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Macchinismo, natura e guerre

Se ci sono soltanto macchine avanzate che possono sostituirsi agli operai, che possono cioè fare a meno di molti operai manuali, pur non potendo fare a meno di operai intellettuali, in grado di far lavorare queste macchine attraverso un computer, il capitalismo non funziona. Un capitalismo del genere produce merci che costano di più rispetto a quel capitalismo che ha macchine meno avanzate ma più operai da sfruttare.

Marx aveva già individuato che esiste una caduta tendenziale del saggio di profitto dovuta al rinnovo periodico del capitale fisso. L’impresa guadagna all’inizio, appena ha introdotto le nuove macchine, e a condizione di poter vendere in maniera costante, ma poi le macchine vengono acquisite da altre aziende concorrenti e le stesse macchine diventano col tempo obsolete, proprio perché la produzione ha ritmi frenetici nel sistema capitalistico.

Gli investimenti per ristrutturare (resi sempre più necessari dalla competizione globale) non sortiscono gli effetti sperati, anche perché: 1. gli operai dei paesi occidentali non possono essere pagati come quelli dei paesi che iniziano adesso a industrializzarsi; 2. se, in forza dell’innovazione tecnologica, vi sono meno operai che producono e che quindi acquistano meno merci, queste rischiano di restare invendute.

La conseguenza inevitabile è, paradossalmente, che quanto più si rinnova il capitale fisso, tanto più si rischia la sovrapproduzione. Alla faccia della cosiddetta “qualità totale”. Se non fosse crollato il socialismo reale, sarebbe crollato il capitalismo, ovvero sarebbe scoppiata una nuova guerra mondiale per ripristinare le regole dell’imperialismo delle due guerre precedenti.

Tuttavia è impossibile, in presenza di una competizione mondiale, non innovare il macchinario. Se il capitale non si autovalorizza costantemente, s’impoverisce: non riesce a rimanere invariato, proprio perché esiste competizione. L’alternativa, se non si vuole delocalizzare l’impresa, è quella di chiuderla, investendo finanziariamente i propri capitali.

Volendo crescere a tutti i costi, il capitale preferisce il settore finanziario, che è meno esposto ai rischi della competizione, meno stressato dall’esigenze di rinnovare gli impianti e di collocare le merci, di contrattare con la forza-lavoro. Nei paesi avanzati la ricchezza tende a smaterializzarsi completamente.

I paesi che una volta definivamo del “Terzo Mondo” ci stanno facendo capire, a nostre spese, che, sotto il capitalismo, la capacità di fare profitto non dipende affatto dal grado di perfezione delle macchine. Quando gli imprenditori occidentali dicono che, per competere sulla scena mondiale, dobbiamo produrre cose di più alta qualità, lo dicono solo perché in questa maniera possono ricattare i loro lavoratori, ma essi sanno bene che lo sviluppo ineguale del capitalismo permette loro di ottenere più alti profitti anche con macchinari obsoleti, a condizione che la manodopera sia molto meno costosa.

Al capitale interessa vendere, non tanto produrre cose di alta qualità, e per vendere ci vogliono ampi mercati. Quelli occidentali sono mercati saturi, anche se con la pubblicità si fa di tutto per indurre l’acquirente a cambiare elettrodomestici, mezzi di trasporto e mezzi di comunicazione con molta frequenza.

Quando si delocalizza in un paese che fino a ieri era povero perché colonizzato o perché comunista, dove i salari mensili sono, rispetto ai nostri, incredibilmente bassi, non ha senso produrre cose di alta qualità, che nessuno, peraltro, sarebbe in grado di acquistare. E’ sufficiente produrre cose di media qualità, alla portata di un mercato significativo, che escluda soprattutto il rischio della sovrapproduzione, vera bestia nera del capitale.

E’ noto che l’imprenditore usa la macchina contro l’operaio, per poter avere meno operai possibili, ma poi la macchina si rivolta contro lo stesso imprenditore, poiché lo obbliga a vendere più di quanto vendeva prima. Per poter sopravvivere sfruttandola al massimo, il capitalista deve porre condizioni ricattatorie ai propri operai o minacciare di delocalizzare gli impianti in aree geografiche dove sicuramente non avrebbe problemi sindacali con la manodopera, anzi, avrebbe incentivi fiscali da parte degli Stati che vogliono modernizzarsi in senso borghese.

In occidente il capitalismo è destinato a morire, a meno che i lavoratori non vengano ridotti in schiavitù (pur conservando le formali libertà giuridiche), non venga smantellato lo Stato sociale (e quindi privatizzata la scuola, la sanità, la previdenza ecc.) e non vi sia concorrenza tra imprenditori. Tutte condizioni che non hanno senso sotto il capitalismo cosiddetto “avanzato”, che è quello delle società uscite dalla seconda guerra mondiale.

Condizioni del genere potrebbero verificarsi se invece di società “democratiche” avessimo società “autoritarie”, dittatoriali, che facessero esclusivamente gli interessi degli imprenditori, i quali non avrebbero bisogno di competere tra loro, in quanto sarebbero protetti dalle istituzioni. Ma uno Stato del genere non può esistere in un paese occidentale (Europa, Usa, Canada…), dove una qualunque istituzione viene sempre vista in funzione dell’interesse privato dell’imprenditore.

Da noi gli Stati sono in funzione dei singoli imprenditori privati, materialmente (nel senso che ricevono benefit da parte degli Stati) e anche come logica di sistema (nel senso che lo Stato, pur vigendo l’idea formale dell’equidistanza delle istituzioni rispetto agli interessi in gioco, non si pone mai contro gli imprenditori). Sono semmai i lavoratori che cercano di strappare diritti sia allo Stato che all’imprenditoria privata.

Il capitalismo euroamericano deve per forza lasciare il testimone ad altre nazioni, dove la politica abbia un peso maggiore rispetto a quello che ha da noi, e dove l’economia produttiva abbia la sua ragion d’essere e la ricchezza non sia solo finanziaria.

I grandi Stati in grado di ereditare il testimone sono la Russia, per l’enorme quantità delle sue risorse, la Cina e l’India, per l’enorme quantità di manodopera disponibile a basso costo. Di questi Stati l’unico in grado di ereditare velocemente la formale democrazia borghese è la Russia, che ha radici cristiane e che già nel passato si lasciava influenzare dalla cultura europea.

Il problema è che la Russia ha un territorio assolutamente sproporzionato rispetto all’entità della propria popolazione. Quindi inevitabilmente il futuro, nell’ambito del capitalismo, non è russo ma cinese: sarà la Cina ad appropriarsi delle immense ricchezze della Siberia. Solo che la Cina deve ancora imparare l’abc della democrazia formale borghese. Anzi, sotto questo aspetto, tra i paesi asiatici è molto più avanti l’India, che però ancora non ha risolto il problema delle caste e che resta ancora troppo “religiosa” per poter diventare pienamente “borghese”.

Il capitalismo, così com’è, può solo peggiorare, può soltanto trasformarsi in una dittatura poliziesca, in cui il ruolo di un partito di governo molto disciplinato, di uno Stato centralizzato, di un numero spropositato di militari, di un vasto consenso sociale faccia la differenza tra un vecchio Stato capitalista e uno nuovo. Difficile pensare che un ruolo del genere possa essere giocato, nei secoli a venire, dall’Europa, dalla Russia o dagli Stati Uniti. Nessuno di loro possiede tutte queste cose messe insieme.

L’alternativa a tutto ciò è la costruzione di una nuova civiltà, che potrebbe mettere radici adesso, ipotizzando il proprio sviluppo nell’arco dei prossimi cinquecento anni. Una civiltà che anzitutto deve superare il concetto di “macchinismo”. L’uomo infatti nasce “artigiano” non “operaio”, anche perché se la macchina lavora per lui, lui perde interesse al lavoro, anche nel caso in cui la macchina sia di sua proprietà.

L’operaio non è “alienato” solo perché il suo lavoro è “separato” dai suoi mezzi di produzione e quindi dai beni che produce, che giuridicamente non gli appartengono, ma è “alienato” anche perché ha a che fare con una macchina che lo disumanizza, che rende il lavoro monotono e ripetitivo.

