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Si rafforza il rapporto tra l’Africa e la Cina

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Il nono summit del Forum of Chinese-African Cooperation (FOCAC) il 4-6 settembre a Pechino ha visto la partecipazione, oltre che del presidente dell’Unione Africana, di ben 53 paesi dell’Africa.

La grande attenzione posta dalla Cina è stata evidenziata dalla presenza del presidente Xi Jinping, che ha anche incontrato privatamente moltissimi presidenti africani. Il messaggio è chiaro: il continente africano ha per la Cina una valenza strategica. Non è una sorpresa poiché Pechino ha sempre proiettato la Belt and Road Initiative (la nuova via della seta) anche verso il continente africano.

Al summit la Cina si è volutamente dichiarata parte del Sud Globale e del gruppo dei paesi in via di sviluppo. Si è posta alla pari dei paesi africani, sostenendo il principio di non interferenza e di non ingerenza nelle loro decisioni e nei loro affari interni.

Il presidente Xi ha annunciato investimenti e aiuti finanziari per 50 miliardi di dollari in tre anni nei vari i settori economici, a partire dai grandi collegamenti infrastrutturali.

La Cina non è un ente assistenziale. E’ chiaro che beneficia in termini economici dello sfruttamento delle materie prime e alimentari africane. Nel 2023 gli scambi commerciali tra Cina e Africa sono stati di 282,5 miliardi di dollari, 100 dei quali relativi all’export di merci africane. Anche l’Africa ottiene dei vantaggi attraverso la modernizzazione delle sue infrastrutture, oltre alla partecipazione a una moderna rivoluzione agro-industriale.

Il FOCAC ha dichiarato che riconosce una sola Cina. Ovviamente, ciò avrà delle ripercussioni nelle relazioni politiche internazionali.

L’analisi dei due documenti del summit, la Dichiarazione di Beijing e l’Action Plan (2025-27), adottati all’unanimità, fa comprendere le iniziative future. La Cina e i paesi dell’Africa hanno già una rete operativa con esperti, regolamenti, incontri e progetti. Qualcosa che non esiste con gli Usa e nemmeno con l’Europa. Ogni genuina azione europea, purtroppo, è sempre minata da tipici interessi del vecchio colonialismo.

Le controparti hanno indicato i propri programmi strategici: la Belt and Road per la Cina e l’Agenda 2063 dell’Unione africana, in particolare il Programme for Infrastructure Development in Africa (PIDA), anche nella prospettiva della nascente area di libero scambio senza dazi, l’African Continental Free Trade Area (AfCFTA).

Nell’Action Plan sono dettagliate le numerose iniziative da portare avanti. La Cina è già coinvolta in 21 progetti di collegamenti infrastrutturali nel continente africano e nel programma “100 industrie in 1.000 villaggi”. Si inizierà una cooperazione cinese-africana in 100 università, la creazione di 25 centri di ricerca, 50 iniziative industriali con le pmi africane, 30 progetti per l’energia. La Cina si è impegnata a togliere i dazi per i prodotti importati dai Paesi africani meno sviluppati con cui ha relazioni diplomatiche.

Inoltre, si vuole estendere l’uso di due piattaforme di pagamenti internazionali, alternative allo SWIFT controllato dagli Usa: la Pan-African Payment and Seattlement System e la Cross-border Interbank Payment System (CIPS) della Cina, anche attraverso un uso crescente della moneta cinese nelle transazioni finanziarie in Africa. Si prospetta l’aumento dell’uso delle monete locali africane.
Sono mosse difensive in rapporto alle sanzioni americane che già colpiscono molti paesi del continente. Del resto il dollaro è sempre più visto come un’arma nei confronti di chi non segue i dettami di Washington.

Rispetto alla polemica sul “debt gap”, sulla dipendenza finanziaria e debitoria dei Paesi africani nei confronti della Cina, si ricordi che i prestiti concessi da Pechino dal 2000 al 2020 sono stati di circa 700 miliardi di dollari. Oggi, il 12% del totale del debito pubblico e privato africano è detenuto da creditori cinesi. E’ una cifra importante, ma non determinante una eventuale sottomissione ai voleri cinesi .

Purtroppo, in Occidente il summit FOCAC di Pechino è stato del tutto ignorato. Non è un buon segno. Invece, si dovrebbe fare di tutto affinché l’Africa non diventi, come in passato, il continente dove si combattono “guerre per procura”!

*già sottosegretario all’Economia **economista

Samarcanda: la via della multilateralità

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

I risultati del summit dei Capi di Stato dei Paesi della Shanghai Cooperation Organization (Sco), tenutasi il 16 settembre a Samarcanda, nell’Uzbekistan, meritano di essere analizzati senza paraocchi ideologici o precostituiti. Permetterebbe di evitare errori di valutazione geopolitica di cui in seguito ci si potrebbe pentire.

La Sco è stata creata nel 2001, con lo scopo di coordinare le attività dei Paesi membri nella lotta al terrorismo, per la sicurezza e soprattutto per la cooperazione economica, tecnologica e infrastrutturale. Oggi conta nove membri, fra cui la Cina, l’India e la Russia. Insieme rappresentano il 40% della popolazione e il 25% del pil mondiale.

Sbaglia chi cerca di vedere nella Sco la realizzazione di una Nato dell’Eurasia. Le differenze tra i partecipanti sono troppe e profonde. Sarebbe altrettanto sbagliato, però, sottovalutarne l’importanza. Sarebbe profondamente fuorviante ripetere per la Sco gli errori di valutazione che molti intenzionalmente fanno in rapporto al ruolo dei Brics.   

Una lettura attenta della Dichiarazione finale di Samarcanda aiuterebbe a capire meglio i processi in atto. E’ opportuno, anzitutto, rilevare che, tra i vari Capi di Stato, erano presenti il presidente cinese Xi Jinping, il primo ministro indiano Narendra Modi e il presidente russo Vladimir Putin. Ciò nonostante, va sottolineato, il totale isolamento occidentale nei confronti di Putin e le sanzioni contro la Russia.

E’ opportuno, invece, prendere atto della valutazione geopolitica e geoeconomica offerta dal summit. Rispetto alla sicurezza si afferma che “Il mondo sta attraversando cambiamenti globali. Questi processi sono accompagnati da una maggiore multipolarità. L’attuale sistema di sfide e minacce internazionali sta diventando più complesso, la situazione nel mondo è pericolosamente peggiorata, i conflitti e le crisi locali si stanno intensificando e ne stanno emergendo di nuovi.”.

Circa l’economia si dice che “Il crescente divario tecnologico e digitale, le continue turbolenze nei mercati finanziari globali, la riduzione dei flussi d’investimento, l’instabilità nelle catene di approvvigionamento, l’aumento delle misure protezionistiche e altri ostacoli al commercio internazionale si aggiungono alla volatilità e all’incertezza nell’economia globale.”

Il concetto più ripetuto è quello della “multilateralità”, ponendo così la questione agli Stati Uniti e all’Occidente. 

