplici ammende. C’è poco da sperarci.

Indubbiamente è in corso un profondo dibattito negli Stati Uniti circa l’efficacia delle azioni di controllo e di repressione da parte delle agenzie preposte al funzionamento dei mercati. Infatti, due consiglieri della succitata Cftc, si sono dichiarati non completamente soddisfatti per la mancata applicazione dello status di bad actor per la JP Morgan. Hanno richiesto una maggiore e fattiva collaborazione tra la Cftc e la Sec, che avrebbe l’autorità di escludere dai mercati le banche e gli operatori considerati inaffidabili. “Essenzialmente, hanno detto i due consiglieri, oggi la Sec consiglia alla Cftc quello che la Cftc deve consigliare alla Sec, il cui regolamento, poi, le vieta di fare”, Un “procedimento circolare” che oscura la trasparenza e le responsabilità con uno spreco di risorse. E’ qualcosa che anche in Europa e in Italia dovremmo imparare, circa le nostre varie agenzie di controllo.

La gravità dell’affaire della JP Morgan va ben oltre il caso in sé. La manipolazione dei mercati delle commodity non ha soltanto una valenza finanziaria. In questi mercati vengono contrattate le derrate e le risorse più importanti per l’economia e per la vita dei popoli e dei singoli cittadini: il cibo, l’energia, e tutte le materi prime che entrano nei settori produttivi dell’economia reale.

Non ci si può dimenticare dei picchi d’inflazione relativi ai prezzi del grano, del riso o del petrolio che, più volte in questi primi venti anni del ventunesimo secolo, hanno stravolto intere nazioni e impoverito, spesso fino alla fame, centinaia di milioni di persone.

Su problemi di tale portata non si dovrebbe né mettere la testa sotto la sabbia per non vedere né usare la mano leggera quando si scoprono comportamenti illegali. Essi, di solito, sono alla base di scandalosi arricchimenti.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Continuano le tossine, i veleni e le truffe dei derivati

Derivati senza controlli

Mario Lettieri* Raolo Raimondi **

La Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea ha recentemente pubblicato due studi sui mercati dei derivati otc in cui evidenzia che il loro valore nozionale è salito in sei mesi, dal dicembre 2015 al giugno 2016, da 493 a 544 trilioni di dollari. E’ un’impennata significativa che interrompe la tendenza decrescente iniziata nel 2013, quando la montagna dei derivati aveva raggiunto la vetta di 710 trilioni!

Il dato più preoccupante è quello relativo al cosiddetto “gross market value” degli otc  che nel periodo  indicato è letteralmente esploso, passando da 14,5 a 20,7 trilioni di dollari. Questo valore sta ad indicare il costo per rimpiazzare al prezzo di mercato tutti i contratti aperti. Tale aumento riflette la grande tensione in certi settori, soprattutto quello dei cambi monetari dove i derivati relativi alla sterlina e allo yen sono più che raddoppiati a seguito delle significative oscillazioni delle due valute. Nei citati sei mesi lo yen si è apprezzato del 15% rispetto al dollaro, mentre la sterlina ha perso il 10%. Sono segnali di grande instabilità.

La crescita dei mercati dei derivati va di nuovo di pari passo con la loro opacità. E’ l’effetto visibile e misurabile del progressivo svuotamento delle regole per contenere i fenomeni speculativi, in vigore durante l’Amministrazione Obama..

In merito, anche Aitan Goelman, ex presidente della Commodity Futures Trading Commission (CFTC), l’agenzia americana che dovrebbe regolare le operazioni in derivati finanziari, ha dichiarato che vi sarebbe una “massiccia quantità di comportamenti irregolari” nel mercato dei futures, delle options e degli swaps, i vari nomi con cui si distinguono i derivati, troppo spesso speculativi. 

Negli Usa ogni giorno vengono registrati circa 325 milioni di operazioni in derivati finanziari, di cui non poche sono truffaldine. Infatti, le manipolazioni spesso comportano l’uso di insider trading, di finanziamenti senza copertura, di capitali non propri, di piramidi finanziarie e di ordini fatti senza l’intenzione di portarli a termine. Secondo Goelman la CFTC è a conoscenza di molte frodi ma non riesce a combatterle efficacemente per mancanza di mezzi e di fondi. Ha un budget annuale di 250 milioni di dollari di cui soltanto il 20% per la lotta alle frodi. Di conseguenza almeno due terzi dei casi sospetti non vengono neanche indagati.