Un qualunque oggetto prodotto deve poter essere ristrutturato per scopi diversi. Oggi questo è impossibile. Gli oggetti sono così complessi che per essere riutilizzati vanno prima completamente smontati, dopodiché si riutilizzano pochissimi singoli pezzi per lo stesso scopo per cui erano nati. Di un’auto si fa un cubo pressato: non la si manda neppure in fonderia per recuperare il metallo usato. Spesso non conviene neppure disassemblare, in quanto il costo del lavoro è superiore al valore dei pezzi da riciclare.

Oggi, quando un oggetto non serve più (si pensi p.es. a una semplice penna a sfera), perché usato da molto tempo, perché ha finito il suo ciclo produttivo, perché superato dal progresso, perché non più funzionante come all’inizio, ecc., noi non cerchiamo di ripararlo, di sostituire quel pezzo che gli permette ancora all’oggetto di funzionare, ma semplicemente lo buttiamo, inquinando irreparabilmente l’ambiente. Così ci è stato insegnato: noi anzitutto dobbiamo essere “consumatori”. Un qualunque elettrodomestico non può durare più di dieci anni: lo sappiamo sin dal momento in cui lo acquistiamo.

La nostra civiltà della produzione illimitata di oggetti tecnologici sta diventando un’enorme civiltà di rifiuti, i cui costi di smaltimento o di riciclaggio sono superiori al loro stesso valore.

Ecco perché una civiltà davvero democratica dovrà limitarsi a produrre soltanto quegli oggetti che abbiamo un impatto minimo, irrisorio, sulla natura. La trasformazione delle risorse naturali ha un limite oltre il quale non è possibile andare, ed è appunto quello della riproducibilità della stessa natura, che va garantita sopra ogni cosa.

Senza inversione di rotta ci attende solo la desertificazione, anche in assenza di guerre mondiali. E in ogni caso le guerre diventano inevitabili quando nei periodi di pace non s’intravvedono i modi per risolvere i problemi sociali e ambientali. Le guerre vengono fatte proprio quando si pensa ch’esse possano costituire una soluzione estrema.

Per una transizione ad altro

Perché uno diventa “borghese”? Perché si dà così tanta importanza al denaro? Sembra una domanda banale, eppure se consideriamo che le antiche civiltà mediterranee, prima di entrare nella fase medievale, erano state caratterizzate per almeno duemila anni da una forte presenza di scambi commerciali, si rimane stupefatti al vedere che le tribù cosiddette “barbariche”, provenienti da est, non proseguirono affatto questo stile di vita, se non dopo altri cinquecento anni di contatto con ciò ch’era rimasto di quelle civiltà.

Soltanto verso il Mille gli ex-barbari, ora perfettamente latinizzati e cattolicizzati, cominciarono a diventare mercanti. E ci son voluti altri cinquecento anni prima che i commerci potessero diventare un sistema capitalistico vero e proprio, che viene fatto iniziare appunto nel XVI secolo. E ci sono voluti altri cinquecento anni prima che questo sistema s’imponesse in tutto il mondo, senza incontrare ostacoli insormontabili. Infatti tutti i tentativi compiuti per arginare questo fiume in piena sono clamorosamente falliti. Migliaia e migliaia di anni ci sono quindi voluti per rendere naturale una figura sociale che di naturale non ha nulla: il borghese.

Una figura che ha creato imponenti apparati statali, burocratici, giudiziari, parlamentari, polizieschi e militari per difendere il proprio esclusivo interesse, fatto passare per un “bene comune”. Una figura che ha saputo sostituire qualunque valore umano e religioso con un valore materiale avente funzione di equivalente universale: il denaro. Una figura che è stata capace di far passare per “democratico” uno stile di vita basato sullo sfruttamento del lavoro altrui.

Com’è stato possibile che una figura del genere, che ha letteralmente sconvolto i rapporti umani e naturali, trasformando ogni cosa in una sorta di compravendita, non abbia incontrato, sul suo cammino, un’opposizione che la obbligasse a invertire la marcia? Che cosa ha reso gli uomini così ciechi da non far accorgere loro che anche il più piccolo cedimento nei confronti di questa mentalità avrebbe avuto conseguenze letali per la loro stessa sopravvivenza?

Lo schiavismo romano venne abbattuto da forze che provenivano, seppur in forma disgregata, da ambienti clanico-tribali. Ma dov’è oggi la forza in grado di abbattere lo schiavismo salariato? La mentalità borghese ha fatto così breccia nell’umanità che persino l’ideologia che per prima chiese l’abolizione della proprietà privata, e cioè il socialismo, non è riuscita a restare coerente con se stessa. Per quale motivo qualunque azione venga compiuta contro il capitale finisce col tradire i presupposti di partenza?

Qui le ragioni sono due:

– la prima è che manca ancora una vera alternativa laica e umanistica al cristianesimo;
– la seconda è che manca ancora una definizione autenticamente “democratica” del socialismo.

L’affronto di questi due aspetti o procede in maniera parallela, oppure rischia di non approdare a nulla di davvero significativo per una transizione ad altro. Ma se è così, le premesse per affrontarli non possono che essere due:

– sviluppare al massimo la libertà di coscienza;
– garantire al massimo la gestione collettiva delle risorse di un determinato territorio.

Se non si è padroni del proprio territorio, non si è padroni della propria coscienza. Se non si usa la propria coscienza per impadronirsi del proprio territorio, non si è padroni di nulla.

Qual è il vero significato del lavoro?

Cosa vuol dire “lavorare”? Un commerciante che acquista un prodotto da un agricoltore e lo rivende sul mercato, è un “lavoratore”? Se l’acquirente andasse direttamente dal produttore, sentiremmo la mancanza di un “rivenditore”?

Nel Medioevo consideravano i mercanti degli imbroglioni, di cui sicuramente era meglio non fidarsi: si sapeva infatti che speculavano di molto su quanto vendevano, approfittando del fatto che l’acquirente non poteva conoscere il prezzo d’origine della merce, quello che lo stesso mercante, andando in oriente, aveva pagato per ottenerla.

Lavorare infatti non può significare “rivendere”, a meno che chi compra non ne abbia una necessità vitale. Non a caso nel Medioevo vigeva il baratto: lo scambio delle cose presupponeva che entrambe le parti conoscessero il tempo e i mezzi impiegati per produrle, la fatica occorsa ecc. Si barattavano cose reciprocamente prodotte o trasformate. La moneta, negli scambi, veniva usata dalle persone facoltose e solo per merci rare e preziose.

Il mercante ovviamente si giustificava dicendo che il suo era un “lavoro” importante, in quanto doveva viaggiare molto, avere molte conoscenze, rischiare beni personali ecc.

Tuttavia era anche una sua scelta: nessuno ve lo obbligava. In campagna le unità produttive erano del tutto autosufficienti, e chiunque avrebbe potuto pensare che quando un contadino si trasformava in mercante, lo faceva perché detestava il servaggio o perché voleva arricchirsi a spese altrui.

Nel Medioevo i lavori fondamentali erano quelli agricoli e artigianali; persino la caccia e la pesca e la raccolta di radici bacche erbe miele selvatico, ch’era il lavoro fondamentale nel Paleolitico, venivano praticate nei tempi morti dell’agricoltura o, la sola caccia, dai “signori” come passatempo.

Nel Medioevo il lavoro era contrapposto all’ozio dei possidenti terrieri, come il servaggio alla rendita. Gli agrari vivevano approfittando del fatto che i loro avi, in un lontano passato, avevano usato la forza militare per impadronirsi di determinati territori: era la terra il simbolo della ricchezza. Soltanto dopo aver conquistato questi territori, costruirono le mitologie delle ascendenze aristocratiche, elaborarono la legge del maggiorasco ecc., proprio allo scopo d’impedire che i patrimoni si frantumassero o finissero in mani sbagliate.

La borghesia mercantile nacque per reagire proprio a una situazione bloccata, in cui era praticamente impossibile arricchirsi seguendo le vie legali. O si restava servi della gleba tutta la vita o si doveva cercare fortuna in maniera non convenzionale (a meno che uno non accettasse la carriera ecclesiastica). E quando la fortuna, coi commerci, veniva fatta, il borghese doveva poi convincere il contadino a lavorare per lui, non come contadino, ovviamente, ma come artigiano, o meglio, come operaio salariato. E a quel tempo il modo più veloce d’arricchirsi, con un’impresa produttiva, era quello di dedicarsi al tessile.