Alcuni aspetti sulla cooperazione economica meritano attenzione. La Dichiarazione sostiene che i membri della Sco, con l’eccezione dell’India, “ riaffermano il sostegno all’iniziativa cinese One Belt, One Road (Obor, la Via della seta) e riconoscono il lavoro in corso per attuare il progetto e gli sforzi per collegare la costruzione dell’Unione economica eurasiatica con l’Obor.”  L’idea è di istituire un partenariato eurasiatico allargato che coinvolga, oltre alla Sco, l’Ueea, i Paesi dell’Asean, altri Stati interessati e le associazioni multilaterali.

Il testo, inoltre, fa riferimento all’importanza dell’uso delle monete nazionali nei regolamenti commerciali e monetari già praticato da alcuni Stati membri. Ciò avviene tra la Russia e la Cina e anche l’India dovrebbe a breve regolare i commerci con la Russia in monete nazionali.

Quest’orientamento avvicina la Sco alle politiche dei Brics. Infatti, la Dichiarazione finale riporta l’intenzione di creare una Banca di sviluppo della Sco, un Business Council, un Fondo di sviluppo all’interno di un Accordo quadro per la cooperazione nel commercio e nei servizi, di un Programma per lo sviluppo delle infrastrutture nei trasporti e nell’energia e di un Piano d’azione per lo sviluppo del commercio tra gli Stati membri. Tutte pratiche già sperimentate dai Brics.

Non è elegante ripetersi, ma speriamo che l’Unione europea e i suoi Stati membri non si limitino a dei semplici commenti ma partecipino attivamente ai progetti di sviluppo. Altrimenti, il summit di Samarcanda sarebbe soltanto la conferma di una pericolosa spaccatura del mondo in due blocchi contrapposti.  

La divisione in blocchi, soprattutto ora che c’è una guerra tra Russia e Ucraina, può ulteriormente aggravare la situazione. Crediamo che l’interesse dei popoli dell’Ue, a partire da quello italiano, sia, invece, quello di non interrompere il filo sottile delle relazioni tra mondi diversi per giungere ad una duratura e pacifica cooperazione.

*già sottosegretario all’Economia  **economista

James K. Galbraith: “Riusciranno gli Stati Uniti a sopravvivere all’ascesa di un mondo multipolare?”

L’analisi di James Galbraith

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

“Riusciranno gli Stati Uniti a sopravvivere all’ascesa di un mondo multipolare?” Questa domanda d’importanza strategica non è posta da qualche oppositore della politica Usa, bensì da un importante economista americano, James K. Galbraith. Riflette un dibattito molto ampio in corso negli Usa. E non solo.

Galbraith è l’economista dell’Università di Austin in Texas, noto per aver redatto il primo piano legislativo per salvare New York City dalla bancarotta nel 1975. E’ il figlio di John Kenneth Galbraith, stretto collaboratore di molti presidenti americani, a cominciare da F. D. Roosevelt, per il quale durante la seconda guerra mondiale realizzò la politica del controllo dei prezzi. Argomento di cui tanto si discute anche oggi!

Alla domanda, formulata in un suo articolo pubblicato dall’Institute for New Economic Thinking, James Galbraith risponde positivamente ma aggiunge, “non senza uno sconvolgimento politico, stimolato da inflazione e recessione e da un mercato azionario in calo nel breve termine e, infine, da richieste di una strategia realistica in sintonia con l’attuale equilibrio di potere globale”.

Egli afferma che “finora l’ordine basato sul dollaro è stato sostenuto principalmente dall’instabilità altrove e dalla mancanza di un’alternativa credibile.” Ecco perché i titoli del Tesoro americano sono sempre rimasti il bene rifugio primario, anche nella crisi dei mutui subprime.

Oggi il motore economico cinese, sempre più legato alla Russia e all’attrazione gravitazionale della più grande regione demografica, produttiva e commerciale del mondo, rappresentata dall’Unione economica eurasiatica e dall’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, potrebbe diventare la sfida all’ordine internazionale basato sul dollaro. Per Galbraith non è ancora così. Nonostante la Cina sia la più grande nazione commerciale, essa “non svolge né il ruolo finanziario globale né quello di sicurezza e non ha evidenti ambizioni in tal senso”. 

Egli si aspetta che la Cina lavori per “predisporre meccanismi di pagamento bilaterali o multilaterali, con partner disponibili, che aggirino il mezzo convenzionale del dollaro”. Sarà, però, inevitabile che verrà posta la questione di un’alternativa alla riserva in dollari. Oltre al ruolo dell’oro, emergerà “un asset finanziario internazionale, composto di un insieme ponderato di titoli dei Paesi partecipanti, come per l’Eurobond…  Nella realtà dell’Eurasia, ciò significa un’obbligazione basata prevalentemente sulla moneta cinese.”

Secondo Galbraith gli esperti Usa hanno una visione della Russia non corretta, ancorata ai tempi di Yeltsin. Egli afferma, con una certa ironia, che “con il sostegno di Cina, Iran, Bielorussia, Kazakistan e la studiata neutralità dell’India, è in fase di creazione un nuovo sistema finanziario internazionale. È la creazione in un certo senso, non della Russia stessa, ma dei principali responsabili politici e dei pensatoi strategici negli Stati Uniti.”.

La sua previsione è che “il sistema finanziario basato sul dollaro, con l’euro che funge da junior partner, è probabile che per ora sopravviva. Ma ci sarà una rilevante zona no dollaro, no euro, ritagliata per quei Paesi, che Usa e Ue considerano avversari, in primis la Russia, e per i loro partner commerciali. La Cina fungerà da ponte tra i due sistemi: sarà il punto fermo della multipolarità.“.

Se dovessero essere prese dure decisioni nei confronti della Cina, allora una vera e propria divisione del mondo in blocchi isolati, come nella Guerra Fredda, diventerebbe una possibilità.

Galbratih conclude la sua analisi avvertendo che “la prossima svolta della stretta finanziaria globale avverrà in Europa, in particolare in Germania, quando le implicazioni degli alti prezzi dell’energia e delle forniture perennemente scarse diventeranno evidenti. La competitività della Germania è legata alle materie prime russe e ai mercati cinesi; i suoi legami politici e finanziari sono con l’Alleanza atlantica. E’ difficile credere che la Germania subordini in modo permanente la sua industria, la sua tecnologia, il suo commercio e il suo benessere generale a Washington e Wall Street. La tensione tra le forze economiche e politiche non può che crescere nel tempo, portandola o verso la deindustrializzazione o verso un nuovo rapporto con l’Est eurasiatico: una nuova Ostpolitik.”

Riteniamo che le questioni poste da Galbraith dovrebbero, in verità, sollecitare anzitutto l’Onu in quanto rappresentante di ben 192 Paesi nell’affrontare i problemi, non solo finanziari, che riguardano un nuovo assetto complessivo multipolare.

*già sottosegretario all’Economia  **economista

Multilateralismo e NON Stati egemoni (leggi USA)

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Lo scorso 19 maggio i ministri degli Esteri dei Paesi BRICS ( acronimo usato in economia internazionale per riferirsi ai seguenti paesi: Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica ) si sono incontrati, in via telematica, per discutere della situazione strategica globale e per promuovere il loro processo di cooperazione e d’integrazione.

Si tratta di un evento degno di grande attenzione da parte dell’Occidente e in particolare dell’Unione Europea. E’ opportuno sempre ricordare che i BRICS rappresentano più del 40% della popolazione mondiale e ben il 20% del Pil del pianeta.