Una storia “molto italiana”. Nel nostro Paese le lungaggini della giustizia generano innumerevoli prescrizioni che creano impunità e sfiducia diffusa.

Anche in Europa le operazioni in derivati da parte delle banche sono state  troppo consentite. La Bce è stata molto tollerante verso le banche, soprattutto verso la Deutsche Bank che negli anni è incredibilmente diventata leader mondiale nei mercati otc.

Per ben due volte, nel 2014 e nel 2016, la Bce avrebbe omesso di valutare il rischio dei derivati cosiddetti “Livello 3”. Questi titoli non hanno un prezzo affidabile in quanto vengono trattati fuori dai mercati regolamentati. Per esempio, a fine 2015 alla banca tedesca sarebbe stato permesso di iscrivere a bilancio tali titoli per un valore di ben 31 miliardi di euro.

La Bce non sarebbe stata in grado di dare una credibile valutazione dei titoli in questione per mancanza delle necessarie competenze e degli indispensabili sofisticati software. Cosa che, guarda caso, avrebbero soltanto gli stessi inventori dei derivati otc: le grandi banche come la Goldman Sachs. Non si può pretendere da loro una corretta valutazione. Sarebbe come affidare ai lupi la protezione del gregge!

In Europa il permissivismo verso i derivati riflette, purtroppo, anche la decisione delle banche di non far fluire la liquidità verso l’economia reale e l’imprenditoria produttiva.  I dati parlano chiaro. Secondo uno studio dell’agenzia Bloomberg, le banche europee hanno depositato circa 1,16 trilioni di dollari presso la Bce, anche senza ricevere alcun interesse. Spesso sono soldi ricevuti dalla stessa Bce che acquista titoli di stato dei Paesi europei ed altri titoli in possesso delle stesse banche. 

Nonostante la Bce abbia immesso nel sistema finanziario europeo 1,8 trilioni di dollari, i finanziamenti da parte delle banche verso l’economia, nel periodo del Qe sono aumentati di appena 175 miliardi, restando comunque ben al di sotto del livello del 2012.

Sembra di raccontare una storia vecchia e ripetuta. Essendoci ancora il rischio di nuove crisi sistemiche, meglio non tacere, per non trovarsi ancora una volta impreparati.

*già sottosegretario all’Economia  **economista

 

 

 

 

 

 

1) Le banche sono sempre senza regole 2) Coinvolgere i capitali privati nella ricostruzione post terremoto 3) Russia e Giappone lavorano assieme: e l’Europa? 4) Le chiacchiere della FED 5) Il sistema bancario è sempre in bilico

Banche: multe miliardarie ma mancano le regole
Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

