Oltre il socialismo scientifico
Il socialismo scientifico è fallito per vari motivi, ma soprattutto perché, quando un’ideologia si oppone, in nome della scienza, alle necessità della natura, non può che fallire.
Infatti, tale opposizione risulta sempre essere il sintomo di un’altra non meno grave, quella tra potere e libertà di coscienza (o tra istituzioni e individui). Là dove esiste una verità scientifica che si vuol far valere contro le esigenze riproduttive della natura, lì esiste anche, inevitabilmente, la pretesa della politica di poter decidere in che modo la società deve vivere la democrazia.
La natura non può essere vista come “matrigna”, cui occorre strappare con forza o con astuzia, tutto quanto occorre per vivere. Quando la natura ci appare così è perché in realtà l’essere umano è diventato il principale nemico di se stesso. Non a caso nel momento in cui accadono disastri naturali non ci chiediamo mai quanta parte abbia avuto l’antropizzazione nel causarli. Preferiamo motivarli appellandoci alla fatalità.
Sotto questo aspetto è stato un errore clamoroso non solo aver voluto contrapporre la scienza e la tecnica alla natura, ma anche non aver capito che tale contrapposizione ne rifletteva un’altra ancora più grave: quella tra uomo e uomo, che a sua volta ha generato quella tra uomo e donna.
E’ significativo il fatto che qualunque pretesa abbia l’uomo di porsi al di sopra della natura, si manifesta, implicitamente, anche come prevaricazione del maschile sul femminile. Odiamo la natura perché odiamo noi stessi e nell’odiare se stesso l’uomo tende ad assoggettare la donna.
Ecco perché bisogna dire, senza infingimenti, che il socialismo scientifico non ha contribuito minimamente a migliorare né i rapporti tra uomo e natura né quelli tra uomo e donna. Ancora non riusciamo ad accettare l’idea di una nostra strutturale dipendenza dalle esigenze della natura. Se l’uomo accettasse questa evidenza, farebbe di tutto per tutelare al meglio non solo le priorità della natura ma anche quelle della donna.
Se l’intelligenza umana non viene messa al servizio della conservazione della natura e della riproduzione della specie umana, non c’è futuro. E per converso: se il genere femminile non si oppone alla prevaricazione maschile, non c’è futuro né per la natura né per l’uomo.
Per evitare la devastazione della natura e quindi l’autodistruzione del genere umano, bisogna uscire dal concetto di “civiltà”, soprattutto da quello basato sullo sviluppo tecnico-scientifico. Infatti è sulla base di questo sviluppo che gli uomini si sentono autorizzati a sfruttare sia le risorse naturali che il lavoro altrui, cioè le braccia e la mente di chi non dispone di proprietà privata.
Dobbiamo uscire dal concetto di “forza” o di “dominio” ed entrare in quello di “coesistenza pacifica”, di “eco-compatibilità” di ogni azione umana. La differenza deve diventare più importante dell’identità: la differenza dà anzi “identità” all’io. E la prima differenza da far valere è quella tra uomo e natura, nonché quella tra uomo e donna.
Il socialismo scientifico ha avuto ragione nei confronti di quello utopistico, poiché è illusorio poter costruire dei “pezzi di socialismo” all’interno del capitalismo: la rivoluzione politica è la conditio sine qua non per realizzare la transizione.
Nel corso del Medioevo si poté formare il capitalismo mercantile come forma illusoria di superamento delle contraddizioni del servaggio rurale. E per molto tempo le due forme di antagonismo sociale hanno convissuto, per quanto il feudalesimo abbia cercato di opporre una certa resistenza alla nascita della società borghese; anzi, quest’ultima, se vogliamo, si è sviluppata con maggiore successo proprio là dove erano più acute le contraddizioni feudali.
Tuttavia il socialismo democratico non può svilupparsi in un paese ove domina il capitalismo: gli organi di governo, politici ed economici, troverebbero facilmente il modo per screditare, circoscrivere e smantellare singole esperienze di socialismo autogestito, specie se queste avessero l’ambizione di diffondersi.
L’unico modo per superare il capitalismo è quello di sfruttare le sue interne contraddizioni, organizzando un movimento eversivo. Quanto più questo movimento sarà popolare, tanto meno traumatica sarà la transizione, che in ogni caso non sarà indolore per le classi abituate a vivere sulle spalle altrui.
La rivoluzione politica, in fondo, è solo la premessa formale della transizione: un semplice punto di partenza. Tutto il resto riguarda la prosaicità degli aspetti sociali, economici, culturali, che devono mettere radici in profondità.
Infatti è stato proprio su questi aspetti che il socialismo scientifico ha fallito i suoi obiettivi. Li ha falliti sul piano culturale, imponendo a forza un’ideologia di partito, e li ha falliti sul piano sociale, sottomettendo completamente la società civile alle esigenze del centralismo statale. Il fallimento è dipeso anche dal fatto che ci si è lasciati abbacinare dai successi del benessere collettivo assicurati in occidente dalla rivoluzione tecno-scientifica, senza rendersi conto che queste forme di benessere venivano pagate duramente sia dalle popolazioni del Terzo Mondo, spogliate delle loro risorse e della loro autonomia gestionale, che dall’ambiente naturale, sottoposto a un saccheggio indiscriminato, nella convinzione che le sue risorse fossero illimitate.
In un certo senso il modello di vita che dobbiamo perseguire è quello stesso vissuto nel Medioevo, ma senza servaggio e senza clericalismo, oppure, se più ci piace, il modello delle società preschiavistiche.