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Il multipolarismo, anche monetario, è una necessità

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi **

Parlare di multipolarismo e di assetti geopolitici in grado di garantire un nuovo ordine mondiale è visto con grande sospetto. Al contrario, l’approccio multilaterale è oggi l’unico strumento per affrontare e risolvere in modo pacifico le molte sfide globali, anche quelle riguardanti la sicurezza. Per fortuna, proprio mentre spirano forti venti di scontro e di guerra, voci importanti stanno rompendo gli indugi per portare il multipolarismo al centro del dibattito. L’ha fatto François Villeroy de Galhau, il governatore della Banque de France, durante l’Emerging Market Forum di Parigi lo scorso maggio con un discorso su “Multipolarity and the role of the euro in the International Financial System”.

Il banchiere centrale francese afferma che “non dobbiamo abbandonare come “obiettivo creativo” l’idea di un sistema finanziario internazionale (sfi) multilaterale cooperativo”. Egli riconosce che “mentre Bretton Woods scompariva quando è venuta meno la convertibilità del dollaro in oro, il sistema monetario internazionale è rimasto basato sul dollaro Usa. L’idea di una valuta globale non ha prosperato nei dibattiti accademici, e ancor meno nelle discussioni politiche.”. Purtroppo! Anche se, già negli anni ’60, Henry Fowler, il segretario al Tesoro sotto la presidenza di Lyndon Johnson, avvertiva che “fornire riserve e scambi a tutto il mondo è troppo da sopportare per un solo Paese e una valuta”.

L’idea del cambiamento era stata ripresa nel 2010 da Michel Camdessus, a lungo direttore generale del Fmi, che aveva lanciato un’iniziativa per mettere in luce le mancanze del sistema finanziario internazionale, in particolare la sua governance globale e l’eccessivo affidamento su una singola moneta. Il punto sollevato dal governatore francese è chiaro. Occorre prendere atto che un sistema finanziario frammentato rappresenta un grave pericolo. Bisogna evitare di passare da un sistema dominato dal dollaro a un non-sistema conflittuale tra il mondo del dollaro e quello del renminbi cinese. Ciò genererebbe instabilità, con il rischio di svalutazioni valutarie competitive. Potrebbe portare allo sviluppo di sistemi di pagamento separati con un’interoperabilità limitata e indebolire la rete di sicurezza finanziaria globale. Egli, comunque, vede dei progressi verso un paniere di monete, come il recente aumento delle risorse del Fmi in diritti speciali di prelievo, la moneta di conto formata dal dollaro, dall’euro, dal renminbi, dallo yen e dalla sterlina, equivalenti a 650 miliardi di dollari. Rileva particolarmente che, per evitare gli errori del passato, avremmo bisogno di uno slancio collettivo verso un sistema finanziario multipolare stabile e orientato al mercato. Farebbe aumentare l’offerta di asset globali sicuri e offrirebbe ai mercati emergenti una maggiore indipendenza dalla politica monetaria americana. Ciò detto, purtroppo, le condizioni politiche per un cambiamento così importante non sono ancora favorevoli. Ma “è un’utopia da mantenere in vita”, ripete Villeroy de Galhau.

Qui dovrebbe entrare in gioco l’Europa. Per passare a un sistema globale più resiliente, l’euro dovrebbe svolgere un ruolo internazionale più importante. È una valuta che conta su un solido record di stabilità di oltre 20 anni, ci ricorda il governatore francese. Sebbene l’euro non sia stato creato per fungere da valuta internazionale, oggi un suo ruolo più forte sarebbe associato a una maggiore autonomia della politica monetaria e a un minore impatto degli choc valutari sull’inflazione. Dopo il dollaro, esso è diventato la seconda moneta più utilizzata a livello globale e rappresenta ben il 20% delle disponibilità valutarie nelle banche centrali e circa il 20% del debito e dei prestiti globali. Secondo i dati SWIFT, quasi il 40% delle transazioni è effettuato in euro.

Il capo della Banque de France ammette che il mercato del debito sovrano in euro è ancora frammentato e solo pochi Stati dell’Ue emettono attività globali in quantità sufficiente. D’altra parte, una valuta internazionale è forte in rapporto alle attività sicure che può offrire. A questo proposito, egli valuta positivamente il programma Next Generation EU che raccoglierà oltre 800 miliardi di euro attraverso un’emissione congiunta di obbligazioni europee.