Ovviamente la guerra in Ucraina è stata affrontata. Al punto 11 della Dichiarazione finale si afferma: ”I ministri hanno ricordato le loro posizioni nazionali sulla situazione in Ucraina espresse nelle sedi appropriate, segnatamente il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e l’Assemblea Generale dell’Onu. Essi sostengono i negoziati tra Russia e Ucraina. Hanno anche discusso le loro preoccupazioni per la situazione umanitaria in Ucraina e dintorni ed hanno espresso il loro sostegno agli sforzi del Segretario generale delle Nazioni Unite, delle agenzie Onu e del Comitato Internazione della Croce Rossa per fornire aiuti umanitari in conformità con la risoluzione 46/182 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.”.

Importanza grande ha assunto la sessione separata del gruppo “BRICS Plus”, che ha incluso l‘Argentina, l’Egitto, l’Indonesia, il Kazakistan, la Nigeria, gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita, il Senegal e la Tailandia in rappresentanza dei Paesi emergenti e di quelli in via di sviluppo.  E’ in considerazione un possibile allargamento dei BRICS. Se ne discuterà a giugno in Cina al 14° summit annuale, dedicato a una “Nuova era di sviluppo globale”.

Il presidente cinese Xi Jinping, definendo la situazione attuale di grande “turbolenza e trasformazione”, ha chiesto un rafforzamento della cooperazione, della solidarietà e della pace attraverso la Global Security Initiative per una “sicurezza comune” da affiancare alla sua Global Development Initiative (Gdi). Egli ha rilevato che lo scontro tra blocchi contrapposti e la persistente mentalità della guerra fredda dovrebbero essere abbandonati a favore della costruzione di una comunità globale di “sicurezza per tutti”. E’opportuno ricordare che la Gdi è stata valutata positivamente da più di 100 Paesi e da molte organizzazioni internazionali, comprese le Nazioni Unite.

La Dichiarazione fa del multilateralismo l’idea portante della politica dei BRICS. Ribadisce il ruolo guida del G20 nella governance economica globale e sottolinea che esso “deve rimanere intatto per fronteggiare le attuali sfide globali.”. Evidentemente l’aggettivo “intatto” indica la volontà di avere anche la Russia nei meeting del G20, che, dopo l’Indonesia, nei prossimi tre anni saranno presieduti rispettivamente dall’India, dal Brasile e dal Sud Africa.

Un certo disappunto è stato manifestato nei confronti dei Paesi ricchi che nella pandemia Covid non hanno dato una giusta attenzione ai bisogni dei Paesi in via di sviluppo.

In sintesi, di là del dramma della guerra, nel mondo ci sono segnali per realizzare iniziative miranti a un nuovo ordine mondiale. Per esempio, l’ex presidente brasiliano Lula Da Silva, candidato alle elezioni di ottobre, propone esplicitamente la creazione di una nuova valuta, il Sur, da usare nel commercio latinoamericano per non continuare a dipendere dal dollaro.

A marzo diverse società cinesi hanno acquistato carbone russo pagando in yuan. E’ il primo acquisto di merci russe pagate in valuta cinese dopo che la Russia è stata sanzionata dai Paesi occidentali.

Crediamo che sia il momento non solo di valutare meglio gli interessi dell’Unione Europea, ma anche di accentuare il ruolo di maggiore autonomia per contribuire a realizzare un assetto multipolare.

*già sottosegretario all’Economia **economista

 

Dollaro Addio? La nuova valuta commerciale di Russia e Cina

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Può sorprendere quei politici che credono che gli eventi importanti accadano all’improvviso, senza la necessaria e lunga preparazione. La possibile apparizione di una nuova moneta internazionale alternativa al dollaro non è una sorpresa.

A metà marzo si è tenuto in Armenia l’incontro “Nuova fase della cooperazione monetaria, finanziaria ed economica tra l’Unione economica euroasiatica (Uee) e la Repubblica popolare cinese”, organizzato dalla Commissione economica euroasiatica e dall’Università Renmin di Pechino per definire i contorni di un nuovo sistema monetario e finanziario internazionale, almeno per quanto riguarda la parte orientale del mondo.

L’Uee è l’unione economica e commerciale cui partecipano la Russia, la Bielorussia, il Kazakistan, la Kirghisia e l’Armenia con un Pil di circa 1.700 miliardi di dollari. Essa è molto proiettata verso una stretta collaborazione con la Belt and Road Initiative, la nuova Via della seta voluta dalla Cina. Già nel 2020 la Cina aveva aumentato di circa il 20% il suo turnover commerciale con l’Uee, mentre l’utilizzo delle monete nazionali rappresentava solo il15% dell’interscambio totale.

Sul tavolo vi è la creazione di una “nuova moneta” basata su un paniere di valute, tra cui il rublo e lo yuan, ancorata anche al valore di alcune materie prime strategiche, incluso l’oro.

Pensare che sia solo la reazione disperata alla recente imposizione di super sanzioni nei confronti della Russia, sarebbe una valutazione fuorviante. Si tratta, invece, di un progetto in campo da molti, molti anni, sia in Russia sia in Cina.

Il progetto fu reso pubblico già nell’ottobre del 2020 dall’economista russo Sergei Glazyev, membro del consiglio e ministro incaricato dell’Integrazione e della Macroeconomia della Commissione economica euroasiatica. Egli aveva sollecitato a creare nuovi strumenti nazionali di pagamento per accantonare l’utilizzo di “valute di Paesi terzi”, intendendo ovviamente soprattutto il dollaro e l’euro, nelle transazioni commerciali e monetarie tra i membri dell’Unione euroasiatica e la Cina.

Glazyev affermava che l’idea era la risposta “alle sfide e ai rischi comuni associati al rallentamento economico globale e alle misure restrittive contro gli Stati dell’Uee e la Cina”. Si trattava di un piano per superare il sistema unipolare del dollaro, già in atto dopo le sanzioni imposte alla Russia a seguito dell’annessione della Crimea nel 2014.

L’economista russo sosteneva che l’infrastruttura finanziaria e di pagamento era già stata creata ed era necessario sviluppare un sistema d’incentivi per favorirne l’utilizzo nelle relazioni commerciali ed economiche.

Il ministro della Commissione economica euroasiatica proponeva: 1)  sviluppare dei meccanismi per stabilizzare i tassi di cambio delle valute nazionali dei Paesi membri, riducendo le commissioni bancarie e gli interessi sui prestiti; 2) creare dei meccanismi per determinare i prezzi delle merci nelle valute nazionali nell’ambito degli accordi tra l’Uee e la Belt and Road Initiative, coinvolgendo in seguito anche altri Paesi, eventualmente quelli della Shanghai Cooperation Organization (Sco) e quelli dell’Asean.

Naturalmente in tale processo s’inserisce anche la recente richiesta di Putin di esigere il pagamento in rubli delle forniture del gas, i cui contorni sono ancora da chiarire.