La recente richiesta del Dipartimento di Giustizia americano alla Deutsche Bank di pagare una multa di 14 miliardi di dollari per chiudere il contenzioso negli Usa sulla ‘frode’ dei mutui subprime, e dei relativi derivati finanziari, ha una rilevanza che va ben oltre la cifra stessa.
Nel frattempo, sempre sulla stessa questione, quasi tutte le banche internazionali too big to fail sono state chiamate a pagare altrettante multe miliardarie: nel 2013 la JP Morgan per 13 miliardi di dollari, nel 2014 la Citi Bank per 7 miliardi e la Bank of America per circa 17 miliardi, e poi la Goldman Sachs per 5,1 miliardi, la Morgan Stanley per 3,2 miliardi…
Sono cifre importanti che pongono una serie di domande pressanti e inquietanti. Quanto hanno incassato le banche negli anni della ‘bonanza’, se sono disposte a pagare decine di miliardi? Si può presumere che abbiano incassato centinaia di miliardi, ingigantendo a dismisura i loro bilanci tanto da superare persino quelli di molti Stati. Non solo dei più piccoli o meno industrializzati.
Inoltre, il danno prodotto all’intero sistema economico e finanziario globale è stato devastante. Si stanno ancora pagando gli effetti della recessione che ne è derivata. E’ ormai convinzione diffusa che sia stata proprio la grande speculazione sui mutui sub prime e sui derivati connessi a scatenare la più grande crisi finanziaria della storia.
Con spregiudicatezza e arroganza le grandi banche hanno giocato forte ai ‘casinò della speculazione’ usando ‘fiches’ non di loro proprietà, ma quelle dei risparmiatori, delle imprese e persino dei governi. E dopo il disastro hanno chiesto di essere salvate dalla bancarotta con i soldi pubblici!
Quanto ci sono costate la speculazione e la crisi? E’ molto complicato cercare di quantificarne i danni e le perdite che hanno prodotto alle economie e alle popolazioni di tutti i Paesi colpiti. Sono sicuramente immensi, tanto quanto le responsabilità dei principali attori.
Se si tratta di frodi conclamate, come è possibile che, con il semplice pagamento di una multa, i responsabili vengano sollevati da qualsiasi condanna civile e penale? Perché non vi è mai una responsabilità anche personale dei manager implicati? D’altra parte le multe sono di fatto pagate dai correntisti e dai clienti delle banche in questione.
Tutto ciò fa sì che i cittadini perdano ulteriormente fiducia nella giustizia percependo, come nelle società prima delle repubbliche sovrane, l’esistenza di due o più mondi: uno per i semplici mortali sottoposti e spesso tartassati da una miriade di leggi e l’atro, quello degli ‘dei dell’Olimpo’, dove si fanno regole e leggi su misura.
La questione più importante ovviamente riguarda la riforma del sistema bancario. La propensione ad un rischio incontrollato e illimitato è stata la molla della degenerazione dell’intero sistema. Le domande fondamentali, quindi, non riguardano solo il passato, ma soprattutto il presente e il futuro. Sono stati solo comportamenti sbagliati? Sono state introdotte nuove regole più virtuose? Sono stati messi a punto controlli opportuni? Purtroppo non ci sembra che si possano dare risposte incoraggianti a tali semplici domande.
Anche l’Unione bancaria europea non sembra andare a fondo nella questione. Garantire maggiori capitali e riserve per far fronte ad eventuali nuove crisi è giusto, ma non affronta la questione alla radice.
Fintanto che non si decide di introdurre una netta separazione bancaria, come quella della Glass-Steagall Act negli Usa dopo la crisi del ’29, che distingua le banche commerciali da quelle di investimento, proibendo alle prime di operare sui mercati speculativi, e fino a quando non si stabiliscono limiti ferrei ai derivati finanziari, le grandi banche too big to fail, purtroppo, si sentiranno autorizzate ad operare come sempre, business as usual.
Tutto ciò non depone bene anche per le grandi manovre bancarie che riguardano il nostro Paese, non solo il Monte Paschi di Siena ma anche la Banca Popolare di Vicenza, la Veneto Banca, la Banca Etruria, ecc.
In Italia purtroppo non si fa mai tesoro delle esperienze del passato. Si ha memoria corta. Eppure solo qualche decennio fa si verificarono i dissesti del Banco di Sicilia e del Banco di Napoli. E agli inizi del 2000 vi furono le vicende della Parmalat, dei bond argentini, della Banca 121. Nonostante il puntuale documento finale della Commissione di Indagine parlamentare, nessuno ne ha tenuto conto: né la Banca d’Italia, né la Consob, né i governi.
*già sottosegretario all’Economia **economista

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Come coinvolgere anche capitali privati nella ricostruzione e messa in sicurezza del territorio
Bond per la messa in sicurezza del territorio
Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