Quando il contadino scinde il suo lavoro in due mansioni diverse, agricola e artigianale, può anche nascere la città: qui infatti possono trasferirsi gli operai che servono alla borghesia per arricchirsi (possono abbandonare il feudo e respirare l’aria “libera” della città).

Gli stessi artigiani possono diventare imprenditori di loro stessi, con alle dipendenze molti garzoni o apprendisti o lavoranti che non hanno mezzi sufficienti per mettersi in proprio. Gli artigiani fanno presto ad arricchirsi e a diventare una casta, specie quando il frutto del lavoro dipende da conoscenze specializzate, che pochi possono avere.

L’edificazione di una città non comportava la libertà per tutti ma solo l’illusione d’averla: di fatto era libero solo chi disponeva già di capitali e voleva aumentarli, oppure disponeva di terre i cui prodotti voleva cominciare a vendere proprio per soddisfare una domanda proveniente dalle città (p.es. la lana, che comportò la trasformazione di molti agricoltori in pochi e semplici pastori).

Naturalmente non mancava chi andava in città sperando di emanciparsi dalla condizione servile del passato, propria o dei propri parenti. E per riuscirvi aveva bisogno di dar fondo a tutte le proprie risorse, intellettuali, comportamentali, comunicative, psicologiche… Si trattava soprattutto di modificare la propria passata mentalità.

Il borghese infatti rappresenta la persona astuta, senza tanti scrupoli, in grado facilmente di simulare e dissimulare, sostanzialmente atea, anche se formalmente religiosa, attaccatissima al denaro e disposta a vendere l’anima pur di accumularne il più possibile. Non si diventa borghesi accontentandosi del poco o restando sottomessi, né affidandosi al caso o alla fortuna, né sperando nella benevolenza dei potenti.

Il borghese è un individualista per definizione, che si vanta d’essersi fatto da solo, e non accumula solo per avere il potere economico, ma anche per quello politico.

Il borghese deve arrivare alla convinzione che la ricchezza è unicamente dipesa dalle proprie capacità e deve trasmettere questa convinzione al pubblico, illudendolo che la ricchezza in generale è alla portata di chiunque.

Esiste solo uno stile di vita peggiore di quello borghese, e ne abbiamo avuto un assaggio con lo stalinismo. E’ lo stile di vita dell’intellettuale di partito e del funzionario di Stato, che si costituisce come casta privilegiata, sfruttando il lavoro di tutti. Attraverso lo strumento dell’ideologia e dello Stato (e quindi non del vile denaro), il partito diventa una sorta di sfruttatore collettivo.

Oggi, in forza di queste sconfitte storiche del capitalismo e del socialismo amministrato, possiamo dire che il lavoro può acquisire un carattere democratico solo se chi lo compie ha la percezione della sua utilità sociale e la convinzione che questa utilità gli viene riconosciuta e la certezza di non essere soggetto ad alcuna forma di sfruttamento.

L’ideologia borghese del lavoro

Nata col sorgere dei Comuni italiani e sviluppatasi con la Riforma protestante e con la rivoluzione industriale, l’ideologia borghese del lavoro è servita sostanzialmente a due cose:

  1. a togliere al passato pre-borghese qualunque giustificazione, qualunque pretesa, nel senso che il passato merita d’essere ricordato solo nella misura in cui si pone come nostra prefigurazione. Anche quando s’incontrano, in talune civiltà, manufatti altamente sofisticati, prodotti in condizioni di lavoro assolutamente imparagonabili rispetto alle nostre, nessun borghese si sogna di ritenere che noi non si sappia riprodurre quegli stessi manufatti, e di farli anzi anche meglio. Noi possediamo una scienza e una tecnica con cui pensiamo di poter fare ciò che vogliamo;
  2. a considerare priva di significato una qualunque operazione mentale non strettamente inerente a un processo produttivo. Cioè una qualunque attività politica o culturale che non possa in qualche modo rivelarsi utile all’incremento della produzione e quindi del profitto, viene semplicemente equiparata a una perdita di tempo.

Il materialismo economico, per quanto mistificato possa essere dall’ideologia dei diritti umani (ivi inclusi i valori religiosi) e da quella, ad essa correlata, della democrazia parlamentare, resta il criterio fondamentale della prassi borghese. Storicamente la borghesia è riuscita a fare del lavoro un idolo, soltanto per superare le posizioni di rendita delle classi nobiliari, ma, poiché il lavoro che propagandava era soltanto il diritto di sfruttare il lavoro altrui, la borghesia non ha fatto altro che usare il lavoro come strumento ideologico per sostituire il dio cristiano con un nuovo idolo: il capitale, che si autoincrementa grazie al profitto (mentre nel Medioevo la credenza nel dio cattolico veniva incrementata da scomuniche, crociate e persecuzioni d’ogni genere).

Il materialismo economico borghese è dunque una forma di ateismo volgare, che di “scientifico” non ha e non può avere nulla, avendo la borghesia bisogno anche della religione per imbonire le masse superstiziose e clericali.

Qualunque interpretazione si voglia dare al concetto di lavoro, non si deve mai mettere in discussione – di questo sistema – la necessità dello sfruttamento. Dunque non il proprio lavoro ma il lavoro altrui serve per arricchirsi. Il lavoro non è anzitutto il modo per sostenersi e riprodursi, ma è lo strumento per esercitare in forma arbitraria il proprio individualismo.

Prima della società borghese, per poter vivere di rendita, bastava essere proprietari di terre, aver avuto dei trascorsi militari, con cui s’era riusciti a strappare delle proprietà immobiliari al “nemico” di turno.

Viceversa, vivere di rendita, con la nascita della società borghese, poteva voler dire soltanto una cosa: utilizzare i capitali ottenuti dal commercio allestendo delle imprese produttive, in cui la proprietà dei mezzi lavorativi fosse tenuta rigorosamente separata dall’uso della forza-lavoro degli operai salariati.

Oggi vivere di rendita vuol dire offrire credito finanziario a quelle imprese che in taluni paesi del Terzo Mondo, cercano di arrivare ai nostri stessi livelli, sfruttando enormemente il lavoro dei propri operai e devastando i propri ambienti naturali. Cosa che però, se si escludono pochi casi, sembra non avere molto successo, proprio perché il capitalismo non è solo una tecnica produttiva disumana, ma anche una forma mentis del tutto innaturale, che distrugge le relazioni sociali, per l’acquisizione della quale occorre il suo tempo.

Nella propria ideologia del lavoro, la borghesia non ha mai preso le difese né dei contadini, che anzi ha voluto trasformare in “schiavi salariati”, né degli artigiani, le cui corporazioni ha voluto far chiudere in nome della libertà d’impresa e d’iniziativa individuale. Eppure contadini e artigiani erano la stragrande maggioranza dei lavoratori durante il Medioevo.

In nome del lavoro la borghesia non ha mai chiesto di democratizzare i rapporti di sfruttamento rurali e, quando lo ha chiesto, è stato solo per far diventare “borghesi” gli stessi contadini o agrari che ne avessero avuto mezzi e capacità.

La borghesia è riuscita a convincere il mondo intero ch’essa era l’unica classe veramente produttiva, quando in realtà il suo unico scopo era quello di potersi sostituire all’aristocrazia partendo da una condizione svantaggiata, quella di chi non possiede la proprietà della terra.

Sicché oggi è divenuta dominante una concezione di “lavoro” che di “umano” non ha assolutamente nulla, proprio perché le fondamenta su cui poggia sono le stesse di quelle dell’aristocrazia di ieri, e cioè lo sfruttamento di chi non ha altri mezzi di sostentamento che la propria forza-lavoro. L’unica differenza è stata che, per vincere il monopolio della terra, la borghesia ha dovuto fare affidamento ai capitali e alla rivoluzione tecnologica, servendosi peraltro proprio di quel culto astratto della persona umana predicato dal cristianesimo, specie nella sua versione protestantica.

L’altra ovvia differenza sta nel fatto che l’accumulo di capitali, a differenza di quello delle derrate alimentari, non può incontrare alcuno ostacolo materiale, essendo il denaro il valore equivalente di ogni altra merce.

Oggi, se vogliamo reimpostare il concetto di “lavoro”, dobbiamo partire dal presupposto che non possono essere dei parametri meramente economici a dargli un senso qualificante. Quando la borghesia parla di “valore delle cose”, intende sempre qualcosa di quantitativo che va calcolato. La stessa parola “economia”, per la borghesia, implica qualcosa di meramente matematico, statistico, finanziario…

Quando nella parola “economia” vengono inclusi gli aspetti “sociali”, questi sono visti soltanto come un costo, un onere dovuto alla resistenza che i lavoratori pongono nei confronti dello sfruttamento.