Riconoscendo l’incapacità del dollaro di sostenere l’intero sistema monetario e finanziario globale, già prima della grande crisi finanziaria del 2008 avevamo proposto l’idea di creare, in modo lungimirante e concordato, un nuovo sistema internazionale basato su un paniere di monete importanti, tra cui il dollaro, l’euro, lo yuan e il rublo. In un mondo erroneamente creduto unipolare, purtroppo, non se n’è fatto niente. Il sistema del dollaro, e gli interessi geoeconomici a esso connessi, non l’hanno permesso.

La recente proposta russo-cinese di creare una loro nuova moneta basata su un paniere di valute e di materie prime è un dato di fatto da analizzare. Possiamo solo affermare che, in questo modo separato, purtroppo non potrà che approfondire la divisione tra Est e Ovest e aggravare ulteriormente la pericolosa situazione attuale.

Pesanti, secondo noi che ne scriviamo da anni, sono le responsabilità dei competenti organismi internazionali, come il G20, che non hanno mai voluto affrontare con determinazione la questione, nonostante le varie crisi finanziarie e le richieste avanzate da più parti.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Ma gli ipocriti guerrafondai si preoccupano della Cina che ha relazioni crescenti con l’Africa, aasolutamete diverse ed estranee al nostro laido e sanguinario colonialismo

Da Quora:
Esiste un personaggio storico, poco conosciuto, che ha ucciso milioni di persone?
Si purtroppo, ed è stata una figura rilevante ma menzionata raramente nei libri di storia, forse perché uccise solo africani.
Tra il 1880 e l’inizio della prima guerra mondiale, i più potenti stati europei occupano quasi interamente l’Africa, dividendone i territori tra loro.
Grazie ad una buona dose di razzismo, il pretesto di questa conquista fu fornire civilizzazione e conoscenze alle popolazioni autoctone in quanto meno evolute e non in grado di accedere autonomamente alla civiltà. La realtà ovviamente era che i colossi europei volevano accaparrarsi le infinite risorse del continente nero.
Enormi quantità di denaro comportano enormi quantità di morti.
Una di queste nazioni, il Congo, era ricco di oro, avorio e gomma ed entrò ben presto nei desideri di un sovrano del vecchio continente: Leopoldo II, re del Belgio.
Lo stato fiammingo però non era interessato all’acquisizione di territori coloniali, perciò il belga divenne reggente dell’intera popolazione congolese, composta al tempo da 30 milioni di abitanti (a fronte dei 6 milioni di Belgi), con un territorio vastissimo, privo di alcuna costituzione e di supervisione da parte di organismi internazionali.
Leopoldo II instaurò un regime dittatoriale schiavizzando i nativi e creando enormi piantagioni in tutto il paese; “l’ordine” era difeso dalla Force Publique, dei commandi di nativi che reprimevano nel sangue i rivoltosi. I più “meritevoli” ricevevano in dono un territorio diventandone i governatori.
Ai sudditi che non raggiungevano la quota di raccolta giornaliera venivano amputate le mani nei migliori dei casi. L’esaurimento fisico, le malattie, l’assoluta mancanza di igiene e gli efferati omicidi portarono alla morte di milioni di persone.
Le stime variano dai 3 ai 10 milioni.
Nel 1908 le pressioni della stampa e dell’opinione pubblica al trapelare delle notizie sulle atrocità commesse, fecero si che il Belgio annettesse ufficialmente il Congo, mettendo fine alle persecuzioni nei confronti dei nativi.
Lo stato africano diverrà indipendente nel 1960.263508066_10219463068382638_1068804350664092622_n

Una battaglia mondiale per un chip

Il commissario europeo Thierry Breton responsabile della politica industriale della UE, ha detto al quotidiano economico francese “Les Echos”: “Da diverse settimane si registra una penuria di semiconduttori [minuscoli prodotti di silicio che troviamo ormai ovunque] sul mercato mondiale, e questo ha costretto a interrompere l’attività di alcune fabbriche di automobili [dove i chip sono in media 800!] e perfino impianti per la produzione di tostapane. In questa industria l’Europa si è lasciata distanziare per mancanza d’investimenti. La produzione di semiconduttori di ultima generazione si effettua principalmente in Asia, e in particolare a Taiwan, che non può più venderli alla Cina. Soprattutto l’azienda TSMC detiene un quasi monopolio sui semiconduttori di alta gamma. L’azienda statunitense Intel, dominante fino a 10 anni fa, è stata soppiantata. Oggi TSMC produce l’80% dei semiconduttori più sofisticati e si prepara a commercializzare semiconduttori di 3 se non addirittura 2 nanometri [l’unità di misura del settore che corrisponde allo spessore di un capello]. A parte la Corea del Sud nessuno riesce a tenere il passo, neanche la Cina, che oggi è priva dell’accesso all’industria a causa delle sanzioni americane”.

A dir il vero per quanto riguarda la ricerca e progettazione (che non c’entra niente con la fase della fonderia, dell’assemblaggio e imballaggio) gli USA detengono ancora una leadership mondiale, in virtù della quale possono controllare circa la metà delle vendite globali di semiconduttori, contro il 10% della UE e il 5% della Cina. Ben 8 delle 15 più grandi aziende di semiconduttori nel mondo sono negli USA, con Intel prima per vendite annue.

Un quadro radicalmente opposto si delinea invece per quanto riguarda l’attività di fonderia, dominata effettivamente da Taiwan e dalla Corea del Sud, con rispettivamente il 23% e 26% della capacità produttiva del settore. Complessivamente in Asia orientale è concentrato circa l’80% della produzione mondiale di chip. All’interno di questa quota la Cina ricopre il 12%, con una crescita di 10 punti percentuali negli ultimi 20 anni.

La TSMC ha inoltre investito più di 20 miliardi di dollari per la costruzione, nell’area meridionale di Taiwan, di una nuova fabbrica delle dimensioni di 22 campi da calcio, capace di sviluppare le tecnologie a 3nm e 2nm, rispettivamente previste per il 2022 e il 2024.

Parallelamente, USA e UE hanno invece assistito al crollo, negli ultimi tre decenni, della loro quota nella capacità produttiva globale di semiconduttori, da quasi il 40% a rispettivamente il 12% e il 10% circa.

In particolare la UE ha perso la sfida tecnologica per almeno il prossimo decennio, poiché gli investimenti necessari sono colossali. La sola TSMC si prepara a investire 100 miliardi di dollari nel corso dei prossimi tre anni, mentre l’Europa può mettere sul piatto solo una decina di miliardi, più altrettanti di contributi da parte degli industriali. Troppo pochi.

Trump aveva indotto TSMC a costruire una fabbrica in Arizona, con un investimento di 12 miliardi di dollari, per colpire soprattutto il colosso Huawei, accusato dagli USA di collaborare con le autorità cinesi a fini spionistici. I lavori di costruzione (con 1.600 addetti e migliaia di altri nell’indotto) dovrebbe iniziare nel 2021 e la produzione di 20.000 chip al mese a 5 nanometri dovrebbe essere avviata nel 2024. L’impianto sarà la seconda fabbrica della TSMC negli USA. Nel 2017 un’altra big taiwanese, Foxconn, ha annunciato piani per costruire un impianto nel Wisconsin. Anche Intel ha già annunciato un investimento da 20 miliardi di dollari per la creazione di due nuove fabbriche di semiconduttori in Arizona, che dovrebbero iniziare la produzione nel 2024. L’Arizona dovrebbe inoltre accogliere l’impianto da 17 miliardi di dollari di Samsung Electronics. Tutte cose che nella UE ci sogniamo.