Le devastazioni e la perdita di tante vite umane, a causa dei disastri che ripetutamente colpiscono il territorio del nostro Paese, naturalmente provocano emozioni forti, suscitano diffusa solidarietà e spingono gli stessi governanti ad assumere impegni. Ciò è quanto è accaduto anche a seguito del recente terremoto.
In verità la messa in sicurezza anti sismica è un problema antico che riguarda la gran parte del territorio italiano. La semplice ricostruzione delle aree colpite e la ristrutturazione anti sismica in tutto il territorio nazionale interesserebbero non meno di 12 milioni di unità abitative con investimenti prevedibili di circa 100 miliardi di euro.
Se si aggiungesse anche l’improcrastinabile intervento di stabilità idrogeologica dell’intero Paese, allo scopo di evitare le continue e devastanti alluvioni, frane e altri deterioramenti del territorio, bisognerebbe aggiungere almeno altri 40-50 miliardi di investimenti.
Indubbiamente si tratta di cifre molto importanti. Soprattutto se si considerano anche i costi delle perdite di vite umane e delle distruzioni di proprietà e di ricchezze provocate dai vari cataclismi.
Secondo l’ufficio studi della Camera dei Deputati in 48 anni sarebbero stati spesi circa 121 miliardi di euro per ricostruire ciò che i terremoti hanno distrutto!
Ovviamente il ruolo dello Stato, anche in questi casi, è insostituibile. Non c’è libero mercato che tenga. E’ compito dello Stato garantire la sicurezza ai propri cittadini. Perciò è sacrosanto, come fa il nostro presidente del Consiglio dei ministri, chiedere che gli investimenti per la ricostruzione e per la messa in sicurezza del territorio siano posti fuori dai ristretti parametri del Trattato di Maastricht.
La dimensione degli investimenti richiesti non potrebbe essere soddisfatta da una semplice flessibilità di bilancio!
Lo Stato, secondo noi, potrebbe emettere specifiche “obbligazioni per la ricostruzione” al fine di creare liquidità da destinare esclusivamente alla realizzazione del programma di investimenti. Potrebbe essere la Cassa Deposti e Prestiti a farsene carico, al fine di non farli rientrare nell’alveo del debito pubblico. Del resto la stessa Germania usa in tale senso la sua Kreditanstalt fuer Wiederaufbau, la gigantesca banca di sviluppo tedesca che, con attivi per oltre 500 miliardi di euro, è da sempre considerata fuori dal bilancio statale. La KFW è stata il motore della ricostruzione e dello sviluppo dell’economia tedesca.
Tale scelta non potrebbe che essere condivisa perché, come noto, il debito sarebbe strettamente legato a politiche di sviluppo che creano non solo unità abitative sicure ma anche produzione, occupazione, aumento della produttività e maggiori introiti fiscali. Così lo stesso debito iniziale verrebbe in parte ripagato e creerebbe allo stesso tempo nuova ricchezza.
Ai sottoscrittori delle obbligazioni si potrebbe estendere la garanzia dello Stato fino al valore di 100.00 euro, così come avviene per i conti correnti bancari. Sarebbe una forma di forte incentivazione.
Importante che detti titoli siano di lungo termine, almeno 10 anni, con capitale nominale garantito, ad un tasso di interesse basso ma comunque superiore al tasso zero di oggi.
Un secondo strumento per sostenere i menzionati investimenti potrebbe essere simile a certi contratti di assicurazione sulle vita. Il risparmiatore verserebbe un capitale, ad un tasso di interesse stabilito, mantenendolo bloccato per un certo numero di anni. Alla scadenza avrebbe diritto alla restituzione del capitale investito più gli interessi maturati, oppure ad una rendita commisurata. In questo caso non si avrebbe alcuna emissione di obbligazioni ma si tratterebbe di “assicurazioni sulla stabilità del territorio”. Anche questo strumento potrebbe essere gestito dalla stessa CDP.
Per incentivare tali “polizze assicurative”, lo Stato potrebbe anche qui offrire una garanzia fino a 100.000 euro e altri eventuali incentivi.
Purtroppo i governi preferiscono creare un debito anonimo, e non mirato a settori specifici di intervento, perché in questo modo possono gestirlo come meglio credono, anche per coprire altri buchi di bilancio. Ma il disegno che dovrebbe stare alla base delle messa in sicurezza dell’intero territorio rappresenta una grande sfida ma anche l’opportunità di indirizzare e programmare l’economia in un modo differente dal passato, compatibile con la difesa della natura e dell’ambiente.
Naturalmente i controlli di qualità, di trasparenza e di rispetto delle regole sono fondamentali per la riuscita del progetto. Così come è indispensabile il coinvolgimento delle popolazioni interessate.
*già sottosegretario all’Economia **economista

