Lucio Battisti ci ritorna in mente, ancora, sempre
Son passati ormai più di dieci anni dalla morte di Lucio Battisti, indimenticato da fan, colleghi, critici e da milioni di italiani di tutte le età che conoscono a menadito le sue canzoni anche se non le ascoltano da anni. Cos’altro potrebbe mai esserci di nuovo da dire o scrivere su di lui e la sua collaborazione magicamente irripetibile con Mogol? Per il giornalista Renzo Stefanel (un passato da chitarrista pop) un mito del genere non finisce mai di dare nuovi spunti, altre suggestioni. E così ha dato alle stampe “Ma c’è qualcosa che non scordo” (Arcana): «È vero, libri e siti web non mancano, ma mi premeva ribadire con forza due assunti – racconta – Innanzitutto che i due non sono un “santino” come ci propongono i media da anni con una ventina di canzoni, sempre le stesse, ma due autori che hanno saputo indagare sul rapporto uomo/donna come nessuno altro in Italia. Fino alla critica dei capisaldi della civiltà occidentale dei dischi che io chiamo “perduti” scritti insieme tra il ’71 e il ’74: “Amore e non amore”, “Il nostro caro angelo” e “Anima latina”. Nel libro poi sottolineo come Battisti & Mogol abbiano avuto grande successo senza mai diventare di moda. Erano sempre un passo avanti rispetto agli altri, loro anticipavano le mode, e a tutti non restava che copiarli. Per rimanere ancora una volta spiazzati con l’uscita di un nuovo disco. E se Lucio tornasse in vita oggi non troverebbe lavoro nelle major, non sarebbe un cantante per la massa, inciderebbe per qualche etichetta indipendente». Il libro fa notare più volte la forza innovativa e rivoluzionaria di Battisti, eppure c’era chi lo diceva fascista… «Come ha già scritto Gianfranco Salvatore nella biografia, la leggenda di Battisti “nero” va sfatata. Forse era dovuta al fatto che non era politicamente schierato a sinistra come altri suoi colleghi e amici. Oppure al suo carattere chiuso e scontroso. Sta di fatto che persino le Brigate Rosse lo amavano. La sua intera discografia venne trovata in un covo, e una citazione da “Io vorrei non vorrei ma se vuoi” – “le discese ardite e le risalite” – spunta da un comunicato dei rapitori di Aldo Moro». Né di destra né di sinistra dunque, piuttosto un cane sciolto con una certa simpatia per una visione “hippy” della vita? «Mogol scriveva i testi solo dopo aver parlato a lungo dell’argomento con Battisti. Tant’è che Lucio diceva “non c’è parola di Mogol che io non condivida”. Le loro canzoni prendono di mira consumismo, maschilismo, bigottismo. Si rifanno a filosofi e intellettuali come Nietzsche, Heidegger e Svevo. E la voce era fuori da tutti canoni del bel canto italiano». Mentre Battisti continuò a comporre grandi canzoni anche senza Mogol, non si può dire viceversa: «Si è detto di tutto e di più sulla rottura del sodalizio, ma io credo che fu colpa dell’esaurimento della vena creativa di Mogol, ormai inadeguata. Lui stesso lo confessa in “Io tu noi tutti” quando scrive “il mio vecchio editore l’ho sempre fatto arrabbiare”. Ci riprovò con Cocciante, cambiando tematiche (ad esempio affrontando l’amicizia maschile) fino a dire che Gigi d’Alessio era il nuovo Battisti…». Nel libro possiamo leggere qualche notizia inedita? «Sì, una piccola grande curiosità. Dopo “Balla Linda” e “Il paradiso” ho scovato una terza canzone di Battisti tradotta in inglese, “Mi ritorni i mente” rifatta dai Love Affair (nel ’68 erano in classifica subito dopo i Beatles). La cover uscì nel ’71 ma fu un flop».
Battisti forever, dunque. Tant’è che Renzo Stefanel sta lavorando ad un nuovo libro su di lui: “Sarà tutto su “Anima latina” e tale sarà il suo titolo. Esce per la collana “Tracks” della Noreply di Milano, in cui ogni volume è dedicato allo svisceramento di un disco fondamentale della musica italiana e straniera e al suo inserimento nel contesto socio-politico-culturale dell’epoca in cui è uscito. Il libro sarà in vendita da febbraio 2009. Conterrà interviste a tutti coloro che hanno partecipato al disco in qualche modo o hanno ruotato intorno a Battisti in quel periodo”.