Una qualunque ridefinizione del concetto di “lavoro” oggi va vista nella prospettiva di dare al sociale un primato sull’economico (anche per uscire dall’insopportabile cinismo che equipara il “valore” di una cosa al suo “prezzo”), quel sociale p.es. nei cui confronti non ci si può azzardare di considerare “improduttive” o “meno produttive” talune categorie di persone (bambini, studenti, casalinghe, pensionati, anziani, disabili, malati mentali ecc.).

Peraltro, è proprio la società borghese che, pur avendo tanto osannato il lavoro, crea continuamente giganteschi apparati di persone materialmente improduttive, come i burocrati, i militari, gli intellettuali, i politici ecc., di molto superiori, numericamente, a quelle produttive in senso proprio (operai, artigiani, agricoltori, edili ecc.).

Non solo, ma se il sociale deve di nuovo contare più dell’economico, nell’ambito del sociale vi è un altro aspetto che deve avere più importanza dell’economico, ed è l’ecologico. Non esiste democrazia nel sociale senza rispetto delle esigenze riproduttive della natura. Che l’economia borghese non sia democratica, lo si vede dal disprezzo in cui tiene non solo l’essere umano, produttivo o improduttivo che sia, ma anche la natura, considerata una risorsa da sfruttare senza ritegno, fino al suo totale esaurimento.

Non c’è altro modo di superare questo concetto borghese di “lavoro” che tornare indietro. Certo non al Medioevo, in cui il lavoro era definito come “servaggio”; ma neppure all’epoca della nascita dei Comuni, poiché proprio a partire da quel momento è nata la dipendenza dell’agricoltura dalla città e la prima trasformazione del servo della gleba in operaio salariato.

Dobbiamo tornare ancora più indietro, al tempo delle società pre-schiavistiche, al Neolitico, al tempo in cui l’agricoltura e l’allevamento erano gestiti dalle comunità di villaggio. Cioè all’epoca in cui tutto era di tutti, senza proprietà privata dei mezzi produttivi, in cui dominava l’autoproduzione e l’autoconsumo. (1)

L’unica cosa che bisogna cercare di non ripetere del Neolitico – almeno per come essa si sviluppò nella cosiddetta “Mezzaluna fertile” e in altre aree geografiche che gli storici sono soliti definire col termine di “civiltà fluviali” – è l’uso strumentale delle eccedenze, cioè il fatto che, ad un certo punto, in virtù di esse, il villaggio si trasformò in città-stato, producendo tutti quegli annessi e connessi (classi privilegiate, specializzazione del lavoro, uso politico della religione, legge del valore, colonialismo ecc.) che ancora oggi caratterizzano la nostra civiltà avanzata.

Questo perché se una qualunque eccedenza rischia inevitabilmente di portare alla creazione di una società divisa in classi contrapposte, allora dobbiamo dire che l’unico modo per restare “umani” è quello di tornare al Paleolitico.

(1) E’ singolare che i paesi del Terzo Mondo, anche quando intenzionati a cercare un’alternativa al capitalismo, non riescono a vedere nelle ultime vestigia di queste civiltà pre-schiavistiche, che pur da loro sono ancora presenti, una risorsa da valorizzare e non un problema da risolvere.

Il capitalismo dal feudalesimo ad oggi

Intorno al Mille il capitalismo non nacque solo come reazione al feudalesimo in generale, altrimenti dovremmo chiederci il motivo per cui non sia nato anche in Europa orientale, dove il servaggio era pur sempre presente.

Il capitalismo è stato anche la conseguenza, più o meno inevitabile, di un certo tipo di feudalesimo: quello appunto dell’Europa occidentale, sviluppatosi sotto l’influenza del cattolicesimo latino. E’ stato, in un certo senso, una risposta sociale individualistica a un’affermazione politica individualistica.

Se vogliamo il capitalismo, ai suoi albori, cioè nella fase meramente mercantile e manifatturiera, non è neppure stato un’esplicita reazione al feudalesimo corrotto dei Franchi, dei Sassoni e soprattutto della chiesa romana.

Sarebbe meglio dire che, almeno nella sua fase iniziale, il capitalismo ha potuto convivere in maniera relativamente tranquilla col feudalesimo occidentale, proprio perché qui il livello di eticità dei poteri forti era piuttosto basso.

Essendo i vertici governativi (sovrani laici ed ecclesiastici) molto corrotti (i Franchi, che permisero al papato di diventare una potenza politica, avevano preso il potere con vari colpi di stato e cattolicizzarono con la forza i Sassoni), inevitabilmente col tempo lo era diventata anche la società (specie quella delle realtà urbane), e quanto più questa si corrompeva, tanto meno i vertici erano in grado di controllarla, salvo usare, di tanto in tanto, durissime contromisure (inquisizioni, scomuniche, crociate ecc.), le quali però incontravano resistenze ancora più forti, e non necessariamente in positivo, ma anche solo in negativo, come quando, p.es., dopo tutte le inaudite repressioni a carico dei movimenti ereticali medievali, scoppiò improvvisamente la riforma luterana, che certo non faceva della povertà evangelica uno stile di vita.

Il capitalismo euroccidentale ha incontrato un’opposizione esplicita da parte del feudalesimo soltanto quando ha preteso una rilevanza politica. Infatti, finché si è mantenuto entro i limiti dell’opposizione economica, è stato relativamente tollerato, nel senso che ci sono stati periodi di maggiore e minore acquiescenza, a seconda delle particolari situazioni.

Il primo vero scontro politico tra feudalesimo e capitalismo è avvenuto con la riforma protestante; il secondo con la rivoluzione francese (anticipata da quella americana, che però più che uno scontro tra feudalesimo e capitalismo, fu uno scontro nell’ambito del capitalismo, tra madrepatria e colonia, in quanto in quest’ultima il feudalesimo era praticamente inesistente. Gli inglesi giunti nel Nordamerica, ma anche i francesi, gli olandesi ecc., avevano sin dall’inizio l’intenzione di comportarsi come capitalisti, e hanno potuto farlo molto agevolmente proprio perché non incontrarono opposizioni di sorta, salvo quella indigena, che però non ebbe mai una direzione centralizzata per opporsi efficacemente: l’unica fu quella di Sitting Bull).

Si può in sostanza dire che il feudalesimo ha avuto il suo picco trionfale col Congresso di Vienna del 1815, cui subito dopo fecero seguito vari moti popolari che portarono alle rivoluzioni del 1848-49, sino alle ultime del 1860-61 e 1870-71.

La borghesia riuscì finalmente a rovesciare dal trono l’aristocrazia politica e a gestire il potere in proprio, senza peraltro riconoscere alcun vero diritto agli operai e soprattutto ai contadini che l’avevano aiutata in questa impresa. Ecco perché si parla, in riferimento all’Ottocento, di rivoluzioni tradite.

La borghesia non volle spartire il potere con nessuno, anzi, una volta acquisito definitivamente quello di tipo politico-nazionale, scatenò una fase colonialistica su scala mondiale (imperialismo), riducendo a un nulla il primato storico degli imperi coloniali di quelle nazioni che non erano mai diventate capitalistiche in senso industriale (Spagna e Portogallo) e che pensavano di poter campare di rendita in eterno.

Olanda, Francia e Inghilterra dominarono il mondo, proprio perché la borghesia, una volta andata al potere, non ebbe ripensamenti di sorta, voleva arricchirsi a tutti i costi, usando qualunque mezzo.

Al loro posto avrebbero dovuto esserci l’Italia e la Germania, che con l’Umanesimo, la prima, e la riforma protestante, la seconda, erano riuscite ad anticipare tutti. Ma la borghesia di questi due paesi fu pavida e, per timore di non farcela, cercò i compromessi coi poteri forti del feudalesimo: la chiesa in Italia, i latifondisti in Germania.

Ecco perché furono proprio questi due paesi a scatenare le due guerre mondiali o comunque a mettere gli altri paesi in condizioni di doverlo fare. Avevano bisogno di recuperare il tempo perduto, di rimettere in discussione la spartizione della torta coloniale. Avevano soprattutto bisogno di eliminare gli ultimi residui europei di imperi feudali: russo, turco e austro-ungarico. Cosa che se riuscirono a fare con gli ultimi due, nulla poterono col primo, dove l’inaspettata rivoluzione bolscevica, con un colpo solo, aveva posto fine tanto all’autocrazia zarista quanto al neonato capitalismo.