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A Vladivostok Russia e Giappone lavorano insieme. E l’Europa?
Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Non deve sorprendere se la dichiarazione finale del recente summit del G20 tenutosi a Hangzhou in Cina è la solita retorica piena di belle parole e buone intenzioni. Come al solito sono gli Usa, anche con il sostegno non sempre entusiasta dell’Ue e dei Paesi europei, a dettarne il contenuto.
Ciò stride non poco con gli interventi propositivi e concreti di alcuni altri attori, non ultimi la Cina, la Russia e il Giappone.
Il presidente cinese Xi Jinping, alle mere enunciazioni, ha contrapposto i grandi progetti in corso di realizzazione, i corridoi di sviluppo infrastrutturale della Silk Road Economic Belt, che collegheranno l’Oceano Pacifico a quello Atlantico e all’Europa, e quelli della 21st Century Maritime Silk Road,la strada marittima che collegherà la Cina all’India e oltre. E’ importante rilevare che in merito l’Asian Infrastructure Investment Bank è già molto attiva con le sue grandi linee di credito.
Nelle sue parole Xi ha legato la realizzazione di questi grandi progetti e la costruzione di numerose zone di libero scambio sul territorio cinese con l’intenzione di rendere il renminbi una forte moneta internazionale nel quadro di un necessario miglioramento della governance economica globale .
Presentando il programma “Blueprint on Innovative Growth” ha delineato con chiarezza i settori prioritari del nuovo sviluppo globale, tra cui “l’innovazione, una nuova rivoluzione scientifica e tecnologica, la trasformazione industriale, l’economia digitale e l’interconnessione delle reti infrastrutturali”.
Per chiarire lo stato reale dell’economia produttiva cinese egli ha ricordato che, nel primo semestre dell’anno, essa è cresciuta del 6,7%.
La pochezza e la scarsa portata del summit balzano con nettezza se si considerano i risultati del Forum Economico di Vladivostok tenutosi il giorno prima tra il presidente Putin, il primo ministro giapponese Shinzo Abe, il presidente della Corea del Sud, la signora Park Geun-hye e l’ex pm australiano Kevin Rudd.
Putin ha presentato il suo programma più ambizioso, quello di trasformare il Far East nel centro dello sviluppo sociale ed economico della Russia. Tra i progetti illustrati ci sono la realizzazione congiunta di un “super ring” di infrastrutture energetiche che metterà in relazione Russia, Cina, Corea e Giappone, la costruzione di infrastrutture di trasporto trans-euroasiatiche e regionali, quali i corridoi Primorye 1 e 2 che collegheranno le regioni cinesi del nord e i porti russi, nonché la costruzione della sezione russa della nuova Via della Seta che dovrebbe collegare la Cina all’Europa. Putin ha lanciato ai suoi interlocutori l’idea di realizzare un polo internazionale per le scienze, l’istruzione e le tecnologie sull’isola di Russky di fronte al porto di Vladivostok dove si prevede anche una grande zona di libero scambio.
Sono progetti concreti di indubbia rilevanza che sollecitano ulteriori coinvolgimenti, anche europei, per accelerare la ripresa della crescita globale.
Per simili grandi lavori la Russia ha già creato un Far East Development Fund che concederà prestiti al tasso di interesse del 5%, meno della metà del tasso di sconto della Banca centrale russa. Certamente è importante l’accordo siglato con la grande Japan Bank for International Cooperation per finanziare i progetti relativi al porto di Vladivostok che vedono la partecipazione di imprese giapponesi.
Tra le altre iniziative concrete c’è il fondo di sviluppo russo-cinese per investimenti nel settore agroalimentare.
L’importanza delle joint venture russo-coreane, in particolare quelle negli investimenti di Vladivostok, è stata sottolineata dalla presidente coreana, signora Park, anche in vista dell’apertura del passaggio artico della Northen Sea Route. Ha ricordato inoltre che la politica di isolamento è fondamentalmente sbagliata. Lo dimostrano le esperienze del passato come quella della Grande Depressione quando l’aumento dei dazi da parte di molti Paesi provocò una riduzione del 40% del commercio in 4 anni.
Dal resoconto del Forum emerge tuttavia che l’intervento politico più pregante sembra quello pronunciato da Shinzo Abe che ha detto: “Trasformiamo Vladivostok nella porta che unisce l’Eurasia con il Pacifico”. In verità i rapporti e le joint venture tra i due Paesi si sono fortemente consolidati tanto che il governo giapponese ha creato uno specifico Ministero per la cooperazione economica russo- giapponese.
Al Forum di Vladivostok l’Unione europea e i Paesi europei erano totalmente assenti, evidenziando ancora una volta, come sottolineato anche da Romano Prodi, “il momento più basso del cammino dell’Europa verso il processo di armonizzazione tra gli Stati”.
Il Giappone invece sta dando una grande lezione di politica, non solo economica. Certo, sotto la pressione americana aderì alle sanzioni contro la Russia, ma ora Tokyo si muove in modo del tutto indipendente.
Il continente euroasiatico è per metà europeo, come evidenzia il nome. E’ lecito chiedere quando l’Europa si emanciperà e assumerà il ruolo che dovrebbe naturalmente avere rispetto ai nuovi scenari economici e geopolitici che si stanno profilando?
*già sottosegretario all’Economia ** economista