Ora Breton vorrebbe convincere i taiwanesi a investire anche in Europa, ma ha già ricevuto un rifiuto: TSMC vuole mantenere l’essenziale della produzione a Taiwan, che però è un’isola rivendicata da Pechino, e l’industria cinese, dopo l’embargo americano sui dazi, ha assolutamente bisogno di quei semiconduttori, anche perché in questo settore patisce diversi anni di ritardo. Infatti ne ha ammassato le scorte prima del blocco e sta investendo nella propria autosufficienza. Poi è venuta la pandemia che ha provocato un incremento nell’uso di materiale informatico.

Insomma ce n’è abbastanza per far scoppiare una guerra, anche perché questo settore tecnologico vale 440 miliardi di dollari di fatturato annuo, ed è in costante crescita (+7,7% previsto nel 2021). Infatti i semiconduttori sono una componente cruciale per smartphone e computer, che insieme costituiscono i 3/5 degli acquisti globali di chip, ma anche per l’industria automobilistica (10% del mercato). In campo militare, poi, sono assolutamente necessari per modellare le traiettorie di missili e droni da combattimento.

Washington mette in pericolo la sopravvivenza di Huawei, orgoglio dell’economia cinese, numero uno al mondo nei dispositivi telefonici e pioniere nella tecnologia 5G, con un giro d’affari globale di oltre 100 miliardi di euro e circa 200.000 dipendenti. E Huawei, già costretta a vendere il suo marchio di smartphone Honor per evitarne il fallimento, è solo la punta dell’iceberg di quella che è ormai una guerra aperta in campo tecnologico. Ricordiamo che un anno e mezzo fa gli USA han fatto arrestare a Vancouver la direttrice finanziaria di Huawei, nonché figlia del fondatore, con l’accusa d’aver violato le sanzioni contro l’Iran.

Pechino infatti sta già prendendo misure ritorsive: bloccherà o rallenterà le esportazioni di terre rare, la famiglia di 17 minerali usati in settori strategici, a cominciare da quello degli armamenti. Servono 435 grammi di questi minerali per fabbricare un aereo da combattimento statunitense F-35. E si può facilmente prevedere che Pechino troverà il modo per piegare Taiwan alle proprie esigenze, anche perché l’isola non può fare a meno del mercato cinese,

Ricordiamo che nel 2010, durante un periodo di tensioni, la Cina aveva già privato il Giappone delle terre rare. All’epoca ne controllava il 95% del mercato; oggi ne controlla ancora l’80%. Ma questa volta sono gli occidentali che stanno cercando di ridurre la loro dipendenza.

Rischi finanziari anche per la Cina

 Mario Lettieri*  Paolo Raimondi**

 Anche la Cina sta facendo i conti con le sue bolle finanziarie, create nei passati due decenni con la scadente applicazione del modello finanziario speculativo americano. Perciò è scesa in campo la potentissima China Banking and Insurance Regulatory Commission, l’agenzia governativa di controllo sulle attività bancarie e assicurative, attraverso il suo presidente Guo Shuqing, manager competente e uomo forte del Partito Comunista Cinese. Il problema numero uno è il rischio rappresentato dal debito corporate cinese e del crescente stock di non performing loans, i crediti inesigibili delle imprese. 

 Secondo l’International Capital Market Association, l’associazione degli investitori nel fixed income, il mercato obbligazionario cinese interno in yuan, è equivalente a circa 15.000 miliardi di dollari, il secondo al mondo dopo quello Usa. La parte strettamente relativa al debito corporate non finanziario sarebbe pari a 3.700 miliardi di dollari. Il mercato obbligazionario cinese offshore è di 752 miliardi di dollari. E’ in grande crescita e legato soprattutto al settore immobiliare.

Il 2020 è stato l’anno che ha certamente “shoccato” la Cina e i mercati internazionali per i debiti corporate interni: circa 40 fallimenti per 30 miliardi di dollari, il 14% in più rispetto al 2019. Anche 12 imprese cinesi offshore sono fallite coinvolgendo obbligazioni per 7 miliardi di dollari. Ciò sta provocando forti preoccupazioni per una possibile crisi del debito nel periodo post Covid. Infatti, nel 2021 bond per 7,1 trilioni di yuan (6,5 yuan sono equivalenti a 1 dollaro) arriveranno a scadenza sul mercato interno. Alcune delle imprese fallite sono delle controllate dallo Stato e ciò solleva dubbi anche sulla garanzia, finora certa, di salvataggi pubblici. 

Nel recente incontro con la stampa, Guo Shuqing ha dato un quadro preoccupante della situazione: “Nel 2020, il rimborso di 6,6 trilioni di yuan di prestiti è stato differito”. Per quanto riguarda gli NPL (Non Performing Loans, in italiano “crediti deteriorati”) ha detto:”Un numero considerevole di imprese potrebbe dover affrontare una riorganizzazione o liquidazione fallimentare.Pertanto, l’aumento dei crediti in sofferenza è una tendenza inevitabile.Nel 2020, abbiamo ceduto 3.02 trilioni di yuan di attività deteriorate.È possibile che i crediti in sofferenza aumentino nel 2021 e anche nel 2022.”. 

Guo Shuqing ha annunciato alcuni programmi d’intervento e illustrato i risultati già ottenuti. In primo piano vi è la riduzione dell’elevato effetto leva all’interno del sistema finanziario, che aveva visto una pericolosa crescita nel periodo 2017-19. Sarebbe in atto lo smantellamento del settore bancario ombra, la cui portata è diminuita nel 2020 di circa 20 trilioni di yuan. All’inizio dell’anno il totale era di 85 trilioni di yuan, pari all’86% del pil cinese.

La Regulatory Commission teme che alcune attività ad alto rischio dello scado banking possano ripresentarsi sotto forma di pseudo “innovazioni”. Perciò, per l’internet private banking, saranno applicate le stesse regole di adeguatezza patrimoniale e di garanzie valide per il settore bancario.

Guo ha ammesso che “nel settore immobiliare la finanziarizzazione e la tendenza a diventare una bolla sono ancora relativamente forti, anche se nel 2020 il tasso di crescita dei prestiti investiti nel real estate è sceso per la prima volta sotto quello medio dei prestiti”. E’ un pericoloso “rinoceronte grigio”, perché “molte persone comprano case non per abitarci, ma per investimenti o per speculazioni. Se in futuro il mercato dovesse scendere, potrebbero esserci grandi perdite e i prestiti non sarebbero rimborsati, mandando le banche e l’intera economia in sofferenza.”. Usa docent.

Guo, inoltre, ha spostato l’attenzione sui mercati finanziari negli Usa e in Europa che opererebbero “in contraddizione con l’economia reale”. “Il mercato finanziario dovrebbe riflettere lo stato dell’economia reale, ha detto, altrimenti sorgeranno problemi e sarà costretto alla fine ad adeguarsi. Pertanto, siamo molto preoccupati per il giorno in cui scoppierà il mercato finanziario, in particolare la bolla delle attività finanziarie estere.”.

