In vista del processo di appello che inizia domani, 13 ottobre, a Milano, questa mattina ho assistito alla conferenza stampa del collega Enzo Magosso, condannato in primo grado dal tribunale di Monza a pagare 240 mila euro di risarcimento per “danni morali e all’immagine” al generale dei carabinieri Alessandro Ruffino e alla sorella del defunto generale Umberto Bonaventura a causa di una intervista a un sottufficiale dei carabinieri in pensione, Dario Covolo, pubblicata sul settimanale Gente del 17 giugno 2004. Covolo aveva raccontato come i carabinieri dell’antiterrorismo di Milano non avessero mosso un dito pur avendo saputo con sei mesi di anticipo da un loro confidente militante della sinistra armata – il postino Rocco Ricciardi, di Varese – che il giornalista Walter Tobagi era nel mirino dei terroristi della Brigata XXVIII Marzo che in seguito, il 28 maggio 1980, lo uccisero davvero.
Al processo a Monza non solo Covolo ha ribadito tutto, ma il generale dei carabinieri in pensione Nicolò Bozzo ha consegnato vari elementi che smentivano la tranquillizzante versione ufficiale dei suoi ex colleghi milanesi.
Nei giorni scorsi ho avuto modo di vedere un altro documento, che per fortuna Magosso è riuscito a procurarsi, che inchioda alle loro responsabilità alcuni carabinieri ex responsabili dell’antiterrorismo di quell’epoca. Non solo è incomprensibile, contro la logica, se non vergognoso che Magosso sia stato condannato, ma sarebbe ancor più grave se in appello la condanna venisse confermata, pur se magari ridimensionata. Sarebbe grave perché si tratterebbe di un altro colpo alla libertà di stampa.
E’ certamente non vero che in Italia non esiste la libertà di stampa o che sia minacciata da un “regime”. E’ però certamente vero che la libertà di stampa somiglia sempre di più a un’auto che c’è, sì, ma alla quale si centellina la benzina e si preme sul freno per ridurne drasticamente la velocità e i movimenti. Da qualche tempo si aziona anche il freno a mano…
Non è solo un problema di Magosso o dei giornalisti in blocco. E’ anche un problema dei cittadini tutti, perché la libertà se priva di una informazione non condizionata e non intimidita, è una libertà manovrabile e manovrata, perciò tendenzialmente in pericolo.
POST SCRIPTUM
Ho assistito all’intera udienza tenuta nella mattinata di oggi, 14 ottobre. La prossima udienza, conclusiva e forse seguita dalla sentenza, è stata fissata per le ore 9 del 3 novembre. La prima cosa che mi ha colpito è stata la mancanza di qualunque giornalista del Corriere della Sera, che pure è il giornale per il quale Tobagi lavorava e per il quale ci ha rimesso lavita. Non mi par poco. Come giornalisti, c’eravamo solo Franco Abruzzo, ex presidente dell’Ordine dei Giornalisti di Milano, Davide Moro, della Fininvest, Ilaria Cavo e io. Pochi, direi. Troppo pochi. Grave anche la mancanza di qualsiasi dirigente della Federazione nazionale della Stampa.
L’altra cosa che mi ha molto colpito è stato il divieto, chiesto dal rappresentante della pubblica accusa e dai querelanti, di riprese televisive e di registrazione del sonoro per Radio Radicale. Si tratta di un divieto molto grave. E’ stato infatti detto no a Giovanni Minoli intenzionato a inviare una troupe per il suo programma “La storia siamo noi”, ed è fuori dubbio che la vicenda Tobagi sia ormai un pezzo di storia. e al programma Matrix di Canale 5, che aveva inviato una troupe e la giornalista, Ilaria Cavo. E’ la prima volta che Radio Radicale si vede chiudere le porte in faccia in quello che è un pubblico servizio, che come tale avrebbe dovuto essere coperto dalla Rai, che non s’è neppure fatta vedere da lontano. Mi viene in mente inoltre una ben precisa considerazione: solo persone che hanno la coda di paglia di solito impediscono che benga fatta circolare l’informazione al pubblico di fatti che le riguardano, ma che sicuramente non riguardano solo loro.
Ritengo quindi molto strano, e non commendevole, che si sia opposto alle riprese video e audio anche il generale dei carabinieri Alessandro Ruffino, presente in aula. Un carabiniere, per giunta di grado così elevato, dovrebbe invece avere a cuore l’informazione al pubblico, perché il giornalismo è un bene prezioso per l’intera collettività. Il mio sgomento diventa indignazione quando a parlare è uno degli avvocati dei querelanti, che era presente ieri mattina alla conferenza stampa di Magosso e che letto in aula stralci, a mio avviso non del tutto esatti, di quanto detto ieri da Magosso ed altri. Ma come? Si oppone alla presenza dei giornalisti radiofonici e televisivi proprio chi ieri ha usufruito a mani basse di una conferenza stampa convocata in particolare per loro?
Mi hanno detto che in aula era presente anche il responsabile dei servizi segreti a Milano, non ho capito se dei servizi civili o militari. Trovo strana una tale presenza. Se dovessi parlarne come giornalista investigativo, quale in effetti sono, mi verrebbe da dire che una tale presenza denota un desiderio più di controllo della situazione che di semplice informazione, desiderio più consono a chi ha qualcosa da temere che a chi ha la coscienza a posto e quindi gli può bastare la lettura dei giornali o un giro di telefonate ad avvocati e querelanti.
Non capisco il tono duro e accusatorio contro Magosso da parte del rappresentante della Procura generale. In una querela privata cosa c’entra un pubblico ministero sbilanciato solo verso l’accusa? La sua presenza credo sia legata al reato di omesso controllo contestata all’allora direttore di Gente, ma il tono e le argomentazioni a senso unico mal si addicono, a mio parere, a un processo di questo tipo. In ogni caso il tono dell’accusa e degli avvocati dei querelanti questa volta non è stato offensivo e aggressivo come invece al processo di primo grado a Monza.
Le considerazioni svolte dai due avvocati della difesa e la nuova documentazione da loro prodotta dimostrano che Magosso ha solo fatto il suo dovere di giornalista, anche verificando le notizie presso le fonti a lui accessibili. Motivo per cui anche ammesso, ma non concesso, che abbia davvero in qualche modo danneggiato i generale Ruffino e Bonaventura, tra persone civili non rancorose dovrebbe bastare una lettera in cui, appunto, ci si scusa di eventuali e involontari danni morali e all’immagine. Ruffino è senza dubbio un gentiluomo, così come l’erede di Bonaventura è una signora perbene.
Stando anche il tono non troppo aggressivo dei loro avvocati, così diverso da quello di Monza, propongo di chiedere noi giornalisti al generale Ruffino e alla Bonaventura di chiudere la vicenda ritirando la querela in cambio di una lettera del nostro collega Enzo Magosso in cui, appunto, potrebbe scusarsi per eventuali offese perché, se ci sono state, sono state fatte sicuramente senza volerlo e in assoluta buona fede.