Gli operai e i contadini al potere preoccuparono così tanto le nazioni borghesi che, ad un certo punto, alle loro rivalità interimperialistiche prevalsero le intese anticomuniste. Si volle sì condannare il nazifascismo, ma solo rispetto alla democrazia parlamentare borghese.

Oggi la dialettica storica ci porta a questa situazione paradossale: proprio mentre il capitalismo occidentale è riuscito a imporsi a livello mondiale, riuscendo persino a dimostrare che il socialismo di stato non era in grado di reggere il confronto, le leve del potere economico sembrano trasferirsi alle potenze asiatiche (Cina e India), le quali, nel prossimo futuro, inevitabilmente, si sentiranno impegnate a togliere all’area occidentale (statunitense, europea e nipponica) anche le leve del potere politico.

La Russia sta cercando di recuperare i ritardi del proprio sviluppo capitalistico, sfruttando le enormi riserve della Siberia, ma non ha i numeri demografici sufficienti per farlo e non ha neppure (se non nelle grandi città, ma questo, al momento, vale anche per Cina e India) la mentalità giusta per compiere un’autentica rivoluzione borghese. Perché la mentalità cambi occorre acquisire l’ideologia dei diritti umani teorici, delle libertà giuridiche formali: è proprio questa ideologia che permette di mascherare le forme economiche dello sfruttamento.

Due incognite, al momento, restano il Sudamerica e l’Africa, che non riescono a liberarsi del neocolonialismo economico che le lega agli interessi del polo occidentale (anzi, in questo momento, stanno subendo anche la penetrazione delle merci e dei capitali cinesi). In ognuno di questi due centri del Terzo Mondo le nazioni, prese singolarmente, sono troppo deboli per potersi opporre con successo all’imperialismo del capitale.

Dal Mille ad oggi

I
Potremmo chiederci il motivo per cui lo sviluppo di una borghesia di tipo industriale-capitalistico (e non semplicemente di tipo mercantile-commerciale) abbia richiesto così tanto tempo in Europa occidentale e non abbia trovato un proprio equivalente nel resto del mondo, se non dopo la nascita del colonialismo europeo.
La nascita della borghesia commerciale, in Europa, viene fatta risalire intorno al Mille. Ma in quel periodo esisteva una borghesia commerciale anche in altre parti del pianeta: p.es. nell’impero bizantino, in Cina, in India, nel Medio oriente islamico, per non parlare del fatto che quando nacquero le prime civiltà commerciali in Mesopotamia, noi in Europa eravamo ancora all’età della pietra.
Dunque perché solo la borghesia commerciale del Medioevo europeo è riuscita a diventare industriale, condizionando il mondo intero? Cioè per quale ragione è riuscita a compiere un passaggio del genere una borghesia che sul piano commerciale non era più evoluta di altre borghesie del pianeta?
La risposta non sta ovviamente in qualcosa di genotipico e neppure in alcuna condizione ambientale o materiale, ma sta soltanto nella cultura di riferimento, che nel caso della borghesia euroccidentale è stata prima cattolica e poi protestantica.
Che particolarità aveva la cultura cattolico-romana per permettere lo sviluppo di una borghesia diversa da tutte le altre? Essa aveva la particolarità di permettere alla persona di sdoppiarsi in credente davanti alla chiesa e in mercante davanti alla società.
Per quale motivo la chiesa permetteva al borghese di scindersi in due persone così diverse? La risposta è semplice: essa stessa, al suo interno, era divisa tra una base contadina credente e un vertice ecclesiastico corrotto.
Quando all’interno di un’organizzazione collettiva di potere (quale appunto era la chiesa romana feudale), il vertice ecclesiastico afferma determinati valori (etico-religiosi) e ne pratica altri di natura opposta, riuscendo a ingannare la propria base, se anche tra quest’ultima emerge qualcuno che s’accorge dell’abuso e vuol cercare di approfittarne per ritagliarsi uno spazio di manovra in cui poter esercitare la medesima doppiezza, i vertici di quella organizzazione avranno pochi motivi per impedirglielo, soprattutto se questa imitazione della corruzione non ha come fine immediato quello di rovesciare il potere costituito.
La borghesia non va considerata come un figlio bastardo della chiesa romana, ma come un figlio legittimo, benché cadetto, in quanto il primogenito restava il contadino ubbidiente, disposto ad accettare il servaggio senza reagire. Nei confronti della borghesia la chiesa romana sperava di poter esercitare una funzione di controllo, approfittando nel contempo di tutti i benefici economici che poteva ricavare da un rapporto particolare con tale classe; la quale sicuramente, coi propri traffici, era in grado di far diventare la chiesa ancora più ricca e potente.
La chiesa infatti poté politicamente opporsi agli imperatori e ai grandi feudatari grazie all’appoggio economico della borghesia (comunale e signorile). Nessun’altra ideologia del mondo riuscì a compiere lo stesso percorso di quella cattolico-romana, proprio perché in quest’ultima, nei suoi ranghi di livello elevato, l’ipocrisia non era l’eccezione ma la regola. In ogni altra parte del mondo l’attività borghese restava strettamente controllata dallo Stato, oppure era disprezzata in quanto contraria alla pratica dei valori religiosi.
Certo, la borghesia – come già detto – è esistita anche prima del cristianesimo, ma non poteva avere la stessa falsità. Quando una persona viene considerata schiava dalla nascita o può finire in una condizione schiavile semplicemente per una sconfitta militare o per un debito non pagato, non è indispensabile sforzarsi di cercare mille ragioni per dimostrare a questa persona che le cose non stanno così.
La retorica del cristianesimo primitivo sotto questo aspetto fu incredibile: il Cristo s’era fatto “servo di dio” ed era morto per i peccati di tutto il genere umano, rendendo irrilevante essere liberi o schiavi di fronte a dio, chi si abbassa sarà esaltato, gli ultimi saranno i primi, se uno ti percuote porgi l’altra guancia, e così via.
La cultura pagana non era mai arrivata a principi del genere, che, come minimo, sarebbero stati equiparati a una forma di pusillanimità: una sofferenza ingiusta andava sempre punita e la vendetta era una forma di giustizia. L’ipocrisia del paganesimo raggiunse il vertice quando si volle dimostrare che il passaggio alla civiltà commerciale era giustificato dal fatto (puramente inventato) che in quella agricolo-pastorale gli uomini erano simili agli animali (l’esempio eclatante era Polifemo).
E’ ben noto tuttavia che lo schiavismo si ripropose anche dopo lo sviluppo del cristianesimo, nei confronti di chi non era mai stato “cristiano”, verso cui quindi non era necessario usare l’arma della doppiezza. Ma, anche a prescindere dal fatto che a questa pratica schiavile si opposero alcuni esponenti di rilievo dello stesso cattolicesimo, ciò che più conta dire è che il capitalismo non si sviluppò affatto all’interno di questo rapporto schiavile. Il capitalismo si sviluppa soltanto – Marx lo disse migliaia di volte – quando sul mercato si trovano, l’una di fronte all’altra, due persone giuridicamente libere, di cui una può vendere soltanto la propria forza-lavoro.
II
La nascita dell’individualismo borghese post-schiavistico è strettamente correlata allo sviluppo dell’individualismo dei vertici ecclesiastici nell’ambito del collettivismo cattolico. Quest’ultimo infatti riguardava più che altro il mondo contadino, ma le sue leggi erano in contraddizione con quelle del potere autoritario, assolutistico, che s’andavano affermando attorno alla figura del pontefice e dei suoi vescovi.
Dunque la prima borghesia commerciale e imprenditoriale nasce, in epoca feudale, sotto il patrocinio delle autorità ecclesiastiche, le quali però, quando videro che la borghesia era intenzionata a compiere rivendicazioni anche sul terreno politico, si spaventarono e fecero marcia indietro. Permettendo alla borghesia di svilupparsi economicamente, in funzione antifeudale, la chiesa pensava di farsela alleata, invece ad un certo punto dovette prendere atto ch’essa non sopportava più i condizionamenti di nessun potere politico e che anzi aveva intenzione di diventare “protestante”.
Di fronte al rifiuto che la chiesa romana diminuisse il proprio potere, la borghesia prese a usare la forza: dapprima quella intenzionata a modificare l’ideologia stessa della chiesa, affinché l’attività del borghese avesse più facilità etica di manovra; in seguito si usarono le pressioni di tipo politico-militare, al fine di rovesciare lo stesso temporalismo ecclesiastico. In Italia, prima ancora della riforma protestante, s’imposero, per un certo tempo, le signorie e i principati, che non misero in discussione i principi religiosi della fede, ma solo il loro uso politico. Poi s’affermarono culture umanistiche che, invece di mettere in discussione i principi della fede (come invece fecero i movimenti pauperistici ereticali), si limitarono a porre le basi del moderno agnosticismo ed ateismo.
La riforma protestante e le rivoluzioni borghesi servirono appunto per togliere alla chiesa romana i poteri ideologico e politico. Col calvinismo la borghesia poteva avere finalmente ampie giustificazioni per agire senza alcuno scrupolo religioso, e nel contempo poteva riconoscersi in uno Stato che, sebbene religioso, agiva in maniera indipendente dalla chiesa.
Questo processo fu lunghissimo: partito intorno al Mille, dovette superare la Controriforma per affermarsi in maniera definitiva. Fu la sicura autonomia dal potere ecclesiastico che determinò il passaggio dalla fase commerciale a quella industriale della borghesia. Non ci sarebbe stata nessuna rivoluzione industriale se la borghesia non avesse appreso perfettamente come rendere schiavo un operaio dicendogli che giuridicamente era libero di non esserlo. Che l’aria di città rendesse liberi, i Comuni italiani iniziarono a dirlo almeno cinque secoli prima degli altri paesi europei.
Dopodiché tutto il mondo dovette subire le conseguenze di questo sviluppo anomalo dell’economia, profondamente ambiguo e, alla resa dei conti, disumano. La cosa stupefacente è stata che questo sviluppo, pur essendo partito da un’infima propaggine del continente asiatico (perché in fondo per gli asiatici l’Europa occidentale altro non è che questo), non solo non è riuscito a incontrare una valida resistenza da parte delle altre culture mondiali, ma da queste è stato addirittura adottato. Volente o nolente oggi tutto il mondo è dominato dal capitale.
Una certa resistenza la si è vista con la rivoluzione d’ottobre in Russia, con la nascita del cosiddetto “socialismo reale” nell’Europa orientale e in Cina, e con la decolonizzazione dopo la fine della seconda guerra mondiale, ma dopo il crollo di quello che si rivelò essere un “socialismo da caserma”, il capitalismo ha assunto proporzioni gigantesche, senza ostacoli di sorta sul suo cammino.
La contraddizione principale non è più quella tra due sistemi sociali che dicevano d’essere opposti, ma è tutta interna a un unico sistema, dove la gran massa dei lavoratori si trova schiacciata da un crescente monopolio produttivo e potere finanziario che sfuggono a ogni controllo. La concentrazione delle ricchezze è in mano a pochissime strutture economiche: le multinazionali e gli istituti di credito (che tendono, a loro volta, a trasformarsi in imprese). Una crescente globalizzazione dell’economia, priva di regole efficaci, soggetta a speculazioni finanziarie di ogni tipo, che minacciano continuamente paurosi crolli borsistici, sta caratterizzando il nostro tempo, in cui non si vedono elementi in controtendenza.
Nel passato, quando una civiltà voleva imporre i propri valori commerciali oltre misura, si scontrava con altre di tipo nomade, che con ferocia la spazzavano via. Ma oggi, se la resistenza non si formerà dall’interno, difficilmente verrà qualcuno a “salvarci”.