Considerazioni corrette, che valgono anche per i comportamenti finanziari della Cina e per i rischi sistemici che stanno creando. Alla fine, in Cina o negli Usa, in Africa o in Europa, la finanza speculativa è sempre un pericolo per l’economia reale.

 *già sottosegretario all’Economia **economista

 

 

La Cina erediterà il capitalismo occidentale?

Il governo cinese respinge il “decoupling” con gli Usa e punta sempre di più sulla “autosufficienza tecnologica”.

Che significa “decoupling”? È il disaccoppiamento tra le due maggiori economie del mondo. Già adesso le imprese statunitensi stanno pensando di rilocalizzare la produzione strategica verso altri Paesi. L’esempio più noto è quello della produzione dei prossimi iPhone spostata in India, ma sono molte le liste che includono più di 50 grandi aziende americane che hanno avviato un processo di trasloco.

Gli USA han paura della capacità economica della Cina e non hanno più intenzione di trasferire le loro attività in questo paese che pur offre grandi vantaggi sul costo del lavoro. Ora temono di perdere la guerra commerciale.

Di qui la decisione del governo cinese di sganciarsi dalla tecnologia americana. Si punta soprattutto su Hong Kong, per farla diventare un centro internazionale di innovazione e tecnologia, che dovrà servire anche per la Nuova via della seta.

Ecco cosa significa “socialismo con caratteristiche cinesi”, cioè capitalismo sul piano sociale, sempre più autonomo sul piano tecnologico, e dittatura su quello politico, ove il premier è un presidente a vita e otto partiti politici legalmente riconosciuti seguono la direzione del Partito Comunista Cinese. Sembra che l’unico problema rimasto insoluto in Cina sia il divario enorme tra le ricche città costiere e le sottosviluppate aree interne.

Intanto questo è stato l’unico Paese al mondo ad aver risentito pochissimo – o addirittura ad avere tratto beneficio – della tragedia del Covid.

Il Pil sfiora il 5% e la disoccupazione è in forte calo.

Il destino di Taiwan è segnato?

Su “Internazionale” un bell’articolo di Pierre Haski sui rapporti tra Cina e USA (21 ottobre 2020).

Questa settimana la Cina festeggia il settantesimo anniversario del suo ingresso nella guerra di Corea, nel 1950. Per Pechino la volontà di onorare i vecchi combattenti si aggiunge a quella di inviare un messaggio bellicoso a due potenziali avversari, gli Stati Uniti e Taiwan.

Nella guerra di Corea, tra il 1950 e il 1953, si affrontarono per la prima volta nel XX sec. gli eserciti cinese e americano.

Il messaggio dell’attuale governo è piuttosto esplicito: “abbiamo combattuto quando eravamo deboli e poveri, dunque non esiteremo a combattere ancora oggi”.

Gli eventi del 1950 hanno infatti assunto le forme del mito. All’epoca, l’esercito americano del generale MacArthur aveva salvato l’esercito sudcoreano dalla sconfitta coi comunisti del nord, e avanzava verso la frontiera cinese.

Ma nella notte del 19 ottobre 1950 Mao diede l’ordine a 250mila soldati cinesi di attraversare le acque gelate del fiume Yalu, prendendo di sorpresa le truppe statunitensi. Fu una carneficina, anche se i cinesi erano equipaggiati nettamente peggio degli americani. Mao aveva puntato sui numeri e aveva vinto, pur con pesanti perdite, compresa quella di suo figlio.

Nelle settimane successive gli statunitensi furono costretti ad arretrare fino all’attuale linea di demarcazione tra le due Coree. Per MacArthur fu una mezza sconfitta. Furioso, il vincitore della guerra nel Pacifico chiese a Washington l’autorizzazione a sganciare una bomba atomica sulla Cina. Il permesso fu negato e il generale fu sollevato dall’incarico.

Ora la Cina potrebbe approfittare della confusione dovuta alle elezioni negli Stati Uniti per lanciarsi all’assalto di Taiwan, anche se il rapporto di forze è ancora largamente favorevole agli americani.

Ormai da settimane Pechino aumenta la pressione sull’isola, rivendicata come propria sin dal 1949, in cui si affermò la rivoluzione di Mao.

La Repubblica Democratica Cinese di Taiwan è semipresidenziale, monocamerale e pluripartitica con oltre 22 milioni di abitanti. È dotata di un governo democraticamente eletto, di un esercito e di tutti i crismi di uno Stato indipendente, fatta eccezione per il riconoscimento internazionale, in quanto vari Paesi non la riconoscono, mentre altri non riconoscono la Cina: Swaziland, Isole Marshall, Nauru, Palau, Tuvalu, Belize, Guatemala, Haiti, Honduras, Nicaragua, Saint Kitts e Nevis, Saint Vincent e Grenadine, Santa Lucia, Paraguay.

Da quando Taiwan perse il suo seggio alle Nazioni Unite in qualità di rappresentante della “Cina” nel 1971 (sostituita dalla Repubblica Popolare Cinese), la maggior parte degli Stati del mondo hanno spostato il loro riconoscimento diplomatico alla RPC, ammettendo che quest’ultima è la sola rappresentante legittima di tutta la Cina, anche se molti evitano deliberatamente di affermare chiaramente quali territori debba includere la Cina comunista.

Il che non impedisce a Taiwan di mantenere relazioni diplomatiche ufficiali con molti Stati sovrani.

La cosa curiosa è che, con la rielezione del KMT (Partito Nazionalista Cinese) al potere esecutivo nel 2008, il governo di Taiwan afferma che “la Cina continentale è parte del territorio della Repubblica Democratica Cinese”. È curiosa perché le domande della RDC di ammissione alle Nazioni Unite sono state respinte per 16 volte fin dai primi anni 1990.

A Sochi il primo summit economico tra Russia e Africa

A Sochi il primo summit economico tra Russia e Africa

Mario Lettieri*  Paolo Raimondi**

Dopo la Cina, anche la Russia ha organizzato alla fine di ottobre a Sochi il primo summit economico con tutti i 54 paesi dell’Africa e le sue più importanti organizzazioni regionali. Nel corso di due giorni di discussioni e di intensi negoziati tra le varie delegazioni e i ben 40 capi di Stato, sono stati siglati più di 500 importanti documenti, tra accordi, memorandum e contratti veri e propri per un ammontare di oltre 20 miliardi di euro.

Attualmente l’interscambio commerciale tra Russia e Africa è di circa 20 miliardi di dollari, con un aumento del 17% nell’ultimo anno. Ancora molto lontano dai 170 miliardi dei commerci tra Cina e il continente africano. Il presidente Putin, però, ha annunciato l’intenzione di raddoppiare gli scambi entro 4-5 anni. Ha ricordato che in passato la Russia ha cancellato più di 20 miliardi di dollari di debiti che i paesi africani avevano accumulato durante il periodo sovietico. “Non solo per una ragione di generosità, ma anche come una manifestazione di pragmatismo, in quanto molti paesi africani non erano in grado di pagare gli interessi sui prestiti”, ha ricordato, e anche per dare inizio ad una nuova fase di fattiva cooperazione economica e politica basata sul principio dello “scambio del debito con lo sviluppo”.

