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Al di là dei giornalisti e degli avvocati

Le giustificazioni che diamo alle nostre azioni hanno sempre un valore molto limitato. La cronaca nera, in tal senso, andrebbe abolita, poiché stimola l’illusione di credere, sulla base di poche righe, che si possa capire la motivazione delle azioni criminose.

Anche quando si raccontano gli eventi apparentemente più banali, come per esempio quell’anziano che si è lasciato uccidere da un giovane che voleva derubarlo, si presume sempre di sapere la verità dei fatti. Cioè ci si vanta di sapere che il motivo di quell’omicidio era l’unico possibile, il più reale, quello che concretamente aveva posto fine a un’esistenza.

Così facendo, il giornalista appare persino peggiore di quell’ispettore di polizia che, brancolando nel buio dei plausibili moventi del delitto, si limita a dire: “stiamo seguendo tutte le piste”, “non scartiamo nessuna ipotesi”. In tal modo chi ascolta quell’ispettore può forse sperare che in un omicidio vi siano diverse motivazioni e non soltanto quella in apparenza più evidente.

Se il giornalista cercasse ciò che sta sotto ad ogni azione delittuosa, forse renderebbe il crimine più comprensibile e il criminale più umano, o comunque eviterebbe di trasformarlo in un mostro. Il lettore infatti va abituato a credere che nessuno è del tutto innocente: neanche lui stesso che legge l’articolo di un omicidio di cui non si sente colpevole, almeno non in maniera immediata o diretta.

Un giornalista non dovrebbe sensazionalizzare i fatti, ma trarne spunto per compiere un’operazione di pedagogia sociale. Dovrebbe anzitutto disilludere chi plaude a interpretazioni unilaterali, forzate o comunque affrettate. Dovrebbe disincentivare le banalizzazioni.

Se un anziano si lascia uccidere per non essere rapinato, il cronista dovrebbe chiedersi qualcosa di più psicologico. Aveva forse vissuto gran parte della sua vita in miseria e ora voleva godersi il frutto della sua fatica, senza doverlo regalare a nessuno? O forse aveva un pessimo carattere, che gli impediva di avere pietà nei confronti di chi si trova in stato di bisogno? Oppure odiava i giovani perché li considerava tutti i fannulloni? O forse odiava proprio quel giovane, perché magari era uno straniero o perché era un suo parente? O forse odiava così tanto se stesso che, proprio grazie a quel furto, era riuscito a trasformare un suicidio in un omicidio?

Se un figlio uccide i propri genitori, volendo avere in anticipo l’eredità, non si può considerare questa come unico movente del delitto, né ci si può limitare a sostenere l’infermità mentale dell’assassino, come invece fanno i suoi avvocati, quando tentano di salvarlo o di ridurgli la pena al minimo previsto.

Sotto questo aspetto i processi sono non meno inutili degli articoli di cronaca nera. Anzi sono peggio, poiché da una curiosità di bassa lega, fine a se stessa, si passa a una mistificazione della realtà, mediante cui una persona sana viene fatta passare per una che, almeno nel momento in cui compiva il delitto, era incapace di intendere e di volere, quando addirittura non passa per una vittima che s’era comportata, seppur in modo sbagliato, per superare le proprie frustrazioni.

Un giudice o una giuria valuta i fatti e non si preoccupa molto delle intenzioni degli accusati, anche perché quelle vere l’avvocato non permette all’imputato di manifestarle, se possono, in qualche modo, nuocere alla causa. Sicché anche quando, al contrario, vengono rivelate, in tutta onestà, si pensa sempre che o l’avvocato o l’imputato stiano mentendo, poiché per principio si è sospettosi nei confronti di tutti gli avvocati.

Giornalisti e avvocati sono persone di cui una società davvero democratica dovrebbe fare a meno. In presenza di un crimine sarebbe anzitutto meglio tacerlo, in modo da non spaventare ancora di più il colpevole, che, per pentirsi, ha bisogno d’essere capito e non giudicato e tanto meno giustiziato.

E’ quindi anche inutile processarlo e condannarlo a un isolamento forzato o comunque a una lunga pena detentiva. Queste cose non aiutano a pentirsi, ma a convincersi ancora di più che l’azione criminosa partiva da motivazioni giuste. Se una persona colpevole di qualcosa vede che chi la punisce usa dei metodi violenti, duri, quasi disumani, non troverà mai alcun motivo per pentirsi.

Ci vuole la rieducazione, finalizzata al reinserimento in società. Ora, l’unico modo per ottenerla è convincere il colpevole che una parte della sua colpevolezza appartiene alla società, a partire dai parenti più stretti, dagli amici e conoscenti, dai colleghi di lavoro ai compagni di partito o di sindacato, sino alle istituzioni in quanto tali.

Ci vogliono delle comunità di recupero in cui i colpevoli possano ascoltare con le loro orecchie le scuse di quanti non hanno fatto nulla per aiutarli nel momento del bisogno. Questi cosiddetti “criminali” potranno essere reintegrati in società soltanto quando si convinceranno che le richieste di perdono da parte dei cosiddetti “innocenti” sono mosse da intenzioni davvero oneste e sincere.

Se il perdono è reciproco, la reiterazione del crimine sarà molto meno probabile, e quand’anche non fosse così, si saranno comunque poste le basi per un affronto più responsabile dei problemi, che è quello in cui una persona non si sente mai sola.