Il futuro nelle nostre mani

La sinistra radicale non ha dubbi nel sostenere che sul piano economico la crisi endemica del capitalismo dura da almeno 30 anni. Ci si accorge poco di questa situazione soltanto perché, dopo il decennio che va dal 1968 al 1978 la capacità di resistenza delle masse popolari è andata progressivamente diminuendo. Tuttavia altri fattori ne denunciano la presenza, vissuti in maniera individuale: l’aumento del grado di sfruttamento del lavoro e la diminuzione del potere d’acquisto di stipendi e salari.

Alla progressiva caduta tendenziale del saggio di profitto (una delle leggi bronzee del capitale) s’è cercato di far fronte non solo coi due classici rimedi anzidetti, ma anche puntando sul potenziamento del commercio estero e sulla finanziarizzazione dell’economia, che hanno fatto nascere quello che con una parola sintetica viene detto il “globalismo”, cioè il dominio incontrastato del capitale su scala mondiale, che storicamente è iniziato con la nascita della deregulation reaganiana.

Il commercio estero ha avuto un’impennata enorme col crollo del cosiddetto “socialismo reale”, comportando però anche l’affacciarsi sui mercati mondiali di nuovi paesi capitalistici, molto agguerriti, le cui merci hanno prezzi davvero competitivi, potendo essi sfruttare un costo molto basso della loro manodopera, non abituata alle leggi del mercato.

L’enorme espansione del credito, ovvero la gestione dell’economia produttiva da parte di quella finanziaria ha generato incredibili bolle speculative, rese ancor più gigantesche dalla facilità degli scambi telematici. Queste bolle (si pensi solo a quella degli alti tassi di rendimenti assicurati dagli Usa negli anni Ottanta per rastrellare capitali da tutto il mondo, rivelatasi poi un buco nell’acqua), che sembravano garantire enormi rendite con rischi molto bassi, sono improvvisamente scoppiate, a causa dei periodici e drammatici crolli borsistici, mandando in fallimento banche e imprese, e soprattutto mandando in rovina i piccoli risparmiatori, che ormai hanno rinunciato a risparmiare e investire, pensando solo a sopravvivere.

Gli Stati anzi, pur di contenere al massimo gli effetti devastanti dei crac di borsa, dei fallimenti aziendali e delle crisi bancarie, hanno attinto agli ultimi risparmi dei lavoratori, hanno usato il gettito fiscale non per rilanciare la produttività, ma per sanare situazioni finanziarie disperate, provocate da abusi e speculazioni d’ogni genere. Oggi non solo una gran parte dei cittadini, ma anche e soprattutto le istituzioni pubbliche dello Stato e degli Enti locali vivono sopra una montagna di debiti.

In Italia i debiti sono più sul versante istituzionale che privato, ma la situazione resta ugualmente preoccupante, proprio perché, essendo molto forte da noi l’evasione fiscale, il debito pubblico viene praticamente sostenuto con la pesante tassazione dei già magri stipendi e salari dei lavoratori, e naturalmente facendo incetta dei risparmi sempre più esigui, attraverso l’immissione continua di titoli, i cui interessi vengono pagati dallo Stato solo dopo aver emesso nuovi titoli, in una spirale senza fine.

Non essendoci da noi il senso del bene pubblico, collettivo, a causa di pregresse ragioni storiche e culturali, manca un controllo dell’equità fiscale, una lotta tenace contro il lavoro nero e precario e soprattutto contro la criminalità organizzata, che fattura capitali enormi (al momento non meno del 6% del pil nazionale). L’intero paese è dominato da un gigantesco debito statale, che viene parzialmente compensato da un pil molto elevato, che ci pone tra i primi dieci paesi al mondo. Si calcola tuttavia che entro il 2025 il nostro paese verrà superato dalla Spagna (oggi nona) e dal Brasile (oggi decimo) e, a questi ritmi, anche da Corea del Sud, India, Indonesia e Russia.

Da noi l’individualismo è caratterizzato da un proliferare abnorme di imprese piccole e piccolissime, spesso coincidenti con lo stesso titolare della partita iva; imprese la cui gestione è di tipo familiare e dove l’innovazione è molto scarsa, ivi inclusa, ovviamente, la formazione richiesta. Imprese di questo genere, unitamente al valore considerevole che ancora oggi si attribuisce alla struttura familiare, rendono il nostro paese relativamente debole in un mercato globale del capitalismo avanzato. Esse sono in grado di reggere la concorrenza soltanto quando possono fruire di un certo protezionismo statale o quando lo smercio dei prodotti può muoversi dentro confini nazionali, senza dover fronteggiare una forte concorrenza straniera (cosa che già con la nascita dell’U.E. non è più possibile).