A differenza della Cina, che è in grado di offrire enormi prestiti a condizioni favorevoli in cambio, però, dell’accesso alle materie prime africane e alla costruzione e gestione delle grandi infrastrutture, come ferrovie, strade, porti e dighe, la Russia non ha grande bisogno di quelle materie prime poiché anch’essa ne possiede in grande abbondanza. Ciò vale anche per l’energia e le tante ambite “terre rare”, i materiali di importanza strategica per i delicati settori militari, delle comunicazioni e delle tecnologie più avanzate.

Mosca intende rafforzare e valorizzare soprattutto i legami scientifici e culturali con il continente che, secondo le valutazioni di molti, promette di diventare un nuovo centro di opportunità e crescita dell’economia mondiale. Cosa che, purtroppo, spesso l’Europa preferisce ignorare.

Una vecchia analisi dei rapporti in essere vorrebbe la Russia semplicemente come un grande fornitore di armi. In verità, molti armamenti provengono ancora da Mosca e personale qualificato riceve un training militare in Russia, ma la Russia è anche tra i primi 10 fornitori di cibo al mercato africano.

Ci sembra che l’intenzione russa sia strategica più che economica. S’intende creare un nuovo meccanismo per il dialogo e la partnership tra Russia e Africa, anche nell’ottica di un ordine politico internazionale multipolare. Quello di Sochi è stato il primo forum dei capi di Stato che dovrebbe ripetersi ogni tre anni, preparato con più frequenti incontri a livello ministeriale secondo le tematiche congiuntamente decise.

Putin, ovviamente, ha ricordato il sostegno russo alla lotta dei popoli africani contro il colonialismo, il razzismo e l’apartheid e ha rinnovato l’impegno per il rispetto e la difesa della loro indipendenza e della loro sovranità. Al riguardo oggi, oltre alla partecipazione nella costruzione delle infrastrutture, Mosca intende continuare l’impegno per il training professionale e scientifico di migliaia di giovani africani presso le università russe, dove già studiano 17.000 studenti africani, ma anche presso i nuovi centri di cultura e di qualificazione professionale che la Russia intende creare in molti paesi dell’Africa.

E’ importante notare le nuove aree di cooperazione discusse a Sochi: oltre alle infrastrutture, le risorse energetiche rinnovabili e il nucleare per scopi pacifici, le tecnologie digitali, la sanità, l’information security, e le nuove frontiere dell’ingegneria.

Un aspetto non secondario del Forum è stato l’impegno di favorire il rapporto tra l’Unione Economica Eurasiatica e gli stati africani, soprattutto con le sue organizzazioni, come l’Unione Africana. Ciò è ancora più importante se si considera che soltanto pochi mesi fa è stato siglato a Niamey, in Niger, l’accordo per un mercato africano libero dai dazi.

Il presidente russo naturalmente ha polemizzato con “certi stati occidentali che stanno esercitando pressioni, intimidazioni e ricatti” nei confronti dell’Africa, dichiarando di volersi opporre a qualsiasi “gioco geopolitico” che coinvolga il continente.

Come riportato nella dichiarazione finale, il Forum si è anche espressamente impegnato a “promuovere un rapporto più stretto e profondo di cooperazione e di partnership tra i paesi BRICS e l’Africa per rafforzare i meccanismi collettivi della governance globale all’interno di un sistema multipolare di relazioni internazionali”.

Tutto ciò ci induce a chiedere:”Quando l’Unione europea, come istituzione, promuoverà incontri regolari con l’Unione Africana e tutti i capi di Stato dell’Africa per programmare insieme una continua e proficua iniziativa di cooperazione e di sviluppo tra i due continenti?” L’alternativa sono forme striscianti di neo colonialismo, come recentemente è stato stigmatizzato anche dal Presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte.

Con rare eccezioni finora, purtroppo, la Francia preferisce un rapporto diretto e solitario con i paesi francofoni, l’Inghilterra fa lo steso con quelli anglofoni e gli altri paesi europei, come l’Italia, cercano di infilarsi nelle “fessure” lasciate ancora aperte e inserire le proprie imprese nei vari progetti di sviluppo.

Spesso, però, tale comportamento crea soltanto tensioni e liti tra gli europei che minano ancora di più la credibilità dell’Unione europea.

*già sottosegretario all’Economia **economista

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L’Inghilterra molla l’Europa e per punire la Cina propone una moneta internazionale virtuale

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Alla recente riunione di banchieri a Jackson Hole il governatore della Bank of England, Mark Carney, ha proposto di sostituire il dollaro, come moneta di riferimento negli scambi commerciali e nelle riserve internazionali, con la Synthetic  Hegemonic Currency (SHC), una nuova valuta, non più fisica ma digitale.

Un’idea temeraria, come lui stesso ammette. Secondo noi, si tratta di una proposta che potrebbe rendere ancor più instabile il già precario sistema monetario internazionale.

Il governatore centrale inglese prende come esempio la moneta digitate Libra, recentemente proposta da facebook.com, che dovrebbe diventare il nuovo strumento di pagamento per le transazioni commerciali fatte sempre più online. Libra dovrebbe essere la nuova moneta privata che sostituirebbe le valute nazionali finora utilizzate, a cominciare dal dollaro. Sarebbe utilizzata da acquirenti e altri clienti privati che operano con strumenti telematici.

La SHC, invece, dovrebbe essere emessa dall’autorità pubblica, cioè dalle banche centrali attraverso una loro rete di monete digitali. L’intento britannico sembra essere soprattutto volto a opporsi alla tendenza egemonica dello yuan cinese che, come Carney afferma, dal 2018 avrebbe già superato la sterlina nei contratti petroliferi. Naturalmente la nuova moneta digitale ridurrebbe anche l’influenza dominante del dollaro stesso.

Un mondo con due monete competitive di riserva, afferma il governatore, renderebbe instabile l’intero sistema monetario mondiale. La Grande Depressione del ’29, aggravata dalle tensioni tra la sterlina e il dollaro, dovrebbe essere d’insegnamento.

La nota di Carney rivela che la Bank of England è consapevole di ciò che avviene a livello globale. Del resto egli sottolinea che “la City è il principale centro finanziario internazionale”.

La conclusione della Bank of England è sicuramente azzardata. Le sue analisi di fondo, però, meritano una certa considerazione. Il governatore afferma che la globalizzazione ha accresciuto l’impatto e i riverberi degli eventi internazionali sulle varie economie. Di conseguenza, il sistema del tasso d’inflazione flessibile e dei tassi d’interesse fluttuanti, adottato dalle banche centrali, non regge più.

Ciò ha determinato destabilizzanti asimmetrie nel sistema monetario internazionale. Infatti, mentre l’economia mondiale è passata attraverso processi di aggiustamenti, il ruolo del dollaro, invece, è rimasto uguale a quello che aveva quando il sistema di Bretton Woods nel 1971 collassò. E’ innegabile il fatto che le decisioni monetarie della Federal Reserve stiano producendo effetti negativi in molti paesi, anche in quelli che hanno pochi rapporti economici con gli Usa.

Egli afferma giustamente che “un sistema unipolare non è adatto per un mondo multipolare”. Ricerche ufficiali dimostrano come una rivalutazione del dollaro dell’1% comporterebbe una contrazione dello 0,6% nei volumi di commercio nel resto del mondo.