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La Fed continua con le politiche monetariste del Qe
Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

L’oracolo di Jackson Hole ha parlato per bocca del governatore della Federal Reserve, la signora Janet Yellen. Ma come sempre, dai tempi di Delfi in poi, non è stato molto chiaro. Sì, forse, ma anche no, sulla possibilità di un piccolo ritocco, un rialzo del tasso di sconto da parte della banca centrale americana.
Organizzato come ogni anno alla fine di agosto dalla Fed di Kansas City, il convegno di banchieri ed esperti internazionali era spasmodicamente atteso da tutti gli operatori finanziari del mondo. Conoscere le future intenzioni monetarie americane, come noto, è da sempre un fatto cruciale per i mercati per poi prendere le decisioni sulle grandi operazioni finanziare. Naturalmente anche quelle speculative.
Nella sua analisi, Janet Yellen ha riconosciuto che la persistente debolezza nella ripresa degli investimenti, la bassa produttività e la troppo alta propensione al risparmio frenano l’economia, nonostante l’aumento dell’occupazione registrato anche negli ultimi tre mesi negli Usa.
I differenti e molteplici indicatori economici non permettono, quindi, di affermare con chiarezza se ci sia l’intenzione di aumentare il tasso di interesse, come in precedenza ventilato anche nei documenti ufficiali del Federal Open Market Committee della Fed.
La lettura delle proiezioni e degli scenari elaborati dalla stessa banca centrale indicherebbe un 70% di probabilità che esso possa variare tra lo 0 ed il 4,5% entro la fine del 2018! E’ una vaghissima stima che non giustifica affatto l’aver scomodato centinaia di importanti esperti. La ragione di tale vaghezza sarebbe ovviamente da ricercare nell’andamento dell’economia che spesso è colpita da rivolgimenti imprevedibili. Perciò “quando avvengono forti choc e l’andamento economico cambia, la politica monetaria deve adeguarsi”, ha affermato la Yellen.
Si spera che non sia questo il suo vero oracolo.
Leggendo con più attenzione il suo discorso vi è comunque un messaggio molto chiaro: continuare senza limiti di tempo la politica monetaria accomodante del Quantitative easing.
In merito si consideri che, secondo una ricerca della Bank of America, il totale delle politiche di Qe condotte dalle banche centrali a livello mondiale ammonterebbe a 25 trilioni di dollari.
Sul piano concreto la Fed ha anzitutto deciso di mantenere i titoli, compresi quelli più complessi e quindi potenzialmente pericolosi come gli abs, che ha acquistato negli anni passati, liberando così le banche dai loro titoli rischiosi e fornendo maggiore liquidità all’intero sistema bancario.
In questo contesto la Yellen riconosce che il bilancio della Fed è passato da meno di un trilione a circa 5 trilioni di dollari e ritiene pertanto che una sua riduzione potrebbe avere delle conseguenze imprevedibili sull’economia.
E’ evidente che per il governatore americano la politica di acquisto di titoli e di “guidance” resterà una componente essenziale della strategia complessiva della Fed. Per “guidance” si intende anche l’annuncio che il tasso di interesse potrebbe restare vicino allo zero per un lungo periodo di tempo. Più che di economia monetaria trattasi di una politica della comunicazione!
Ma l’annuncio più importante è quello di voler prendere in considerazione l’utilizzo anche di nuovi strumenti d intervento monetario, tra cui quello di allargare il raggio di acquisto di titoli e di altri asset finanziari. Ciò inevitabilmente potrebbe voler dire l’acquisto di titoli e derivati ancora a più alto rischio. Si considererà anche la possibilità di alzare il target del tasso di inflazione dal 2 al 3%, allungando così i tempi di applicazione del Qe. Allo stato non ci sembra una prospettiva rosea.
Tuttavia la Yellen deve ammettere che una prolungata politica del tasso di interesse zero potrebbe incoraggiare le banche e gli altri operatori finanziari a intraprendere operazioni eccessivamente rischiose.
Si calcola che il Qe ha determinato che titoli per circa 11 trilioni di dollari oggi siano a tasso zero o negativo. Trattasi di circa il 20% del debito sovrano mondiale! Un terzo di tutti i titoli di debito pubblico globale emessi nel 2016 sono stati ad un tasso negativo.
E’ chiaro che la continuazione delle politiche monetarie accomodanti riflettono “la paura che siamo di fronte ad un prolungato periodo di stagnazione economica secolare”, come ha ammesso persino Stanley Fisher, il vice presidente della Fed.
E’ evidente, quindi, che il tasso di interesse zero non sempre si rivela efficace nel sostegno alla ripresa e alla crescita.
Per questa ragione, senza iattanza, da sempre noi ribadiamo la necessità che i governi non lascino alla politica monetaria e alle banche centrali il compito di rimettere in moto l’economia, ma se ne assumano essi la piena responsabilità decisionale. Servono politiche di investimento di partenariato pubblico privato nei campi delle infrastrutture, delle nuove tecnologie. In Italia anche nel campo della messa in sicurezza del territorio sempre più minacciato da inondazioni, frane, dissesti idrogeologici e terremoti, come dimostrano i drammatici recenti disastri di Amatrice e della vasta area laziale-marchigiana-umbra.
*già sottosegretario all’Economia **economista

