Da dove nasce l’impostazione didattica di tipo lineare-diacronica o cronologica, così consueta nell’insegnamento della storia? Essa, a ben guardare, sembra essere supportata da tre motivazioni di fondo, spesso di tipo più psicologico che ideologico:
1. suscita l’illusione di favorire meglio la comprensione dei nessi di causa-effetto;
2. evita l’imbarazzante decisione, che potrebbe essere facilmente contestata, di dover scegliere i momenti salienti dell’evoluzione storica;
3. induce a credere nell’esistenza di una immaginaria linea progressiva che vede nel tempo presente di noi occidentali la risultante ottimale di vari percorsi iniziati nel passato.
È molto difficile, anzi impossibile, rinvenire in tale impostazione l’ipotesi che il nostro tempo presente sia in realtà il frutto di una scelta tra opzioni differenti, se non opposte, e che quella che ad un certo punto si è deciso di prendere o in qualche modo di imporre, non necessariamente vada considerata come la migliore.
L’impostazione lineare-cronologica privilegia la categoria della necessità storica, la quale, in un certo senso, non privo di risvolti magici, offre agli occhi dello storico l’impressione che per mezzo di essa si sia favorito al meglio lo sviluppo della libertà umana; nel senso cioè che allo storico appare quanto mai giusto che, al cospetto delle infinite e astratte possibilità teoriche, ad un certo punto si sia deciso di sceglierne una, nei confronti della quale poi, guardando le cose dappresso, lo storico s’è sentito in dovere di farla rientrare nella categoria della necessità, negando un qualunque significativo valore a tutte le altre opzioni in campo. Basta vedere con quanta supponenza e apriorismo, nei nostri manuali di storia, si nega all’ipotesi federalista, nell’imminenza dell’unificazione nazionale, una qualunque possibilità di successo.
Tutti gli storici ancora oggi sostengono che dal comunismo primitivo alla nascita delle prime civiltà fondate sullo schiavismo il passaggio era necessario o inevitabile, o, peggio ancora, che in tale mutamento si sono prodotte le condizioni che hanno permesso all’umanità di svilupparsi.
In realtà non esiste affatto, in maniera incontrovertibile, una linea evolutiva dall’uomo primitivo a quello civilizzato; anzi ci sono molte ragioni per definirla involutiva (già con Esiodo, nell’VIII sec. a.C. si parlava di una mitica epoca d’oro, cui sarebbero succedute l’età dell’argento, del bronzo, degli eroi e del ferro), e possiamo parlare di “evoluzione” solo nel senso che dai tempi in cui è sorto lo schiavismo ad oggi gli uomini hanno lottato contro gli antagonismi sociali, nella speranza, andata sempre delusa, di poterli risolvere una volta per tutte.
La storia delle civiltà non è stata altro che una serie di tentativi di sostituire forme esplicite e dirette di schiavitù con altre forme più implicite e indirette. A tutt’oggi infatti è impossibile sostenere che il lavoro salariato costituisca il superamento certo dell’antica schiavitù. Sono cambiate le forme, le apparenze, le condizioni materiali o fenomeniche, ma la sostanza è rimasta la stessa: il lavoro salariato resta comunque una forma di sfruttamento, e la società ch’esso rappresenta non disdegna forme di lavoro che spesso s’avvicinano a quelle di natura schiavile o servile.
La storia purtroppo è stata un susseguirsi continuo di fallimenti di questo genere. D’altra parte gli individui o le masse, se prima di intraprendere un qualunque progetto di emancipazione sociale, si guardassero indietro o facessero pesare il passato più del presente o del futuro, o se addirittura fossero convinti che, pur cercando di realizzare il suddetto progetto secondo le migliori intenzioni democratiche, esso inevitabilmente produrrà effetti opposti a quelli sperati, alla fine non prenderebbero mai alcuna decisione. Il che per fortuna non avviene mai, in quanto nell’uomo esiste, in maniera innata, qualcosa che lo spinge a modificare tutto ciò che presenta difetti, lacune, problemi. L’immobilismo è sempre in malafede.