Le imprese che possono competere all’estero o che possono reggere i colpi della concorrenza straniera devono essere di dimensioni medio-grandi o comunque devono smerciare prodotti dai prezzi contenuti oppure aventi un buon valore aggiunto, perché frutto di studi e ricerche.

Il crollo del “socialismo reale” non ha certo favorito le imprese piccole non facenti parte di un indotto significativo, ma solo quelle medie e grandi, che avevano capitali sufficienti per investire in quei territori. Anzi, con la trasformazione capitalistica delle economie di quei paesi, tutte le nostre aziende, non solo quelle piccole, hanno dovuto fronteggiare una concorrenza inaspettata, spesso brutale (in quanto non sempre vengono rispettate le regole del mercato o gli standard previsti per le nostre aziende), una concorrenza che non si pensava così immediata, in quanto si era convinti, in virtù della propaganda occidentale, che quei paesi fossero molto arretrati sul piano tecno-scientifico, anche se si poteva facilmente immaginare un costo del lavoro molto basso.

Il globalismo si sta rivelando un grosso affare solo per chi è davvero in grado di muoversi a livello internazionale. Dovremo pertanto aspettarci, nei prossimi decenni, una fortissima concentrazione di capitali e di imprese nelle mani di pochi monopoli che sapranno agire con molta disinvoltura su scala planetaria. Qualunque crisi sistemica, fatale per le sorti dei piccoli produttori, non farà che ingigantire il potere di questi colossi.

Un enorme potere concentrato nelle mani di poche strutture produttive, avente una fisionomia fortemente internazionale, in grado di condizionare pesantemente anche le istituzioni politiche, trasformerà le società civili in un serbatoio di manodopera a costi talmente bassi da sfiorare lo schiavismo di epoca romana.

Una situazione del genere può trascinarsi all’infinito, se le forze soggette a sfruttamento non spezzeranno le catene che le legano. Non è affatto vero che questo processo di concentrazione del potere economico e politico sarà tanto più lento o tanto meno violento quanto meno si cercherà di contrastarlo. Non è neppure vero che l’assenza di un’alternativa al sistema capitalistico renderà meno forte la competizione tra i monopoli all’interno di questo sistema.

Il capitale divora non solo i lavoratori ma anche gli imprenditori più deboli, e quando arriva a un punto che per continuare a divorare occorre scatenare guerre e conflitti d’ogni tipo, non ha scrupoli nel farlo. Attualmente vi sono oltre 30 guerre sull’intero pianeta, i cui conflitti tra gli Stati coinvolti non sono stati risolti per via diplomatica.

Ecco perché bisogna che i lavoratori si attrezzino, sin da adesso, ad affrontare il peggio.

  1. Anzitutto essi devono rendersi conto che se il capitale riesce a muoversi a livello internazionale, anche loro, per potersi difendere dallo sfruttamento, devono muoversi nella stessa maniera. Una collaborazione di classe a livello solo nazionale non ha più senso. Occorre costituire una struttura internazionale a difesa dei lavoratori di tutto il mondo: una struttura che affianchi quelle nazionali già esistenti e che abbia potere contrattuale nei confronti delle multinazionali, le cui sedi produttive sono sparse sul pianeta;
  2. in secondo luogo occorre capire che un’alternativa al capitalismo deve essere un’alternativa ai fondamenti di questo sistema, cioè l’industria, il mercato, gli scambi monetari… Non si tratta soltanto di superare il momento dello sfruttamento dei lavoratori (plusvalore), ma anche il primato del valore di scambio su quello d’uso, il primato del mercato sull’autoconsumo, il primato dell’industria sull’agricoltura ecc.;
  3. in terzo luogo occorre assolutamente convincersi che non può esistere alcuna alternativa reale al capitalismo, cioè alcuna forma di socialismo umano e democratico, senza rispettare i processi riproduttivi della natura: questa è la base da cui partire per realizzare una transizione eco-compatibile;
  4. in quarto luogo bisogna affermare il principio della ineguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, nel senso che chi ha più bisogno ha più diritti. Va abolito il principio borghese secondo cui di fronte alla legge si è tutti uguali: affermare un principio del genere quando poi nelle società civili si permettono, in nome della proprietà privata, le differenze più abissali, è un controsenso;
  5. in quinto luogo bisogna sostenere, a livello mondiale, tutte le forme in cui si esprimono i valori umani, dei quali il principale è quello della libertà di coscienza. Nessuno può essere costretto a fare ciò che non vuole. Chiunque sia in grado d’intendere e di volere deve essere lasciato libero di assumersi le responsabilità delle proprie azioni.

O capitalismo o barbarie

Una civiltà non si regge in piedi se non riesce a convincere i propri cittadini che i suoi valori, i suoi modelli di vita sono assolutamente superiori a quelli di ogni altra civiltà, passata, presente e futura. La maggioranza dei cittadini deve avere la convinzione che alla propria civiltà non vi siano alternative praticabili: al massimo sono possibili sono aggiustamenti, riforme, ma non rivolgimenti rivoluzionari.

In quella romana, p.es., nonostante la presenza dello schiavismo, della povertà, dell’indebitamento progressivo dei cittadini liberi meno abbienti, nonostante il crescente latifondismo, il rapace fiscalismo dello Stato, la durissima leva militare e quant’altro, la gran parte dei cittadini era convinta che Roma fosse superiore a ogni altra civiltà in virtù della propria ingegneria e architettura, in virtù della proprie arte bellica, in virtù del proprio diritto… Solo quando la disperazione raggiunse livelli inusitati, i cittadini (specie quelli della periferia dell’impero) cominciarono a pensare che sotto i barbari sarebbero stati meglio.

Lo stesso avviene con la civiltà borghese, dove in nome della scienza e della tecnica, della capacità commerciale e finanziaria, della potenza bellica, della grande elaborazione di leggi, di filosofie, di ideologie di ogni tipo, su qualunque argomento dello scibile umano, si è convinti d’essere i migliori della terra.

I cittadini hanno la convinzione che, nonostante le crisi cicliche di sovrapproduzione, i fallimenti bancari e aziendali, i dissesti finanziari delle borse mondiali, le relazioni illegali tra economia e politica, la cronica disoccupazione e la crescente inflazione, il nostro sistema di vita non abbia alternative, ovvero costituisca in ogni caso, in via di principio, quanto di meglio si possa desiderare.

Sin dalle sue origini la borghesia ha generato l’attività commerciale più immorale e, nel contempo, ha predicato a tutta la società, ereditandola da una chiesa non meno corrotta, la morale più umana e più cristiana mai apparsa sulla terra. Dietro la copertura di elevati principi etici si sono tollerate, nella pratica quotidiana, le peggiori bassezze.

Ci si può chiedere, in tal senso, quali caratteristiche potrà e dovrà avere la prossima civiltà, quella che sostituirà la nostra. Dovrà per forza avere un aspetto più elevato della sordida economia borghese. Dovrà per forza mostrare maggiore coerenza tra valori umani e prassi sociale, almeno nella fase iniziale, quella in cui lotterà per imporsi sulla nostra. La politica, l’ideologia, l’etica, la coscienza dovranno necessariamente avere più importanza del profitto, della rendita, del denaro, del capitale, dell’oro e delle pietre preziose. Dovranno avere più importanza anche della scienza, della tecnica che devastano la natura, del militarismo aggressivo e colonialista con cui ancora oggi si vuol dominare il mondo intero.

In occidente, nei paesi capitalisti ci si appella all’etica, ai suoi principi assoluti, universali, quando fallisce l’economia, quando i gestori della produzione, del business, della finanza rivelano il loro vero volto di truffatori, di usurai legalizzati, di corrotti e corruttori. Si parla di etica nella speranza che i cittadini, cui sono stati abusivamente tolti moltissimi risparmi per rimediare i guasti dei manager furbi o incapaci, degli imprenditori senza scrupoli, dei bancari cinici ed egoisti e degli speculatori finanziari, abbiano pazienza, usino misericordia, tolleranza, sappiano perdonare gli iniqui, la cui iniquità – ci viene detto, con facce che a dir di bronzo è poco – resta puramente soggettiva, incapace di mettere in forse l’oggettività metafisica del sistema.

Ieri venivamo spaventati col pericolo del comunismo, oggi veniamo rassicurati che non ci succederà nulla, che possiamo continuare tranquillamente a consumare, a ballare sul Titanic, ché tanto la situazione, in un modo o nell’altro, si sistemerà. Proprio perché non c’è alternativa. Se affondano le imprese, le banche, le società finanziarie, affonda la civiltà. E questo oggi è inconcepibile, visto che l’unica alternativa possibile, il cosiddetto “socialismo reale”, è miseramente fallito.