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Continue difficoltà del sistema bancario internazionale, nonostante la pausa estiva.
Il sistema bancario sempre in bilico
Mario Lettieri* e Paolo Raimondi **

Dopo le grandi agitazioni nel mondo bancario internazionale provocate dagli stress test, le vacanze estive sembra abbiano creato un’ovattata atmosfera di apparente tranquillità. Ma, osservando con più attenzione i processi finanziari in corso, l’emergenza resta sempre dietro l’angolo.
Non solo per quanto riguarda il futuro della MPS, della Veneto Banca e di altre banche in Italia.
Negli Usa, per esempio, la componente repubblicana del Comitato per i Servizi Finanziari della Camera dei Deputati ha recentemente presentato un dossier sul coinvolgimento della grande banca inglese, la Hong Kong Shanghai Bank Corporation (HSBC), nel riciclaggio dei soldi provenienti dal traffico di droga operato dal cartello messicano di Sinaloa e da quello colombiano del Norte del Valle.
Sono stati documentati ben 881 milioni di dollari “lavati” dai narcotrafficanti nel sistema bancario americano. Quella emersa e documentata dalle indagini in realtà è solo una piccola parte dell’enorme business che si è sviluppato, in modo incontrastato, per anni.
Durante le indagini, iniziate nel 2013, la HSBC aveva ammesso il crimine e accettato di pagare una multa di circa 2 miliardi di dollari.
Il rapporto accusa in particolare il Dipartimento di Giustizia americano di avere bloccato il processo contro la banca, anche su pressione della Financial Services Authority, l’equivalente inglese della Consob, in quanto “ esso avrebbe potuto avere serie conseguenze per il sistema finanziario”.
E’ un’accusa molto forte che la dice lunga sull’opacità di certe operazioni fatte da importanti attori del sistema bancario americano e inglese. Soprattutto sulla capacità delle ‘too big to fail’ di influenzare le decisioni delle istituzioni finanziarie di controllo e addirittura di quelle dei governi. L’opacità naturalmente si estende anche a molte altre operazioni finanziarie e ai bilanci delle banche che spesso non riflettono il loro vero stato di salute. Nonostante gli stress test.
Anche in Europa sono in corso alcune complesse operazioni bancarie, in particolare in Germania. All’inizio di agosto l’indice borsistico europeo Stoxx Europe 50 ha rimosso dal suo listino la Deutsche Bank e il Credit Suisse per evitare che il livello dell’indice fosse influenzato negativamente dalle continue perdite di valore delle azioni delle suddette banche.
Attraverso le pagine del quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung, Martin Hellwig, un importante economista dell’istituto tedesco di ricerca Max Planck, ha addirittura ventilato l’ipotesi della necessità di una nazionalizzazione della Deutsche Bank che si troverebbe in “una crisi peggiore di quella del 2008”. Il bail in, con la partecipazione di azionisti e obbligazionisti nella copertura delle perdite della banca, non sarebbe sufficiente a salvarla.