Tuttavia, se questa è una caratteristica dell’uomo in generale, perché non esiste alcun manuale di storia che metta in discussione l’idea che gli uomini contemporanei siano più liberi dei loro predecessori? La risposta è semplice e ce la diamo da soli: fino a quando i manuali di storia esalteranno, come tratto distintivo della nostra epoca, la rivoluzione tecnico-scientifica, che ovviamente non può trovare paragoni nel passato, sarà difficile mettere in dubbio l’idea che da essa sia andata affermandosi una maggiore libertà.
In realtà se c’è una cosa che dovremmo fare è proprio quella di rovesciare la linea del tempo, partendo decisamente dal presente e andando a ricercare nel passato tutte quelle motivazioni che ne spiegano il senso. Noi viviamo in un’epoca che, ci piaccia o no, si chiama “capitalismo”, in cui il rapporto tra uomo e lavoro è mediato dalla macchina, e in cui il rapporto tra lavoratore e merce è mediato dalla proprietà privata dei mezzi produttivi, nel senso che l’operaio, essendo un salariato, non è padrone di ciò che produce.
Esiste un antagonismo di fondo tra capitale e lavoro, che passa attraverso il riconoscimento, da parte dell’imprenditore, di una formale libertà giuridica appartenente all’operaio. Il lavoratore è tanto formalmente libero quanto sostanzialmente costretto a lasciarsi sfruttare, non essendo altro che un nullatenente. Il salario infatti non corrisponde mai all’effettiva produttività del lavoro, ma è soltanto il pretesto che permette all’imprenditore di sfruttare il lavoratore ben oltre quanto pattuito.
Ebbene questa dinamica lavorativa ha avuto un’origine storica ben determinata in Europa occidentale, ed è il XVI secolo, fatte salve alcune anticipazioni in Italia e nelle Fiandre. Non riuscire a capire questo significa, sic et simpliciter, precludersi di poter comprendere adeguatamente il proprio tempo, significa viverlo passivamente, senza avere gli strumenti per progettare qualcosa di diverso.
Questo silenzio omertoso dei manuali di storia sulle dinamiche sociali ed economiche che legittimano il nostro presente induce inevitabilmente a pensare che la scuola non sia un luogo di “produzione del sapere”, ma soltanto di “riproduzione” di un sapere deciso altrove.
Peraltro lo studio della storia in ordine cronologico non aiuta di per sé alla comprensione delle reiterazioni (gli “eterni ritorni” di Vico), se non in maniera generica e superficiale.
Questo per un altro semplice motivo: si tende a non applicare al proprio presente le stesse leggi che hanno caratterizzato il passato. Questa problematica era già stata sollevata dalla Sinistra hegeliana allorché s’accorse che se il metodo hegeliano della dialettica era rivoluzionario, il sistema che lo inglobava era del tutto conservatore, in quanto Hegel poneva lo Stato prussiano al vertice della perfezione politica.
È naturale, anche se illogico sul piano razionale e illecito su quello etico, l’atteggiamento di chi considera la propria civiltà, appunto perché parte di un “presente”, come la migliore possibile. In realtà la storia dell’umanità non è che la storia di molte civiltà che in vari modi hanno cercato di negare e insieme di recuperare ciò che si era vissuto nell’epoca del comunismo primitivo, a testimonianza che il genere umano ha perduto qualcosa di fondamentale per la propria sopravvivenza.
La negazione storica dell’innocenza primigenia (il mitico “peccato originale”, che poi si è ripetuto al sorgere di sempre nuove civiltà, tant’è che anche Marx lo individua nel XVI secolo per spiegare l’origine del capitalismo) è servita per affermare una determinata civiltà individualistica. Nella misura in cui il recupero dell’innocenza perduta non è stato sufficientemente adeguato, è sorta una nuova civiltà, diversa dalla precedente in qualche aspetto fondamentale, ma non così diversa da determinare la fine del processo reiterativo, che è una sorta di loop storico in cui al cambiare delle forme non cambia la sostanza, come si diceva nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.