L’obiettivo, ovviamente, non sarà quello di trasformare l’euro in una valuta dominante. Al contrario, egli afferma, “mireremmo a fare affidamento su più valute per offrire stabilità al sistema finanziario internazionale attraverso la diversificazione dei rischi.”.

 

*già sottosegretario all’Economia  **economista

LA CINA SI FA AVANTI ANCHE NELLE ISTITUZIONI MONETARIE INTERNAZIONALI

La Cina vuole un ruolo maggiore nelle istituzioni monetarie

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

Dopo la creazione dell’Asian Infrastructure Investments Bank, in cui partecipano l’Italia ed altri importanti Paesi europei, la Cina e i suoi alleati nel Brics proseguono decisi verso la realizzazione di un nuovo sistema monetario internazionale multipolare.

Recentemente il governo di Pechino ha chiesto che lo yuan sia incorporato nei Diritti Speciali di Prelievo (dsp), che di fatto rappresentano la moneta del Fondo Monetario Internazionale.

Furono creati come “strumenti” di riserva del Fmi dagli Accordi di Bretton Woods nel 1944. I dsp sono definiti sulla base di un paniere di monete: per il 41,9% dal dollaro, per il 37,4% dall’euro, per l’11,3% dalla sterlina e per il 9,4% dallo yen. Finora tale composizione è rimasta inalterata. Ogni richiesta di partecipazione da parte cinese è stata rigettata da Washington perché lo yuan non era molto usato nelle transazioni commerciali internazionali e perché il governo cinese di fatto manteneva un controllo sul movimento dei capitali, rifiutando la rivalutazione dello yuan.

Intanto molte cose sono cambiate. Negli ultimi 5 anni lo yuan si è apprezzato del 10% rispetto al dollaro e senza cadere in balia della speculazione internazionale. Contrariamente a tutte le previsioni, dal 2007 l’import cinese dagli Usa è raddoppiato.

Nel frattempo Pechino sta realizzando una serie di importanti riforme finanziarie, in primis l’introduzione di un sistema di garanzie sui depositi, che potranno permettere al suo sistema bancario di operare internazionalmente senza comprometterne la stabilità. Già oggi i crediti commerciali denominati in yuan rappresentano quasi il 10% del totale mondiale.

Con la crescita delle sue esportazioni, l’internazionalizzazione dello yuan ha rimpiazzato sempre di più il dollaro negli scambi commerciali. La quota del commercio cinese denominata in yuan dovrebbe passare dal 25% attuale al 50% nei prossimi 5 anni. La valuta cinese è già la quinta nelle transazioni globali. Quattro anni fa soltanto 900 banche internazionali operavano in yuan, oggi sono più di 10.000. Si prevede che nel 2020 lo yuan, per una somma pari a 500 miliardi di dollari, farà parte delle riserve monetarie delle differenti banche centrali del mondo.

Entro la fine dell’anno lo “scontro” sulla riforma delle quote del Fmi e sulla partecipazione cinese nei dsp dovrebbe essere conclusa positivamente. Almeno lo speriamo.

Nel frattempo i Brics stanno ratificando l’accordo per la creazione di un fondo di riserva, per un valore di 100 miliardi di dollari, in valute internazionali. La Cina verserà 41 miliardi, il Sud Africa 5 ed il Brasile, la Russia e l’India 18 miliardi ciascuno. Il fondo dovrebbe servire a risolvere eventuali problemi relativi alle bilance dei pagamenti e a sostenere le valute in caso di attacchi speculativi. La Russia, che ha assunto la presidenza del Brics dall’inizio di aprile, è chiaramente molto interessata a questa iniziativa di cui è stata la principale promotrice.

E’ da segnalare che, in questo contesto in movimento, la Banca del Sud America, il Bancosur, è diventata operativa nel sostegno allo sviluppo e all’integrazione infrastrutturale del continente latinoamericano.

Anche sul fronte delle agenzie di rating è sempre più scontro aperto tra i Brics e le “tre sorelle”. L’ultimo assalto infatti è stato portato da Moody’s che ha abbassato il rating della compagnia petrolifera brasiliana Petrobas al livello Ba2, cioè “speculativo”. I brasiliani lo hanno giustamente definito un “furto premeditato”. “Sono più significativi i tre milioni di barili prodotti ogni giorno o le opinioni di anonimi analisti della Moody’s?”.