Da parte sua il Fmi ha recentemente dichiarato che la DB “presenta grandi rischi ” per l’intero sistema bancario. Infatti essa sarebbe grandemente indebitata e pericolosamente sotto capitalizzata.
La DB è anche in continuo conflitto con l’agenzia americana Commodity Futures Trading Commission (CFTC), che controlla il mercato dei derivati, in quanto non esporrebbe in modo chiaro la vera situazione delle sue operazioni in derivati finanziari otc, “compromettendo la capacità di valutare i potenziali rischi sistemici del mercato dei derivati”.
Da ultimo anche la Banca del Regolamenti Internazionali e l’International Organization of Securities Commissions (IOSCO), che coordina gli enti di vigilanza dei mercati finanziari a livello mondiale, affermano che persino le Central Counterparty Clearing (CCP), cioè le “casse di compensazione” che dovrebbero garantire le parti coinvolte nei contratti in derivati, non sarebbero in grado di far fronte ai loro compiti per mancanza di fondi.
Al riguardo non è un caso che la stabilità delle casse di compensazioni e i rischi derivanti dalla speculazione finanziaria siano stati posti, su iniziativa della Cina e dell’India, nell’agenda del G20 che si terrà nella città cinese di Hangzhou all’inizio di settembre.
Ciò dovrebbe essere di monito anche in Europa per far sì che il sistema bancario e i derivati non siano lasciati in balia del “fai da te“ del mercato. Senza ulteriori indugi essi dovrebbero essere sottoposti ad una stringente e profonda revisione da parte dei governi che dovrebbero ovviamente mirarli più al credito produttivo che agli interessi della speculazione

LE BANCHE CONTINUANO A MANIPOLARE I MERCATI E A TENERE AL GUINZAGLIO LA GIUSTIZIA

Dopo il LIBOR, le banche continuano con la manipolazione dei mercati.

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

Cinque grandi banche internazionali dovranno pagare all’agenzia di controllo americana Commodity Futures Trading Commission (CFTC), all’inglese Financial Conduct Authority (FCA) e all’agenzia di controllo svizzera Finma ben 4,3 miliardi di dollari di multa per aver manipolato per anni, almeno dal 2009 fino alla fine del 2013, i cosiddetti tassi Forex. Naturalmente la notizia sta suscitando grande sensazione

Ovviamente sono le “too big to fail”, 2 banche americane, la Citibank e la Jp Morgan Chase, due inglesi, l’HSBC Bank e la Royal Bank of Scotland, e la svizzera UBS. Inoltre c’è per l’inglese Barclays Bank un’indagine aperta.

Esse hanno manipolato i tassi di cambio usati come riferimento di base per stabilire i valori delle differenti monete e anche i tassi di cambio tra le stesse.

In una sorta di cabina di regia, usando nomi in codice da loggia segreta, gli operatori bancari incaricati si scambiavano anche informazioni riservatissime relative ad operazioni monetarie fatte dai loro clienti. Il tutto a beneficio naturalmente degli interventi fatti poi dalle banche stesse sui mercati dei cambi. Continua a leggere