Le civiltà sono come delle parabole matematiche: hanno varie fasi di sviluppo progressivo, l’apice dello splendore (in realtà il vertice delle contraddizioni antagonistiche), poi il lento e inesorabile declino, infine il repentino crollo. Sono appunto “civiltà”. Bisognerebbe studiarle guardandole non con gli occhi del nostro presente, ma con quelli del passato ad esse precedente. Se l’uomo primitivo potesse guardare il futuro con gli occhi del suo presente si renderebbe facilmente conto che la storia degli uomini è stata solo un tentativo drammatico, per molti versi disperato, di recuperare quanto già si possedeva sin dall’inizio, e cioè il rapporto armonico con la natura, l’equilibrio con se stessi e nel rapporto coi propri simili. In sostanza la storia, a tutt’oggi, è soltanto l’occasione in cui gli esseri umani possono verificare i limiti del loro arbitrio.
D’altra parte possono gli uomini considerare relativa la loro civiltà e continuare a lottare per il suo sviluppo? Possono considerare più vero un passato che a loro appare definitivamente sepolto? Lo sviluppo progressivo delle civiltà pone forse un limite invalicabile al recupero integrale del comunismo primitivo, oppure questo recupero dipende esclusivamente dalla volontà degli uomini?
Occorrerebbe trovare delle coordinate interpretative con le quali poter dimostrare che, poste certe condizioni, ogni civiltà avrebbe potuto superare se stessa recuperando adeguatamente le leggi del comunismo primitivo. Queste leggi sono poi quelle dei popoli che noi riteniamo sprezzantemente “senza civiltà”, come i marxisti classici consideravano “senza storia” le popolazioni slave. Di fatto, lo studio della storia delle cosiddette “civiltà” non aiuta a comprendere queste leggi più della mancanza di questo stesso studio.
Indubbiamente oggi siamo molto lontani dalle leggi del comunismo primitivo: ma questo cosa significa? Abbiamo forse meno possibilità di recuperarle rispetto a quei popoli che le avevano appena abbandonate e che per questo motivo erano convinti di essersi avventurati in un percorso decisamente migliore? È la memoria che alimenta il desiderio o il desiderio si alimenta da solo?
Ogni rivoluzione politica può essere considerata come un tentativo di recuperare una memoria perduta. Ogni antagonismo contiene un desiderio di rivoluzione e il suo immancabile tradimento. La storia sembra stia lì a dimostrare che non è possibile alcuna vera liberazione. Eppure un popolo che non lottasse per la propria liberazione sarebbe come morto, senza storia. Un popolo di questo genere o è già libero, e allora giustamente sarebbe “senza storia”, oppure sarebbe un popolo inutile, meritevole d’essere dimenticato.
Ciò che gli storici devono superare è l’idea che il passaggio da una civiltà a un’altra sia stato unicamente il frutto della necessità. Le civiltà si formano necessariamente in questa o quella maniera solo a seguito di determinate scelte compiute dagli uomini, che a loro volta sono sempre frutto della libertà o, se si preferisce usare il termine “libertà” soltanto in riferimento alla scelta di un valore positivo, del libero arbitrio, in forme e gradi diversi di responsabilità, sulla base dei condizionamenti ereditati dalle generazioni precedenti: la categoria della “necessità” va applicata soltanto alle conseguenze che comportano determinate scelte, e nei confronti di tali “conseguenze” uno storico dovrebbe sempre sostenere il principio ch’esse, in nome della stessa facoltà di scelta, sono soggette a ulteriori modificazioni.
La storia non va studiata per compiacersi delle sue grandezze, proprio perché le civiltà tendono a mascherare se stesse e a ingannare i posteri. Ciò che più importa è vedere, con rigore, il livello di vicinanza o di lontananza che ha contraddistinto una civiltà rispetto ai parametri fondamentali del comunismo primitivo. Ecco perché, prima di accingersi a studiare una qualunque civiltà bisognerebbe conoscere le leggi essenziali che caratterizzano l’epoca più lontana da noi. Oggi invece studiamo il passato con l’atteggiamento di superiorità che ci viene dalla convinzione di vivere in una civiltà migliore di tutte quelle che l’hanno preceduta.
Ingenuamente gli uomini ritengono che il presente, solo perché presente, sia in grado di conservare nella propria memoria quanto di meglio è stato prodotto nel passato. La nostra civiltà è ancora più convinta di questo in quanto presume di potere conservare il passato attraverso la strumento illuministico della mera conoscenza.