Perciò anche sul rating i Brics si muovono con determinazione per sottrarsi ad ulteriori ricatti. Sta, infatti, assumendo sempre più importanza l’attività dell’agenzia transnazionale Universal Credit Rating Group (UCRG), formata dall’agenzia di rating cinese Dagong, dalla russa RusRating e dall’agenzia americana indipendente Egan-Jones.

Adesso il pallino passa nel campo europeo. L’Unione europea è in ritardo su molte riforme, sia sul terreno interno che su quello internazionale. Però la recente decisione di alcuni Paesi europei di partecipare all’AIIB ci sembra un segnale importante di indipendenza e di iniziativa.

Settant’anni dopo Bretton Woods è arrivato il momento dell’emancipazione europea. Non si tratta di abbandonare i cugini americani “in mezzo all’Atlantico” ma di aiutarli ad uscire da una difficile situazione che mischia pericolosamente il suo debole unilateralismo, la sua nostalgia per la passata egemonia e la tentazione di un anacronistico rancoroso neoisolazionismo.

L’Europa deve affrontare questo nuovo quadro internazionale e svolgere il positivo ruolo di protagonismo e mediazione al fine di compiere concreti passi sul difficile cammino di un progresso globale, sostenibile e pacifico.

(*già sottosegretario all’Economia

**economista)

Il dignitoso addio di Ratzinger. Alla vigilia di guerre monetarie?

Meno attaccato di Wojtyla alla poltrona, Ratzinger ha annunciato che il 28 si dimetta da papa perché “non ho più le forze”. Che sia gravemente malato lo si sa da tempo. Lo era anche Wojtyla, che ha invece voluto restare fino all’ultimo, con non lieve danno della Chiesa ad avere un papa ormai ridotto evidentemente a una sorta di cadavere ambulante. Però Ratzinger mostra di avere più dignità. Forse perché è tedesco.

Anche Ratzinger è stato un papa reazionario, più sul piano dottrinale che su quello dell’azione concreta come invece Wojtyla, che ha finanziato anche la reazione militare in Sud America, ha legittimato un boia come Pinochet e ha avuto la faccia di bronzo di dire che “gli indigeni americani erano maturi per aspettare l’arrivo del messaggio di Gesù”, sorvolando sul fatto che sono stati spazzati via a decine di milioni e interi popoli ridotti a strame. Ratzinger è stato reazionario sul piano dottrinale, come ha fatto rilevare il suo ex amici teologo Hans Kueng, ma non si è sporcato le mani come il pastore polacco.

Ratzinger è gravemente malato. Tutto qui. Lo si sa da qualche mese. Solo che in Vaticano sono talmente ottusi da non volerlo dire: altrimenti la gente si accorge che neppure il papa, che si pretende sia il rappresentante di Dio in terra e ne goda quindi particolare protezione, gode di un qualche favore divino.  Succederà come per papa Luciani: per voler far apparire la sua morte meno banale hanno dato la stura alla serie allucinante dei complottardi, che come Yallup e altri ci hanno anche ben lucrato su. Ahhhhh, la brutta mania di turlupinare i semplici con gesta e morti “eroiche”….

Poiché però è meglio non distrarsi dai pericoli che ci sovrastano anche a causa di una classe politica la cui pochezza è bene espressa dalla cialtronaggine e volgarità di questa campagna elettorale,  propongo un altro articolo dei nostri due economisti.

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Alla vigilia di guerre monetarie?

Mario Lettieri*  e Paolo Raimondi**

Il rischio che il mondo precipiti in pericolosi scenari di guerre valutarie diventa sempre più concreto. Ecco perché bisogna continuare ad insistere sulla necessità di un accordo strategico tra i governi e i più importanti attori dell’economia per riformare la finanza ed il sistema monetario internazionale. Secondo noi, una nuova Bretton Woods è sempre più urgente e necessaria. Non siamo dei pessimisti inveterati, ma i segnali di pericolo sono ormai tanti.

Gli Stati Uniti hanno appena deciso di procrastinare al 19 maggio prossimo ogni decisione riguardante l’ammontare del debito pubblico e dei conseguenti tagli al bilancio statale. Nel frattempo si permette all’amministrazione di funzionare sfondando in modo incontrollato il tetto del debito, che è di 14.400 miliardi di dollari.Ciò vuol dire che di fatto c’è una forte immissione di nuova liquidità nel sistema da parte della Federal Reserve. Tale operazione certamente ferma l’immediato default dell’economia americana,  però in seguito si dovrà far fronte alle possibili spirali inflazionistiche.   Continua a leggere