Oggi gli statisti, gli economisti borghesi continuamente e cordialmente ci dicono: O capitalismo o barbarie. Come se le due cose fossero davvero in alternativa.

Prospettive di ricerca

Una divisione del lavoro ha senso quando non esiste divisione tra lavoro e capitale, cioè quando i legami sociali dei produttori sono molto forti, altrimenti essa si trasformerà, inevitabilmente, in una fonte interminabile di soprusi: sfruttamento del lavoro altrui, abuso delle risorse naturali, sovrapproduzione di merci, impiego della scienza e della tecnica per perpetuare l’alienazione dominante (anche quando si pensa di attenuarne gli effetti) ecc.

Nel capitalismo la divisione del lavoro arricchisce pochi a svantaggio dei molti (all’interno di una stessa nazione e fra nazioni diverse). Guardando cosa essa ha prodotto in questa formazione sociale, vien da rimpiangere il Medioevo, in cui dominava l’autonomia del produttore diretto, che era polivalente, cioè indipendente dal mercato per le cose essenziali.

Solo che tale modo di produzione di per sé non può essere sufficiente per costituire un’alternativa efficace al capitalismo. Poteva costituire un’alternativa quando il capitalismo era in fieri, e naturalmente solo a condizione che il sistema dell’autoconsumo fosse in grado di eliminare la piaga del servaggio.

Oggi, perché l’autoconsumo possa costituire un’alternativa, occorrerebbe che il capitalismo subisse un crollo totale per motivi endogeni, ma è dubbio che ciò avvenga in tempi brevi. Il capitalismo si regge sullo sfruttamento del Terzo Mondo: finché le colonie e le neocolonie non si emancipano anche economicamente, il capitalismo non si accorgerà mai di non poter autosussistere.

Quando una formazione sociale si regge sullo sfruttamento del lavoro altrui, si autoriproduce solo fino a quando i lavoratori si lasciano sfruttare: il fatto che ad un certo punto sia nata l’esigenza del colonialismo sta appunto a dimostrare che i lavoratori europei non avevano intenzione di lasciarsi sfruttare in eterno. Ora tale decisione devono prenderla anche i lavoratori del Terzo Mondo, e auguriamoci che, quando la prenderanno, i lavoratori dei Paesi occidentali capiscano che quello sarà il momento buono per realizzare l’internazionalismo proletario contro il capitalismo mondiale.

Va comunque assolutamente escluso che il lavoro polivalente del produttore autonomo possa costituire un’alternativa quando esso viene sottoposto a un qualsivoglia regime di servaggio. “Autonomia” non può solo voler dire “indipendenza dal mercato”, ma deve anche voler dire “libertà” da qualunque forma di schiavitù. Si badi: non da qualunque forma di “dipendenza”, ma da qualunque forma di “dipendenza” in cui esista un “padrone” e un “servo”, una posizione precostituita di dominio e una di subordinazione.

E’ stata un’illusione della borghesia quella di credere che la libertà di un individuo potesse realizzarsi emancipandosi da qualunque dipendenza dal collettivo. Gli uomini devono dipendere dalle leggi che loro stessi, democraticamente, si danno, e devono altresì dipendere da molte leggi della natura, affinché sia salvaguardato l’equilibrio dell’ecosistema.

Se nel Medioevo non ci fosse stato il duro servaggio e l’oppressione culturale del clericalismo, forse il capitalismo non avrebbe trionfato così facilmente. Gli storici, in tal senso, dovrebbero verificare la tesi secondo cui l’edificazione del capitalismo è avvenuta in maniera relativamente facile nell’Europa occidentale, proprio perché qui il servaggio era molto più opprimente che nell’Europa orientale.

Nei confronti del Medioevo il marxismo ha emesso giudizi unilaterali, dettati da una sorta di pregiudizio anticlericale e antirurale. Si è condannato, col servaggio e il clericalismo, anche l’autonomia economica del produttore diretto, cioè il primato del valore d’uso sul valore di scambio, il significato sociale della comunità di villaggio, i concetti di autogestione e autoconsumo, ecc.

Il marxismo si è lasciato abbacinare dal fatto che, con l’impiego della rivoluzione tecnologica e con una forte divisione del lavoro, il capitalismo è riuscito ad aumentare a dismisura le potenzialità delle forze produttive. In effetti in quest’ultimo mezzo millennio l’umanità ha fatto passi da gigante sul piano produttivo e tecnologico.

Tuttavia, molti di questi passi, che si ritengono “in avanti”, sono stati pagati con terribili passi indietro (guerre mondiali, distruzione dell’ecosistema, morte per fame ecc.), al punto che oggi ci si chiede se davvero sia valsa la pena realizzare tanti progressi quando il risultato finale viene considerato soddisfacente solo per un’infima parte dell’umanità. Il marxismo ha avuto due torti fondamentali:

  1. quello di appoggiare un qualunque sviluppo capitalistico contro la rendita feudale, senza preoccuparsi di trovare nel sistema dell’autoconsumo le possibili alternative al servaggio;
  2. quello di tollerare i guasti provocati dal progresso tecno-scientifico, illudendosi di poterli ovviare sostituendo il profitto privato col profitto statale.

Detto altrimenti, lo storico dovrebbe chiedersi se il superamento del servaggio e del clericalismo doveva necessariamente comportare il pagamento di un prezzo così alto, ovvero se la nascita del capitalismo sia stata davvero un evento inevitabile della storia o se invece essa è dipesa dal fatto che nel corso del Medioevo gli uomini non fecero abbastanza per cercare un’alternativa alle contraddizioni antagonistiche del feudalesimo. Il capitalismo è forse diventato inevitabile a causa di questa mancata alternativa?

Se c’era la possibilità di una diversa soluzione, allora dobbiamo rimettere in discussione i giudizi negativi espressi dai teorici liberali e marxisti nei confronti del sistema economico basato sull’autoconsumo. Se vogliamo infatti creare un socialismo veramente democratico, di fronte a noi ci sono due strade (che possono anche essere seguite contemporaneamente, anche se di necessità una dovrà prevalere sull’altra):

  1. l’autoconsumo del produttore diretto, polivalente, che ha bisogno del mercato solo per cose che non può assolutamente produrre o reperire come risorsa naturale (cose di cui, in ultima istanza, può anche far meno per poter vivere). Ciò implica ch’egli sia giuridicamente e politicamente libero, non soggetto ad alcuna coercizione extra-economica. Naturalmente le sue forze produttive saranno sempre limitate (come d’altra parte i suoi bisogni), ma la stabilità di tale metodo produttivo è assicurata, a meno che essa non venga minacciata da catastrofi naturali, nel qual caso dovrebbe farsi valere la solidarietà del collettivo, cui il produttore appartiene. Ovviamente la solidarietà va coltivata per tempo, in quanto essa non può nascere automaticamente; ed è questo in un certo senso il limite di tale sistema produttivo: il produttore diretto tende a rivolgersi alla forza del collettivo solo nel momento del bisogno;
  2. una collettività o una società basata sulla divisione del lavoro, ma in cui l’uguaglianza dei lavoratori sia assicurata dalla democrazia a tutti i livelli. Quanto più è forte la divisione del lavoro, tanto più forti devono essere i legami sociali, poiché chi non rispetta le proprie funzioni incrina tutto l’apparato produttivo. Un sistema di tal genere deve puntare molto sui legami che possono realizzare i valori etico-sociali e culturali.

Ora, considerando il forte individualismo esistente in Europa occidentale (per non parlare degli USA), la seconda soluzione pare la più difficile da realizzare, poiché essa implica una certa maturità socio-culturale o comunque una certa disponibilità interiore a partecipare ai problemi comuni.

Europa occidentale e USA potrebbero adottare il socialismo democratico basato sulla divisione del lavoro, grazie all’aiuto di forze sociali straniere, provenienti da Paesi che conoscono il valore del collettivismo. Tali forze però dovrebbero essere considerate “paritetiche” e non dovrebbero essere numericamente “minoritarie”.

In ogni caso sarà impossibile per l’Occidente conservare gli attuali livelli di produttività, accettando il collettivismo proprio dei Paesi non-capitalistici.