Si ricordi che metà delle transazioni commerciali mondiali è effettuata ancora in dollari! Ma la quota delle importazioni Usa è solo un quinto del totale dell’import mondiale. Perciò, a nostro avviso, anche la riforma delle regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), è sempre più necessaria.

Il dollaro, in quanto moneta dominante del commercio mondiale, è anche la valuta principale di riserva e di rifermento per la maggior parte dei titoli emessi nei paesi emergenti. Per circa due terzi del totale. Ciò ha inevitabilmente indotto queste economie a creare delle misure di sicurezza, aumentando le loro riserve in dollari e contribuendo così a creare quello che da tempo è chiamato “carenza mondiale di risparmi”. Si stima che le riserve monetarie dei paesi emergenti potrebbero raddoppiare nei prossimi dieci anni, con un aumento di ben 9.000 miliardi di dollari.

Noi riteniamo che la nuova moneta digitale SHC non sia la soluzione giusta. Essa, di fatto, annullerebbe progressivamente il ruolo, anche di controllo, delle banche centrali e degli stessi governi.

Una questione, affatto secondaria, riguarda la sicurezza e le garanzie monetarie: chi sarebbe il “prestatore di ultima istanza”? Finora, e lo abbiamo visto nella Grande Crisi anche se con ritardi e lacune, il garante finale è stato la banca centrale dei vari paesi coinvolti.

Come abbiamo più volte scritto in passato, il dollaro da solo non è oggettivamente più in grado di sostenere l’intero sistema monetario, finanziario, economico e commerciale mondiale. Riteniamo perciò che sia giunto il tempo per la creazione di un sistema monetario multipolare basato su un paniere di monete importanti e per l’attivazione di una nuova “moneta di conto” simile ai Diritti Speciali di Prelievo.

*già sottosegretario all’Economia

**economista

 

Il boomerang cinese di Trump: nasce un sistema monetario parallelo in yuan?

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

A ogni azione di solito corrisponde una reazione che, a volte, sorprende chi ha iniziato il contenzioso. E’ il caso della politica dei dazi e delle sanzioni di Trump: stanno determinando le condizioni per la nascita di un sistema monetario parallelo basato sullo yuan cinese utilizzabile sia per gli scambi commerciali sia come riserva monetaria. Soprattutto in Asia. Anche le sanzioni americane nei confronti di chi importa petrolio dall’Iran, di fatto, spigono in tale direzione. La Cina è il principale importatore di energia dall’Iran e continuerà a farlo. Il problema, di conseguenza, sorgerà al momento del pagamento in dollari.

Ogni anno la Cina importa dal resto del mondo petrolio per 250 miliardi di dollari e altri 150 miliardi di merci, quali l‘acciaio, il rame, il carbone e la soia. Tutte queste commodity finora sono valutate e commerciate in campo internazionale in dollari. Perciò anche la Cina li deve pagare con la valuta americana. Ciò dà alle autorità Usa un ampio margine di “manovra” su cosa la Cina compra e da chi. In verità, negli anni passati gli Usa non hanno mai nascosto l’intenzione e la capacità di usare questa leva per condizionare certi sviluppi in un’ottica geopolitica e geoeconomica.

Ad esempio, hanno imposto delle forti sanzioni pecuniarie contro alcune banche non americane, come la Standard Chartered inglese e la BNP Parisbas francese, per aver fatto in passato delle operazioni finanziarie in dollari con le controparti iraniane, anche se le suddette banche non avevano violato alcuna regola dei Paesi in cui gli accordi erano stati stipulati. Lo stesso potrebbe oggi succedere per quelle banche, cinesi oppure no, che dovessero giocare un ruolo nei pagamenti in dollari per saldare contratti d’importazione del petrolio iraniano. Pensare di costringere gli importatori di petrolio iraniano, tra cui la Cina, il Giappone, l’India e la Corea del Sud, a cambiare il Paese di rifornimento, ad esempio approvvigionandosi dall’Arabia Saudita, alleata di Washington, potrebbe rivelarsi un grave errore di calcolo.

 Di fronte a questa situazione sta emergendo una serie di nuovi strumenti valutari internazionali alternativi al dollaro. Da un po’ di tempo Pechino lavora in questa direzione e si prevede per lo yuan un ruolo centrale.

 Prima di tutto, per incoraggiare l’utilizzo della sua valuta nazionale nei commerci, il governo cinese sta agevolando l’accesso ai finanziamenti in yuan attraverso organismi offshore con base a Hong Kong. In secondo luogo, per convincere chi esporta petrolio in Cina ad accettare pagamenti in yuan, Pechino intende dimostrare che i Paesi produttori potrebbero utilizzare gli yuan non solo per l’acquisto di beni cinesi. Pechino, perciò, programma di offrire prodotti finanziari con un valore sicuro e stabile, facilmente monetizzabili, che potrebbero in futuro diventare, addirittura, un’alternativa ai bond del Tesoro americano.

La Cina sta offrendo contratti future sul petrolio e sull’oro che, tra l’altro, permetterebbero agli interessati di creare una garanzia sul prezzo del petrolio ma anche di poterli convertire in oro.

Il processo sembra lento ma è irreversibile. La Cina ha già convinto il Qatar ad accettare lo yuan per il pagamento di parte delle sue esportazioni di petrolio. Inoltre, come conseguenza dell’importante accordo pluriennale di acquisto di petrolio e gas russo per 400 miliardi di dollari da parte della Cina, lo scorso anno Mosca ha cambiato l’equivalente di 50 miliardi di dollari delle sue riserve monetarie  in yuan.

Pechino ha già siglato accordi di swap monetari con più di 30 Paesi, tra cui il Giappone e la Russia, che permettono di utilizzare per i commerci lo yuan, bypassando il dollaro. Si ricordi, ad esempio, che molti progetti di cooperazione tra Brasile e Cina sono già finanziati e regolati in yuan.

Proprio alla vigilia del G20 Russia e Cina hanno sottoscritto un accordo per l’utilizzo di strumenti finanziari in rubli e in yuan fino a coprire nei prossimi anni il 50% di tutti i loro commerci bilaterali. E’ da notare che allo stesso tempo i due paesi stanno espandendo enormemente le loro riserve in oro.

La stessa realizzazione della “Belt and Road Initiative, la Nuova Via della Seta, e il ruolo di finanziamento dell’ Asian Infrastucture Investment Bank (AIIB), serviranno per l’internazionalizzazione dello yuan. Molti progetti infrastrutturali con i paesi asiatici coinvolti sono già stipulati nella valuta cinese.

Al riguardo è molto interessante la lettura dell’ultimo bollettino della Banca Mondiale sull’economia dei paesi dell’Africa sub-sahariana, dove la presenza e la cooperazione della Cina è visibilmente molto elevata. La composizione per valuta dell’intero ammontare del debito pubblico e privato di quella regione sarebbe così suddivisa: soltanto il 5,7% in euro, il 62,4% in dollari e il 25% in altre monete. E in quest’ultima categoria lo yuan occupa la parte preponderante.

I suddetti processi di portata globale avranno inevitabilmente effetti anche sull’Europa, che è chiamata a giocare un ruolo attivo e non subalterno ad altri interessi.

*già sottosegretario all’Economia **economista